Il Mediterraneo rinascerà intorno all’ospitalità

Intervista a Heidrun Friese

Mario Mancini
12 min readJan 16, 2021

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Lampedusa, La porta dell’europa

Libro: Heidrun Friese, Limiti dell’ospitalità. I profughi di Lampedusa e la questione europea, goWare, 2020

Titolo originale: Heidrun Friese, Grenzen der Gastfreundschaft. Die Bootsflüchtlinge on Lampedusa und die europäische Frage, transcript Verlag, 2014, transcript Verlag, 2014

Traduzione dal tedesco di Tiziano Tanzini

Arriva nei negozi online di libri e nelle librerie il saggio di Heidrun Friese dal titolo Limiti dell’ospitalità. I profughi di Lampedusa e la questione europea (goWare), tradotto dal tedesco da Tiziano Tanzini che vive in Germania da oltre un trentennio. La studiosa tedesca conosce molto bene l’Italia, dove risiede da oltre vent’anni pur continuando la sua attività accademica e pubblicistica in Germania e in tutt’Europa.

Quelle che si affronta in questo libro sono tematiche alle quali la Friese lavora da più di tre decenni (il primo lavoro sul campo a Lampedusa è del 1986) e che ha avuto modo di approfondire, a più riprese, attraverso la collaborazione con Università e istituzioni sparse in tutta Europa delle quali l’autrice fornisce un lungo e dettagliato elenco.

Si tratta di un lavoro meditato e originale con un respiro e una conoscenza dei fatti che rincuora a confronto dell’attuale deprimente dibattito politico europeo sull’immigrazione, l’ospitalità e la mobilità.

L’isola di Lampedus

Lampedusa è divenuta il simbolo centrale della mobilità senza documenti (sans papier) nel Mediterraneo nonché dei limiti europei dell’ospitalità. Heidrun Friese analizza le semantiche storiche dell’ospitalità e, alla luce delle prospettive dell’antropologia e della filosofia, le pone a confronto con le pratiche di accoglienza dei profughi e indica drammaticamente che la mobilità, la proclamazione continua dello stato d’emergenza permanente, come pure la presenza di una pervasiva industria della migrazione, hanno creato spazi politici transnazionali nei quali si agitano interessi, spesso conflittuali, dissenso e partecipazione.

All’intersezione tra antropologia e scienze della cultura, questo studio associa la densa narrazione dello studio sul campo ai più recenti dibattiti sull’ospitalità propugnando un cosmopolitismo che abbia una base locale.

Heidrun Friese è professore di Comunicazione Interculturale e di Teoria della Cultura all’Università (TU) di Chemnitz. Ha insegnato e diretto progetti di ricerca alla Humboldt-Universität di Berlino, all’École des hautes études en sciences sociales (Parigi), all’Istituto Universitario Europeo, IUE (Firenze), alla University of Warwick, all’Università Ebraica di Gerusalemme, alla University of California (Berkeley), all’Istituto HyperWerk (Basilea). I suoi studi si estendono dalle teorie sociali e della cultura, alle prospettive postcoloniali, alla mobilità (fuga, migrazione, e pratiche transnazionali) e comprendono le problematiche sull’identità (culturale) in riferimento soprattutto alla zona del Mediterraneo. Ha condotto ricerche pluriennali sul campo, tra l’altro, a Racalmuto e a Lampedusa.

L’intervista

Tiziano Tanzini: Perché è stato scritto questo libro?
HF.: Perché spero, in sostanza, che le mie modeste osservazioni possano contribuire a riflettere sull’ospitalità, sulle relazioni con il prossimo nelle nostre società e sulla necessità di porre alcune domande su come vogliamo convivere. Ciò che chiamiamo ospitalità, cioè l’insieme delle caratteristiche dei nostri atteggiamenti rispetto all’incontro con il prossimo, è fondamentale per la nostra società, per la cultura, per la nostra identità.

