Diario di un curato di campagna nella critica del tempo
film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”
“Ci si arrende a Dio senza condizioni.”
Il curato alla contessa“Se non puoi pregare, biascica.”
“Sei un bravo piccolo prete.”
Il curato di Torcy al giovane parroco
Tratto dal celebre romanzo di Georges Bernanos, il film racconta le esperienze di un giovane prete al suo primo incarico nella parrocchia di un piccolo paese della campagna francese. Malgrado il suo impegno pastorale sia totale, non riesce a scalfire la diffidenza dei paesani. Nemmeno la conversione in extremis di una nobildonna vissuta sempre in preda all’odio e al rancore serve ad attirargli le simpatie dei parrocchiani. Stanco e gravemente malato, il sacerdote muore solo, ma in pace con se stesso. Grande rigore, e una particolare attenzione al testo originale di Bernanos. Un atto di modestia da parte del regista che gli ha certamente giovato. È uno dei migliori esempi in cui il film non sfigura rispetto al romanzo.
Mario Gromo
Forse un giorno qualcuno si divertirà a raccoglierei vari pregiudizi che si sono susseguiti attorno al cinema. E un buon mazzetto sarà dato dagli indagati «rapporti» fra cinema e letteratura. Proclamata da molti la massima affinità tra film e romanzo, non poteva non sorgerne la questione della cosiddetta «fedeltà». Per un non breve periodo, quando si trattava di giudicare un film tratto da un’opera letteraria, sui ricordi di quell’opera si assolveva o condannava il film se sceneggiatori e regista non avevano o avevano recato vistose varianti a quell’ordito; ed era doveroso parlare di arbitrii, licenze e affronti.
Poi l’atmosfera si fece più limpida; e un bel giorno molti furono d’accordo nel riconoscere al regista, unico e vero autore del film, la più ampia libertà di «riduzione».
Ciò che conta, sullo schermo, è il film; sia esso desunto da un fatto di cronaca o da I promessi sposi, da una qualsiasi fantasia o dall’Amleto. Purché il film abbia una sua intima coerenza, una sua non meno intima necessità. Un grande scrittore può così essere ridotto a «fornitore di materia prima» cinematografica: una trama o alcuni episodi di essa. Toccherà al regista mostrarci che cosa ne saprà trarre.
Ora Robert Bresson rispolvera il problema della fedeltà a un testo con il suo Le journal d’un curé de campagne, da Bernanos, già accolto in Francia e altrove da alti consensi, e insignito di uno dei più ambiti e meno facili premi, il «Prix Delluc». Il romanzo di Bernanos è assai noto. Apparentemente è un minuzioso e severo monologo interiore, che si scandisce di giorno in giorno, nelle confessioni affidate alle pagine di un diario. Ma, ultimata la lettura, il «romanzo», così com’è comunemente inteso, balza da quel lungo monologo.
C’è tutto un ambiente (da Ambricourt a Torcy), una piccola folla di personaggi (dalla famiglia patrizia a umili contadini), e c’è soprattutto un protagonista: il giovanissimo curato di Ambricourt, spirito puro e ardente, in un corpo gracile e minato. È figlio di poveri contadini; ma ancora non sa di essere figlio di poveri contadini alcoolizzati; e crede di giovare alla sua missione mortificando il suo corpo, negandogli riposo e nutrimento. Aspira alla Grazia Divina, per gli altri e per sé; e vorrebbe aiuti e consigli, vorrebbe abbandonarsi con la più pura delle confidenze a chi gli potrebbe essere guida e amico, il vecchio curato di Torcy, un uomo solido, ricco di salute e di energia.
Questi, nel suo buon senso apparentemente terra terra, non risparmia il giovanissimo fratello: «Io mi chiedo che cosa abbiate oggi nelle vene, voi altri giovani preti. Ai miei tempi si formavano degli uomini di chiesa, dei capi di parrocchia. Governavano tutto un paese. Oggi i seminari ci mandano dei ragazzini del coro, che s’immaginano di adoprarsi più di tutti gli altri soltanto perché non vengono mai a capo di nulla. Leggono un sacco di libri, piagnucolano, non sanno nulla della vita, vogliono l’assoluto. Non combattono la bruttura; la vorrebbero distruggere, e per sempre: come se ciò fosse possibile».
È questo il prima, ancora bonario ostacolo, che il giovane parroco trova sul suo cammino. Ma racchiude in germe tutti gli altri. Più egli si sente ed è puro, più il suo zelo assetato d’assoluto, uno zelo dolce e dolente, subisce le deformazioni dei suoi parrocchiani, che fin da principio non hanno dato molto credito a quello che è loro apparso poco più di un adolescente stralunato. Predica la purezza, la Grazia, quello; ma come razzola?
A uno a uno i suoi sforzi e i suoi sacrifici sono misconosciuti. Se ne travisa ogni intenzione, ogni atto; questo piccolo santo in nuce è dapprima un estraneo, poi quasi un disprezzato nemico. La sua purezza e la sua inesperienza non possono essere intese da quanti puri non sono, ed esperti lo sono fin troppo. E quando il suo corpo comincerà a venirgli meno («Notre Seigneur m’ait fait cette grâce de me révéler aujourd’hui que j’etais prisonnier de la Sainte Agonie»), la sua fine sarà presagita da sdegnati commenti, riguardanti le sue… cràpule, i suoi abusi. Ù
Lo stesso signor conte non gli aveva buttato in viso un «Voi siete un ubriacone»? Dal romanzo si denuncia così una «situazione» umanissima (l’agnello fra i lupi), e questa si articola in episodi e vicende, talvolta appena accennati, ma sempre efficaci.
Uno sceneggiatore di mestiere, del solito mestiere, li avrebbe individuati e potenziati, fino a darci nel suo copione una sua evidentissima vicenda del giovane curato, facilmente trasferibile su di uno schermo. Robert Bresson si è invece imposto il più assoluto rispetto del testo del Bernanos. Si è soltanto concesso di scegliere, nelle 366 pagine del romanzo, quelle secondo lui più adatte e sufficienti ad animare per un’ora e tre quarti lo schermo.
Ma la fedeltà a quelle «pagine scelte» è perentoria. Al punto che, nella prima parte del film, il giovane curato scrive il suo diario, noi ne seguiamo la penna sul povero quaderno, e intanto udiamo la sua voce, sommessa, interiore, che quelle parole detta alla penna.
Sarebbe facile, e assai superficiale, parlare di fedelissima serie di illustrazioni al testo. Sarebbe meno facile, ma molto inesatto, parlare di traduzione interlineare visiva. L’immagine s’impregna invece di letteratura, echi e vibrazioni di quelle pagine che dovrebbe esprimere come immagine autonoma; e se ne ha allora un singolare, difficile e nobile tentativo di cinema letterario. Nel senso che, alla lettura, il romanzo non può non evocarci delle immagini; alla visione, invece, il film ci evoca toni, ritmi e coloriti che devono essere espressi anche dalla parola, dalla pagina; e la parola, come suscitata dall’immagine, ci segue, o letta, o udita; ed è la parola dello scrittore.
Di qui una recitazione assorta, sovente come velata. Il volto umano è esplorato, additato quasi al limite; ma senza civetterie, senza virtuosismi, in una castità rara.
Non un gesto, non un muoversi di fronda, non un balenare di luce, o un trascolorare di penombra, che, in questa stupenda fotografia di Roger Corbeau, non abbia un suo recondito e palese significato, o non voglia averlo.
Film arduo, per spettatori più che provveduti, più che informati. Quasi inutile l’accostarvisi senza avere una recente conoscenza del romanzo; del quale e sul quale il film vive la sua nobilissima e un po’ reticente vita, riassunta dalla maschera, si direbbe predestinata, di un giovane studente, Claude Laydu, scelto fra mille dal meticolosissimo Bresson, e da lui pazientemente e implacabilmente guidato a una interpretazione degna di un grande attore.
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957
Pietro Bianchi
Robert Bresson è un regista che non vuol saperne di compromessi. Il cinema è quello che è. Qualche volta — con il Clair di 14 luglio, con il Chaplin di Luci della città, con l’Eisenstein di Alexander Nevskij, con il Rossellini di Paisà, per citare i primi nomi che ci vengono sotto la penna — può essere un’arte, con la purezza, il rigore sintattico, il disinteresse che sono caratteristici delle opere d’arte riuscite; ma più spesso esso non è che un informe prodotto sentimentale, un surrogato, vile e disgustoso, del romanzo d’appendice; qualche altra volta poi non è né romanzo d’appendice né opera d’arte, ma semplicemente un surrogato dei giornali illustrati.
