Il fallimento della perestrojka di Gorbačëv

di Giuliano Procacci

Mario Mancini
33 min readSep 18, 2022

“Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]

Il terminator Yeltsin al riformatore Gorbačëv: “Leggi la fine dell’Unione Sovietica”

1 L’avvento di Gorbačëv e la perestrojka

Al momento in cui assunse la carica di segretario generale del Pcus Michail Gorbačëv aveva 54 anni, un’età inconsueta per un membro del Politbjuro e ancor più per un segretario generale in un paese da anni abituato a esser governato da una gerontocrazia.

Ma non era soltanto questione di età: se la sua carriera si distingueva da quella di molti suoi colleghi nell’apparato del partito per la sua rapidità — da responsabile dell’organizzazione di partito locale nella natia Stavropol a membro del Comitato centrale nel 1971, a membro candidato del Politbjuro nel 1979 fino a membro effettivo nel 1980 — più egli si distingueva dai suoi colleghi per la sua apertura mentale.

Egli si considerava ed era un marxista, ma il suo marxismo non era certo quello ossificato della dottrina ufficiale, ma al contrario aperto al confronto con altri approcci mentali e altre concezioni del mondo e, come tale, suscettibile di revisione.

In effetti chi segua l’evoluzione intellettuale e politica di Gorbačëv attraverso i suoi scritti e, ciò che conta, i suoi atti, può agevolmente constatare come tale revisione ci fu e come essa sia largamente debitrice alle idee avanzate da Andrej Sacharov nel suo opuscolo del 1968.

Mi riferisco in particolare alla sua concezione della “coesistenza pacifica” intesa non più come convivenza tra due sistemi giustapposti, se non contrapposti, ma come cooperazione tra di essi sino alla convergenza.

Tradotto in termini politici questa apertura mentale implicava anzitutto una consapevolezza della gravità della crisi che la società sovietica attraversava e della radicalità delle decisioni che si imponevano per tentare di superarla.

A cominciare dalla scelta dei collaboratori: in pochi mesi la composizione del Politbjuro venne radicalmente rinnovata.

Ne uscirono personaggi di rilievo quali il ministro degli esteri Andrej Gromyko, quello stesso che aveva proposto la designazione di Gorbačëv, che venne compensato con l’incarico onorifico di presidente del Soviet supremo, Viktor Griscin, che era stato anch’egli candidato alla segreteria generale, e Grigorj Romanov, capo della potente organizzazione di Leningrado e antagonista di Gorbačëv.

Vi entrarono per contro Boris Yeltsin, il capo dell’organizzazione di Sverdlosk, il georgiano Eduard Sevardnadze, che sostituì Gromyko agli esteri, Nikolai Rizhov, Aleksander Jakovlev, che nel 1972 era stato spedito da Breznev a fare l’ambasciatore in Canada, e Ygor Ligačëv, tutti uomini di fiducia del segretario generale.

Anche il Comitato centrale e l’apparato periferico del partito vennero largamente rinnovati. Tra il 1985 e il 1986 vennero sostituiti il 60% dei segretari di obkom e rajkom.

Questo turnover ai vertici non sarebbe peraltro servito a scuotere il torpore in cui era caduta l’opinione pubblica e a restituire credibilità al partito e alle istituzioni se gli indirizzi politici e di governo fossero rimasti gli stessi.

Gorbačëv ne era consapevole e anche in questo caso i segnali della sua determinazione a cambiare non tardarono a essere avvertiti.

Nel giugno 1986 il Glavlit, l’ufficio preposto alla censura, ricevette istruzioni di allentare i freni e ciò consentì la nascita di una serie di nuovi giornali e riviste non allineati sulle posizioni ufficiali, ma anzi sempre più critici nei loro confronti, e la pubblicazione di testi letterari e storici in precedenza vietati, tra i quali II dottor Zivago di Boris Pasternak e Vita e destino di Vasily Grossmann.

L’atto più significativo di questo nuovo disgelo fu il richiamo nel dicembre 1986 dell’accademico Sacharov dal confino di Gor’kij in cui era stato relegato. Non si trattava di un atto di clemenza, ma di riparazione, come Gorbačëv stesso riconobbe quando, poche settimane dopo, chiamò al telefono l’accademico.

Neppure questi e altri segnali erano però sufficienti a restituire fiducia all’opinione pubblica. Diffusa era infatti la sensazione che le cause profonde della crisi in atto fossero da ricercarsi nel sistema politico-istituzionale vigente e nel ruolo di monopolio che in esso spettava al Partito comunista.

Nella relazione che Gorbačëv svolse al XXVII Congresso del partito nel febbraio 1986 troviamo per la prima volta le parole d’ordine cui il suo nome è rimasto associato: perestrojka (ristrutturazione), glasnost’. (trasparenza) e democratizzazione.

Su di esse il segretario generale tornò a insistere nella sua relazione al Plenum del Comitato centrale del gennaio 1987, accompagnandole con proposte concrete circa le procedure elettorali da adottarsi all’interno del partito e nei soviet ai vari livelli, procedure che avrebbero dovuto basarsi sulla segretezza del voto e la pluralità di candidature.

Forti resistenze a tradurre in pratica queste proposte non tardarono però a manifestarsi non solo da parte dei settori più conservatori del partito, ma anche all’interno della ristretta cerchia dei collaboratori più diretti di Gorbačëv e in particolare da parte del responsabile del lavoro ideologico, Ygor Ligačëv.

A quest’ultimo fu affidato l’incarico di svolgere la relazione di apertura del Plenum che si tenne nel febbraio 1988 ed egli non mancò di cogliere l’occasione per mettere in guardia il partito dai rischi che la glasnost’ avrebbe potuto comportare, costringendo Gorbačëv sulla difensiva.

Sempre Ligačëv sarebbe stato l’ispiratore di un articolo apparso nel marzo su di un giornale di Leningrado a firma di una sconosciuta insegnante, Nina Andreeva. Esso era intitolato «sui principi non posso transigere», e i “principi” come appariva chiaramente dal testo, erano quelli dell’ortodossia ufficiale. In tale occasione

Gorbačëv dovette constatare che taluni dei suoi colleghi nel Politbjuro condividevano le preoccupazioni espresse nell’articolo. Fu solo nella XIX conferenza di partito che si tenne alla fine di giugno 1988 che il segretario riuscì a far passare la sua proposta di costituire un Congresso dei deputati del popolo di 2250 membri composto per un terzo da personalità designate da “organizzazioni pubbliche”, incluso ovviamente il Pcus, e per due terzi da quei candidati che nei singoli collegi avessero riportato il maggior numero di voti qualora vi fossero più candidature.

A sua volta il Congresso avrebbe dovuto eleggere un Soviet supremo. Non si trattava soltanto di un’innovazione rispetto al sistema elettorale vigente, che escludeva di fatto una pluralità di candidature, ma anche e soprattutto, per usare l’espressione contenuta nella relazione introduttiva, di una «riforma del sistema politico».

