Il libro del futuro non sarà quello che ci si aspettava
Quel che avrebbe potuto essere e non è stato… ma qualcosa è accaduto
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Estate
È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Cesare Pavese
La bella estate del 2011
Il libro del futuro è durato solo una bella estate , quella del 2011, semplicemente perché non era quello giusto per essere del futuro. Il libro del futuro non poteva essere un’applicazione per iPad. E alla fine si è infatti affermato quello che non è certo il libro del futuro, cioè il Kindle che non è altro che lo stampato di Gutenberg in un’altra forma. Noi stessi abbiamo ricostruito la storia della nuova editoria in Amazon vs. Apple. Breve storia della nuova editoria (goWare, 2017) per giungere alle stesse conclusioni a cui è arrivato qualcuno senz’altro più addentro di noi nel rapporto tra tecnologia, novi media ed editoria: Craig Mod.
In un lungo e importante intervento su Wired, che abbiamo integralmente tradotto per i nostri lettori, Craig parla di come, dopo che Amazon è caduto come un meteorite nel placido stagno dell’industria del libro provocando un’onda anomala, oggi siamo tornati al punto di partenza, cioè a Gutenberg. Amazon dopo aver impattato l’ecosistema del libro nel modo che sappiamo ha bloccato l’innovazione, compiaciuto e soddisfatto di quello che aveva raggiunto, cioè un monopolio. Oggi metà delle vendite di libri tradizionali passano per Amazon e quasi il 70% di quelli digitali avvengono nel Kindle store. Che interesse può avere Amazon a mutare lo status quo? Nessuno.
Il Kindle — la cui interattività (che è il bread & butter di ogni attività sui nuovi media) è simile a quella di una patata , come scrive Craig Mod — ha impedito, secondo noi, ogni tentativo di innovazione di contenuto che è rimasto quello che era, parole stampate morte sulla pagina. Il cinema delle origini riuscì a staccarsi dalle forme artistiche da cui era nato (come la fotografia e il teatro) con una potente azione di innovazione del contenuto che la tecnologia accompagnò e stimolò. Dopo un ventennio sviluppò un proprio linguaggio formale e artistico che la rese un’arte a sé stante, la settima arte. Lo stesso dovrebbe accadere con l’avvento della tecnologia nel mondo della carta stampata, in particolare del libro. Ma no si vede ancora niente del genere di quello che è accaduto nel cinema delle origini.
Craig Mod non è molto interessato al discorso sull’innovazione di contenuto. Per lui la forma libro è quella che è e, probabilmente, resterà quella di Gutenberg. Nello stesso modo la pensa Jeff Bezos. Ma Craig vede, dal suo osservatorio privilegiato, qualcosa che noi non vediamo o vediamo di meno, cioè il profondissimo cambiamento di tutto l’ecosistema del libro, del rapporto degli autori con l’atto di pubblicare, del modo in cui le pubblicazioni raggiungono il pubblico e di come il contenuto si sia frammentato in un ampio delta prima di raggiungere, diciamo, il mercato. La forma libro si è diversificata e ampliata in forme che storicamente non esistevano.
Ma, fermiamoci qua, perché non vogliamo togliervi la curiosità e il piacere di leggere questo contributo importantissimo di Craig Mod.
Doveva essere smart
Quando le promesse non vengono mantenute arriva la tristezza e muore un pezzo di speranza. Il libro del futuro doveva essere interattivo, coinvolgente… cioè vivo. Le sue pagine dovevano animarsi come un essere senziente, essere responsive e personalizzabili.
Il vecchio videogioco Zork, dove già nelle prime pagine si sceglieva l’avventura da seguire, era solo l’inizio di una rivoluzione. Il libro del futuro avrebbe cambiato il suo contenuto a seconda del luogo dove si era e del sentimento del momento. Avrebbe ambientato la storia in quel luogo, avrebbe colto lo stato d’animo, il nome del bar in cui si era seduti e addirittura si sarebbe ricordato del compleanno del nostro migliore amico.
Il libro doveva essere, non c’è altra parola, “smart”. Tuttavia questa intelligenza e astuzia poteva celare qualcosa di inquietante. Ma chi se n’importa?
Il libro del futuro doveva essere assolutamente programmabile come un videogioco Prendiamo, ad esempio, l’Ulisse di James Joyce o i Miserabili di Victor Hugo. Un tocco e, voilà, si sarebbe aperto davanti ai nostri occhi la Dublino di Joyce o la Parigi di Cosette. Il software avrebbe elaborato al volo questi paesaggi grazie allo strabiliante algoritmo di deep learning del lessico e delle situazioni create dalla fantasia dei due grandi scrittori.