La ricetta è semplice: un po’ di sesso, un po’ d’avventura, molta ipocrisia, un «lieto fine», una sufficiente quantità di attori esperti. È la formula che, in tutto il mondo, ha fatto la fortuna di Hollywood: tra Ladri di biciclette e Tormento c’è sempre posto per quelle cinematografie di Joan Crawford che gli europei non sono capaci di fare (anche perché tra Anna Magnani e Anna Maria Pierangeli, tra Viviane Romance e Suzanne Cloutier, il ruolo per una Joan continentale è ancora vacante; ci si provò negli anni anteguerra, Edvige Feuillère, con un certo successo; ma il posto è libero, un’altra volta).
In un paese che, per molte ragioni, e malgrado tutto, è ancora legato al rispetto di certi valori tradizionali, a Robert Bresson è riuscito il colpo incredibile di trovare dei finanziatori per tradurre in un film il romanzo del povero Georges Bernanos, il Journal d’un curé de campagne. Si tratta di un’opera cinematografica di raro interesse; anche se è chiaro che sul piano morale quei bei tipi di capitalisti che hanno affidato i loro milioni a Bresson meritano almeno la stessa riconoscenza, da parte degli spettatori illuminati, guadagnata dal regista.
I problemi del male, della grazia, della carità, del destino com’è abbastanza noto, sono affrontati nel suo maggior romanzo dal Bernanos attraverso la figura d’un prete di campagna candido, disarmato, malato ma dall’incorruttibile fede. È un dramma quasi sempre interiore, e spinto, ai fini artistici, ai limiti delle possibilità romanzesche.
La Chiesa chiede infatti ai suoi servi impegnati «nel secolo» che siano di buona salute, apostoli vigorosi e soldati senza debolezze fisiche. Accade invece che il giovane protagonista del Diario sia affetto da un tumore mortale, malattia piuttosto rara nei giovani e ad ogni modo difficile da diagnosticare alle origini. Il sacerdote trova nel piccolo centro, delle cui anime è il pastore, diffidenza cocciuta, inerte, cieca da parte dei villici mentre il «castello» ospita un «nodo di vipere» difficile da sciogliere.
Malato a morte, ma senza saperlo, il prete ha la fatale rivelazione da un medico volteriano; scrive le ultime pagine del Diario in uno di quei caffeucci vicino alle stazioni; poi va a morire tra le braccia di un compagno di seminario, che ha lasciato la veste sacerdotale per accompagnarsi con una donna. Prima di morire mormora: «Tutto è grazia».
Bresson, scegliendo il prete di Bernanos a protagonista del suo film, sapeva di porsi una sorta di scommessa. Nel Diario d’un curato di campagna non vi è nulla di ciò che non solo i maneggioni ma i teorici dello «specifico filmico» ritengono «cinematografico». Manca il sesso; manca l’avventura; non c’è ombra di trama; non c’è «lieto fine». E manca soprattutto il «movimento».
A parte le difficoltà tecniche, penso che sia più facile ricavare un film da Proust, dal romanzo nel romanzo intitolato Un amour de Swann per esempio (idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in testa a nessuno), che dal romanzo di Bernanos.
Eppure Bresson ha quasi vinto la scommessa. Il suo film, senza essere «d’avanguardia», ha un fascino singolare. Non ha, a propriamente parlare, una tradizione cinematografica. Soltanto, ma in un’altra direzione spirituale, la coppia Coward-Lean con Breve incontro in Inghilterra ha tentato di dirci, come Bresson, qualcosa di ineffabile.
È sempre sul terreno della lezione, del messaggio, di una certa letteratura francese che si rivolge «all’uomo interiore»: per Breve incontro la lezione viene dalla Princesse de Clèves di Madame de La Fayette, per il film di Bresson bisogna rimontare, attraverso Bernanos, alle Pensées di Pascal. Un particolare rivelatore consiste, nel Journal d’un curé de campagne, nella parte artisticamente più debole: quella che si svolge nel «castello» tra i ricchi, affetti, direi organicamente, da alcuni peccati mortali. Che è l’unica che offra partiti di interesse pratico, nella quale affiori l’ombra d’una trama.
Soltanto dalla civiltà francese, da una nazione in cui una società è ancora viva e in fermento, in cui la passione delle idee riesce ancora a muovere il capitale privato, ci poteva venire il segno, restato quasi unico a Venezia, che il cinema non è morto, e che la Francia è il luogo fisico e spirituale delle sue prove più durature e virili.
Per dare maggiore autenticità al racconto, il Bresson è ricorso a un giovane, Claude Laydu, che era alla sua prima interpretazione; mentre l’ambiente, campagne deserte, strade autunnali, caffeucci, povere case, è lo stesso, nel nord della Francia, che ha ispirato il testo originale di Bernanos.
Altissima prova di stile, il Diario non ha un cedimento: è visto e raccontato con una puntualità stilistica da dar le vertigini. È una di quelle opere che si accettano «in toto» o si respingono senza remissione. Di fronte a film pur importanti e vitali come L’asso nella manica, il Diario fa la figura di «mostro» sacro. Ma è certo che alcuni passi: le attese mistiche all’alba e al tramonto, il dialogo finale con il buon curato di Torcy, sono di tale potenza da commuovere anche lo spettatore più distratto, il più tenace ammiratore dei tipetti formato Esther Williams.
È curioso questo fatto: mentre tra il diario-romanzo e il diario-film i «contenuti» sono quasi identici, tra Bernanos, l’autore, e Bresson, il regista, dal punto di vista espressivo, c’è una differenza sostanziale. Bernanos è un narratore romantico, impegnato, pieno di furore biblico, di canonico disprezzo per gli atei, contro i quali, nelle sue pagine, balenano, d’improvviso, fulminanti invettive.
Bresson è, invece, un narratore avviluppante e pacato, lucido e puntuale. Un tipo per cui la lingua, lo stile son tutto: come il Dreyer di Dies irae. E se volete un paragone letterario, pensate al Flaubert moralista e stilista di Madame Bovary e di Un coeur simple.
Da L’Occhio dei cinema, Milano, Garzanti, 1957
Gian Luigi Rondi
Tutto è sempre visto attraverso gli occhi del protagonista, così come, attraverso quegli stessi occhi, sono visti i drammi singoli degli altri personaggi. Il merito poetico di questo audacissimo linguaggio che ha portato sul piano universale un problema unicamente confinato negli abissi dell’individuale, è nell’equilibrio perfetto di ogni suo termine e nella tesa, dolente atmosfera drammatica che sa suscitare senza sforzo attorno ai personaggi con una semplicità così alta e solenne da conferire alla nuova fatica di Bresson un’ assoluta nobiltà di espressione, di stile e di tecnica, un vigore emotivo che pienamente convince e conquista quanti credono nel cinema come arte e in Bresson e in pochissimi altri i profeti di un nuovo, più puro linguaggio cinematografico.
Da Rivista del cinematografo, 1951
Gian Carlo Celli
L’idea adottata (da Bresson) di punteggiare il racconto con brani letti del Journal non è certo una soluzione di per sé originalissima, ma presenta il vantaggio di non mettere in piedi dei prolissi contrasti dialettici o per lo meno di dare l’apparenza di morigeratezza dell’elemento dialogico nel film. In effetti quella lettura del diario fatta a voce bassa e monocorde costituisce né più né meno che una sorta di dialogo, e precisamente un monologo interiore, contrappuntato alle immagini e ai pochi dialoghi del film. E allora come si spiega che non avvertiamo questa materiale prevalenza della parola?».
Da Bianco e Nero, 1952, n. 4
Marco Siniscalco
Film arduo e difficile, rigidamente impostato in una direzione ben definita, teso a portare un contributo nuovo alla interiorizzazione del linguaggio cinematografico. Questa volta Bresson si accosta a Bernanos, a un suo romanzo, e tenta di dare vita e ragioni di autonomia sullo schermo alla materia letteraria.
Rinuncia alle soluzioni finora adottate, non si limita a costruire un film che sia la traduzione in linguaggio visivo degli elementi narrativi del romanzo né considera il nucleo centrale del romanzo come pura fonte di ispirazione, come realtà e punto di partenza dal quale muovere per realizzare un film sostanzialmente autonomo, senza rapporto con l’opera preesistente; sceglie invece una strada più difficile: attraverso un linguaggio particolare tende a dare un’opera che è profondamente e sostanzialmente “fedele” al testo letterario e insieme, proprio per questa sua caratteristica, finisce per presentarsi come una libera creazione, al di là di quelli che si sarebbero potuti considerare come limiti insuperabili.