È evidente infatti che il ruolo del partito nel sistema sovietico ne risultava ridimensionato e che il baricentro del potere veniva in prospettiva a spostarsi dal partito allo stato. Che così fosse apparve del resto confermato dalla tornata elettorale che si svolse nel marzo 1989.

Parecchi esponenti locali del partito vennero bocciati dagli elettori e, se era vero che l’80% degli eletti erano membri del Partito comunista, era anche vero che essi, come i fatti dimostreranno, non avvertivano questa loro appartenenza come un vincolo alla libera espressione delle loro convinzioni.

Ciò apparve chiaro sin dalla prima seduta del Congresso che si tenne dal 25 maggio al 9 giugno e che fu seguita per televisione da decine di milioni di cittadini.

Anche dopo l’approvazione del nuovo sistema elettorale l’assetto istituzionale rimaneva ancora malcerto e ibrido e la linea di demarcazione tra le competenze del partito e quelle dello stato rimaneva vaga.

Il ruolo dirigente del partito era infatti sancito dall’articolo 6 della Costituzione del 1977. La proposta di abolirlo promossa da Sacharov e da alcuni deputati nel corso della seconda sessione del Congresso fu respinta con una maggioranza di 1138 voti contro 839 e sarà solo nel febbraio 1990 che, su iniziativa di Gorbačëv, essa sarà approvata dal Comitato centrale e ratificata dal Congresso.

Per ora quello “stato di diritto” che il segretario aspirava a costruire rimaneva ancora una mèta da raggiungere. Ciò non toglie che quel tanto di istituzioni democratiche esistenti oggi in Russia abbia la sua origine nel periodo precedente la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

2 Verso la fine della seconda guerra fredda

Gorbačëv era del tutto consapevole che l’esperimento riformatore in cui si era impegnato non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se l’Unione Sovietica non fosse riuscita ad alleggerire il gravame costituito dalla spesa militare e dagli impegni da essa assunti in varie parti del mondo, a cominciare dall’Afghanistan, dove si combatteva ormai da 6 anni una guerra senza prospettive di una soluzione negoziata e tanto meno di vittoria.

Già nel Plenum del Comitato centrale dell’aprile 1985, il primo dopo l’elezione di Gorbačëv, il problema del ritiro delle truppe dall’Afghanistan venne preso in considerazione. Una decisione definitiva in questo senso venne presa dal Politbjuro nel novembre 1986. Essa venne per il momento tenuta segreta e fu resa pubblica solo nell’aprile 1988.

Già nel settembre 1987 essa era stata peraltro comunicata a Washington in occasione di un incontro tra il ministro degli esteri Sevardnadze e il segretario di stato Schultz, il che peraltro non impedì a Reagan di continuare a inviare aiuti militari ai mujaheddin afghani.

Il ritiro delle truppe ebbe inizio nel maggio 1988. A questa stessa data, in occasione del vertice di Mosca, Gorbačëv comunicava a Reagan la disponibilità della parte sovietica al ritiro delle truppe cubane dall’Angola. Successivamente, nel maggio 1989, egli comunicava al nuovo presidente americano Bush la sospensione di invio di armi al governo sandinista del Nicaragua.

Una quota consistente della spesa militare sovietica era quella assorbita dal mantenimento di un cospicuo contingente lungo la frontiera con la Cina a ridosso della quale erano stati istallati, a partire dal 1983, 279 missili a portata intermedia.

La disponibilità manifestata da Gorbačëv a ridurre il numero delle truppe dislocate in Mongolia, lo smantellamento nell’ambito del trattato INF nel dicembre 1987 dei missili dispiegati in Asia e l’annuncio del ritiro dall’Afghanistan resero possibile una normalizzazione delle relazioni tra i due paesi, che sarà suggellata dalla visita che Gorbačëv effettuerà a Pechino nel maggio 1989.

Per ciò che concerne infine i paesi satelliti dell’Europa orientale e centrale, sin dal novembre 1986 i leaders dei rispettivi partiti comunisti erano stati avvertiti di non contare su un intervento sovietico per mantenersi al potere. Ciò equivaleva all’abbandono della dottrina Breznev sulla sovranità limitata e di questo gli americani erano certamente al corrente.

È ovvio peraltro che il principale nodo da sciogliere sulla via di una politica di disarmo rimaneva quello delle relazioni tra le due superpotenze ed è altrettanto ovvio che si trattava di un nodo estremamente intricato.

Il contenzioso era infatti quanto mai sovraccarico: esso comprendeva, come si è visto, la questione tuttora pendente dei missili a portata intermedia (INF), quella del trattato ABM del 1972 che, a giudizio della parte americana, i sovietici non avevano rispettato, il trattato Salt II sospeso in attesa della ratifica da parte del Senato americano e al quale nel maggio 1986 il presidente Reagan aveva dichiarato di non sentirsi più vincolato, i negoziati per il trattato per la riduzione delle armi strategiche (Start) anch’essi pendenti dal 1982, quelli di Vienna sulla riduzione bilanciata delle forze di terra in Europa (MBFR) e infine, incombente su tutto, il progetto reaganiano della SDIe delle cosiddette “guerre stellari”. Insomma un intreccio di tavoli e di sigle estremamente aggrovigliato.

Alle difficoltà oggettive si aggiungevano poi quelle di natura soggettiva. L’intransigenza di Reagan nei confronti delll’“impero del male” era condivisa dalla maggioranza dei suoi più diretti collaboratori e in particolare dagli ambienti del National Security Council, dal direttore della CIA William Casey e dal segretario alla difesa Caspar Wenberger fino a che nel 1987 non fu sostituito da Frank Carlucci.

Un approccio più realistico e più professionale era invece quello del segretario di stato George Schultz. Anche l’Unione Sovietica aveva però i suoi falchi e non solo tra i militari, la cui influenza politica, come si è visto, era venuta crescendo nel ventennio brezneviano, ma anche nel partito e nello stesso Politbjuro.

Avverso a eccessive concessioni agli americani era naturalmente Ygor Ligačëv, ma egli non era il solo tra i membri del Politbjuro e del Comitato centrale a nutrire perplessità. Ciò non impedì peraltro a Gorbačëv e al suo fidato ministro degli esteri Sevardnadze di procedere decisamente sulla via della ricerca di un accordo.

L’agenda dei possibili negoziati era stata già messa a punto nel corso di un incontro tra Gromyko e il segretario di stato Schultz a Ginevra il 7–8 gennaio 1985. Essa comprendeva tre tavoli, rispettivamente sulle trattative INF, sul progetto di trattato Start e sull’iniziativa di difesa strategica e le armi spaziali. La data fissata per l’inizio dei negoziati era quella del 12 marzo.

Nei mesi che trascorsero tra il gennaio e il luglio 1985 le relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica ebbero un andamento altalenante e interlocutorio nel corso del quale dichiarazioni incoraggianti da una parte e dall’altra si inframezzarono a momenti di tensione e incidenti diplomatici, finché il 3 luglio a Mosca e a Washington venne dato l’annuncio che Reagan e Gorbačëv si sarebbero incontrati a Ginevra nei giorni 19 e 20 novembre.

