Il modello politico inglese di Voltaire
Le lettere inglesi (1733)
Nel 1727, poco più che trentenne, Voltaire fu costretto, in seguito ad una questione sorta con un nobile, ad abbandonare la Francia. Si recò allora in Inghilterra e vi rimase per tre anni che furono assai importanti per la sua formazione, per la profonda conoscenza ch’egli ebbe modo di avere delle istituzioni e della società britanniche, tanto diverse da quelle francesi.
Le Lettere inglesi (delle quali diamo un breve saggio) furono scritte tra il 1727 e il 1733, cioè in parte in Inghilterra e quivi pubblicate, a causa del divieto delle autorità francesi, col titolo Letters concerning the English Nation by M. de Voltaire [Lettere riguardanti la nazione inglese, del signor de Voltaire], London, 1733. Il successo fu larghissimo e l’anno dopo si ebbero ben cinque edizioni in francese (una a Londra, tre ad Amsterdam e una a Rouen) contenenti anche le Remarques sur les Pensées de Pascal [Osservazioni sui Pensieri di Pascal], Ma in Francia se ne ordinò ancora una volta la distruzione.
Quale il motivo di questa persistente ostilità degli ambienti politici francesi? Essa è da ricercarsi nel fatto che Voltaire nel descrivere e nel lodare gli ordinamenti politici e la società inglesi mette evidentemente in ridicolo e critica radicalmente le istituzioni e la società francesi. L’esame delle istituzioni dell’Inghilterra medievale è condotto con spregiudicatezza e non si esita a dire che lo scopo della Magna Charta, considerata generalmente «la sacra origine delle libertà inglesi», era in realtà quello di «mettere i re sotto la dipendenza dei Lords, pur favorendo un po’ il resto della nazione».
Anzi, proprio la concessione di Giovanni Senzaterra con l’elencazione degli uomini liberi dimostrava l’esistenza di altri uomini che non lo erano. Il volto dell’Inghilterra moderna era invece assai diverso: la libertà era nata — è vero — dalle dispute dei tiranni, però aveva preso salde radici se nobili ed ecclesiastici non erano esentati dal pagamento di certe tasse, come invece (faceva chiaramente intendere il Voltaire) accadeva in Francia. Inoltre il pagamento delle imposte era stabilito non secondo la classe sociale di appartenenza, ma secondo la rendita che si godeva: principio che consentiva di colpire le ricchezze effettive e non quelle presunte.
Il documento che appresso si cita è tratto dalle Lettere inglesi, Torino, Boringhieri, 1958, pp. 47–32, per la prima volta tradotte in italiano da M. Misul sul testo delle Lettres philosophiques a cura di G. Lanson, Paris, 1909.Il titolo originale dell’edizione del 1734 era: Lettres écrites de Londres sur les Anglois et autres sujets [Lettere scritte da Londra sugli inglesi e altri argomenti].
Per orientarsi nella vasta bibliografia volteriana cfr. M. M. Barr, A Bibliography of Writings on Voltaire [Bibliografia degli scritti su Voltaire], 1825–1925, New York, 1929. Cfr. anche G. Lanson, Voltaire, Paris, 1906 e R. Craveri, Voltaire politico dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1937.
Lettera IX Sul governo
La felice commistione presente nel governo d’Inghilterra, questo accordo tra Comuni, Lords, e re, non è sempre esistito. L’Inghilterra è stata a lungo schiava; lo è stata dei Romani, dei Sassoni, dei Danesi, dei Francesi. Guglielmo il Conquistatore, soprattutto, la governò con uno scettro di ferro; disponeva dei beni e della vita dei suoi nuovi sudditi come un monarca dell’Oriente; vietò, sotto pena di morte, ad ogni Inglese di accendere il fuoco e la luce a casa propria, dopo le otto di sera, sia che in tal modo intendesse prevenire le loro riunioni notturne, sia che volesse saggiare, con un divieto così bizzarro, fin dove può giungere il potere di un uomo su altri uomini.
Vero è che prima e dopo Guglielmo il Conquistatore gli Inglesi hanno avuto dei Parlamenti; se ne vantano come se quelle assemblee, chiamate allora Parlamenti, composte di tiranni ecclesiastici e di pirati nominati baroni, fossero state custodi della libertà e della pubblica felicità.