Da Cinema», 1953, n. 109
Georges Sadoul
Un giovane curato (Claude Laydu) frequenta quotidianamente un castello il cui padrone, un conte (Jean Riveyre), inganna la moglie (Marie Monique Arkell) con grande pena di sua figlia. Il prete s’attira l’ostilità sia del conte sia della figlia. Malato di cancro, va a morire in casa d’un prete spretato.
«Non s’è perduto nulla della sostanza del libro né dello spirito di Bernanos. Ma tutto è stato trasferito in una visuale e in un’estetica che esprimono la personalità particolare di Robert Bresson. Il suo grande merito è stato d’aver saputo rinunciare a tutto ciò che, nel romanzo, poteva già apparire «cinematografico», nel senso comune della parola. Alla base del linguaggio di Bresson non c’è l’intensità espressiva di ogni singolo elemento (gesto, gioco di fisionomia, scena isolata, paesaggio), bensì dei loro rapporti reciproci. Le frasi pronunciate dai personaggi o quelle che costituiscono il commento permanente del Diario (e che danno ai fatti la dimensione supplementare della coscienza e della memoria) sono tutte quante tratte dal libro». (Albert Béguin)
«Un’opera tutta fatta di verità interiore ha potuto per la prima volta passare sullo schermo senza la più piccola con cessione». (Julien Green)
«Bresson riesce a ritrovare tutte le virtù del film muto e, per la prima volta, a operarne la fusione col film sonoro e parlato». (André Bazin)
Naturalmente il film doveva suscitare riserve tra i non credenti.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968
André Bazin
Bresson fa definitivamente giustizia di quel luogo comune della critica secondo cui l’immagine e il suono dovrebbero evitare di sommarsi. I momenti più emozionanti del film sono giustamente quelli ove si ritiene che il testo dica esattamente la stessa cosa dell’immagine, e invece lo dice in un altro modo.
Di fatto il suono non si trova qui mai per completare l’avvenimento visto: lo rafforza e lo moltiplica come la cassa armonica del violino le vibrazioni delle corde. Ma anche questa metafora manca di dialettica perché non è tanto una risonanza che lo spirito percepisce, quanto piuttosto uno spostamento, come se un colore non fosse ben sovrapposto al disegno.
Ed è in questa frangia che l’avvenimento chiarisce il suo significato. Poiché il film è tutto costruito su questo rapporto, perciò l’immagine raggiunge specialmente verso la fine, tale potenza emotiva. Si cercherebbero invano i principi di questa sofferta bellezza nel solo contenuto esplicito. lo non credo che esista un film le cui singole inquadrature siano così ingannevoli: l’assenza totale di composizione plastica, l’espressione manierata e statica dei personaggi, rivelano il loro valore assoluto nello svolgimento del film.
Ma non è al montaggio ch’esse debbono questo incredibile supplemento d’efficacia. Il valore dell’immagine non deriva quasi per niente da ciò che precede e ciò che segue. Essa accumula piuttosto un’energia statica come le lame parallele di un condensatore.
A partire dall’immagine e in rapporto con la colonna sonora, si producono delle differenze di potenziale estetico la cui tensione diviene letteralmente insostenibile. Così il rapporto fra immagine e testo, progredisce verso la fine a tutto vantaggio di quest’ultimo e così con molta naturalezza sotto l’esigenza di una logica imperiosa, l’immagine si ritira fra gli elementi secondari dello schermo.
L’immagine, dato il punto cui è giunto Bresson, non può far di meglio che eclissarsi. Lo spettatore è Stato progressivamente condotto a questa notte dei sensi il cui solo modo possibile di esprimersi è la luce dello schermo bianco. Ecco dunque a che cosa tendeva questo preteso cinema rifiuto con il suo accigliato realismo: a volatilizzare l’immagine e a prendere il posto al solo testo del romanzo.
Ma per la prima volta forse sperimentiamo con una evidenza estetica indiscutibile, un successo dei cinema puro. Come la pagina bianca di Mallarmé o il silenzio di Rimbaud sono uno stato supremo di linguaggio, così lo schermo privo di immagini e dato in possesso alla letteratura sta a segnare proprio il trionfo del realismo cinematografico.
Con il Diario di un Curato di campagna si apre una nuova via per la riduzione cinematografica. Fin qui il film tendeva a sostituirsi al romanzo come una traduzione estetica di un altro linguaggio. “Fedeltà” significa quindi rispetto dello spirito ma ricerca di necessari valori equivalenti, dovendo tener conto, per esempio, delle esigenze drammatiche dello spettacolo o dell’efficacia più diretta dell’immagine.
Bisognerebbe, purtroppo, che questa preoccupazione fosse una regola comunissima: essa infatti ha reso pregevoli Diable au corps o La Symphonie Pastorale. Nella migliore delle ipotesi tali film «valgono» il libro che è stato preso per modello.
A margine di questa formula dobbiamo segnalare anche una riduzione libera come quella di Renoir in Une partie de campagne o Madame Bovary. Ma il problema è risolto allora in modo diverso: l’originale non è più che una sorgente d’ispirazione e la fedeltà si riduce ad una affinità di temperamenti, ad una simpatia congenita del cineasta per il romanziere. Questa ipotesi, che del resto ha un senso soltanto se si rimane nel campo della genialità può condurre ad un risultato cinematografico superiore al modello letterario. Per intendersi: propongo al lettore d’immaginarsi Le Diable au Corps realizzato da Jean Vigo.
Ma Il Diario di un Curato di Campagna è tutt’altra cosa. Quella dialettica della fedeltà e della creatività si riduce, in ultima analisi, ad una dialettica fra cinema e letteratura. Non si tratta più qui di tradurre nel modo più fedele e intelligente possibile, meno ancora di ispirarsi liberamente, pur con amorevole rispetto, in vista di un film che sia la ripetizione di un’opera; si tratta piuttosto di costruire sul romanzo con il cinema, un’opera posta in una seconda posizione.
Non già un film “paragonabile” al romanzo o «degno» di lui, ma un nuovo essere estetico che è come il romanzo moltiplicato dal cinema.
La sola operazione paragonabile di cui abbiamo l’esempio, sarebbe forse quella dei film di pittura. Emmer o Alain Resnais sono, anch’essi, fedeli all’originale: la loro materia prima è costituita da opere già perfettamente compiute dai pittore, la loro realtà non è il soggetto del quadro, ma il quadro stesso, così come la realtà di Bresson è il testo stesso del romanzo. Ma la fedeltà di Alain Resnais a Van Gogh, che è anzitutto e ontologicamente quella della fedeltà fotografica, non è che la condizione previa per una simbiosi tra cinema e pittura. Ecco perché generalmente i pittori non ci capiscono niente. Non vedere in questi film che un mezzo intelligente, efficace, anche valido, di volgarizzazione (caratteristica che posseggono per giunta) vuoi dire ignorare la loro biologia estetica.
Questo paragone tuttavia è valido solo parzialmente poiché i film di pittura sono condannati a restare un genere estetico minore. Essi aggiungono qualcosa ai quadri e prolungano la loro esistenza: permettono loro di valicare la cornice, ma non possono pretendere di essere il quadro stesso.
Van Gogh di Alain Resnais è un capolavoro minore: utilizza e spiega una grande opera pittorica, senza riuscire a rimpiazzarla. Questa limitazione dipende da due cause. Anzitutto la riproduzione fotografica del quadro, almeno attraverso la proiezione, non può pretendere di sostituirsi all’originale e di identificarsi con esso; ma potrebbe darsi ch’essa sia, nel migliore dei casi, una distribuzione della sua autonomia estetica: infatti questi film partono precisamente dalla negazione di ciò che è il fondamento della pittura: lo spazio circoscritto da una cornice e la mancanza dell’elemento temporale. E poiché il cinema, come arte dello spazio e del tempo, è il contrario della pittura, deve logicamente aggiungervi qualcosa.
Questa contraddizione non esiste invece fra il romanzo e il cinema. Non soltanto sono due arti narrative, quindi soggette al tempo, ma non è nemmeno possibile definire a priori che l’immagine cinematografica sia essenzialmente inferiore all’immagine evocata dallo scritto. È più probabile il contrario. Ma la questione non è nemmeno lì, poiché è sufficiente che, sia il romanziere che il cineasta, tendano a creare un’immagine dello svolgimento di un mondo reale. Poste queste similitudini essenziali, la pretesa di scrivere un romanzo in cinema non è assurda. Ma Il Diario di un Curato di Campagna ci ha rivelato che è molto più fruttuoso speculare sulle loro differenze che non sui punti d’accordo: che è meglio far notare l’esistenza del romanzo nel film piuttosto che un volervelo eliminare.