Nel comunicato che venne emesso al termine dei lavori le parti affermavano la loro comune volontà di impedire che tra di esse scoppiasse una guerra, le cui conseguenze sarebbero stata catastrofiche e il reciproco impegno a «non ricercare di ottenere una superiorità militare».

A parte queste solenni, ma generiche affermazioni, il comunicato non registrava progressi significativi nelle singole questioni controverse e si limitava a delle dichiarazioni di buona volontà. Tuttavia il vertice di Ginevra segnava una svolta rilevante nelle relazioni tra le due superpotenze.

Per la prima volta infatti, a quasi sette anni dal vertice di Vienna tra Breznev e Carter e dall’inizio della seconda guerra fredda, i leader dei due paesi si erano incontrati, si erano conosciuti e si erano scambiati l’invito a visitare le rispettive capitali. Il dialogo era dunque stato riannodato.

Nel settembre Schultz e Sevardnadze tornarono infatti ad incontrarsi a Washington e il 30 settembre venne dato l’annuncio di un nuovo incontro tra Reagan e Gorbačëv che si sarebbe svolto a Reykjavik l’11 e il 12 ottobre.

Questa volta si entrò più a fondo nel merito delle singole questioni e si registrarono dei significativi avvicinamenti per ciò che concerneva la trattativa INF, la riduzione dei missili balistici intercontinentali (ICNM) e la proroga del trattato ABM chiesta dai sovietici. Lo scoglio sul quale i negoziati si arenarono fu quello della SDI, sulla quale la parte americana mantenne una posizione di intransigenza.

Per Gorbačëv, che aveva fatto assegnamento su di un successo per consolidare la propria posizione interna, Reykjavik fu indubbiamente uno scacco. Non per questo egli fu indotto, come non pochi gli suggerivano, a irrigidirsi, ma anzi a perseguire l’obiettivo del disarmo anche a costo di ulteriori concessioni.

Nel febbraio 1987 egli avanzò pubblicamente la proposta di eliminare tutti i missili a portata intermedia senza far più alcuna connessione con la SDI e neppure con la questione dei missili francesi e inglesi, che era stata sollevata in passato. Era in pratica l’accettazione dell’opzione zero proposta da Reagan sin dal 1981 e costituiva perciò una proposta cui la parte americana ben difficilmente poteva sottrarsi.

Nel corso del mese di novembre Schultz e Sevardnadze misero a punto i termini di un trattato che venne firmato a Washington l’8 dicembre a conclusione di un nuovo vertice (il terzo in un anno) tra i due leader. Esso prevedeva entro tre anni la distruzione di tutti i missili a breve e media portata e dei loro dispositivi di lancio in possesso delle due parti. Si trattava per più aspetti di una novità, se non di uno sfondamento intellettuale nella concezione delle relazioni tra le due superpotenze.

Per la prima volta infatti non ci si limitava a rallentare o a regolamentare la corsa al riarmo, ma con la decisione di distruggere i missili se ne invertiva il corso, conseguendo un risultato immediatamente percepibile da parte dell’opinione pubblica internazionale e che non mancò di essere percepito. Inoltre per la prima volta da parte sovietica era stato accettato il criterio dei controlli in loco sulle misure da prendersi per l’attuazione del trattato, rinunciando così a quel tabù della segretezza che aveva costituito uno dei principali ostacoli nelle relazioni tra le due superpotenze. Nel corso del vertice di Washington progressi vennero anche realizzati nelle trattative Start.

A un clima di diffidenza reciproca era quindi subentrato un clima di relativa fiducia e se ne ebbe una conferma nel corso del successivo vertice che si tenne a Mosca tra la fine di maggio e i primi di giugno 1988.

Questo nuovo incontro non produsse risultati di rilievo, ma fu contraddistinto da un’inconsueta atmosfera di cordialità e reciproco rispetto. Fu nel corso di esso che alla domanda se egli ritenesse ancora l’Unione Sovietica l’impero del male Reagan rispose: «No. Parlavo di un altro tempo, di un’altra era».

Più o meno sincera fosse questa risposta, essa era condivisa dalla grande maggioranza dei cittadini americani ed europei. I sondaggi assegnavano a Gorbačëv degli indici di popolarità assai elevati e ogni suo viaggio all’estero dava luogo a un bagno di folla. La rivista Time lo proclamava uomo dell’anno e nel 1990 verrà insignito del premio Nobel per la pace.

Nel dicembre egli si recò nuovamente negli Stati Uniti per pronunciare davanti all’assemblea dell’Onu un discorso nel quale si proponeva di illustrare i principi che erano alla base delle sue scelte in politica estera e della sua concezione del mondo. In esso non vi era traccia della tradizionale e stantia concezione della divisione del mondo in due campi, condannati a coesistere finché l’uno avesse prevalso sull’altro.

L’elemento di continuità con la tradizione del pensiero socialista era piuttosto rappresentato dal respiro internazionalista che percorreva tutto il testo del discorso. Il suo Leitmotiv era infatti un appello alla cooperazione tra gli stati non solo al fine di prevenire un conflitto nucleare, ma anche e soprattutto per affrontare le sfide che un mondo sempre più interdipendente poneva all’umanità intera, le sfide della fame, del sottosviluppo, dell’ambiente.

Erano questi concetti che Gorbačëv aveva già esposto nei suoi scritti e in particolare nel suo volume sulla perestrojka, ma enunciati qui, nel più alto consesso internazionale, essi assumevano il valore di un impegno politico. L’annuncio da lui dato nella parte finale del discorso che l’Unione Sovietica avrebbe ritirato nei successivi due anni 500.000 soldati, tra cui sei divisioni corazzate stanziate nell’Europa centrale, conferiva credibilità a questo impegno.

Alla data in cui Gorbačëv pronunciava il suo discorso alle Nazioni Unite il muro di Berlino era ancora in piedi, ma le sorti della seconda guerra fredda erano ormai segnate. La posizione negoziale dell’Unione Sovietica nelle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti e nel complesso delle relazioni internazionali appariva indebolita.

Era essa infatti che nelle trattative intercorse aveva dovuto fare le concessioni maggiori, mentre da parte americana ci si era sostanzialmente limitati a incassare queste stesse concessioni: l’accettazione dell’opzione zero, il ritiro di parte delle truppe dal teatro europeo, ma soprattutto l’evidente disponibilità a farne delle altre, come di fatto avverrà, su altri tavoli negoziali. Non solo il prestigio politico dell’Urss, ma anche lo stesso prestigio militare dell’Armata rossa appariva compromesso dopo la sconfitta nell’Afghanistan.

Di tutto ciò Gorbačëv era consapevole. Eppure il suo linguaggio era quello di chi riteneva di avere l’autorevolezza e la forza necessarie a rendere credibile il grande disegno che egli veniva esponendo. Sarebbe ingeneroso leggere il suo discorso come tentativo di occultare le proprie difficoltà e un modo per mascherare la propria debolezza, oppure come un Sos.

