Il male non esiste
5 film a tema sulla natura del male
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IL MALE NON ESISTE
Sceneggiatura di Ryūsuke Hamaguchi
Film; 2023; regia di Ryūsuke Hamaguchi; con Hitoshi Omika (Takumi); Ryō Nishikawa (Hana); Ryūji Kosaka (Takahashi); Ayaka Shibutani (Mayuzumi); 1h 46min
MYmoviesONE
Il male come assenza bel bene
“Il male non esiste”, film del 2023 di Ryūsuke Hamaguchi vincitore del Leone d’Argento a Venezia, è ora disponibile su MYmovies ONE, piattaforma dedicata al cinema d’autore e ai film dei festival.
L’opera del regista giapponese propone una tesi audace e densa di spunti di riflessione: nel creato non esiste il male. Questo può manifestarsi solo quando si infrange il delicato equilibrio che regna in una comunità pacifica e solidale.
La tesi riecheggia il pensiero di Sant’Agostino, secondo cui il male non esiste come entità, ma si manifesta come privazione del bene, come sua assenza. Non è quindi una forza contrapposta al bene, ma un vuoto, un disordine derivante dall’abuso del libero arbitrio.
Il film abbraccia anche un’altra grande visione del pensiero occidentale, culminata in Giordano Bruno e poi soccombente alla ragione strumentale: il panteismo. Secondo questa visione, tutto il creato è emanazione divina: in ogni creatura vive Dio, come sua diretta espressione. È un panteismo cosmico, dove Dio è presente in ogni aspetto della natura non come creatore esterno, ma come forza vivificante intrinseca.
Ogni prevaricazione verso qualsiasi entità del creato diventa così un’empietà verso Dio, poiché nel creato non esistono gerarchie: la presenza divina permea ogni cosa.
Hamaguchi, già Premio Oscar per “Drive My Car”, suggerisce che quando un cacciatore ferisce un cervo o una falda acquifera viene inquinata per avidità, l’equilibrio si spezza. Il sistema, per ristabilirsi, innesca reazioni che, per quanto cruente, sono necessarie.
Tuttavia, questo traumatico ritorno all’equilibrio non è “male”. È un processo inevitabile che non va ostacolato, al di là del bene e del male. Qui risiede il senso del controverso finale, che sconvolge per la sua crudezza.
Il film sembra dialogare anche con la visione della Premio Nobel Elinor Ostrom e i suoi studi sulla gestione delle risorse naturali, che l’hanno portata a elaborare una solida teoria dei beni comuni.
Hamaguchi si era già distinto con “Drive My Car”, road movie ambientato nella moderna e malinconica Hiroshima, che dialoga idealmente con il capolavoro “Hiroshima mon amour” (1959). Due opere sul lutto che, viste in sequenza, conducono idealmente alla Scalinata della Pace di Hiroshima, evocando le parole conclusive della Duras nel film di Resnais: “Hi-ro-shi-ma. C’est ton nom”.
Come scrive Francesco Boille su “Internazionale”: “Hamaguchi evita la banalità pur mantenendo chiara la sua denuncia, che dalla possibile devastazione ecologico-culturale di una piccola comunità rurale si eleva, in modo non scontato, a metafora della devastazione planetaria causata dal capitalismo predatorio e dal riscaldamento climatico”.
TATAMI — UNA DONNA IN LOTTA PER LA LIBERTÀ
Sceneggiatura di Elham Erfani, Guy Nattiv
Film; 2023; regia di Elham Erfani, Guy Nattiv; con Arienne Mandi (Leila Hosseini), Zar Amir Ebrahimi (Maryam Ghanbari), Jaime Ray Newman (Stacey Travisi), Nadine Marshall (Jean Claire Abriel), Lirr Katz (Shani Lavi); 1h 35min
MYmoviesONE
Il male come privazione della libertà
Bianco e nero nitido, porte che si aprono e si chiudono, silenziose osservazioni e una tensione irrisolta: l’atmosfera richiama il cinema di Robert Bresson. È invece “Tatami”, opera iraniana firmata da un duo registico singolare: l’israeliano Guy Nattiv e l’iraniana Zar Amir Ebrahimi. Presentato alla Mostra di Venezia 2023, il film approda ora su MYmovies ONE.