Da Filmcritica n. 13 (1952)
Massimo Magri
In un paese della provincia francese, a contatto con un’aristocrazia corrotta e con il gretto ambiente contadino, un giovane curato, in bilico tra la decadenza fisica e la volontà di sublimarsi, rivive con fede e umiltà la passione di Cristo. Morirà in una soffitta, ospite di uno spretato.
Per la prima volta il cinema ci dà non solo un film in cui i soli avvenimenti veri, i soli moti sensibili sono quelli della vita interiore, ma, più ancora, ci offre una nuova drammaturgia specificamente religiosa o, meglio, teologica: una fenomenologia della Salvezza e della Grazia.
Constatiamo del resto che in questa impresa di riduzione della psicologia e del dramma, Bresson affronta dialetticamente due tipi di realtà pura. Da un lato, l’abbiamo visto, il viso dell’interprete sbarazzato di ogni espressione simbolica, ridotto all’epidermide, circondato da una natura senza artifizi; dall’altro lato quella che bisognerebbe chiamare la «realtà scritta».
«Poiché la fedeltà di Bresson al testo di Bernanos, non soltanto il rifiuto si adattano ma la preoccupazione paradossale di sottolinearne il carattere letterario, è in fondo lo stesso partito preso di quando dirige gli attori e cura la decorazione. Bresson tratta il romanzo come i suoi personaggi» (André Bazin).
René Prédal
Prima del film di Bresson, due tentativi di adattamento erano stati scritti, ma poi rifiutati, nel 1947: il primo progetto, di Jean Aurenche, fu rifiutato da Bernanos (cominciava con la signorina Chantal che sputava l’ostia sul suo messale!); il secondo, di padre Brückberger, trasponeva la storia nel periodo dell’occupazione tedesca. Nel 1948, il produttore Pierre Gérin chiede a Bresson di tentare a sua volta. Bresson ci lavora per sei mesi, ma il suo lavoro è giudicato privo di interesse drammatico. Nel 1949 cambia allora produttore, e può girare esattamente quello che aveva scritto, a Equirre, nel Nord, dal febbraio all’aprile del 1950.
A Bresson non piaceva l’idea di un adattamento. Anche se aveva ampliato i testi che gli erano serviti come base per i suoi due primi lungometraggi, questa volta bisognava stringere, liberare i personaggi da una valanga di annotazioni psicologiche, trovare una continuità nel mezzo della mistura di fatti e pensieri, costruire dei rapporti umani ma soprattutto conservare la confessione dolorosa di una vita divisa tra le piccole faccende quotidiane, la lotta anima contro anima (con la contessa e sua figlia) e l’avventura mistica sul cammino dell’agonia di Cristo.
A quest’ultimo aspetto il cineasta ha prestato tutta la propria attenzione. Nel suo saggio, Jean Sémolué scrive che il film si presenta come una «epurazione del romanzo», nel quale i fatti (malattia, incomprensione, ostilità del castellano) «contano meno dell’influenza che essi esercitano» sul curato d’Ambricourt. Meno dispersivo che nel libro, «il senso del film è molto più chiaro di quello del romanzo: mostra le tappe di un cammino verso la santità».
In effetti, l’abilità dell’adattamento è notevole. Bresson condensa numerose visite del curato di Torcy in una o due sole, e fa la stessa cosa con la contessina e con il conte. Così la lettera della contessa sfugge al curato durante l’incontro con il conte, che segue immediatamente la morte della moglie; la lettera viene invece scoperta per caso dentro al libro durante un precedente incontro nel presbiterio, che però il regista non prende in considerazione.
Moltiplicando i rimaneggiamenti e gli spostamenti, Bresson ha strutturato i suoi passaggi (passaggi da una sequenza a un’altra) a partire da frasi essenziali, il più delle volte tratte da due lunghi brani in cui Bernanos contrappone il curato a Chantal e poi alla madre di questa. In questo modo la tensione viene mantenuta con forza, e Jean Sémoué mostra come queste semplici puntualizzazioni si trasformino in articolazioni importanti.
Come nel suo approccio a Diderot, Bresson rispetta la struttura molto sbilanciata del romanzo, perché pensa che lo scrittore si riveli meglio attraverso questa organizzazione dei fatti, anche se un tale tipo di drammaturgia non corrisponde alle convenzioni cinematografiche. Il cineasta sacrifica invece alcuni personaggi (Sulpice Mitonnet, la signora Pégriot, il decano di Blangermont… ), riduce un po’ l’importanza di altri (l’istitutrice, la piccola Séraphita) e non mantiene la cesura dei tre capitoli di Bernanos (uno molto lungo, inquadrato fra due molto corti).
Mantiene invece l’evoluzione che, dallo spazio molto ampio della parrocchia, si richiude prima sul prete e su due o tre personaggi (il curato di Torcy, Chantal, la contessa), per inquadrare alla fine solo il prete che sprofonda nella propria vita interiore quando si scopre prigioniero della Santa Agonia. Bresson precisa inoltre il proprio «sistema» utilizza ormai solo pochi attori professionisti (Antoine Balpétré incarna il dottor Delbende, Marie-Monique Arkell la contessa … ), e affida il ruolo principale del curato d’Ambricourt a un giovane sconosciuto e quello del curato di Torcy a uno psichiatra parigino.
Di fronte alla necessità di ridurre la lunghezza del romanzo, Bresson approfondisce la sua arte della litote, dell’ellissi e della sobrietà, ancora poco evidenti nei primi due lungometraggi. Dai primissimi piani del diario e del viso del prete all’inizio, fino alla famosa croce della fine, la carne si consuma fuori dal tempo (non vi è alcun riferimento temporale), ma al ritmo di una coscienza.
Questa scienza della cancellatura fa miracoli nella scena del confessionale. Bernanos mostrava il curato mentre obbligava Chantal a inginocchiarsi e a recitare un atto di contrizione. Bresson elimina quest’aspetto movimentato: la giovane resta in piedi sul fondo e il curato d’Ambricourt non entra nel confessionale. È in primo piano di profilo e lo scambio è giocato al livello delle luci.
Allo stesso modo, dalla scena con la contessa è stato eliminato il momento in cui il curato si scotta, mentre recupera il medaglione dal focolare, cosa che porta la castellana a fargli una fasciatura. La morte di quest’ultima è resa solo attraverso un effetto sonoro: si sente il soffio del prete che spegne la lampada. Una semioscurità inonda il quaderno sul quale si stende l’inchiostro fresco: «La signora contessa è morta questa notte». Il rumore dei passi del curato sulle scale, sempre più precipitosi, consente all’immagine di permanere più a lungo di quanto sia necessario per la lettura.
Il cineasta ha accettato la sfida della trasposizione in immagini della vita spirituale, conservando la presenza materiale di un diario invece di sostituire la confessione con uno sguardo esterno che metta in scena i personaggi.
Bernanos sarebbe stato allora tradito, poiché il romanzo mescola i diversi livelli del racconto (aneddoti, riflessioni, lunghi dialoghi, esami di coscienza, vale a dire narrazione e metafisica), e l’unità si impone proprio attraverso la scrittura del diario che tenta di fissare l’avventura interiore del sacerdote.
Per privilegiare l’aspetto spirituale, Bresson sopprime del tutto le rare informazioni psicologiche o sociali di Bernanos conservando al contempo il groviglio di annotazioni del diario. Alcuni temi si ripetono dunque diverse volte. Jean Sémolué ne trova tre (malattia, vocazione sacerdotale, sofferenza), ma il cuore del film è costituito da ciò che Estève chiama «la doppia tentazione del dubbio e della disperazione».
La solitudine cresce e il curato d’Ambricourt si impegna nella prova finale che lo porta a rivivere la Santa Agonia di Cristo. Si è così passati da una discussione ragionata sul tema del Bene e del Male (puntellata dai rapporti con il curato di Torcy e con il dottor Delbende) a un’esperienza mistica simile a quella di Anne-Marie (La conversa di Belfort), che può trovare una risoluzione solo nella morte.
Nella sua personale Passione, non mancano né il sudario della Veronica (Séraphita asciuga con uno straccio il suo viso macchiato di sangue e di vino), né le cadute nel fango, come sotto il peso della croce, accompagnate da svenimenti (malattia? estasi?), sotto il cielo uggioso del Nord coraggiosamente rispettato dall’illuminazione di L.H. Burel che elimina al massimo i contrasti per sottolineare i grigi all’esterno e l’oscurità all’interno.
Così il crocifisso della sua camera, lungi dal risaltare, è quasi sempre nell’ombra, mentre il volto del sacerdote è generalmente un po’ più illuminato rispetto al resto, soprattutto nella famosa scena del confessionale con la signorina Chantal. Fuori non c’è mai il sole; dentro regna la luce smorzata dal paralume di una lampada a petrolio. Per Jean Sémolué, gli interni hanno la luce dei quadri di Georges de La Tour, e gli esterni «la nitidezza velata di tenerezza» tipica di Corot, «due pittori di una penetrante dolcezza».