Oppure ancora come una manifestazione di ingenuo idealismo. Con il senno del poi ci pare più giusto considerarlo il testamento politico da lui lasciato a una comunità internazionale finalmente sottratta, grazie anche alle sue scelte, sia ai rischi che alla rete protettiva del bipolarismo e avviata a navigare in un mare incognito.

3 La crisi della perestrojka

Che il macchinoso apparato dell’economia sovietica dovesse essere riformato nel senso di un suo snellimento e di un suo decentramento era, come si è visto, convinzione consolidata negli ambienti intellettuali e politici dell’Unione Sovietica.

La consapevolezza dei rischi che questa operazione comportava aveva però, come pure si è visto, impedito che si passasse dalle parole ai fatti.

L’avvento di Gorbačëv alla segreteria segnò però una svolta anche nella politica economica. Tutti i componenti della sua equipe erano infatti decisi ad affrontare questi rischi e determinati ad attuare la riforma.

Un ulteriore sprone in questo senso venne loro dalla catastrofe della centrale nucleare di Cernobyl del 26 aprile 1986 non soltanto per la gravità dell’evento, ma anche e soprattutto per il retroterra di inefficienza, di disorganizzazione e di omertà che esso mise in luce.

Passarono infatti giorni prima che il governo riuscisse a ottenere dalle autorità locali delle informazioni esaurienti e fosse in grado di fornire a un’opinione pubblica internazionale giustamente allarmata un quadro della situazione.

Né Gorbačëv, che aveva fatto degli studi di giurisprudenza, né la maggior parte dei suoi più diretti collaboratori, tranne Nikolai Rizhov, possedevano specifiche competenze in materia economica ed erano perciò all’altezza di affrontare un compito così impegnativo. Si trattava infatti di conciliare i criteri dell’efficienza con le istanze della partecipazione e ciò non è stato mai una cosa facile.

Le principali riforme da essi varate tra il 1987 e gli inizi del 1988 furono tre. Una prima concerneva il settore dell’industria ed era intesa a riconoscere alle singole imprese un consistente margine di autonomia decisionale e finanziaria. Essa riconosceva inoltre ai lavoratori la facoltà di eleggere i loro rappresentanti.

Una seconda concerneva l’agricoltura e prevedeva la concessione in affitto a singoli o ad associazioni di contadini di appezzamenti di terra con il diritto di commercializzarne i prodotti. Una terza infine autorizzava e incoraggiava la costituzione di cooperative nei settori dei servizi e del commercio.

Nessuna delle tre produsse i risultati che si attendevano o si speravano. Nel settore industriale il principale effetto della riforma fu quello di un sensibile aumento dei salari, non compensato però dall’aumento della produttività. In quello agricolo i contadini che lasciarono il loro kolchoz per mettersi in proprio furono un’esigua minoranza e la produzione, dopo il raccolto record del 1983, continuò a ristagnare con la conseguenza che un quinto del consumo della popolazione doveva essere ricoperto con le importazioni.

Per quanto concerne infine le cooperative i risultati furono ancor più deludenti. Esse costituirono infatti il tramite attraverso il quale l’economia ombra e la speculazione riuscirono ad allargare il loro spazio nel mercato e ad alimentare per questa via gli inizi di un processo inflattivo.

Con il passare dei mesi la situazione, anziché migliorare, si deteriorava sempre più. A partire dal 1988 numerosi generi di consumo vennero razionati e le vetrine dei negozi erano sempre più vuote. Il rublo cominciava a perdere di valore e i taxisti di Mosca chiedevano di essere pagati in moneta straniera e, suppongo, anche le sempre più numerose prostitute.

Nel corso del 1989 in due riprese, in luglio e in ottobre, i minatori del Kusbass, del Donbass e di altri bacini scesero in sciopero ottenendo consistenti aumenti salariali. Il clima dominante nel paese era tuttavia quello dell’apatia e della rassegnazione. Segnali di allarme venivano però dalle repubbliche della periferia.

Il primo di questi segnali si accese nell’Azerbajdzan, dove nel febbraio 1988 ebbero luogo violenti scontri tra la minoranza armena che viveva nella regione montuosa del Nagornyi Karabach e la maggioranza azera, nel corso dei quali molti armeni persero la vita.

Aveva così inizio un conflitto che sarebbe durato a lungo con grandi spargimenti di sangue. Nell’estate un conflitto analogo tra la maggioranza usbeka e la minoranza dei turchi mesketi si produceva nella valle della Fergana, in Uzbekistan. Si trattava in questi casi di scontri tra due etnie non russe e non slave.

Vi erano però altre repubbliche nelle quali i contrasti etnici opponevano la popolazione indigena a quella russa residente sul posto e quindi finivano per investire il rapporto tra le singole repubbliche e il governo centrale di Mosca.

È questo il caso, all’estremo Sud del paese, della Georgia dove nell’aprile 1989 la polizia e l’esercito aprirono il fuoco su dei manifestanti indipendentisti facendo 20 morti. Da allora la conflittualità fu la regola ed essa non cesserà neppure quando, nell’aprile 1991, alla Georgia verrà riconosciuta l’indipendenza. Gli scontri continuarono infatti tra la maggioranza georgiana e la minoranza abkhaza.

Un’altra area di conflitti etnici era, all’estremo nord del paese, quella del Baltico, la cui annessione all’Unione Sovietica risaliva a una data relativamente recente, il 1940.

Nell’agosto 1987, in occasione dell’anniversario del patto Ribbentrop-Molotov del 1939, nelle tre repubbliche baltiche si svolsero imponenti manifestazioni di protesta e nel giugno 1988 si costituiva in Lituania il movimento nazionalista Saljudis mentre in Estonia e Lettonia si costituivano dei “fronti popolari”.

In un primo tempo sia l’uno che gli altri non avanzarono la rivendicazione dell’indipendenza, ma si limitarono a chiedere il ritiro delle truppe sovietiche stanziate sui loro territori, ma già nella primavera 1989 i tre stati baltici proclamavano la loro “sovranità”, vale a dire il rifiuto di applicare le leggi emanate da Mosca. Dalla “sovranità” all’indipendenza il cammino, come vedremo, sarà breve.

Sia la Georgia sia i paesi baltici, entrambi situati alla periferia dell’Unione, costituivano però dei casi limite. Né le repubbliche dell’Asia centrale né tanto meno l’Ucraina e la Bielorussia davano per ora segni consistenti di volersi staccare da Mosca. Pochi nella prima metà del 1989 avrebbero potuto prevedere che di lì a due anni l’Unione Sovietica si sarebbe disgregata. Ma il corso degli eventi era ormai entrato in una fase di brusca accelerazione.

4 La riunificazione tedesca

Il 9 novembre 1989 crollava il muro di Berlino. L’evento è stato comprensibilmente assunto per la sua la valenza simbolica come uno spartiacque storico. In realtà esso non solo non segnò la fine della seconda guerra fredda la cui miccia, come si è visto, era già stata in gran parte disinnescata, ma neppure della liberazione dei paesi satelliti dal dominio sovietico, ma semmai il suggello finale.