Nel corso della storia sono stati fatti infiniti pronostici su come ogni nuova tecnologia avrebbe influenzato la forma dei libri di carta, su come questa avrebbe cambiato, deformato o forse ucciso il libro. Ogni nuovo mezzo — i giornali, la fotografia, la radio, il cinema, la televisione, i videogiochi, Internet — avrebbe dovuto uccidere il libro di carta o renderlo un glorioso cimelio dei secoli che furono. In ogni caso, la previsione prevalente era che la tecnologia si sarebbe rivelata libricida.
Nessun libricidio
Non tutti, però, vedevano in modo così nichilistico l’intersezione tra libro e tecnologia. Qualcuno la vedeva in modo assai più positivo. Nel 1945, Vannevar Bush, uno degli inventori dell’intelligenza artificiale, scriveva su “The Atlantic” che la tecnologia avrebbe aperto un nuovo spazio alla forma libro e alla scrittura che il suo sistema di archiviazione universale, il Memex, avrebbe inglobato, ampliato e distribuito. La tecnologia avrebbe rafforzato e ampliato la funzione del libro nel sistema di formazione e di diffusione della conoscenza umana.
Alan Kay, il padre della programmazione ad oggetti e uno dei super tecnologici del PARC di Palo Alto, nel 1968 ideò il Dynabook, un prototipo di un dispositivo del tutto simile a un tablet o a un e-reader. Nelle intenzioni di Kay, il Dynabook doveva avere lo stesso impatto sulla cultura e la diffusione della conoscenza dell’invenzione della macchina da stampa di Gutenberg, avvenuta mezzo secolo prima. Da notare che nella denominazione del dispositivo di Kay compare la parola “book” (libro) e Dyna (dinamico). Alan Kay c’aveva dato dentro, ma non è quello che è successo finora.
Negli anni Novanta la futurologia del libro raggiunse il suo picco di aspettative. Sembrava proprio di esserci. L’ipertestualità, finalmente implementata nei sistemi di personal computer, prometteva di essere la killer app del libro. Robert Coover, professore della Brown University, in un editoriale del New York Times del 1992 intitolato “The End of Books”, scriveva a chiusura del suo articolo:
“L’ipertesto è davvero un ambiente nuovo e unico. Gli scrittori che lavorano in quell’ambiente devono essere letti e, probabilmente, giudicati in quell’ambiente. La saggistica, come la fiction, si sta spostando dalla pagina all’online. Pertanto la scrittura sarà soggetta a continui cambiamenti, ripensamenti e modifiche di forma e di contenuto. Fluidità, adattamento alle circostanze, indeterminatezza, pluralità, discontinuità sono le parole d’ordine dell’epoca della scrittura ipertestuale. Queste sembrano diventare rapidamente principi fondativi della scrittura, nello stesso modo in cui quelli della relatività, non tanto tempo fa, hanno spodestato quelli della mela caduta dall’albero”.
Libri normali? Noiosiii!. Libri futuri? Spettacolari! …e c’eravamo quasi arrivati! La Voyager Company aveva costruito la sua piattaforma di “extended books” sul Mac con Hypercard, lanciando tre titoli al MacWorld del 1992. Microsoft aveva lanciato Encarta su CD-ROM per Windows.
Ma … dieci anni dopo, ancora a metà degli anni 2000, non esistevano dei veri e propri libri digitali. L’eBook reader della Rocket era troppo piccolo ed era venuto troppo presto. La Sony aveva lanciato la piattaforma Librie con tecnologia e-ink già nel 2004, ma con scarso successo. Internet aveva eliminato CD-ROM interattivi dal mercato. C’erano Wikipedia, i blog e la rete, ma il mitico libro del futuro — una sorta di tavoletta elettronica in qualche modo simile agli in-quarto di un tempo — era ancora lungi dal materializzarsi. Peter Meirs, direttore della sezione tecnologia di “Time”, commentando che “alla fine, ci sarà un qualche di dispositivo per leggere!”, c’aveva azzeccato.
Infatti alla fine arrivarono le tavolette. In realtà, arrivarono diversi dispositivi. L’iPhone fu lanciato nel giugno del 2007. Il Kindle a novembre dello stesso anno. Poi, nel 2010, arrivò l’iPad. Gli schermi ad alta risoluzione e inter-connessi erano improvvisamente nelle mani e nelle borse di tutti. E per un breve momento, durante gli anni seguenti al 2010, sembrava fosse finalmente arrivato, il glorioso libro del futuro.