Un punto di forza del romanzo, accentuato ulteriormente nel film, consiste nel legare intimamente il dolore fisico (il cancro allo stomaco) alla sofferenza morale (la solitudine, il dubbio) tanto da non sapere più che cosa il viso malaticcio e la magrezza di Claude Laydu dicano esattamente nel corso delle atroci crisi dalle quali il sacerdote esce esausto. Lo spettatore viene allora toccato nel cuore; la riflessione intellettuale giunge solo in un secondo tempo. Il «messaggio» passa attraverso un «transfert» di sensibilità, dapprima fisica, ma subito dopo anche spirituale.
Fin dall’inizio, Bresson restituisce il corrispondente cinematografico del diario facendo leggere al sacerdote la frase che l’immagine mostra scritta. In questo modo, «Bresson rende definitivamente giustizia di quel luogo comune della critica secondo il quale l’immagine e il suono non dovrebbero mai sovrapporsi. I momenti più commoventi del film sono proprio quelli in cui si presume che il testo debba dire esattamente la stessa cosa dell’immagine, ma lo dice in una maniera diversa (…). L’immagine raggiunge, soprattutto verso la fine, una così grande potenza emotiva, proprio perché il film è tutto costruito su questa relazione».
Bresson sottolinea il carattere letterario dell’opera mostrando molto spesso il quaderno, la scrittura, la mano, le pagine, la carta assorbente, il calamaio, la penna, oggetti che letteralmente spezzano il racconto propriamente cinematografico, incapace di liberarsi da questo dominio, anche se la voce fuoricampo fa spesso da intermediaria. Vi è una sorta di ritorno perverso al tracciato materiale del testo, che fa parte dell’immagine allo stesso titolo del volto del curato d’Ambricourt o della sua bicicletta, come se Bresson avesse voluto far riscrivere al suo interprete il romanzo di Bernanos sotto lo sguardo inquisitore della cinepresa. D’altronde il cineasta non ha mai trasformato il testo con lo scopo di accorciarlo. Taglia, leva e rincolla, ma rispetta le parole e le frasi con fedeltà al testo originale: «Come il blocco di marmo viene dalla cava, le parole pronunciate nel film continuano ad appartenere al romanzo»; voce fuori campo e voce in campo hanno sonorità molto vicine, tali da assicurare l’unità dell’opera.
Da Tutto il cinema di Bresson, Milano, Baldini & Castoldi, 1998
Fernaldo Di Giammatteo
Sottigliezza, tensione interiore, compostezza figurativa: sono le qualità unanimemente riconosciute a quel regista solitario che è Robert Bresson (Bromont-Lamothe, Puy-de-Dóme, 25 settembre 1907). L’incontro fra lui e Le Journal d’un curé de campagne avvenne nel 1950, dopo che egli aveva girato Les anges du péché (1943) e Les dames du Bois de Boulogne (1945), il secondo ricavato da un episodio di Jacques le fataliste di Diderot.
Fu un incontro, egli dice, casuale: una commissione ricevuta. Ma il risultato dimostra quanto fosse stata coerente, per Bresson, la scelta di quello che è considerato il capolavoro di Georges Bernanos (1888–1948).
Non è un caso, del resto, che il regista sia tornato a ispirarsi allo scrittore cattolico, sedici anni dopo, per Mouchette. Il passaggio dalla pagina scritta alle immagini cinematografiche rappresenta un indubbio impoverimento del romanzo, privato dell’alone sociale che avvolge la vicenda del curato di Ambricourt. Ma non è questo che può interessare un Bresson. Nulla che nasca dalla complicazione esterna dei fatti e delle passioni può essere materia del suo cinema.
«Un sospiro, un silenzio, una parola, una frase, uno strepito, una mano» ha scritto, rivolgendosi a se stesso, in Notes sur le cinématographe «il tuo modello nella sua interezza, il suo viso, fermo, il movimento, di profilo, di fronte, una visuale immensa, uno spazio ristretto». Un quaderno, un foglio di carta assorbente, una mano che scrive. Una voce fuori campo legge: «Non credo di far niente di male annotando qui, giorno per giorno, con assoluta sincerità, gli umili e insignificanti segreti di una vita che non ha d’altronde misteri».
Il quaderno e la voce (il diario mostrato nella sua povera concretezza ed evocato da una parola atona, priva di emozione) saranno il filo conduttore della storia del giovane curato che, arrivando nella sua prima parrocchia, si imbatte in una umanità afflitta dalle contraddizioni del peccato.
Tutti lo disprezzano e, forse, lo temono. Il suo osservare e intervenire per redimere — o, se non è possibile, per illuminare le coscienze — è scambiato per una indebita intrusione nella vita altrui. Il conte, che ha una tresca con la istitutrice della figlia, vede in lui un pericolo, lo riceve con malagrazia e appena può lo mette alla porta.
La figlia stessa, sconvolta dal comportamento del padre, non comprende che cosa voglia. Una ragazzina perfida lo provoca e lo schernisce. Ma il curato sente che deve continuare la sua opera. Ne ha conferma quando riesce a toccare il cuore della contessa (che la perdita del figlio ha gettato nella prostrazione) e ad accompagnarla alla morte in grazia di Dio.
A poco a poco le forze gli vengono a mancare. Un giorno va a Lilla e apprende da un medico che ha un cancro. Invaso dal terrore, si rifugia in casa di Dufréty, un compagno di seminario che si è spretato. Compie ancora un ultimo sforzo, per ricondurlo sulla via della fede.
Il film termina con la lettera che costui ha scritto al curato di Torcy, per annunciargli la morte dell’amico e comunicargli le ultime parole che ha pronunciato: «Che cosa importa? Tutto è grazia». La lettera dissolve lentamente su, una grande croce nera.
Pochi movimenti (c’è solo un lungo carrello per accompagnare il colloquio fra il curato e Chantal, la figlia del conte), una fitta concatenazione di inquadrature immobili, un’atmosfera grigia e piovosa, un impiego discreto della musica, una generale sobrietà di toni (anche nelle punte drammatiche, come lo “scontro” fra il curato e la contessa) che lascia appena trapelare la fortissima tensione di fondo, un continuo stupore dinanzi al mistero delle cose (degli uomini, degli avvenimenti, del male): questo è il Journal di Bresson.
Da: 100 film da salvare, Milano, Mondadori, 1978
Giorgio Tinassi
Considerato dalla maggior parte della critica come il primo film “compiuto” di Bresson, un punto di arrivo rispetto ai film precedenti, esso appare, in prima lettura, più “chiaro” rispetto al gioco mediato di Les dames du Bois de Boulogne, e in questo senso quasi una parziale deviazione da quel tipo di ricerche presenti nonostante l’impianto tradizionale. In realtà nell’esaltazione o nelle riserve al film sembra essere prevalsa, salvo eccezioni, la sottolineatura del retroterra ideologico, quando non l’impressione legata al contenuto. E allora è stato visto come una tappa nella storia del film religioso, come il film dell’interiorità («il primo film della vita interiore”, Claude Mauriac), come l’opera che rimanda continuamente al non visibile: “la sostanza stessa dell’atmosfera si impone come l’aura di un mondo indovinato, intravisto vertiginosamente dietro le apparenze”. In questo senso l’adesione al testo di Bernanos è stata prevalentemente interpretata come intenzione di salvaguardare il nucleo “spirituale” o la sostanza problematica. Per altro verso, le riserve sono state fatte per la sovrabbondanza di imo spiritualismo profuso senza mediazioni, di cui sarebbe testimonianza proprio il rapporto subalterno al testo letterario.
Il giudizio credo debba essere più articolato, perché si tratta di un film indubbiamente complesso, anche se (per anticipare una conclusione) permangono il peso del racconto e la preminenza del detto, la pressione cioè dei toni espliciti, frutto probabilmente di una consonanza di tipo personale. Per cui conviene, almeno inizialmente, mettere da parte le reazioni a questa consonanza, ma anche — e prima — le adesioni simpatetiche: nelle quali sembra cadere anche Bazin (nel saggio già citato, per altro prezioso per talune considerazioni di carattere generale) quando parla di “cinema d’anima” che “colpisce più il cuore che l’intelligenza”. Considerando invece la costruzione dell ’opera (e Bazin lo fa) ci si accorge che il film si muove in un equilibrio difficile, che è alla base della complessità di cui si parlava.