La protagonista Leila Hosseini (interpretata da Arienne Mandi) è una judoka consapevole del proprio talento e delle concrete possibilità di conquistare l’oro ai mondiali femminili di Tbilisi, in Georgia. Il suo percorso verso la vittoria prevede, con alta probabilità, uno scontro finale con l’israeliana Shani Lavi (Lir Katz). Tra le due atlete esiste un rapporto di profondo rispetto reciproco, nonostante la naturale rivalità sportiva.
La guida suprema dell’Iran e la federazione di judo della repubblica islamica, tuttavia, si oppongono categoricamente a questo potenziale incontro. Attraverso l’allenatrice, ex-campionessa di spicco, ordinano alla Hosseini di ritirarsi dalla competizione. La decisione che Leila dovrà prendere, nella sua coraggiosa fragilità, evoca, pur con minore drammaticità, la scelta di Sophie nel capolavoro di Alan J. Pakula del 1982, che valse a Meryl Streep il secondo Oscar.
“Tatami” esplora con maestria come il male si manifesti attraverso l’oppressione, il potere coercitivo, la negazione della libertà e il ricatto morale. È un male istituzionalizzato, di natura politica e ideologica, che contamina ogni aspetto dell’esistenza, persino lo sport, ambito per eccellenza dei valori universali che dovrebbero trascendere culture e ideologie.
Il pregio dell’opera non risiede solo nella denuncia di un’intollerabile sopraffazione, ma anche nella sua raffinata costruzione cinematografica. La cura meticolosa delle inquadrature, la scelta degli ambienti e il taglio incisivo delle scene riecheggiano la tensione dei thriller hitchcockiani.
Come osserva Marianna Cappi su MYmovies: “Il duo registico padroneggia la forza intrinseca del conflitto che attanaglia la protagonista e lo conduce alla massima intensità, evitando distrazioni e mantenendo una narrazione essenziale e potente”.
Sebbene Leila soccomba sotto il peso della propria scelta, è soprattutto il regime degli Ayatollah a subire la sconfitta più pesante. La riflessione sorge spontanea: perché Iran e Israele, anziché scambiarsi missili, non potrebbero confrontarsi sul tatami?
Il film si distingue per la sua capacità di trasformare una vicenda sportiva in una metafora sulla libertà individuale e sulla resistenza all’oppressione. Attraverso il microcosmo del judo, sport fondato sul rispetto dell’avversario, i registi costruiscono un’opera che parla di diritti umani universali e della possibilità di superare barriere ideologiche apparentemente invalicabili.
L’ARGENT
Tratto dal romanzo “Denaro falso” di Lev Tolstoj
Film; 1983; regia di Robert Bresson; con Christian Patey (Yvon Targe), Vincent Risterucci (Lucien), Caroline Lang (Elise); 1h 25min
DVD San Paolo
Il denaro come veicolo del male assoluto
“L’Argent”, l’ultimo film di Robert Bresson, premiato a Cannes per la miglior regia, trae libera ispirazione da un racconto breve di Tolstoj. Bresson ne accentua i toni cupi e lo arricchisce di riflessioni filosofiche e teologiche. Molti critici lo considerano il suo film più pessimista, nonostante il finale lasci intravedere una possibilità di redenzione che, diversamente dal racconto di Tolstoj, giunge molto più tardi nella narrazione.
Il denaro incarnà il Male assoluto, propagandosi come una droga tra i protagonisti, intrappolati in un’incomunicabilità cronica che trova riscontro solo nella loro disperazione.
La trama si sviluppa attorno a Yvon Targe, un giovane autista che entra involontariamente in possesso di una banconota falsa da cinquecento franchi durante il suo lavoro. Questa banconota innesca un tragico concatenarsi di eventi che coinvolge diversi personaggi, portando Yvon a subire un’ingiusta condanna per spaccio di denaro falso, a perdere la famiglia e a trasformarsi in un criminale.
Il film si distingue per la sua struttura rigorosa e uno stile essenziale, incentrato sull’esplorazione psicologica dei personaggi e sull’effetto devastante che il denaro esercita sulle loro vite.