I Barbari che dai confini del mar Baltico si stabilivano nel resto dell’Europa, portarono con sé l’usanza di questi Stati o Parlamenti, su cui si è fatto tanto rumore e che così poco si conoscono. I re non erano allora certamente dispotici, è vero, ma i popoli gemevano più che mai in una misera servitù. I capi di quei selvaggi che avevano devastato la Francia, l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra, si proclamavano monarchi; i loro capitani divisero tra loro le terre dei vinti. Donde quei margravi, quei nobili, quei baroni, quei sottotiranni che sovente contendevano al loro re le spoglie dei popoli.
Erano uccelli da preda combattenti contro un’aquila per succhiare il sangue dei colombi; ciascun popolo, in luogo di un signore, aveva cento tiranni. I preti furono ben presto della partita. In ogni tempo la sorte dei Galli, dei Germani, degli isolani d’Inghilterra, era stata quella di essere governati dai loro Druidi e dai capi dei loro villaggi, specie di antichi baroni, ma meno tiranni dei loro successori.I Druidi si dicevano mediatori tra la divinità e gli uomini; facevano leggi, scomunicavano, condannavano a morte.
I vescovi li sostituirono a poco a poco nell’autorità temporale, con il governo dei Goti e dei Vandali. I papi si misero alla loro testa, e con brevi, bolle e monaci, fecero tremare i re, li deposero, li fecero assassinare, e spillarono dall’Europa tutto il denaro che poterono. L’imbecille Ine, uno dei tiranni dell’ettarchia d’Inghilterra, fu il primo che, in un pellegrinaggio a Roma, si sottomise al pagamento dell’obolo di San Pietro (che equivaleva a circa uno scudo della nostra moneta) per ogni casa del suo territorio. L’intera isola ne seguì presto l’esempio. L’Inghilterra divenne a poco a poco una provincia del Papa, il Santo Padre vi inviava di tempo in tempo i suoi legati a riscuotervi esorbitanti imposte. Giovanni Senza Terra fece infine una formale cessione del suo territorio a Sua Santità, che l’aveva scomunicato; e i baroni, non accordandosi ciò coi loro interessi, cacciarono quel miserabile re; misero al suo posto Luigi VIII, padre di san Luigi, re di Francia; ma si disgustarono ben presto di quel nuovo venuto, e gli fecero ripassare il mare.
Mentre i baroni, i vescovi, i papi dilaniavano in tal modo l’Inghilterra, dove tutti volevano comandare il popolo, la più numerosa, che è anche la più virtuosa e di conseguenza la più rispettabile parte degli uomini, composta di coloro che studiano le leggi e le scienze, dei negozianti, degli artigiani, in una parola di quanti non rappresentavano niente di tirannico, il popolo, dico, era da loro riguardato come un branco di animali, al di sotto dell’uomo. I Comuni allora eran ben lontani dall’aver parte al Governo; erano villani: il loro lavoro, il loro sangue appartenevano ai padroni, che si chiamavano Nobili. Il più gran numero degli uomini erano in Europa ciò che sono ancora in diverse regioni del mondo, servi di un padrone, specie di bestiame che si vende e si compra con la terra. Sono occorsi secoli per rendere giustizia all’umanità, per sentire che era orribile che i molti seminassero e i pochi raccogliessero; e non è una fortuna per il genere umano che l’Autorità di quei piccoli briganti sia stata estinta in Francia dal legittimo potere dei nostri re, e in Inghilterra dalla legittima potestà dei re e del popolo?
Fortunatamente nelle scosse arrecate agli imperi dalle contese dei re e dei grandi, le contese delle nazioni si sono più o meno allentate; la libertà è nata in Inghilterra dalle dispute dei tiranni. I baroni costrinsero Giovanni Senza Terra ed Enrico III ad accordare la famosa Carta, il cui fine principale era, in verità, quello di mettere i re sotto la dipendenza dei Lords, pur favorendo un po’ il resto della nazione affinché all’occasione essa si schierasse dalla parte dei suoi pretesi protettori. Questa grande Carta, che è considerata la sacra origine delle libertà inglesi, dimostra di per sé chiaramente quanto poco la libertà fosse conosciuta. Il solo titolo prova che il re si riteneva assoluto di diritto, e che i baroni e lo stesso clero non lo forzavano ad abbandonare quel preteso diritto, solo perché essi erano i più forti.