Un grido nel deserto
Avanti, veloci, fino al 2018. Denis Johnson, a chiusura del racconto Triumph Over the Grave, scrive: “Non fa nulla. Il mondo continua a girare. È chiaro che al momento in cui scrivo queste righe, non sono ancora morto. Ma forse lo sarò quando le leggerai”. (Johnson è tradotto in italiano da Mondadori ed Einaudi. Ha vinto il National Book Award nel 2007)
È un cazzotto nello stomaco, non solo per il tono, il ritmo, la grammatica, ma perché è morto davvero. È morto nel 2017. Stavo leggendo questo racconto — compreso nella raccolta The Largesse of the Maiden (in italiano, Mostri che ridono, Einaudi) — sul mio Kindle, durante un’escursione di qualche giorno. Camminare con un Kindle è decisamente futuristico: un’intera libreria è nel dispositivo che pesa meno di un libriccino e ha bisogno di essere caricato ogni morte di papa. Il mio primo impulso nel leggere l’ultima riga ddel libro di Johnson, mentre ero seduto per terra lungo un sentiero sterrato tra le montagne del Giappone immerso nella vegetazione, fu quello di elogiarlo con un commento, proprio li, sfiorando con un dito il testo mentre un usignolo cinguettava sopra la sua testa. Il Kindle appose sulle righe sfiorate una sottile sottolineatura punteggiata e, a lato, comparve un testo che diceva che quella frase finale era stata evidenziata 56 altre volte. Altri umani! Avevano letto quello stesso testo e sentito il bisogno di evidenziarlo. Supremo!
Volevo scrivere, “Mannaggia. È triste pensare che questo sia l’ultimo lavoro di questo tizio. Sicuramente è morto mentre lo sto leggendo”. Volevo proprio incollare il mio elogio da due soldi tra quelle supreme righe in modo che altri potessero leggerlo e io leggere quello che avevano pensato gli altri. La condivisione di un libro è uno dei collanti più forti una comunità e, dannazione, io volevo farlo.
Ma non potevo. Il mio Kindle Oasis, uno dei più veloci, eleganti e costosi contenitori di libri digitali oggi diponibili, è interattivo come una patata. E allora, ho lasciato un appunto per me stesso: “Scrivi qualcosa su come questo non è il libro digitale che avremmo voluto avere”.
Oggi i libri stampati cono come i libri del secolo scorso. E i libri digitali di oggi funzionano come gli ebook di 10 anni fa, al momento in cui è stato lanciato il Kindle. Il più grande cambiamento che c’è stato e che molti concorrenti di Amazon sono andati a gambe all’aria o spinti nell’irrilevanza. L’ecosistema, che è emerso brevemente nei primi anni del 2010 con l’iPad e che prometteva l’inizio di una vera e propria lettura digitale, si è trasformato in una pozzanghera.
Amazon ha vinto. Trionfato. A partire dalla fine del 2017, il 45% (rispetto al 37% nel 2015) di tutte le vendite di libri e l’83% di tutte le vendite di ebook avviene attraverso i suoi canali. Esistono poche alternative con una quota significativa di mercato o con una proposta valida, specialmente tra i libri digitali.
Ed ecco la sorpresa: stavamo cercando il libro del futuro nel posto sbagliato. Non è la forma, necessariamente, che ha bisogno di evolversi. Penso che possiamo essere d’accordo sul fatto che, in un’epoca di distrazione massima, uno dei vantaggi più forti di un “libro” è proprio la sua unicità: non vuole distrazioni, richiede concentrazione ed è beatamente immutabile. Invece, la tecnologia ha cambiato tutto ciò che sta intorno a un libro, producendo una rivoluzione silenziosa. Economia, stampa, realizzazione, costruzione della comunità: tutto ciò che ha caratterizzato e sostenuto il mondo del libro nell’era pre-Internet è cambiato in modo significativo, anche se i contenitori non sono cambiati. Forse la forma e l’interattività di ciò che consideriamo un “libro standard” cambieranno in futuro, perché gli schermi diventano sempre più convenienti e duraturi della carta. Ma i libri fatti oggi, tenuti nelle nostre mani, digitali o stampati, sono già libri del futuro, nonostante il loro essere assai poco futuristici e dinamici.
Una rivoluzione editoriale
Solo venti anni fa, cosa era necessario per pubblicare un libro senza un editore? C’era bisogno di un bel po’di parole, messe insieme con un certo criterio. Ma c’era anche bisogno di un mucchio di quattrini. E anche se si disponeva il denaro, diciamo 20.000 euro per preparare il libro, c’era comunque bisogno di uno stampatore. Supponendo di realizzare una certa tiratura, c’era bisogno di un posto dove tenerli. C’era bisogno di qualcuno che li spedisse. Bisognava pagare un distributore per vederli sugli scaffali di Barnes and Noble. E infine si doveva predisporre un budget per il marketing allo scopo di farlo conoscere ai lettori.