Nel novembre 1989 il processo di emancipazione dall’Urss nei paesi dell’Europa orientale e centrale era ormai avanzato.

Al momento della caduta del muro la Polonia non aveva più un governo comunista. In seguito al risultato delle elezioni del giugno che videro un’affermazione di Solidarnosc vi si era infatti insediato nell’agosto un governo di coalizione guidato da un esponente del dissenso, Tadeusz Mazowiecki.

Nel gennaio l’Ungheria aveva cessato di essere una “repubblica popolare” per divenire semplicemente una repubblica e al regime monopartitico era subentrato un sistema pluripartitico in attesa del verdetto elettorale del 1990 che sarà favorevole al blocco dei partiti di opposizione.

Anche in Cecoslovacchia il regime comunista era ormai agonizzante e persino in Bulgaria esso traballava. Soltanto in Romania il dittatore Ceausescu rimase aggrappato al potere sino al dicembre, quando fu rovesciato da una sollevazione popolare e giustiziato.

Se si eccettua il caso romeno, in tutti i paesi ex-satelliti la transizione alla democrazia avvenne dunque pacificamente. Ciò fu possibile per vari motivi. In primo luogo perché le loro economie avevano ormai raggiunto un notevole grado di integrazione con il mercato internazionale. Per rilanciarle, tutti i paesi satelliti avevano fatto largamente ricorso ai prestiti esteri.

In particolare la Polonia figurava tra i paesi più indebitati del mondo, secondo solo ai paesi latino-americani. Ora i creditori, si trattasse del FMI o di banche estere, facevano pressione perché si abolissero le bardature dell’economia pianificata e perché si adottasse una politica economica più rigorosa.

Il graduale passaggio a un’economia di mercato diveniva pertanto un itinerario quasi obbligato. Occorreva però che esso fosse gestito da un personale politico e imprenditoriale responsabile, competente e preparato ad affrontare il difficile compito della transizione. Tale personale esisteva ed era costituito sia dagli esponenti del dissenso e dell’emigrazione sia da esponenti e quadri dell’establishment.

Occorre infine aggiungere che questa transizione difficilmente avrebbe potuto realizzarsi pacificamente, se Gorbačëv non avesse mantenuto l’impegno a non interferire nei processi in corso nei singoli paesi.

L’applicazione di questo criterio del non intervento alla RDT poneva all’Unione Sovietica dei problemi assai gravi. Si comprende infatti come per un paese che aveva perduto 20 milioni di uomini nella guerra contro l’aggressore tedesco la prospettiva di una Germania riunificata, per la quale il cancelliere Kohl, in coerenza con le posizioni che aveva sostenuto da sempre si batteva strenuamente, venisse percepita come una sconfitta, anzi un’umiliazione.

Se poi non solo questo obiettivo fosse stato raggiunto e la Germania unificata avesse continuato a essere membro della Nato, allora l’umiliazione sarebbe stata ancora più bruciante e la posizione di Gorbačëv ne sarebbe risultata ulteriormente indebolita e con essa le sorti della perestrojka.

Se ne rendeva conto Margaret Thatcher, che di ritorno da un viaggio in Estremo Oriente sostò a Mosca per comunicare a Gorbačëv le sue preoccupazioni, e se ne rendeva conto François Mitterrand che volle incontrarlo a Kiev.

Interessato al successo del tentativo riformatore di Gorbačëv era anche il segretario di stato americano James Baker, ma la prospettiva di un’uscita dalla Nato del più forte alleato sul continente europeo non era tale da poter essere accettata dalla nuova amministrazione del presidente Bush.

La questione tedesca costituì uno dei temi in discussione nel vertice interinale di Malta del 2 e 3 dicembre 1989, che si concluse peraltro senza che da una parte o dall’altra si assumessero impegni precisi. Fu al successivo vertice di Washington (31 maggio-3 giugno 1990) che la parte americana mise le carte in tavola pronunciandosi per la riunificazione e per la permanenza della Germania nella Nato e offrendo contestualmente alla controparte sovietica una serie di garanzie.

Tra di esse le principali erano il ribadito impegno tedesco a rinunciare al possesso di armi nucleari, chimiche e biologiche, l’accettazione dei confini esistenti, il consenso alla permanenza di truppe sovietiche nella parte orientale del paese per un periodo di qualche anno e l’impegno a concorrere al loro finanziamento e a provvedere al loro alloggiamento una volta rientrate in patria.

Tali proposte furono al centro della conferenza “2 più 4” (così definita perché furono chiamate a parteciparvi le quattro potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e i rappresentanti delle due Germanie) che, convocata per iniziativa sovietica, iniziò i suoi lavori nel maggio 1990 e furono fatte proprie dal vertice dei paesi Nato che si tenne a Londra nel luglio.

Il 16 luglio Gorbačëv comunicava a Kohl in visita nell’Urss l’assenso sovietico alla permanenza della Germania unificata nella Nato ricevendone l’impegno, che sarà poi ratificato nel novembre dal summit della Csce di Parigi, di ridurre entro il 1994 i suoi effettivi militari di 370.000 uomini. Il 2 dicembre si tennero in Germania elezioni generali che segnarono un trionfo per Kohl.

La Cdu e la Csu ottennero infatti il 44,3% nella parte occidentale del paese e il 41,8% nella ex RDT. L’unificazione della Germania era così anche formalmente un fatto compiuto.

5 La disgregazione dell’Urss

Nel giro di un anno l’assetto politico dell’Europa aveva dunque conosciuto radicali modifiche, in conseguenza delle quali il prestigio dell’Unione Sovietica risultava ulteriormente menomato e con esso quello del suo leader. Quanto più popolare era all’estero, tanto più Gorbačëv era impopolare in patria.

I suoi critici più severi erano alcuni esponenti degli ambienti militari che non avevano certo gradito le concessioni fatte a quella Germania contro la quale avevano combattuto, ma anche nel partito e nel Congresso erano numerosi coloro che nutrivano riserve o avversavano la linea di politica estera seguita dal segretario.

Via via che la situazione economica si faceva sempre più pesante anche la politica interna del segretario generale diveniva sempre più controversa. Diverse, anzi opposte, erano però le motivazioni delle critiche che gli venivano rivolte. Se Ligačëv e coloro che ne condividevano gli orientamenti si mostravano preoccupati per uno zelo riformatore che essi giudicavano eccessivo, molti intellettuali e vari esponenti politici lo criticavano al contrario per la prudenza e la lentezza con cui a loro giudizio egli procedeva nell’attuazione della perestrojka.

Il dibattito all’interno del partito si manifestò in tutta la sua asprezza nel corso del suo XXVIII (e ultimo) congresso che si tenne nel luglio 1990. Alla fine Gorbačëv ottenne una larghissima maggioranza e fu riconfermato nel suo incarico, ma la sua posizione appariva ormai fortemente indebolita e ancor più quella del partito del quale egli era il leader.