Perché prende spunto dalla Sicilia? Quale scintilla ha dato inizio ai Suoi studi?
HF.: Nei primi anni ’90, avevo già vissuto un anno a Lampedusa. A quel tempo, volevo tracciare una storia della colonizzazione dell’isola. Tema affascinante, che prende inizio nel settembre 1843 quando, per volontà dell’amministrazione borbonica, furono trasferite sull’isola, fino ad allora deserta, 120 persone circa. L’insediamento fu organizzato molto bene e le autorità amministrative ne annotarono minuziosamente ogni aspetto. Ne nacque una documentazione che si trova oggi all’Archivio di Stato di Agrigento: un autentico eldorado per una studiosa di antropologia culturale come me! Ma volevo ricostruire questa vicenda non solo attraverso gli atti ufficiali — si pensi: la storia di una comunità fin dai suoi primissimi inizi — ma anche attraverso le memorie dei suoi attuali abitanti. Come è possibile ricordarsi della propria storia? E, appunto: cosa significa, propriamente, “storia” e “scrivere la storia”? Secondo quali criteri è possibile dare un ordine al tempo e alla storia? Per me, si trattava anche di tentare una “scrittura della storia” diversa, di scrivere, cioè, una storia dal basso. Il tentativo è sfociato nel libro Lampedusa. Historische Anthropologie einer Insel (Frankfurt am Main und New York: Campus, 1996 — “Lampedusa: antropologia storica di un’isola”). I primi lampedusani, cui era stata promessa terra da coltivare, erano contadini (che, in pochissimo tempo, hanno purtroppo carsificato un’isola fino ad allora verde di boschi…). Solo in un secondo tempo, lentamente sono divenuti pescatori. E i pescatori hanno una lunga tradizione di accoglienza dei naufraghi: fa parte dell’ethos della gente di mare, insieme, tra l’altro, a quella di non fare domande sulla provenienza della gente in pericolo. I lampedusani avevano inoltre molteplici relazioni con il Nord-Africa. Va anche detto che la prima volta che giunsi a Lampedusa non era ancora accaduto che arrivassero profughi sull’isola. (Anzi: quando raccontavo in Germania che facevo ricerche su Lampedusa, tutti pensavano che studiassi un’isola dei Mari del Sud! Nessuno, all’epoca, aveva mai avuto sentore di Lampedusa; al massimo, un paio dei soliti ben informati che avevano sentito parlare di Claudia Cardinale, Burt Lancaster e del film di Visconti “Il Gattopardo”…).
Tutto ciò cambiò abbastanza rapidamente e ho voluto allora capire la metamorfosi dell’isola alla luce dell’inaspettato sopraggiungere di un numero così grande di profughi. Come affrontava la popolazione locale il fatto che improvvisamente arrivasse sull’isola così tanta gente? Nel frattempo, a causa della crisi profonda attraversata dalla pesca, Lampedusa aveva cominciato a dedicarsi all’industria delle vacanze. Ho voluto quindi indagare sia i conflitti sociali, politici, economici che l’avrebbero potuta affliggere, sia i differenti interessi che l’avrebbero agitata. E mi sono chiesta come si sarebbe trasformato quell’atteggiamento ospitale, che ha costantemente caratterizzato i pescatori.
Così, mentre mi trovavo lì, Lampedusa divenne il simbolo per antonomasia dei profughi che attraversavano il Mediterraneo: motivo di più per parlare ancora una volta con i lampedusani sui cambiamenti in atto. Cosa che non era affatto ben vista da tutti. Erano in molti a temere che proprio la morbosa attenzione dei media potesse danneggiare il turismo e mettere in pericolo lo sviluppo economico dell’isola.

Quale motivazione ha questo Suo coinvolgimento personale sulle sorti delle centinaia di persone che hanno attraversato il canale di Sicilia? Ne può modificare il destino?
HF.: eh, non sono certo così temeraria da credere che il mio modesto tentativo di comprendere l’ospitalità, con i suoi gesti, i suoi requisiti, le sue politiche, possa aver avuto un qualunque tipo di influenza. Sono però convinta che il tentativo di sensibilizzare in qualche modo anche poche persone, per indurle a una riflessione critica sulle scandalose politiche praticate attualmente nel Mediterraneo dando loro la possibilità di inquadrarle, sarebbe un tentativo che vale la pena di fare. Naturalmente c’è, dietro, anche una questione di giustizia. Come possiamo legittimare i “limiti dell’ospitalità” che vengono imposti al giorno d’oggi? Come si possono giustificare queste “necropolitiche” (per dirla con il filosofo Achille Mbembe), politiche che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero, politiche di negazione dell’accoglienza?