Cominciamo, per una indagine iniziale, dal fattore più vantato, e più discusso, la fedeltà al romanzo, che presentava indubbiamente ostilità di struttura: quasi infilmabile lo si definì, per la preminenza di stati d’animo o di «idee» sull’andamento narrativo. Il lavoro di Bresson consiste nell’utilizzazione e concentrazione di temi (e di forme), secondo la consonanza di cui si diceva, e poi di sfrondamento.
Da un punto di vista generale si articola la polarità tra libertà e Grazia, secondo la configurazione già vista nel primo film, cui fa da supporto — sul piano dei rapporti intersoggettivi — l’intersezione e la complementarietà dei destini. Il terreno di lotta è il male con le sue ramificazioni: con un rinvio non casuale al radicale pessimismo di Mouchette.
Il curato di Ambricourt indica la passione e la chiusura, e il loro porsi in condanna; le aperture (verso l’”umano”) hanno quasi sempre il sapore del perduto. Dopo la corsa in motocicletta con Oliviero, il giovane prete afferma : “Ho compreso che la gioventù è un rischio, ma è un rischio da correre”. Il richiamo alla trascendenza nasce dalle “prove” (la morte del medico e della contessa) e ha il suo fulcro drammatico nel rapporto tra volontà e predisposizione (il “tutto è Grazia” finale).
Per variegare, e rinsaldare, tali contrasti Bresson (come Bernanos) utilizza gli altri personaggi. Di fronte alla religiosità difficile del protagonista sta la sicurezza del curato di Torcy, “simbolo della Chiesa vittoriosa, erede dei Santi”, e più ancora opportunità di un cristianesimo non drammatico, lontano da misticismi acuti o da razionalismi pericolosi, una sicurezza, sta scritto in Bernanos1, che rende al protagonista “alta” quella figura, dominata dalla “fierezza”. L’impatto drammatico è con la contessa (e il chiuso del castello richiama la situazione di “prigione”), l’orgoglio e la sua reversibilità, volontà e rovesciamento, con un rimando alla Teresa del primo film; il dialogo cruciale con il curato, durante il quale questi temi esplodono fin troppo chiaramente, è difatti mantenuto nel film nelle sue linee essenziali.
Il conte è un elemento meno contrastato, più atono, proprio perché il suo cristianesimo è abitudine e copertura; ma è pure l’indifferenza degli altri, l’ostilità di cui si faranno portatori anche i parenti (gli sguardi mentre scendono dall’automobile, l’incontro sulla scalinata dopo la morte). La negatività dei rapporti incontra necessariamente la figlia della contessa, Chantal, il male e il dubbio; “la purezza non v’era più, ma né l’ira, né il disprezzo né la vergogna erano riusciti a cancellarne il segno misterioso: vi facevano semplicemente delle smorfie. La sua straordinaria nobiltà, quasi spaventosa, testimoniava la forza del male e del peccato, di quel peccato che non era il suo…”. Vengono in luce la volontà e la sua “direzione”: “io desidero tutto, io voglio conoscere tutto; se la vita mi delude, tanto peggio, farò il male per il male”. L’ambiguità sembra quasi aver perso la faccia, mentre rimane — quasi emblematica — in Serafita; senza voler eccessivamente caricare la presenza di Bernanos, credo che il richiamo a Mouchette sia pertinente.
In fondo, il tema cristiano della reversibilità rimane, e trova un aggancio anche nella figura del medico, l’ostinazione e la decadenza, la durezza (una “razza che resiste ai colpi”…. “Sapete quale motto ho scelto? Far fronte…”) e la sua refrattarietà; il tema si fa esplicito: “Non ho molta esperienza, ma credo di riconoscere immediatamente l’accento che tradisce una ferita profonda dell’anima”.
Sono variazioni tematiche, dicevo, per le quali Bresson avverte sintonia. Ma il rapporto col libro va più in là, diventa adesione stretta; solo che non credo sia molto fruttuoso proporre o riproporre il problema della “fedeltà” al testo, soprattutto se la si considera come testimonianza di rigore, oppure, all’opposto, come causa della subalternità del film e della sua “noia”.
Bresson stesso ha posto la questione in termini strutturali: “Per me, fedeltà allo spirito per mezzo (o attraverso) il rispetto della composizione e delle proporzioni stesse del libro” . A tal fine è allora interessante osservare alcuni aspetti del lavoro di mantenimento o riduzione (cioè le “proporzioni”) e le cadenze stilistiche (cioè la “composizione”).
Sotto il primo aspetto si può preliminarmente sottolineare come la “fedeltà” non escluda un diverso ordine o progressione degli episodi; vi è quasi una tendenza a ridurre a frammenti significativi e a tagliare. Ad esempio, nel libro è un chierichetto a riportare a casa di Serafita il paniere (non la cartella) gettato a terra, nel film è lo stesso curato, e lo scontro verbale tra la madre e il protagonista (che nel libro segue l’episodio) è tolto, riducendo tutto a comportamento.
Spesso il dialogo — o il “narratage” — usano le stesse frasi del libro, ma altrettanto spesso sono frasi costruite con brani riuniti in fase di sceneggiatura, o portate da discorso indiretto a diretto, o inserite in un altro contesto. L’analisi fatta in tal senso da Sémolué mi sembra utile; vorrei aggiungere alle sue osservazioni, la scelta e il collegamento di frasi attuate nel dialogo con Chantal (in sacrestia e poi in confessionale), e ancor più nell’incontro cruciale con la contessa. Anche sotto questo aspetto può essere utile la pur discutibile osservazione del critico, secondo cui “il passaggio dal romanzo di Bernanos al film di Bresson è il passaggio dal disponibile al necessario”.
Ci si rende conto, pure per questa via, che all’analiticità dello scrittore corrisponde una propensione del regista a concentrare attorno ad alcuni nuclei drammatici la forza dell’azione. Osserviamo innanzi tutto il contrasto interno del curato; il lavoro di sfrondamento è finalizzato a questo: mancano i riferimenti personali (la famiglia, p. 43, l’infanzia a Lens, p. 59), o alcune allusioni (il tema della lussuria, pp. 123 e 126, che fa intravedere una diramazione del contrasto che Bresson ignora).
I rapporti con gli altri nella parrocchia sono sfrondati o tolti: per esempio, l’attività sportiva (p. 90), o il dialogo con Arsenio (“Che si pensa di me nella parrocchia? … E voi? Che cosa pensate voi di me? …”). La dialettica del rapporto tra il protagonista e il curato di Torcy è resa essenziale, spesso se ne smussano i toni; “Ieri sono stato a far visita al curato di Torcy…”, del dialogo restano alcune frasi icastiche (“Un vero prete non è mai amato, ricordalo”) ma tutta la seconda parte è tolta. Mancano, inoltre, a ridurre forse la contraddizione fra le “due chiese”, la conferenza dell’arciprete di Bailloeil, l’incontro con il decano di Blangermont. Anche alcune disquisizioni teologiche sono scomparse, forse per attenuare il tono intellettualistico che talora Bernanos conferisce alla pagina, e che lascia trasparire dallo stesso diario del curato.
Inoltre, e mi sembra piuttosto importante, nel film sono tolti o sono solo accennati i riferimenti alla problematica “sociale” del Cristianesimo o ad alcuni risvolti “storici” (la Chiesa e il denaro, p. 75, la Chiesa e gli eserciti, p. 223).
Dal punto di vista della struttura del film si può notare ancora la soppressione di alcuni personaggi, come la signora Pégriot (la perpetua) o Sulpizio Mitonnet, forse per ridurre i rapporti, e quindi renderli più emblematici, e per riportare maggiormente l’attenzione agli aspetti «interiori”. Ma anche i personaggi rimasti sono in qualche modo “semplificati”, come il curato di Torcy, che perde nel film in capacità dialettica e in animosità, quella dimostrata — ad esempio — nella polemica contro Lutero o contro i “mercanti di frasi” (p. 65). In fondo mi pare che anche il suo contrasto interno sia messo poco in luce, a vantaggio della polarità che può rappresentare nei confronti del protagonista.
In alcuni casi sembra che Bresson punti all’icasticità di alcuni tratti, togliendo descrizioni o dialoghi; è il caso del dottor Delbende, della cui storia nulla compare, e il cui dialogo con il curato di Ambricourt è assai limitato. Altre figure sono maggiormente messe sullo sfondo, come Luisa, che compare più che altro come traccia di intrigo (la prima sequenza, l’abbraccio di lei e del conte, sottolinea questo aspetto). In altri casi il regista sembra condensare, nel libro la figura del compagno di seminario compare prima dell’incontro finale (che solo è rimasto nel film) attraverso la lettera, che il regista utilizza come raccordo narrativo, passando nel dialogo alcune battute indirette.