Le azioni si susseguono senza spiegazioni immediate, creando una tensione che si nutre di ellissi narrative. I movimenti della macchina da presa sono misurati e precisi, mentre gli oggetti che circolano — in particolare il denaro — assurgono a simboli di corruzione e condizionamento.
Yvon, inizialmente vittima del caso e dell’altrui malafede, subisce una graduale metamorfosi in criminale, dimostrando come il male proliferi inesorabilmente. Il film offre uno spaccato della società moderna, dove il denaro diventa l’unico mezzo di comunicazione e la forza che vincola gli uomini, riducendo i rapporti umani a meri scambi materiali.
Il finale, con la resa di Yvon alla polizia, non offre una vera redenzione morale. La possibilità di riscatto viene trattata in modo ambiguo, attraverso un gesto di disperazione che non cancella la brutalità delle sue azioni precedenti. Il film si chiude in un silenzio gravido di significato, emblema di una società incapace di contrastare la violenza del denaro.
Bresson adotta un’estetica austera per enfatizzare il distacco emotivo e l’ineluttabilità degli eventi. Le sue scelte stilistiche, caratterizzate dall’uso di tonalità fredde e dall’assenza di artifici tecnici, contribuiscono a creare un’atmosfera opprimente. La circolazione del denaro diventa metafora dell’oppressione e della distruzione, attraverso cui Bresson critica la società post-industriale.
“L’Argent” trascende la dimensione della corruzione individuale per farsi critica del capitalismo, illustrando come l’avidità e la brama di ricchezza possano disumanizzare e annientare. La solitudine dei personaggi, la violenza delle loro azioni e il silenzio pervasivo suggeriscono un mondo privo di speranza, dove ogni gesto è guidato da una forza cieca e inesorabile.
IL PIANISTA
Tratto dall’autobiografia Il pianista di Władysław Szpilman
Film; 2002; regia di Roman Polanski; con Adrien Brody (Władysław Szpilman), Thomas Kretschmann (Capitano Wilm Hosenfeld), Michał Żebrowski (Jurek), Frank Finlay (il padre), Maureen Lipman (la madre); 2h 30min
Prime video, AppleTV, a noleggio
Il male sistemico
“Il pianista”, Palma d’oro a Cannes e tre premi Oscar — tra cui quello per la miglior regia a Roman Polanski, miglior attore a Adrien Brody e miglior sceneggiatura non originale a Ronald Harwood — si annovera, insieme a “Schindler’s List”, tra i film più intensi e drammatici sull’Olocausto.
Nel lavoro di Roman Polanski, il concetto di male è centrale e si manifesta attraverso la rappresentazione dell’Olocausto, uno degli eventi più tragici della storia umana. La narrazione segue la vera storia del pianista ebreo polacco Władysław Szpilman, interpretato da Adrien Brody, che sopravvive alle atrocità naziste durante l’occupazione della Polonia.
Il male, nel film, si configura come un fenomeno sistemico e collettivo, alimentato dall’ideologia nazista che trasforma esseri umani in ingranaggi di una macchina disumana. Polanski, sopravvissuto all’Olocausto, evita accuratamente di spettacolarizzare la violenza: al contrario, il male viene mostrato nella sua banalità e normalizzazione. Le scene, spesso fredde e distaccate — come quella in cui una famiglia viene uccisa senza preavviso o gli ebrei vengono umiliati pubblicamente — sottolineano come il male possa infiltrarsi nella quotidianità, rendendone insensibili sia le vittime sia i carnefici.
Un tema cruciale è la progressiva perdita di umanità, tanto per chi subisce quanto per chi perpetra il male. Szpilman, nel suo percorso di sopravvivenza, è costretto all’isolamento, a nascondersi e, in alcune circostanze, ad accettare compromessi morali pur di sopravvivere. Tuttavia, il film evidenzia anche momenti in cui solidarietà e pietà riescono a emergere, come nell’atto di gentilezza del capitano tedesco Wilm Hosenfeld, che soccorre Szpilman negli ultimi giorni di guerra. Questo gesto suggerisce che, persino in un sistema dominato dal male, l’individualità e la capacità di compiere scelte umane non vengono completamente annientate.