Lei ha alle spalle vasti studi di sociologia e antropologia (e non solo) nonché importanti esperienze di insegnamento. Ha cercato di verificare sul campo teorie, riflessioni e ideologie che avrebbero potuto restare astratte e senza un seguito politico?
HF.: È certo che la mia ricerca sia stata fortemente influenzata dalle riflessioni sull’ospitalità di Jacques Derrida, uno dei primi a far notare la fondamentale importanza che l’ospitalità ha per la società nel suo complesso; e a far notare la necessità di un’ospitalità assoluta, incondizionata, senza la quale essa non potrebbe nemmeno essere pensata. Il libro, in questo senso, cerca di misurarsi con questa esigenza, che non è solo etica, e di discuterne le ambivalenze e aporie. In questo senso, cerca anche di trovare luoghi concreti dove si eserciti l’ospitalità e di porre la questione di quali siano i suoi limiti: Lampedusa è uno di questi luoghi.

Per partire, e abbandonare luoghi e persone, come fa chi migra attraversando il Mediterraneo, è vittima di pressioni economiche, sociali e culturali che spingono a una mobilità incondizionata. La mobilità è (dunque) un diritto?
HF.: Partire comporta sicuramente un atto di abbandono. E, tuttavia, non dimentichiamo che è anche un atto di libertà, di ricerca: sì, partire ha qualcosa di liberatorio! Molti dei profughi con i quali ho parlato durante le mie ricerche volevano libertà e dignità. È vero: hanno un ruolo importante anche i fattori economici, sociali e culturali. I motivi per cui si decide di mettersi in marcia sono sempre numerosi, complessi e non riconducibili a semplici fattori push and pull.
Mi permetta qualche piccolo esempio. Nell’archivio che conserva la memoria dei primi insediamenti sull’isola, si trova anche la relazione del sindaco di allora in cui egli annota che un giovane sarto, tale D. Salvatore Mandracchia, era riuscito a infilarsi da clandestino nella prima nave in partenza per l’isola. La nave che, nel porto di Girgenti, era pronta a salpare deve essere parsa al giovane sarto una fortunata coincidenza, un’occasione che gli avrebbe offerto di imprimere una svolta alla sua vita. In Tunisia, ho incontrato un pescatore che, da giovane, voleva andare in Sicilia a comprarsi un paio di jeans. All’epoca non occorreva alcun visto. Nel porto di Trapani incontrò due suoi connazionali che si stavano recando a Pantelleria. Avendo ancora abbastanza danaro per il traghetto, andò con loro a Pantelleria dove venne accolto molto ospitalmente e dove sarebbe poi rimase per anni lavorando come carpentiere. Cosa intendo dire con questi piccoli aneddoti? Le decisioni delle persone non si orientano sul modello dell’homo oeconomicus e della razionalità economica.
Ora, parlando seriamente, a me, ma non solo a me, pare una scandalosa ingiustizia il fatto che una parte dell’umanità — quella che ha avuto la fortuna di possedere, per nascita, il privilegio di una determinata cittadinanza — possa muoversi più o meno liberamente in tutto il mondo mentre a un’altra venga negato (per i più svariati motivi) lo stesso diritto alla mobilità. Questa ingiustizia è legata agli Stati Nazionali, così come attualmente li conosciamo, e a come li riteniamo del tutto ‘naturali’. Questi Stati nazionali — ecco la cosa assurda — ai tempi della globalizzazione aprono le frontiere alle merci ma le chiudono alle persone. Questa ingiustizia è legata alla, per nulla santissima, trinità di Stato, Territorio, Popolo, come constata Zygmunt Bauman, e non è il solo a farlo. Quindi, se riflettiamo su confini e ospitalità dobbiamo riflettere allora anche su cittadinanza, sovranità, ordinamento dello stato nazionale. Una riflessione che, proprio in tempi di nuovi confini (come brillantemente spiega Wendy Brown) ha un ruolo centrale nelle piroette dei sovranisti, nelle agitazioni populistiche e nei movimenti razzisti. Non si dimentichi quell’elemento centrale che è il razzismo, quando l’Europa si rifiuta di accogliere. La mobilità dovrebbe essere effettivamente un diritto da far valere anche nelle sedi internazionali. Non c’è nulla che possa giustificare questa ingiustizia che inibisce, ostacola, ferma la mobilità.