Per pubblicare un libro digitale oggi, c’è ancora bisogno delle parole, ma si può fare a meno di tutti le altre robe. Da un documento di Pages o di Microsoft Word si può esportare un file epub, il formato standard aperto per i libri digitali. Una volta aperto un account su Amazon e su Apple iBooks, si può caricare il file e immediatamente avere accesso al 92% del mercato dei libri digitali e al 70% di quelli tradizionali.
Per i libri stampati, alcuni nuovi strumenti di finanziamento, di produzione e di distribuzione rendono molto semplice la loro creazione e la vendita. Blurb, Amazon, Lulu, Lightning Source e Ingram Spark sono solo alcune delle piattaforme print-on-demand a cui tutti hanno accesso. Si potranno gestire direttamente le vendite, anche pubblicando una pagina Web alla quale far acquistare i potenziali lettori. In tal caso si dovranno gestire le complesse e impegnative operazioni di pagamento e di spedizione. Il miglioramento della qualità della stampa avvenuto negli ultimi anni è sbalorditivo. Ci sono svariate opzioni per la scelta della carta, del tipo di copertina e delle finiture. I fotografi professionisti, per esempio, offrono persino delle monografie in collaborazione con piattaforme come Blurb. E i libri saranno disponibili alla vendita al pubblico il giorno successivo alla loro chiusura.
Oggi, quasi la metà dei guadagni degli autori proviene da libri pubblicati in modo indipendente.
Chiunque abbia un po’ di know-how tecnologico e una buona connessione Internet può pubblicare, offrendo edizioni digitali o fisiche, sugli stessi scaffali online dove ci sono quelli di autori mainstream come Alexander Chee, Rebecca Makkai o Tom Clancy.
Questa proliferazione di nuove tecnologie e servizi ha cambiato profondamente l’economia dell’autore. Come dicevo quasi la metà dei guadagni degli autori proviene da libri pubblicati in modo indipendente. I libri indipendenti non superano ancora i libri pubblicati dagli editori tradizionali, ma offrono royalty con percentuali più elevate — circa il 70 per cento contro l’8 per cento (per la stampa) o il 25 (per il digitale). Per la prima volta, forse dall’invenzione della tipografia, gli autori e le piccole case editrici hanno valide opzioni oltre il tradizionale percorso editoriale ben sorvegliato dai guardiani della cultura.
Come il crowdfunding ha cambiato il gioco
Negli anni 2000, per sei anni, sono stato art director e di una piccola casa editrice indipendente e, lasciatemi dire, che non c’erano delle grandi opzioni per il finanziamento o per la raccolta di capitali. Poi è arrivato il crowdfunding.
Kickstarter è stato lanciato nel 2009. Malgrado non fosse la prima piattaforma di crowdfunding, è diventata rapidamente la più grande e la più influente. Dal suo lancio, Kickstarter ha contribuito a finanziare oltre 14.000 progetti di “editoria”, raccogliendo a questo scopo circa 134 milioni di dollari. I 10 progetti meglio finanziati da Kickstarter hanno ottenuto oltre 6 milioni di dollari di capitale, per poi raccogliere molto di più nelle vendite dopo la pubblicazione.
Autori best-seller come Jack Cheng (Arrivederci tra le stelle, Bompiani) e Robin Sloan (Il segreto della libreria sempre aperta, TEA) hanno ottenuto i primi finanziamenti per i loro romanzi da Kickstarter. Sloan ha lanciato il suo progetto “Robin Writes a Book” nell’agosto del 2009, quando erano stati in pochi ad aver sentito la parola “crowdfunding” e l’idea di dare soldi per una cosa non ancora fatta sembrava piuttosto bizzarra.
Kickstarter non è mecenatismo in senso classico. Nel suo lato peggiore, la piattaforma finanzia idee un po’ kitch e un po’ truffaldine, una sorta di unione empia tra il mercato delle pulci e la telepromozione. Ma al suo meglio il senso è, come dice Tim Carmody, di “quello di sbloccare i beni comuni”, cioè di aiutare qualcosa a entrare nel mondo altrimenti inaccessibile, il mondo di cui anche noi facciamo parte.
Ho pubblicato due libri che non sarebbero stati mai realizzati senza il crowdfunding. Nel 2010, con un co-autore, ho pubblicato una guida sul mondo dell’arte di Tokyo e nel 2016 ho pubblicato una raccolta di foto e una guida online completa al pellegrinaggio di Kumano Kodo (Giappone) del patrimonio mondiale UNESCO.
Tutto ciò che ho imparato nella prima campagna l’ho messo nero su bianco e pubblicato sulla piattaforma Kickstartup. Nel saggio definivo il denaro raccolto tramite Kickstarter come “… micro seed capital (micro capitale di avviamento). Questo capitale, la cui raccolta non significa rinunciare alla proprietà del proprio progetto, è il punto in cui sta il maggior potenziale di Kickstarter “.