Nel marzo 1991 i minatori scesero nuovamente in sciopero e la situazione economica entrò in una fase di progressivo deterioramento al punto che alla fine dell’anno la produzione industriale risultò in calo del 18% e quella agricola del 17%. Un piano faticosamente elaborato nell’autunno 1990 che si proponeva di risanare l’economia del paese convertendola al mercato nello spazio di 500 giorni si rivelò presto velleitario e irrealizzabile e fu lasciato cadere.

Né si poteva fare assegnamento sui prestiti esteri. Se la Germania di Kohl si mostrava disponibile, meno lo erano gli Stati Uniti. Nel marzo 1990 essi avevano bloccato un prestito all’Urss da parte della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (ERBD) e nel luglio 1991 la richiesta di un prestito da parte del FMI avanzata da Gorbačëv a Londra in occasione del vertice dei G7 ricevette solo delle promesse.

A questa data l’Unione Sovietica continuava a non usufruire della clausola della nazione più favorita che pure le era stata da tempo promessa ed erano ancora in vigore alcuni vincoli alle esportazioni previsti dal COCOM.

È nel contesto di questa crisi che irrompe sulla scena politica la figura di Boris Yeltsin. Chiamato a far parte del Politbjum nel luglio 1985, nella sua qualità di segretario del comitato cittadino di partito di Mosca, egli aveva acquisito una notevole popolarità per l’ostentata spregiudicatezza con cui aveva condotto la lotta contro la corruzione e a lui molti guardavano come al paladino della perestrojka.

La sua personalità estroversa non era gradita a molti suoi colleghi e nel novembre 1987 egli fu costretto a dimettersi dal suo incarico moscovita e nel febbraio 1988 dal Politbjuro.

Egli però non si dette per vinto e si presentò candidato nelle elezioni al Congresso del marzo 1989. Plebiscitato dagli elettori moscoviti, egli riuscì a superare gli ostacoli burocratici e politici che si frapponevano alla convalida della sua elezione e non tardò a divenire una delle figure preminenti del cosiddetto “gruppo interregionale” cui facevano capo circa 300 deputati.

Egli non aveva specifiche competenze economiche e nella sua autobiografia non vi è traccia di un pensiero politico nutrito di convinzioni consolidate. Egli possedeva però l’ambizione e l’istinto di un autentico animale politico. La carta sulla quale egli puntò tutte le sue carte fu quella del nazionalismo russo e a questa bussola egli orientò tutte le sue successive scelte in una graduale escalation verso il potere.

Nel marzo 1990 egli si candidò infatti nel collegio di Sverdlovsk, la città da cui proveniva e in cui aveva iniziato la sua carriera politica, per le elezioni al parlamento della Repubblica russa ottenendo anche in questa occasione una maggioranza schiacciante.

Eletto alla presidenza di questa assemblea, nel giugno egli si fece promotore di una dichiarazione con la quale la Russia proclamava la sua “sovranità”, una formula che equivaleva a dire che essa non riconosceva altre leggi che le proprie. Nel luglio, al termine del congresso comunista, egli annunciò le sue dimissioni dal partito e infine nel marzo 1991 fece indire un referendum per l’elezione popolare diretta del presidente della Russia che ottenne il 70% dei consensi.

Si trattava di un referendum fatto su misura per la sua persona e infatti nelle conseguenti elezioni presidenziali egli prevalse sui suoi antagonisti con il 57% dei voti. Di fatto egli si comportava già come un capo di stato e nel giugno 1991, in occasione di un suo secondo viaggio negli Stati Uniti, venne ricevuto alla Casa Bianca.

Così facendo egli non solo legittimava, ma incoraggiava, se non costringeva, anche le altre repubbliche a seguire il suo esempio. E di fatto così fu: tra giugno e dicembre nell’ordine si proclamarono “sovrane” l’Uzbekistan, la Moldavia, l’Ucraina, la Bielorussia e via via le repubbliche dell’Asia centrale.

Quanto ai paesi baltici, essi erano già avviati sulla via dell’indipendenza. A imprimere una forte accelerazione a questa rivendicazione avevano concorso in maniera decisiva gli incidenti sopravvenuti il 13 gennaio 1991 nella città di Vilnius, nel corso dei quali 13 manifestanti persero la vita sotto il fuoco dell’esercito. Nel febbraio e in marzo nelle tre repubbliche baltiche si svolsero delle consultazioni referendane nelle quali gli elettori si pronunciarono con larga maggioranza per l’indipendenza.

Nell’aprile Kohl e Mitterand, con il consenso americano, scrissero al presidente lituano Landbergis di sospendere la dichiarazione di indipendenza. La loro richiesta fu accolta ma, come vedremo, si trattò soltanto di una dilazione.

A questo processo di graduale disgregazione Gorbačëv, che dal marzo 1990 cumulava la carica di presidente dell’Unione Sovietica con quella di segretario del partito, reagì nel marzo 1991 indicendo un referendum con il quale si chiedeva agli elettori di pronunciarsi sulla «preservazione dell’Urss come rinnovata federazione di repubbliche eguali e sovrane».

Il responso delle urne fu largamente affermativo e nelle repubbliche asiatiche addirittura plebiscitario. Incoraggiato da questo successo, Gorbačëv convocò nell’aprile nella località di Novo Ogarevo un incontro al quale parteciparono 9 presidenti di repubblica, Russia inclusa ed esclusi gli stati baltici e la Georgia che non accolsero l’invito.

Nel corso di esso venne elaborato e approvato il progetto di un trattato che avrebbe dovuto entrare in vigore il 20 agosto, in base al quale alle repubbliche veniva riconosciuta autonomia e indipendenza, restando all’Unione le sole competenze in materia di politica estera, della difesa e di coordinamento economico.

Si trattava però di un successo solo apparente. Di fatto non solo l’autorevolezza, ma la stessa autorità del presidente dell’Urss erano sempre più poste in questione. I suoi più diretti collaboratori venivano via via prendendo da lui le distanze: nel dicembre 1990 Sevardnadze dette le dimissioni da ministro degli esteri e nel febbraio 1991 fecero altrettanto i suoi consiglieri Aleksandr Jakovlev, Evgenij Primakov e Yurij Satalin. Nel febbraio 1991 Sevardnadze e Jakovlev si dimisero anche dal partito.

Per contro l’offensiva dei suoi avversari si faceva sempre più incalzante. Yeltsin in particolare sollecitò ripetutamente le sue dimissioni e Gorbačëv stesso fu in procinto di darle quando, nel Comitato centrale del Pcus di fine aprile, dovette subire nuovi attacchi da parte dei conservatori. Ne fu dissuaso soltanto da una petizione in suo favore promossa da Bakatin e firmata da 69 membri del Comitato.