Dalla lettura emerge che la mobilità, soprattutto se senza documenti, informa di sé e plasma, sia i luoghi di partenza che quelli di arrivo: il Suo libro li affronta entrambi ma si sofferma a esaminare particolarmente i secondi, cogliendoli soprattutto nella fase caratteristica dell’accoglienza, che Lei ha indagato come atteggiamento e “gesto” di ospitalità compiuti da persone singole più, e prima, che da istituzioni e forze che intervengono a partire da “centri” sempre molto lontani — geograficamente, politicamente e idealmente — da quelli dove avviene l’atto di accogliere. Centri, nei quali, invece, si organizzano i “gesti” opposti: di ostilità, di repellenza, di respingimento, di rifiuto, attuati anche dando l’accoglienza in ostaggio “all’industria della migrazione”.
HF.: Questo è esattamente ciò che non dobbiamo dimenticare e che caratterizza, anche storicamente, l’aspetto ambiguo dell’ospitalità. Jacques Derrida lo definì come “Hostipitality”, un neologismo in cui compaiono contemporaneamente hostis e hospes (vale a dire ‘nemico’ e ‘ospite’). I campi messi in piedi ai confini dell’Europa (si pensi solo a quello di Moira in Grecia) lo mettono in evidenza più che chiaramente. Questa è intimidazione, ostilità o, come dice lei giustamente, repellenza.

Ospitalità e ostilità sono dunque i due poli tra i quali si dipana tutto il libro. Ma come descrivere ciò che lei chiama l’industria dell’emigrazione?
Come si manifesta?
Come interviene?
È riconducibile al fenomeno mafioso?

HF.: Di fatto si era creato — non solo a Lampedusa — un sistema assai ramificato di Centri di accoglienza, legato a interessi economici sempre più corposi. Il Centro maggiore in Sicilia (chiuso, nel frattempo) di cui hanno potuto approfittare datori di lavoro locali, committenti di appalti pubblici nonché l’agricoltura locale, dato che il campo metteva a disposizione i lavoratori più a buon mercato, si trovava a Mineo. Si pensi al sistema “Mafia Capitale”; si pensi anche a tutta una serie di cooperative che hanno suddiviso tra loro il ‘mercato dell’accoglienza’, legate com’erano a clientele politiche. A questo mercato della migrazione non è naturalmente neppure estranea l’industria della sicurezza: protagoniste a livello internazionale sono aziende come Finmeccanica (I) o Thales (F), che dominano il mercato delle tecnologie di sorveglianza e che ricevono, tra l’altro, contratti miliardari dalla UE. Occorre anche comprendervi organizzazioni come l’OIM (Organizzazione Internazionale della migrazione), Frontex, ONG: insomma, ha preso forma un sistema transnazionale assai complesso che ruota intorno alla mobilità delle persone e che rappresenta interessi diversi e talora contraddittori. Né dobbiamo dimenticare che esiste anche un mercato del lavoro che ha interesse a una manodopera a buon mercato e senza diritti (perché resa illegale): dall’agricoltura fino al settore dei servizi, Ciò vale non solo per l’Italia..