Ho scritto questo saggio nel 2010 proprio mentre il crowdfunding stava entrando nella sua fase mainstream. Era il periodo in cui tutti sembravano abbandonare i libri per i loro gemelli digitali.
La storia emblematica di due ragazze italiane
La storia emblematica di un libro finanziato con Kickstarter è Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 vite di donne straordinarie di Francesca Cavallo ed Elena Favilli (edito in Italia da Mondadori). La campagna lanciata nel 2016 ha rapidamente stabilito il nuovo record per il finanziamento raccolto da un libro tramite il crowfunding. Ha, infatti, ottenuto 1,2 milioni di dollari dalle campagne condotte su Kickstarter e IndieGogo. Il libro ha poi venduto oltre 1 milione di copie in tutto il mondo. Bambine ribelli è quindi diventato un vero e proprio brand editoriale. L’editore Timbuktu Labs, fondato dalle due ragazze italiane, ha lanciato nel 2018 Storie della buonanotte per bambine ribelli 2, raccogliendo prenotazioni per 866 mila copie.
All’inizio di quest’anno, ho chiesto a Elena Favilli, co-fondatrice di Timbuktu Labs, di commentare il caso delle Bambine ribelli:
“Quando penso alla Storie della buonanotte per bambine ribelli, all’intero movimento e alla comunità che si è formata intorno ad esso … direi che oggi siamo un marchio nativo digitale e che lo abbiamo creato partendo da un oggetto fisico molto tradizionale, come un libro per bambini”, ha detto la Favilli.
Il racconto della storia del successo di Timbuktu Labs spesso omette un dettaglio importante. La società ha iniziato nel 2011 con l’intento di sviluppare app “senza futuro” per il futuro dell’editoria, realizzando una rivista per bambini per iPad — che era stato appena lanciato. Timbuktu Labs era parte di una prima ondata di progetti di editoria digitale incentrate sui tablet. Si trattava di iniziative si cui si era infatuato il capitale di rischio. Questo è accaduto quando, per esempio, “Wired” pubblicava una versione digitale ricchissima della rivista e la società di venture capital Kleiner Perkins sosteneva l’innovazione editoriale tramite iFund, un fondo con un capitale di oltre 100 milioni di dollari. Quando Flipboard (dove ho lavorato dal 2010 al 2011) è stato lanciato su App Store, si è rivelato così popolare da dover sospendere le iscrizioni e creare una lista di attesa per limitare l’accesso alla versione iPad.
In questa fase di spinta entusiastica, Timbuktu Labs ha iniziato a vincere premi per la sua magazine app, che veniva aggiornata ogni giorno con nuovi contenuti. Però, nonostante la ricezione positiva del pubblico e l’ottima stampa, l’iniziativa non ha mai raggiunto la trazione necessaria per diventare un business sostenibile o per attrarre i capitali necessari per fare il grande salto. Io stesso sono stato testimone di quello che è accaduto. Avendo, infatti, investito nel 2012 una piccola somma in Timbuktu Labs, ho avuto un posto in prima fila. E posso dire che ci hanno provato. Ci hanno provato davvero. Il mercato semplicemente non c’era.
E così come ultimo sforzo, i cofondatori, Elena Favilli e Francesca Cavallo, si sono ritirate a Los Angeles per rimodulare la loro idea di business e i loro progetti di vita. È lì che è nata l’idea di Bambine ribelli e da lì è partito un business sostenibile non su un’app, ma su un libro fisico. Il progetto delle Storie della buonanotte non è emerso dal nulla o per generazione spontanea. La Favilli e la Cavallo hanno iniziato a testarlo, sei mesi prima di lanciare la loro ormai famosa campagna su Kickstarter, utilizzando la più semplice delle tecnologie di Internet, la posta elettronica.
Una tecnologia cruciale per gli autori: la posta elettronica
Nel 2014, il New York Times aveva sei milioni e mezzo di abbonati alle sue newsletter via email. Alla fine del 2017, quel numero era raddoppiato. Aziende come Mailchimp offrono servizi di newsletter da quasi due decenni, ma non sono mai state così popolari come adesso. Nel 2018, gli utenti hanno inviato circa un miliardo di email al giorno tramite Mailchimp, 5.000 volte in più rispetto al 2013, quando il servizio gestiva 200.000 email al giorno.