Ormai i poteri del presidente dell’Urss erano più virtuali che reali. L’ultimo atto rilevante di Gorbačëv in questa veste fu la firma a Mosca alla fine di luglio del trattato Start, in base al quale Urss e Usa si impegnavano a operare riduzioni nei rispettivi arsenali di armi strategiche che ne riportavano il livello approssimativamente a quello del 1982. Come quello di Novo Ogarevo, anche questo era un trattato destinato ad avere vita breve. Una delle parti contraenti avrebbe infatti di lì a pochi mesi cessato di esistere.

Il 18 agosto, alla vigilia dell’entrata in vigore del trattato di Novo Ogarevo, Gorbačëv, che si trovava in vacanza con la famiglia in Crimea, ricevette la vista del suo assistente personale Valerij Boldin e di altri personaggi che gli chiesero di rimettere i poteri al suo vice Janaev, richiesta alla quale egli oppose un fermo rifiuto.

Frattanto a Mosca lo stesso Janaev, il primo ministro Pavlov, il ministro della difesa Jasov, il capo del Kgb Krjuckov e il ministro degli interni Pugo annunciavano di essersi costituiti in un comitato di emergenza.

Si trattava di fatto di un colpo di stato, ma ad esso mancarono quei requisiti di tempestività e radicalità nelle decisioni e nell’esecuzione che la tecnica del colpo di stato richiede. I telefoni di Mosca e i fax non vennero messi sotto controllo, le televisioni straniere poterono effettuare le loro riprese e soprattutto i principali esponenti dell’opposizione vennero lasciati liberi e furono perciò in grado di organizzare la resistenza.

Una folla di decine di migliaia di moscoviti si radunò attorno all’edificio del Soviet supremo — la cosiddetta Casa Bianca — dove si erano trincerati Yeltsin e i deputati radicali. Trascorsero due giorni di frenetiche trattative e di estrema tensione, ma alla fine i golpisti dovettero gettare la spugna e furono arrestati.

Il 22 agosto Gorbačëv poteva tornare a Mosca, ma il suo prestigio era ulteriormente scemato. Da più parti gli si rimproverava di essersi circondato di collaboratori che alla prova dei fatti si erano rivelati inaffidabili e il giorno seguente il suo ritorno a Mosca Yeltsin, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella sconfitta del golpe e la cui popolarità era allo zenith, non mancò di rinfacciarglielo nel corso di una drammatica seduta del Soviet supremo della repubblica russa, infliggendogli una cocente umiliazione davanti a milioni di telespettatori.

In realtà Gorbačëv aveva anch’egli contribuito al fallimento del golpe essendosi, come si è visto, rifiutato di cedere i suoi poteri. Era però anche vero che il partito di cui egli era il segretario aveva mantenuto nei giorni del golpe e in sua assenza un atteggiamento ambiguo e che di esso i golpisti erano membri.

La decisione presa da Yeltsin il 23 agosto di sospendere le attività del Partito comunista non mancava di motivazioni valide e lo stesso Gorbačëv dovette prenderne atto il giorno seguente, dimettendosi dalla segreteria del partito e invitando il Comitato centrale a sciogliersi.

La dissoluzione definitiva del partito venne annunciata nella giornata del 6 novembre, alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione d’ottobre. Veniva così meno un istituto che, nel bene e nel male, era stato il pilastro su cui si reggeva l’edificio della società sovietica.

Se Gorbačëv non era più il segretario del Pcus, egli rimaneva il presidente del Soviet supremo dell’Unione Sovietica. Di essa non facevano più parte i paesi baltici che nelle tempestose giornate del golpe si erano proclamati indipendenti e che come tali erano stati riconosciuti dalla Russia di Yeltsin e da una serie di stati.

Per quanto concerne le altre repubbliche, la situazione era estremamente confusa. Alcune si erano anch’esse proclamate indipendenti come l’Ucraina, che peraltro aveva subordinato la sua decisione all’esito di un referendum indetto per il 1° dicembre.

Altre tra cui il Kazakistan, la più composita etnicamente delle repubbliche sovietiche, e la stessa Russia si erano astenute dal farlo. All’interno di quest’ultima era però in atto, pilotato da Yeltsin, un processo di graduale erosione e di appropriazione delle competenze e dei poteri di cui disponeva la presidenza dell’Unione, dai servizi di sicurezza alla Banca di stato. Era così aperta una partita la cui posta era la sopravvivenza o meno dell’Unione Sovietica.

Ai primi di settembre un accordo fu raggiunto per un nuovo schema di trattato che prevedeva la trasformazione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche in una Unione degli stati sovrani (SSG), ma l’esito del referendum del 1° dicembre in Ucraina, nel quale il 90% degli elettori si pronunciarono per l’indipendenza, fornì a Yeltsin, che fino ad allora si era mantenuto riservato, un’occasione che egli non mancò di cogliere.

All’insaputa di Gorbačëv il 7–8 dicembre egli si incontrava con il presidente ucraino Kravciuk e quello bielorusso Suskevic in una foresta nei pressi di Minsk. Al termine del loro incontro essi annunciarono di considerare dissolta l’Unione Sovietica e la costituzione di un’imprecisata Comunità di stati indipendenti (CSI) alla quale, in un successivo incontro ad Alma Ata il 21 dicembre, aderirono anche il Kazakistan, l’Azerbagian e altre quattro repubbliche dell’Asia centrale.

Il 25 dicembre la bandiera dell’Unione Sovietica che sventolava sul Cremlino venne ammainata e sostituita con la bandiera russa e Gorbačëv tornava ad essere un privato cittadino.

Ciò che non può non colpire in tutta questa vicenda è che un evento di tale portata storica abbia potuto compiersi senza coinvolgimento di grandi masse e anzi senza «nessuna partecipazione corale» (Boffa, 1995, p. 334).

Certo in ogni repubblica esistevano dei movimenti nazionalisti e indipendendisti ma, eccezion fatta per i paesi baltici, essi non avevano grande consistenza. Si ha anzi l’impressione che la grande maggioranza della popolazione si limitò ad assistere allo sviluppo degli eventi e a seguire il vento. Gli elettori ucraini, che nel marzo 1991 votarono per la permanenza del loro paese nell’Unione Sovietica, erano gli stessi che sei mesi dopo opteranno per l’indipendenza.

Una spiegazione parziale di questa almeno apparente anomalia può essere data dalla constatazione che nell’ex Unione Sovietica non esisteva, a differenza di Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, una classe politica in grado di assicurare un ricambio di indirizzo politico.

Tra gli esponenti del dissenso i soli ad impegnarsi politicamente furono Sacharov e Roy Medvedev. Il primo morì nel dicembre 1989 e il secondo figura tra coloro che dopo il suo scioglimento rifondarono il Partito comunista. Quanto agli emigrati, la maggioranza di essi si guardò bene dal tornare in patria. Vi fece ritorno invece Solzenitsyn, ma il suo messaggio nazionalista e grande russo non trovò grande ascolto.

L’unica classe politica disponibile rimaneva quella degli apparatciki. Una parte di essi si impegnarono a fondo nell’esperimento della perestrojka e ne condivisero le responsabilità e il fallimento ma altri, sensibili da sempre al riflesso condizionato dell’unanimismo, lo assecondarono con maggior o minor convinzione o semplicemente lo subirono fino a che divenne evidente che esso era destinato al fallimento.

