Il disastro dell’economia russa

Da Gorbačëv a Putin

Mario Mancini
7 min readSep 18, 2022

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L’illusione della “Reconquista”

Con la recente scomparsa di Michail Gorbačëv, la stampa mondiale ha indugiato a riflettere sul ruolo dell’ultimo leader dell’Unione Sovietica in particolare in relazione alla Russia di oggi che è nata sotto la spinta e dalle ceneri del suo ammirevole e convinto tentativo riformatore, il binomio, forse naïf, perestrojka-glasnost’.

Sovente si è letto del confronto, a dire il vero alquanto impietoso, tra l’ultimo leader sovietico e l’attuale inquilino del Cremlino.

Molti hanno osservato che Putin sta proprio facendo quello che Gorbačëv aveva miracolosamente e con il coraggio indicibile evitato, cioè una dissoluzione dell’impero sovietico in un bagno di sangue con distruzioni immani quali si vedono oggi nelle città ucraine. Neppure gli inglesi erano riusciti a fare meglio con il loro impero: qualche “ammazatina” c’era stata, specialmente in India.

Proprio in questi mesi Putin e la sua nomenklatura stanno sperimentando quanto sia efferato e forse decisamente impossibile una sorta di “Reconquista”, una idea balzana che equivale, né più né meno, a portare indietro le lancette della storia. Dovrebbero chiedere a Cristopher Nolan come fare, visto che succede spesso nel suo ultimo film, Tenet. Ma quella è fiction, seppur di prima scelta.

Con questo anche il grande leader mondiale Gorbačëv ha fallito e il suo fallimento si è riverberato negli anni non solo entro i confini della ex-cortina di ferro ma su tutto lo scacchiere geopolitico del mondo.

Il fallimento delle riforme economiche di Gorbačëv

Uno storico come Giuliano Procacci, che ha studiato a fondo il potere sovietico, nella sua Storia del XX secolo descrive efficacemente il rompicapo dell’economia durante gli anni di Gorbačëv. Scrive:

«Né Gorbačëv, che aveva fatto degli studi di giurisprudenza, né la maggior parte dei suoi più diretti collaboratori, tranne Nikolai Rizhov, possedevano specifiche competenze in materia economica ed erano perciò all’altezza di affrontare un compito così impegnativo. Si trattava infatti di conciliare i criteri dell’efficienza con le istanze della partecipazione e ciò non è stato mai una cosa facile. Le principali riforme da essi varate tra il 1987 e gli inizi del 1988 furono tre… Nessuna delle tre produsse i risultati che si attendevano o si speravano. Il rublo cominciò a perdere di valore e i taxisti di Mosca chiedevano di essere pagati in moneta straniera e, suppongo, anche le sempre più numerose prostitute».

Si era ormai al collasso economico. Scrive ancora Procacci:

«Nel marzo 1991 i minatori scesero nuovamente in sciopero e la situazione economica entrò in una fase di progressivo deterioramento al punto che alla fine dell’anno la produzione industriale risultò in calo del 18% e quella agricola del 17%».

Il tentativo riformatore di Gorbačëv, quindi, si incrinò definitivamente sulla non poco trascurata e mal approcciata riforma dell’economica russa. Tale «spettacolare fallimento sul terreno economico — scrive per esempio Paul Krugman in un editoriale sul “New York Times”– ha condizionato la nascita e lo sviluppo della Federazione russa e preparato la strada al putinismo».

Il declino di una potenza economica

Ma com’è si arriva a Putin viene da chiedere a Krugman. Anzitutto un po’ di storia, scrive l’economista premio Nobel:

«Al giorno d’oggi tutti considerano la vecchia Unione Sovietica, con la sua economia centralmente pianificata, come un umiliante fallimento. Ma essa non venne sempre considerata in quel modo. Negli anni ’50, e persino negli anni ’60, molte persone nel mondo consideravano lo sviluppo dell’economia sovietica come una storia di successo; una nazione arretrata si era trasformata in una primaria potenza mondiale (con il sacrificio di milioni di persone, ma chi se li calcola?) Alla fine degli anni ’70, il tentativo dell’Unione Sovietica di raggiungere livelli occidentali di ricchezza pareva secondo solo al Giappone».

Sotto Stalin e la sua “economia in un solo Paese” c’era stata davvero una incredibile crescita industriale dell’URSS come si avrà poi modo di vedere dagli eclatanti successi dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale. Quelle stupefacenti performance potevano essere spiegate solo con l’esistenza di un poderoso complesso economico-industriale alle spalle.

La crisi dell’economia pianificata

Negli anni ’70, però, tale crescita si interruppe e il progresso della tecnologia, che era stato uno dei motori del paese a tal punto da sopravanzare agli inizi degli anni Sessanta gli americani, giunse a un punto morto.

Secondo Krugman è proprio la stagnazione economica dell’ultima fase dell’era brezneviana che spiega l’ascesa di Gorbačëv. In realtà si trattava molto di più di una stagnazione o di un fenomeno ciclico. Quello che era arrivato a un punto morto era proprio il fondamento del sistema economico sovietico, cioè il concetto e la pratica dell’economia centralmente pianificata.