A seguito di questa esplosione del servizio email, nel 2017 è stato lanciato Substack, una piattaforma di pubblicazione e monetizzazione tramite newsletter. Nella maggior parte delle piattaforme di newsletter il sistema di pagamento non è stato ancora integrato in modo semplice ed efficiente. Abbonarsi, infatti, può rivelarsi macchinoso. In Substack, tuttavia, un editore può facilmente impostare un accesso a pagamento a una newsletter stabilendo un canone di abbonamento. A partire da ottobre 2017, Substack ha raccolto oltre 25.000 abbonati attraverso varie newsletter, con un canone medio annuo di 80 dollari. Il giornalista del “Rolling Stone” Matt Taibbi ha recentemente pubblicato il suo romanzo, The Business Secrets of Drug Dealing, attraverso il servizio di Substack. Pure Popular Information di Judd Legum è pubblicato su Substack.
Quasi tutti gli scrittori o gli artisti che conosco hanno una newsletter. Un modo per comprendere questo boom è che, mentre i social media hanno tagliato fuori pezzi interi di web aperto, l’energia che un tempo era stata messa nei blog, ora si è spostata sulle e-mail. Robin Sloan, in una recente e-mail newsletter, spiega così questo fenomeno:
“Oltre all’invio di svariate newsletter via email, mi iscrivo a molte altre e ne parlo parecchio; penso che qualsiasi artista o studioso o persona che vuol pubblicare nel mondo di oggi, se non ne ha già una, ha bisogno di costruire immediatamente una mailing list.
Perché? Semplicemente perché non possiamo fidarci dei social network o di qualsiasi piattaforma commerciale centralizzata di social media. L’email non è sicuramente l’ideale, ma è decentralizzata, affidabile e non vuole andare da nessuna parte. Sono sempre più coloro che percepiscono le sue quasi proprietà magiche. Parliamo, allora, di queste proprietà. Le mailing list sono portatili, possono essere stampate, conservate in una cassaforte; dietro non ci sono complicati e inintelligibili algoritmi compresi solo da pochi eletti.
Gestisco una newsletter via email con oltre 10.000 destinatari e la considero la più diretta, intima e preziosa connessione con il mio pubblico. Messa in termini economici brutali, quando promuovevo la mia campagna Kickstarter per Koya Bound, ogni volta che inviavo una newsletter, raccoglievo circa 10.000 dollari in più all’ora. Si tratta di un segnale dannatamente forte e tangibile per la comunità. Ho dei risultati molto più immediati, prevedibili e tangibili di quanto ho potuto avere con Twitter, Facebook o Instagram”.
La prima email di Bambine ribelli è stata inviata a 25 destinatari; la lista è cresciuta a dismisura nei sei mesi precedenti alla campagna Kickstarter. L’intento di Timbuktu era di raccogliere 40 mila euro, un obiettivo che, al momento, sembrava ambizioso e poco plausibile. La storia di Bambine ribelli esemplifica l’effetto voodoo di una piattaforma come Kickstarter. Se qualcuno sostiene un progetto, trasmette la notizia ai propri amici e si crea un network effect, la magia avviene. Più grande è la rete, più potente è l’effetto. Kickstarter, con oltre 15 milioni di utenti, ha il più grande network effect che si conosca. Ciò lo rende per autori ed editori indipendenti anche una formidabile forza per azioni di marketing online.
Le newsletter è un libro
Il problema con definizioni rigide di ciò che è o non è un “libro” è quello di saper identificare un formato che non ha la forma classica di un libro, ma in realtà è molto simile al libro.
Ben Thompson, che adesso risiede a Taiwan, pubblica da solo una newsletter chiamata Stratechery. Per 100 euro all’anno è possibile ricevere, quattro volte a settimana, le riflessioni di Thompson sulle novità nel campo delle nuove tecnologie, delle startup e delle grandi imprese della Silicon Valley. Si tratta di analisi perspicaci, approfondite e aggiornate e, se gli si presta attenzione, probabilmente, serviranno a fare le scelte giuste nelle decisioni e negli investimenti. Pertanto non è difficile convincere i lettori ad abbonarsi. Infatti, secondo quanto dichiarato pubblicamente, nel 2014 Thompson aveva raccolto oltre 1.000 abbonati che pagavano 100 dollari all’anno. Da allora le sue entrate sono aumentate di 100 volte. È verosimile? È possibile che Ben Thompson possa fare 10 milioni di dollari all’anno con una newsletter? Gli ho chiesto di confermare questo dato e lui mi ha risposto “Sono stato molto fortunato ma non sono ancora vicino a 10 milioni, purtroppo!” Tuttavia, è possibile che abbia veramente 10.000 abbonati.
Nel 2008 Kevin Kelly, tecnologo e co-fondatore di “Wired”, aveva previsto come Internet e l’e-mail avrebbero consentito ai creatori di contenuti di essere indipendenti. La chiamò la teoria dei 1.000 veri tifosi (1,000 True Fans). Mille era il numero magico che consentiva di costruire un mercato per il proprio lavoro. Oggi ci sono davvero le condizioni necessarie (finanziamenti, pagamenti, produzione) che consentono, con 1.000 fan di supporto, di pubblicare in modo affidabile sia per divertimento e per profitto. Stratechery è solo un esempio archetipico della validità della teoria dei “1000 True Fans” di Kelly.