Ospitalità e ostilità hanno una lunga storia dietro di loro. E origini comuni.
Si può sostenere che la loro origine, anche in termini linguistici, sia strettamente legata all’insorgere di molti atteggiamenti sociali della nostra cultura occidentale e del nostro modo di esercitare gli scambi — soprattutto proprio nel Mediterraneo?
Il contatto con i migranti cambia, trasforma, le persone e i luoghi che li ospitano?
Come?
HF.: Lo spazio mediterraneo è lo spazio europeo per eccellenza, caratterizzato com’è da scambi economici, sociali, culturali e politici. Si penso solo ai brillanti, pioneristici lavori di Fernand Braudel o di Peregrine Horden/Nicholas Purcell (The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History nonché The Boundless Sea: Writing Mediterranean History). Tra l’altro, sia detto en passant, anche Lampedusa non è mai stata estranea a questa rete di contatti avendo rapporti verso il Mar Adriatico, l’arcipelago greco, il Nordafrica. Dagli atti notarili emerge come venissero conclusi contratti transnazionali aventi per oggetto navi, partecipazioni a quote di catture pescherecce, equipaggi (in Tunisia e in Libia esistevano comunità di lampedusani). Non solo le persone vagano per il mondo ma anche le merci e gli oggetti e, dunque, anche le lingue, i gesti, gli atteggiamenti, i costumi, le mentalità, le visioni del mondo e… le arti. Non dobbiamo limitarci a ricordare certe ‘conquiste’ storiche, certe testimonianze che si sono lasciate dietro, certe eredità con cui abbiamo a che fare anche adesso. Dobbiamo anche guardare proprio alla quotidianità, alle sue quasi impercettibili modificazioni che sono state perennemente plasmate da questi scambi e continueranno a esserlo. In fondo, sono state proprio le persone mobili a forgiare l’Europa e il nostro presente: mercanti, navigatori, lavoratori stagionali, lavoratrici domestiche, artisti itineranti, perfino amanti… una globalizzazione, insomma, dal basso. In conclusione si potrebbe quindi sostenere che i migranti, le persone mobili, siano in sé il ‘messaggio’ per decifrare il quale occorra perlustrare gli orizzonti di lontane periferie europee, come Lampedusa, ambìto varco in un confine invisibile e ciononostante presente, concreto e carico di cicatrici, in pieno Mar Mediterraneo.

Accogliere, ospitare, sono dunque i punti di approdo del Suo libro.
Quali sono le premesse politiche e ideologiche per accogliere e ospitare?
Al di là delle motivazioni, dei fondamenti storico-antropologici, delle modalità di organizzazione che sono alla base della migrazione e dell’accoglienza, l’
ospitalità ha anche limiti stringenti a livello sia umano/locale che politico/sociale. Lei lo sostiene fin dal titolo.
Come proclamare e perseguire un
cosmopolitismo localizzato?
Sarà possibile affrontare i problemi suscitati dall’
integrazione dei migranti senza prima ampliare i gesti dell’ospitalità?

HF.: Sì. In sintesi, la problematica mi pare questa! Si tratta di interrogarci effettivamente sulla questione di come vogliamo convivere. Le persone mobili pongono con insistenza questa domanda. L’ospitalità, con le sue ambiguità e aporie, implica una serie di dimensioni etiche (soprattutto nel momento in cui l’occidente cristiano si contrappone ad altri àmbiti culturali) ma anche di questioni politiche o, anzi meglio, del “politico”. Occorre cominciare a riflettere su una riformulazione della cittadinanza al di fuori della cornice dello Stato nazionale. Occorre poi riflettere e discutere sul fatto che non abbiamo quasi più privilegi da far valere su altri e dobbiamo infine riflettere su quali diritti abbiano gli altri. Dobbiamo meditare sulla giustizia, su un ordine democratico che non poggi tanto sull’esclusione (ecco un paradosso della democrazia: è capace di includere, ma anche di escludere) quanto su una cittadinanza attiva, su un’appartenenza politica (nel senso dell’importanza che già Hannah Arendt dava a questi termini) e del conflitto soprattutto a livello locale: Lampedusa è sicuramente un luogo di questo tipo. Spero che il libro rappresenti un piccolo, modesto contributo a questo dibattito. E sento il dovere di ringraziare Lei e la Casa editrice, per il sostegno dato a questo dibattito.

Traduzione dal tedesco di Tiziano Tanzini

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.