Ecco come la grande Carta incomincia: «Noi accordiamo di nostra libera volontà i seguenti privilegi agli Arcivescovi, Vescovi, Abati, Priori e Baroni del nostro Regno ecc.».
Negli articoli della Carta non è fatta parola della Camera dei Comuni; prova che essa ancora non esisteva, o che esisteva priva di potere. Vi si specificavano gli uomini liberi d’Inghilterra: triste dimostrazione della presenza di quelli che non lo erano. Si rileva dall’articolo 32, che quei pretesi uomini liberi dovevano delle prestazioni al loro signore. Una tale libertà era ancora assai vicina alla schiavitù.
Con l’art. 21, il re ordina che i suoi ufficiali non potranno in seguito impadronirsi dei cavalli e dei carri degli uomini liberi, se non li pagheranno, e questo regolamento parve al popolo una vera libertà, perché impediva una più grande tirannia.
Enrico VII, usurpatore fortunato e grande politico, che faceva finta di amare i baroni, ma li odiava e li temeva, pensò di procurare l’alienazione delle loro terre. Per tal via i Villani, che in seguito con il loro lavoro divennero proprietari di beni, acquistarono i castelli degli illustri Pari che si erano rovinati con le loro follie. A poco a poco tutte le terre cambiarono padrone.
La Camera dei Comuni divenne di giorno in giorno più potente. Le famiglie degli antichi Pari con il tempo si estinsero; e poiché, a rigore di legge, solamente i Pari sono nobili in Inghilterra, non vi sarebbe stata più nobiltà in quel paese, se i re non avessero creato di tanto in tanto dei nuovi baroni, conservando quell’ordine dei Pari che in altro tempo avevano tanto temuto, per opporlo a quello dei Comuni, divenuto troppo terribile.
Tutti questi nuovi Pari, che formano la Camera alta, ricevono dal re il loro titolo e niente più; quasi nessuno di essi possiede la terra di cui porta il nome. L’uno è duca di Dorset, e non ha un pollice di terra nel Dorsetshire; l’altro è conte di un villaggio e sa appena dove quel villaggio è situato. Il loro potere si esplica in Parlamento e non altrove.
Qui non sentite parlare di alta, media e bassa giustizia, né del diritto di cacciare nelle terre di un cittadino, il quale non ha la libertà di tirare di fucile nel campo di sua proprietà.
Un uomo, per il fatto di essere nobile o per quello di essere prete, qui non è escluso dal pagamento di certe tasse; tutte le imposte sono decise dalla Camera dei Comuni che, seconda per la sua posizione ufficiale, è prima per il suo prestigio.
I Signori e i Vescovi possono sì respingere il Bill dei Comuni per le tasse, ma non è loro permesso di cambiarlo minimamente; devono accettarlo o respingerlo senza riserve. Quando il Bill viene confermato dai Lords e approvato dal re, allora tutti pagano. Ognuno paga non secondo il suo rango (il che è assurdo), ma secondo la sua rendita; non esiste taglia né capitazione arbitraria, ma una tassa reale sulle terre. Queste sono state tutte valutate sotto il famoso re Guglielmo III, e poste al di sotto del loro prezzo.
La tassa rimane sempre la stessa, ancorché le rendite delle terre siano aumentate; così nessuno è oppresso e nessuno si lamenta. Il contadino non ha i piedi malconci dagli zoccoli, mangia pane bianco, è ben vestito, non esita ad aumentare il numero delle sue bestie o a ricoprirsi il tetto di tegole, per la paura che gli aumentino le imposte l’anno successivo. Vi sono qui molti contadini che hanno circa duecentomila franchi di sostanze, e non disdegnano di continuare a coltivare la terra che li ha arricchiti e nella quale vivono liberi.
Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.