Circa gli spazi concessi agli episodi, si può notare che nel film acquista maggiore dimensione, rispetto al resto, il complesso delle scene legate al castello; nell’ambito delle quali, poi, alcuni fatti hanno diverso risalto, già per la loro collocazione: il primo incontro con la contessa è anticipato rispetto al libro.
Circa l’andamento dell’opera credo si possa preliminarmente notare una contraddizione, che ha aspetti positivi e negativi: da un lato Bresson collega e tende a mostrare azioni, e a riportare alla “visione” i motivi infilmabili del libro, dall’altro però ne mantiene il carattere letterario, arrivando anche a sottolinearlo; in questo senso ha ragione Bazin quando sottolinea il rifiuto di “adattare” il romanzo: “è in fondo lo stesso partito preso di quando dirige gli attori e cura l’ambientazione. Bresson tratta il romanzo come i suoi personaggi”.
Con queste argomentazioni siamo già arrivati alla seconda parte dell’analisi, quella riguardante, per usare le parole del regista, la composizione, cioè l’articolazione espressiva. Conviene forse, per dare linearità al discorso, rifarsi proprio a Bazin, per vedere quali siano a suo parere i pregi del film, non tanto per confutarli, quanto piuttosto per cercare di vedere come si tratti assai più di un difficile equilibrio stilistico, tra vecchio e nuovo, tra innovazioni e slittamenti, che di una sicura conquista.
L’indice del “contenimento” bressoniano può essere dato dalla mancanza di drammaticità nella recitazione; d’altronde è proprio con questo film che il regista comincia a utilizzare attori non professionisti, con la sola eccezione di Balpetré (il dottore Delbende) e di Marie-Monique Arkelle (la contessa). Certo, l’intento di smorzamento è senz’altro avvertibile, l’andamento “meditativo” è messo, in luce dal procedimento soggettivo (il diario in prima persona e la decantazione della pagina, sottolineata dalla prima didascalia, il cui testo compare nel libro dopo qualche pagina); ma ciononostante ci sono ancora influssi recitativi, e il “narratage” — poi — ha anche una funzione psicologica, cioè, in fondo, di appoggio al recitativo. Il film, allargando l’analisi, ha bisogno di alcuni elementi catalizzatori, dalla costruzione che — come vedremo — mira a creare scene centrali, sottolineate dal tipo di inquadratura: la figura contro lo sfondo del paesaggio, il risalto al senso di “chiusura” (inquadrature dall’esterno della stanza, da dietro i vetri, da dietro le sbarre del cancello). Il primo piano ha spesso una funzione psicologica, e la musica serve a rinforzare l’immagine (ad esempio mentre il protagonista legge la lettera della contessa, che accompagna l’invio della medaglia).
Il “narratage”, è stato osservato ancora, assume un preciso scopo stilistico, stabilendo in modo complesso il rapporto tra parola scritta e parola parlata, tra parola e immagine; non è quindi ancora in discussione il problema della “fedeltà” al libro, quanto della funzione, che cerca di non essere di illustrazione (anche se ci sono evidenti cadute).
Esso pertanto serve ad accentuare la non recitazione degli attori, e Bazin a questo proposito mette in luce il fatto che non si coglie una differenza tra la voce fuori campo e il dialogo (e al solito la tonalità della voce contribuisce a ciò, ed è in buona parte perduta nell’edizione italiana). Questa funzione è effettivamente svolta, ma c’è anche il pericolo che il “narratage” faccia da supporto, supplisca quanto manca all’immagine, e se lo smorzamento del tono rende meno evidente lo slittamento, rimane però anche la contrastante concomitanza. In altre parole, la presenza di un contenuto pregnante resta nella parola fuori campo, anche se la tendenza è viceversa quella di allentare, più che svuotare, i significati.
Bazin giustamente sottolinea il fatto che l’accostamento parola-immagine “svela maggiormente che sono intimamente eterogenee”, e anche per questo è mantenuta la letterarietà del testo. Tra narrato e reale si apre una discordanza, si indicano due piani di lettura, che giustificano, almeno in parte, l’accentuazione del primo. Dov’è allora, se c’è, il punto di convergenza? Non direi che “la discordanza ontologica fra due ordini di fatti concorrenti, confrontati sullo schermo, mette in evidenza quel solo metro che è loro comune: vale a dire l’anima”, perché si arriva al vago di un’indicazione, che è per giunta ancora dell’ordine dei significati; piuttosto sottolinerei lo sforzo di cercare, per immagine e parola, un’analoga dimensione temporale, che la seconda serve a decantare. E qui torna l’equilibrio difficile di cui parlavo; perché il testo vuole avere ancora una significazione, tende a “spiegare”, si porta dietro insomma una funzione tradizionale; da qui nasce probabilmente l’impressione di “pesantezza” che invece non si ha quando il testo non aggiunge, complicando.
Si arriva a uno dei fulcri stilistici del film, il suo andamento antidrammatico, ripreso e sottolineato anche da Sémolué (p. 112): “In ciascuna scena Bresson ha dimenticato ciò che sarebbe stato animazione superficialmente drammatica e ha mantenuto il soggetto in una tensione tragica in profondità”. Lo stesso regista ha tenuto a mettere in luce la tendenza antipsicologica di Bernanos, che va nella stessa direzione del suo cinema:
“In Bernanos vi è pittura, non analisi e psicologia. L’assenza di analisi e psicologia nei suoi libri coincide con l’assenza di analisi e psicologia nei miei film, un po’ alla maniera dei pittori ritrattisti”. In effetti c’è uno sforzo di smorzamento, più che punte emergenti si coglie un crescendo progressivo, che induce per esempio l’autore ad accelerare il finale (riducendo il dialogo con l’amico del compagno di seminario ecc.), a togliere per arrivare al “sacrificio”, che è quasi un cumulo di dosi aggiunte, gli sforzi e la disperazione, i tentativi e la solitudine. Eppure si avvertono lo stesso i passaggi della costruzione, la predisposizione o addirittura le “previsioni” (la lettera richiesta a Chantal, le parole di Serafita) o le illuminazioni drammatiche; per questo penso alla burrasca e la fuga in chiesa, o al lirismo mistico del finale, marcato ancora dalla musica e dai canti religiosi, che ricordano troppo da vicino la catarsi di Les anges du péché.
La costruzione a blocchi comunque interessa come anticipazione bressoniana; anche in seguito si osserva che la riuscita o il peso dell’opera derivano dal grado di depurazione nella predisposizione degli elementi, nella sottrazione all’impianto intellettualistico; il residuo di artificiosità che c’è in Balthazar dipende da questo.
Nel Diario la scansione è anche data dall’andamento, notato da Bazin, di sacra rappresentazione, messo in evidenza dalle analogie cristologiche. E poi vi è l’alternanza di condensazioni simboliche e rappresentative: la fatica fisica (il dolore), il vino (la condanna), l’ambiente (l’ostilità), gli altri (il conte, l’offesa, l’ipocrisia), la durezza (il vecchio che vuole il funerale “con pompa” per la moglie).
Questo sforzo di condensare si avverte anche all’inizio del film. Mentre il libro inizia con la descrizione del villaggio, la sua qualificazione (“miserabile”), e subito un’enunciazione concettuale (la sovrapposizione di bene e di male), il film inizia con la figura del prete, quindi puntando più sulla soggettività, e con un fatto rappresentativo (l’ostilità delle due figure di amanti).
La lingua in Bernanos ha un tono forte, carnoso, ma conosce anche l’allusività e la riflessione; Bresson tende a sciogliere in fatti o comportamenti. Ma non rinuncia a caricare, cadendo in scontate simbologie, come nella scena del ballo, insistita e scoperta (la musica che si sovrappone al primo piano del prete dormiente).
Anche in questo caso sono due spinte contrarie ad agire. Da un lato quella che porta Bresson a “liberarsi”, a cercare un rigore che nasce dall’impoverimento, attraverso note cadenzate; dall’altro c’è però l’urgenza di voler dire, quindi il peso di un’adesione che è talora ideologica e non mediata dallo stile.
A questo comunque occorre tornare, anche per sottolineare qualche anticipazione di ricerche posteriori. Le pagine del diario hanno sì lo scopo tradizionale di sostituzione, ma danno luogo anche a pieni e vuoti delle immagini, il monologo può essere un artificio esplicativo, ma si intravede anche lo studio di un rapporto diverso (ritmico) tra parola ed elemento iconico. Anche alcune elisioni hanno già caratteristiche bressoniane, come la morte del dottor Delbende, e la visita medica. Nel libro questa occupa quasi otto pagine (da p. 242 a p. 251), nel film è ridotta a una sequenza: la targa del medico, il prete che esce dalla porta, solo dopo (attraverso il diario) sapremo l’esito.