A questo punto l’appello al nazionalismo russo, ucraino, bielorusso o altro diveniva la ciambella di salvataggio che permetteva loro di rimanere a galla. Il caso di Kravcuk in Ucraina e del conservatore Siskevic in Bielorussia sono a questo proposito esemplari, per non parlare di quello di Yeltsin e dei suoi più vicini collaboratori.

Se il Partito comunista era stato sciolto e se l’Urss aveva cessato di esistere, la nomenklatura era viva e vegeta e decisa a mantenere il potere. Essa predicava la necessità di una riforma radicale dell’economia, ma le sue idee in proposito erano confuse quanto quelle di Gorbačëv e dei suoi collaboratori.

Nella pratica la politica economica che venne seguita risultò essere un faticoso compromesso, continuamente rinegoziato, tra i sostenitori di una totale conversione al mercato e le potenti lobbies dei grandi trust statali.

I primi avevano il loro esponente di spicco nel giovane Yegor Gajdar, i secondi in Viktor Cernomyrdin, il boss del Gazprom, un ente che controllava la produzione e l’esportazione di gas e petrolio, vale a dire della maggiore risorsa della disastrata economia russa. I due ricoprirono entrambi a date diverse rispettivamente la carica di vice primo ministro e di primo ministro, un’alternanza che riflette le oscillazioni e le incertezze della linea di politica economica seguita.

I risultati di questo procedere a vista furono un ulteriore deterioramento economico. Negli anni tra il 1992 e il 1996 l’indice del Pii fu sempre negativo e solo nel 1997 si delineò una prima timida inversione di tendenza, mentre quello dell’inflazione, dopo aver toccato nel 1992 la cifra astronomica del 2500%, venne via via scemando pur rimanendo sempre di due cifre.

Per contro, l’indebitamento con l’estero continuava ad accrescersi passando dagli 87 miliardi di dollari del 1992 ai 124,8 del 1995. La produzione industriale dal 1988 al 1995 subì un calo del 40% e il potere d’acquisto di un salario medio era nel 1995 inferiore del 60% a quello del 1991. Di conseguenza il livello di vita della popolazione subì una severa contrazione.

Non solo si viveva peggio, ma si viveva anche meno: la speranza di vita andava infatti accorciandosi. Ad accrescere la frustrazione dei molti contribuiva l’ostentato lusso dei nuovi ricchi, degli speculatori, dei mafiosi. Il Congresso dei deputati eletto nel 1989 tentò di farsi interprete del disagio e delle frustrazioni crescenti, ma esso non godeva di un reale sostegno da parte di un’opinione pubblica disorientata e frastornata, né Yeltsin era disposto a cedere.

Nel marzo 1993 egli ebbe perciò buon gioco nello sciogliere il Congresso e nell’indire nuove elezioni abbinate a un referendum su di un progetto di nuova costituzione, che conferiva al presidente poteri assai più estesi. A questa sfida il Congresso rispose avviando una procedura di impeachment e designando Aleksandr Ruckoj, il suo vice, alla presidenza. Si giunse così nelle prime giornate di ottobre a un aperto scontro tra legislativo ed esecutivo: una folla di dimostranti tentò di impadronirsi della sede della televisione, mentre i deputati si asserragliavano nel palazzo del Parlamento.

Anche in questa occasione Yeltsin dette prova di prontezza di riflessi: venne proclamato lo stato d’assedio e fu dato ordine all’esercito di aprire il fuoco sul palazzo del Parlamento costringendo i suoi occupanti ad arrendersi e a consegnarsi prigionieri.

Forte di questa vittoria, il presidente poté così nel dicembre convocare gli elettori e ottenere l’approvazione di una costituzione fatta su misura per la sua persona. Meno confortanti per lui furono i risultati delle elezioni per il nuovo Parlamento, la Duma.

Il suo partito «Scelta democratica» ottenne il maggior numero di seggi, ma il partito più votato fu quello di Vladimir V. Zirinovskij, un personaggio istrionico che faceva appello a un rozzo nazionalismo panslavista, che ottenne il 23% dei voti, mentre ai comunisti di Gennadj Zijuganov, che nel febbraio si erano ricostituiti in partito, andò il 14%.

Ciononostante e malgrado lo scacco della guerra in Cecenia, che costò alla Russia 25.000 morti, malgrado il declino della sua popolarità e le sue sempre più evidenti precarie condizioni fisiche, Yeltsin riuscì a prevalere sul suo antagonista — il comunista Zijuganov — anche nelle elezioni presidenziali del giugno-luglio 1996 — ed è stato presidente fino all’inizio del Duemila.

A mantenerlo al potere hanno concorso vari fattori: la relativa stabilizzazione dell’economia o, per lo meno, l’arresto del suo deterioramento, il sostegno degli Stati Uniti e dei governi europei, i prestiti del FMI, ma soprattutto l’assenza di un’alternativa credibile.

Da Giuliano Procacci, Storia del XX secolo, Milano, Bruno Mondari, 2000, pp. 533–550

Giuliano Procacci è stato professore di storia contemporanea all’Università di Firenze e alla “Sapienza” di Roma. È stato presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano e senatore della Repubblica per due legislature.
Intellettuale eclettico, aperto, cosmopolita e indipendente, si è formato alla scuola delle Annales di Parigi. Questo imprinting ha segnato la sua formazione di storico caratterizzata dall’estrema attenzione alle fonti, alle nuove idee e ai nuovi movimenti e dall’analisi dei fenomeni profondi in particolare della società civile. Fondamentali i sui studi sulla fortuna del Machiavelli pubblicati per la prima volta nel 1965 in francese dall’editore Fayard.
L’opera più conosciuta e citata di Procacci è la Storia degli italiani (1968), che ha avuto moltissime traduzioni straniere ed è per molti versi il libro canone fuori dall’Italia per la storia del nostro paese.
Dopo la caduta del muro di Berlino Procacci ha operato un profondo ripensamento della storia che ha prodotto due libri importanti, Storia del mondo contemporaneo. Da Sarajevo a Hiroshima (Roma, Editori Riuniti, 1999) e Storia del XX secolo (Milano, Bruno Mondadori, 2000).
Studioso del movimento operaio, dei movimenti pacifisti e del mondo arabo pre e post coloniale, ha dedicato l’ultima parte della sua carriera allo studio di questi fenomeni. Da segnalare: Dalla parte dell’Etiopia. L’aggressione italiana vista dai movimenti anticolonialisti d’Asia, d’Africa, d’America, Milano, Feltrinelli, 1984; Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, Milano, Feltrinelli.
Si è molto occupato anche di didattica della storia. Ha scritto per Laterza un corso di storia per le superiori e due saggi sui contenuti della manualistica scolastica La memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Cagliari, AM&D, 2003; Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma-Cagliari, Carocci-AM&D, 2005.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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