Polanski esplora inoltre il carattere insensato e arbitrario del male. La distruzione del ghetto di Varsavia e l’annientamento della comunità ebraica non seguono alcuna logica se non quella della brutalità e del pregiudizio. In questo contesto, Szpilman incarna l’individuo vulnerabile che resiste, non come un eroe, bensì come testimone della barbarie e della sopravvivenza.
“Il pianista” rinuncia a offrire risposte consolatorie. Il male non viene punito equamente, né esistono vie di catarsi per le sofferenze patite. Polanski enfatizza la resistenza e la resilienza come forme di risposta al male, ma non occulta il senso di perdita e di vuoto generato dalla distruzione.
L’ultima scena, che ritrae una Varsavia completamente rasa al suolo e avvolta dalla neve, dove persino i cani non riescono a sopravvivere, smentisce Che il male sia banale, mostrandolo in tutta la sua mostruosità e potenza dispiegata.
JOKER
Sceneggiatura di Todd Phillips, Scott Silver
Film; 2019; regia di Todd Phillips; con Joaquin Phoenix (Arthur Fleck / Joker), Robert De Niro (Murray Franklin), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Frances Conroy (Penny Fleck); 2h
Netflix, Prime Video
Il male dell’indifferenza sociale
Il concetto di male in Joker (2019), diretto da Todd Phillips e interpretato da Joaquin Phoenix (vincitore del premio Oscar), si configura come un tema complesso e stratificato. Il film non presenta il male come una qualità innata, ma come il risultato di un intreccio tra sofferenza individuale e disfunzioni sociali. Attraverso la metamorfosi di Arthur Fleck nel Joker, la narrazione indaga le origini del male, sollevando interrogativi sulla responsabilità individuale e collettiva.
Arthur vive in una Gotham City degradata, una metropoli simbolica in cui l’indifferenza verso i più deboli e le disuguaglianze sociali raggiungono livelli estremi. In questo contesto, il male germoglia dalla disumanizzazione dei marginalizzati: Arthur viene ignorato, deriso e tradito, mentre la società perpetua il suo isolamento. La chiusura dei servizi di assistenza sanitaria mentale, la mancanza di empatia e l’assenza di reti di sostegno sono i fattori che alimentano la sua discesa nella violenza. Il film suggerisce che il male non sia innato, ma piuttosto il prodotto di un ambiente incapace di prendersi cura dei suoi membri più vulnerabili.
La sofferenza personale costituisce un altro elemento chiave nella genesi del male di Arthur. La sua infanzia, segnata da abusi e traumi, unita all’instabilità mentale e al rifiuto sociale, lo conduce a un punto di rottura. La scoperta delle menzogne della madre e il tradimento di coloro che considerava vicini lo spingono oltre il limite, trasformando il dolore in rabbia e violenza. Arthur non sceglie inizialmente di essere malvagio; il male emerge come una reazione alla sua condizione di emarginato. Tuttavia, il film lascia aperto il dibattito sul fatto che la sua trasformazione sia una scelta consapevole o l’inevitabile conseguenza delle sue circostanze.
Un momento cruciale nella narrazione è rappresentato dalla scena dell’omicidio nella metropolitana, che segna il definitivo passaggio di Arthur verso il Joker. La violenza, inizialmente un atto di difesa, diventa una forma di potere e liberazione. In questa fase, il male non è solo vendetta, ma anche affermazione identitaria: Arthur abbraccia il Joker come una maschera che lo redime dalla fragilità e dall’insignificanza. Il suo dolore personale si fonde con un sentimento di ribellione sociale, trasformandolo in un simbolo di caos e disordine.
In Joker, il male non viene giustificato né glorificato, ma analizzato nelle sue radici profonde. Il film riflette su come l’indifferenza sociale possa generare mostri, offrendo una critica implicita alle dinamiche di esclusione e oppressione. La vera origine del male, suggerisce il film, risiede più nella collettività che nell’individuo, configurando il Joker come una potente allegoria delle disfunzioni sociali e dell’alienazione. Attraverso questa prospettiva, Joker si afferma come una parabola contemporanea sull’umanità e i suoi fallimenti, lasciando lo spettatore a confrontarsi con domande scomode ma necessarie.