Gente come Ben Thompson sta effettivamente scrivendo dei libri. Se si prende un anno dei suoi saggi, si modificano, si accorciano e si affidano a un editor, si avrà una brillante edizione di un libro che potrebbe chiamarsi Un anno di tecnologia. E così, la newsletter a pagamento Stratechery è un libro del futuro quanto lo è un’edizione Kindle.
L’email è una valida alternativa ai social media
L’email è una tecnologia noiosa, semplice e antica. La prima email fu inviata nel 1971 da Ray Tomlinson, cioè quasi mezzo secolo fa. Vecchia ma efficace: a differenza dei follower o dei social media, l’email è ancora qualcosa che non può essere prevaricato dagli algoritmi. Nessuno può portare via a Ben Thompson i suoi abbonati o impedirgli di comunicare con loro. Con l’email non è proprio possibile. L’email è un canale marketing prevedibile
I social media, invece, non sono prevedibili. Gli algoritmi e la funzionalità del servizio hanno la stabilità e la consistenza del magma, poiché le aziende che li controllano perfezionano ritoccano continuamente i meccanismi in cui interagiscono con il pubblico e ricavano valore dagli utenti. Ciò significa che un investimento sui social media può andare a pancia all’aria in breve tempo. Prendiamo, per esempio, un autore come Teju Cole. Il suo uso di Twitter era al tempo stesso leggero e brillante. Ha accumulato così 250mila follower prima di lasciare, nel 2014, il servizio senza troppe cerimonie, forse percependo la crescente radicalizzazione politica della piattaforma che oggi l’affligge. Ha quindi trasferito la sua attività promozionale di social media su Facebook. Oggi, a proposito di questa scelta, dice: “La mia principale esperienza su Facebook è che non ho idea di chi vede cosa. Ho 29.000 persone che seguono la mia pagina. Dubito che più di poche centinaia di loro abbia mai visto ciò che pubblico”. Naturalmente, Facebook consiglia con garbo ai proprietari delle pagine di raggiungere il loro pubblico pagando per la promozione. Considerando lo spostamento demografico degli utenti di Facebook, chissà se il suo pubblico stia davvero consultando la timeline di Cole e vedendo i post a pagamento che, nel frattempo, ha acquistato.
Al contrario, c’è qualcosa di quasi storico nella posta elettronica, che esiste al di fuori del normale flusso del progresso tecnologico. Funziona e ha funzionato, in modo affidabile, per decenni. Non esiste un’autorità centrale di posta elettronica. La maggior parte degli amanti della lettura la usano. Sono convinto che si potrebbe fare a meno di un sito Web, di una pagina Facebook o di un account Twitter e poter avviare una casa editrice solo via email.
La Coffee House Press è un buon esempio: non vado mai sul sito web, né vedo nessuno degli aggiornamenti sui social media, ma adoro le sue e-mail semi regolari e ben ponderate e quasi sempre compro qualcosa quando arrivano. Allo stesso modo, la newsletter dell’editore MCD Books, Electric Eel, è il mio principale vettore per stare al passo con il loro lavoro. MCD Books ha anche scoperto quello che mancava nelle copertine nell’era digitale: un po’ di animazione. Basta un po’ di movimento per attirare l’attenzione di qualcuno che scorre il loro feed.
Se un editore desidera aumentare le email con i social media, Instagram è la scelta migliore. I libri sono visuali: il design delle copertine sta attraversando un’epoca d’oro grazie a designer come Alison Forner, Gray318, Rodrigo Corral, Suzanne Dean e molti altri che producono un lavoro degno di nota.
L’audio
La Biblioteca del Congresso ha iniziato a distribuire libri su cassetta audio già dal 1969, ma gli audiolibri hanno conquistato solo negli ultimi anni una significativa quota del mercato editoriale. Una volta fisici, ora quasi interamente digitali ed effimeri, gli audiolibri sono passati da un qualcosa di irrilevante a generare 2,5 miliardi di dollari di ricavi nel 2017, in crescita del 22% rispetto all’anno precedente.
Sta di fatto che gli smartphone non sono i migliori dispositivi di lettura dei libri digitali (ci sono troppe distrazioni che annullano la concentrazione), ma sono ottimi mezzi per ascoltare un audiolibro, durante, per esempio, il trasferimento al lavoro. I podcast di livello superiore come Serial, S-Town e Homecoming hanno reso popolare l’ascolto su smartphone di audiolibri sceneggiati.