Una condizione, come rileva anche Procacci, alla quale Gorbačëv non riuscì a porre rimedio con la stessa abnegazione che profuse nella riforma politica e istituzionale. Scrive Krugman:

«Mentre l’L’Unione Sovietica si sgretolava, la Russia si allontanò dal socialismo e si indirizzò verso un’economia di mercato. E i risultati furono disastrosi».

Il rovinoso passaggio all’economia di mercato

E a questo proposito i dati sono davvero impietosi. Il prodotto interno lordo reale pro-capite russo cadde di più del 40 per cento, peggio di quello americano durante la Grande depressione. Per tornare al valore del PIL pro-capite del 1990 i russi dovranno attendere 15 anni, solo nel 2005 quel livello sarà raggiunto e poi decisamente migliorato.

Ora questi dati vanno presi cum grano salis, poiché le statistiche dell’epoca comunista non riflettono l’effettivo andamento economico sia perché includevano beni che alla resa dei fatti nessuno consumava, sia perché le autorità erano solite gonfiare il livello effettivo dei valori dell’economia.

Esistono, però, altri importanti indicatori del reale collasso delle condizioni di vita della popolazione russa. Tra le altre cose, il crollo nelle aspettative di vita. Anche in questo caso si dovettero aspettare qualcosa come 25 anni per tornare ai 65 anni di aspettativa di vita del 1985.

Inoltre dal 1991 al 1993 la Russia attraversò un periodo di fortissima inflazione con un picco del 2500 per cento. Krugman, nello scrivere questa cifra, avverte: «E no, non ho aggiunto per errore nessuno zero».

Insomma la transizione dal socialismo al capitalismo, dall’economia centralizzata a quella di mercato avvenne in Russia in maniera assai disordinata e abborracciata rispetto ai processi di transizione di economie centralizzate come quella polacca o cinese, come mostra il grafico sotto.

Che cosa è andato storto?

C’è una intensa discussione su quanto è successo nel corso degli anni Novanta dello scorso secolo e nel primo decennio del Duemila, cioè nel caotico periodo di Boris Yeltsin e in quello più stabile di Vladimir Putin. Non c’è ancora una conclusione unanime, ma Krugman individua alcuni punti importanti del processo di liberalizzazione dell’economia russa.

1. Le privatizzazioni avvennero in modo parziale e non furono sistematiche. Ciò condusse a una deleteria combinazione di economia afferente allo Stato e settore privato con il risultato di sviluppare il peggio di entrambi i sistemi: corruzione e inefficienza da un lato, spirito predatorio dall’altro.

2. Le privatizzazioni avvennero all’interno di un vuoto istituzionale, quando le istituzioni sono una componente essenziale dell’economia di mercato che ne he ha bisogno per funzionare proficuamente. L’economia di mercato non è separabile dallo Stato di diritto e dal diritto dell’economia, cioè dalle regolamentazioni, dalla certezza dell’investimento e dalle norme per evitare e punire comportamenti individualistici scorretti e predatori.

3. Tali privatizzazioni sregolate crearono dei mostruosi monopoli e dei potenti monopolisti, l’equivalente moderno dei robber barons — gli oligarchi della Gilded Age.

Scrive Krugman:

«“La proprietà è un furto!”, proclamava l’anarchico Pierre-Joseph Proudhon. Bene, nella Russia di Yeltsin essa in buona parte lo era. E il potere degli oligarchi stravolse senza dubbio la politica economica della Russia post-sovietica».

Un esempio da mettere nella discarica della storia

La Russia negli anni ’90 offre una lezione concreta su come NON deve avvenire una transizione a una economia di mercato.

I problemi degli anni ’90 sfociarono nella crisi finanziaria nel 1998. Superata la crisi, l’economia russa si stabilizzò e riprese a crescere.

«Sfortunatamente, dice Krugman — lo fece sotto la guida di una persona di nome Vladimir Putin. Si può discutere se la ripresa economica necessitasse la rinuncia alla democrazia, ma è ciò è quello che avvenuto davvero».

La deprimete verità storica è che l’eredità politica di Gorbačëv, in misura importante, è oggi compromessa dal fallimento del suo tentativo di riformare l’economia della Russia sovietica. Non era un compito facile e forse, semplicemente, non si poteva fare all’interno del sistema nato nell’Ottobre del 1917.

Fonti:

Giuliano Procacci, Storia del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2000
Paul Krugman, Wonking Out: The Nightmare After Gorbachev, “The New York Times”, 2 settembre 2022
James A. Baker, III, Why Gorbachev Mattered, “The New York Times”, 2 settembre 2022
Maureen Dowd, The Day Gorbachev Made D.C. Stand Still, “The New York Times”, 1 settembre 2022
Gideon Rachman, Putin, Gorbachev and two visions of Russian greatness, “The Financial Times”, 2 settembre 2022
The editorial board, Gorbachev’s legacy lives on despite Putin’s repression, “The Financial Times”, 1 settembre 2022
Polina Ivanova e Max Seddon, Putin dismantles ‘naive’ Gorbachev’s legacy of freedom, “The Financial Times”, 2 settembre 2022

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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