I miglioramenti tecnici che hanno trasformato gli audiolibri in una grande esperienza sono arrivati proprio negli ultimi anni: qualità superiore del suono, migliore durata della batteria e cuffie Bluetooth meno costose hanno inondato il mercato. La facile connettività e la sincronizzazione multi-dispositivo sono onnipresenti. Da agosto 2018 sono stati acquistati 25 milioni di smart home speaker, con un aumento delle vendite del 187 per cento nel secondo trimestre. Ciò è utile perché oltre la metà di tutto il tempo dedicato all’ascolto di audiolibri avviene a casa.
Dal punto di vista della produzione, può essere installato uno studio di registrazione casalingo per meno di 1.000 dollari (anche meno con il bricolage) grazie in parte al boom del podcasting. I canali di distribuzione degli audiolibri sono accessibili a chiunque abbia un file ACX (Audiobook Creation eXchange) da caricare.
Questa escalation di audiobook condivisi era latente da tempo nelle aspettative dei lettori. Nel 2005, il New York Times sosteneva che ascoltare i libri equivaleva quasi a leggerli. A quei tempi, un audiolibro richiedeva l’acquisto di supporti fisici: il Signore degli Anelli richiedeva di destreggiarsi tra 12 audiocassette, un viaggio in libreria, la costante ricarica delle batterie sul Discman. Ora i nostri dispositivi sempre connessi, sempre carichi e sempre collegati ad Audible rendono l’ascolto di un audiolibro privo di sforzi. Si può dire ad Amazon Echo: “Alexa, leggimi Moby Dick”. E così inizia la lettura. La faccenda funziona così bene che il New York Times ha lanciato a marzo la lista degli audiolibri bestseller.
Il pacchetto completo del libro del futuro
Lo scorso agosto è arrivato alla mia porta una scatola che sembrava incarnare l’apoteosi dell’editoria contemporanea. Era il Voyager Golden Record: 40th Anniversary Edition che è stato pubblicato tramite una campagna di crowdfunding. L’edizione includeva un libro di immagini, tre dischi di vinile e un piccolo poster confezionato in uno squisito cofanetto con materiale online supplementare. Quando l’ho consultato, non ho pensato a quanto fosse futuristico, né mi sono lamentato della mancanza di carta digitale o di interattività. Ho pensato: che bel miracolo la pubblicazione di un oggetto come questo. Cioè di un bene prodotto in modo indipendente, complesso e bello, con stampa a caldo su pagine spesse, a colori, in volumi multipli, confezionato in un cofanetto, con dischi di accompagnamento e altri magnifici artefatti, diretto a un pubblico di nicchia e finanziato da geek come me attratti dal romanticismo della conquista dello Spazio.
Eccoci giunti al libro totale del futuro, sempre immaginato in modo frammentato, e invece arrivato nella sua interezza.
C’è bisogno di tanto altro? No!
Le immagini in movimento sono state spesso ritenute essere una parte fondamentale del libro del futuro, sebbene si trovino raramente all’interno di un libro di iBooks o Kindle; eppure esse sono qui. Se si vuole imparare l’ukulele, non si va su Amazon per prenotare una edizione Kindle, si va su YouTube per immergersi in ore e ore di lezione, fermandosi quando necessario, riavvolgendo se necessario. Si impara al nostro ritmo.
Il “Memex” di Vannevar Bush descriveva essenzialmente Wikipedia incorporato in una scrivania.
La “Guida galattica per gli autostoppisti” nell’omonimo libro è un iPhone.
Il libro di sabbia di Borges è un libro infinito: “Fu allora che lo sconosciuto mi disse: ‘Studia bene la pagina, non la vedrai mai più’.” Borges nel 1975 ha descritto la sensazione che si prova a sfogliare le pagine di Internet, a scorrere i post su Twitter o a leggere sul Kindle.
Il libro del futuro è composto da e-mail, tweet, video di YouTube, mailing list, campagne di crowdfunding, convertitori da PDF a mobi, depositi di Amazon e un’ondata di tipografie offset iper-economiche in luoghi come Hong Kong.
Il “libro” è solo il punto finale di una rete di infrastrutture complesse, rese sempre più accessibili a tutti. Anche se il punto di arrivo rimane sempre lo stesso — un’edizione Kindle o un semplice tascabile — l’universo che lo produce, respira il cambiamento e mostra che i libri stanno mutando in modo positivo e inclusivo, anno dopo anno. Il libro del futuro è già qui e continua ad evolversi. Lo stai tenendo in mano. È eccitante. È noioso. È più importante di quanto sia mai stato.
Ma modera il volo della fantasia delle tue aspettative, il libro del futuro è ancora una patata lessa.