L’andamento narrativo attira l’attenzione. In fondo il punto portante è già quello dell’evento e della riflessione; il “narratage” ha quindi anche scopo di legame (il Condannato), la decantazione del diario è in qualche modo sulla linea di Pickpocket, l’interruzione del dialogo per fare una sottolineatura si ritroverà in Così bella, così dolce. Andando più a fondo si colgono contrasti non evidenti, tra intento lirico e peso concreto dei fatti; in questo senso si giustificano alcuni inserti che fanno “precipitare” la spinta “poetica”, dando risalto ai luoghi, spesso suggeriti nel romanzo, o cercando sfondi “reali” molto significanti (la capanna del dialogo col curato di Torcy, ad esempio).
Si arriva ai particolari, a taluni scorci degli esterni, agli interni del castello, con lo specchio che fa da sfondo al dialogo con la contessa (un ricordo di Les dames), all’insistenza che c’è talora sugli oggetti, o sui rumori, dosati e ricercati. La fisicità e l’allusività del paesaggio sono suggeriti dalla fotografia, tutta studiata nelle tonalità dei bianchi e dei grigi; il peso fisiognomia) dei personaggi appare sottolineato dall’uso del primo piano, anche se spesso il tono del viso spegne l’enfasi più che alzarla. Il campo controcampo scandisce certe punte, come nel brusco dialogo tra il conte e il curato dopo la morte della moglie. Si arriva al pezzo di bravura, come il colloquio con Chantal in confessionale: il gioco delle luci, quello dei piani (il prete “di quinta”, lei dietro), l’uso dei particolari (le mani), l’uscita di campo di lei mentre la macchina da presa rimane sul viso del prete.
Sono spunti particolari che testimoniano di una difficoltà generale, tra le aperture e il peso di un’adesione ideologica che preme sullo stile a predisporlo. Un film “di mezzo”, ambiguamente legato a modi tradizionali e già parziale anticipatore del cinema seguente.
Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp.69–77
Adelio Ferrero e Nuccio Lodato
A chi gli domandava, molti anni più tardi, perché avesse girato, nel 1950, Il diario di un curato di campagna, Bresson rispondeva, molto semplicemente:
«Mi è stato commissionato». Ma anche: «mi sono preoccupato di servire il libro e non di servirmene. Quello che più mi ha colpito è stato soprattutto il quaderno da scolaro del diario dove, attraverso la penna del curato, un mondo esteriore si trasforma in un mondo interiore e prende un colore spirituale». E ancora: «quello che mi piace, inoltre, in Bernanos, è che egli crea il soprannaturale muovendo dal reale» (Le Figaro Littéraire: tr.it. Cinema 60, n. 62 63, 1967).
E tornando sulle affinità profonde, tutt’altro che occasionali, con l’autore del Diario e di Mouchette, Bresson potrà infine concludere pacatamente, fuori da polemiche contingenti: «Siamo cristiani entrambi: questa è già una comunione di interessi, una affinità elettiva. Ma ciò che mi attrae maggiormente in Bernanos è l’assoluta mancanza, nei suoi romanzi, di psicologismo letterario. Il cinema non deve infatti, secondo me, esprimersi con le parole ma deve trapelare attraverso le immagini. Ci sono poi, in Bernanos, certe ottiche, certe prospettive, per quel che riguarda il soprannaturale, che sono sublimi» (Rivista del Cinematografo).
Il Diario di Bernanos aveva tentato, prima di Bresson, altri registi: una sceneggiatura, scritta da Aurenche e Bost nell’immediato dopoguerra, fu respinta senza mezzi termini dallo scrittore che in quella occasione chiarì anche il suo pensiero a proposito di una eventuale trasposizione cinematografica del libro: «È chiaro, per me, che il cineasta deve sognare di nuovo il sogno del narratore. Il diritto di questi su quel sogno non potrebbe riguardarne che lo spirito. È appunto lo spirito del mio libro che ho temuto di vedere crudelmente falsato» (lettera a SamediSoir, 8 novembre 1947).
Bernanos morì nel 1948 e non poté pronunciarsi sulla sceneggiatura e sul film di Bresson che sollevarono perplessità e dissensi, accomunando tendenze e uomini disparati. A un Agel che, rimpiangendo la scomparsa dei «moti potenti e tumultuosi di Bernanos», si chiede se Bresson non appartenga a quella tendenza manichea che «non sa perdonare al nonspirito di non essere spirito» fa eco il giudizio fortemente limitativo di Rivette, secondo il quale «la profondità di Bernanos è scomparsa dal film di Bresson». Mentre Kyrou, più drasticamente, dopo aver affermato che l’operazione era votata in partenza al fallimento, denuncia la «noia mortale», l’«immobilità» e la pessima lega dell’«estetismo» bressoniano.
Un giovane prete, la cui voce narrante dà lettura del diario che è aduso tenere su di un quaderno di scuola, giunge come parroco di prima nomina ad Ambricourt. I primi approcci coi parrocchiani non sono particolarmente incoraggianti: il più esperto collega di Torcy, dal quale si reca in visita, lo consiglia di farsi più rispettare e obbedire, che non amare. Il curato, che ha l’abitudine di nutrirsi poveramente ed emblematicamente solo di pane intinto nel vino, non ardisce respingere l’offerta del vicesindaco di donare la luce elettrica alla canonica, e finisce per non condannare i balli, considerati immorali, che si tengono nel di lui locale.
Sofferente di solitudine, ha ulteriori contatti con il proprio gregge. La bambina Seraphita, al catechismo, si dichiara attratta dalla bellezza del suo sguardo, mentre le altre alunne ridacchiano maliziosamente. Da un colloquio con l’istitutrice dei castellani del paese, Louise, apprende delle sofferenze della contessa, che ha perduto un figlio, e della problematica vita in famiglia dell’altra figlia Chantal. Si reca in visita al maniero, accolto piuttosto malamente dal conte, e con evidenti difficoltà psicologiche dalla sua consorte.
Il medico del paese, Delbende, visita il curato e gli rivela l’alcoolismo ereditario che lo affligge. Seraphita lo provoca ulteriormente, e anche sua madre ha male parole per lui.
Lo stesso curato di Torcy non ne condivide l’eccessiva emotività e astrattezza di condotta.
Il curato si rinchiude nella preghiera, ammettendo con il diario la propria disperazione. Una detonazione anticipa di poco la notizia del suicidio di Delbende, che l’amico sacerdote di Torcy fa risalire alla sua mancanza di fede.
Chantal lo mette a parte del proprio odio per Louise, rivelandogli che è l’amante del padre. In confessione, gli confida di volersene fuggire per disonorare la propria famiglia. La stessa contessa ha con il curato un colloquio drammatico, e la notte successiva muore. La famiglia del conte e lui stesso gli rinfacciano le ingerenze nella loro vita. Il curato di Torcy, pur ammettendo di non comprendere lo stile pastorale del più giovane confratello, gli è invece di fatto vicino.
Di ritorno da Torcy, nella notte, il curato ha un malore e sviene per strada. Lo soccorre Seraphita. Lavandosi in canonica le vesti macchiate di sangue, il giovane sacerdote decide di raggiungere in treno la città per sottoporsi a una visita. Chantal lo saluta alla stazione confermandogli i suoi intenti distruttivi, nonostante Louise abbia lasciato il castello dopo la morte della contessa.
La diagnosi del dottor Lavigne è infausta per il curato: non la temuta tubercolosi, ma un cancro allo stomaco. Non se la sente di tornare ad Ambricourt. Chiede ospitalità a un excompagno di seminario spretatosi, Dufréty, che convive in città con una donna. Presso di lui è intenzionato a riposarsi e a completare il diario: ma va, di fatto, a morire. L’amico informa per lettera del tragico epilogo il curato di Torcy, riferendogli le ultime parole del morente: «Che importa? Tutto è Grazia».
È, in particolare, sulla questione della “fedeltà” al testo che le oscillazioni e i contrasti appaiono clamorosi: se per Henry Jeanson è stato proprio l’«eccesso di fedeltà» a tradire il regista che, rendendo noioso quel che nel libro era appassionante, ha cosi toccato il «colmo del tradimento», Rivette è convinto invece di trovarsi di fronte a «un vero e proprio esempio di adattamento, “per vie traverse”, che avrebbe sicuramente reso furioso Bernanos: tutto ciò che Bernanos aveva scritto, nel film di Bresson è scomparso». In quanto al regista, continuerà a battere il tasto della «fedeltà allo spirito nel (o attraverso il) rispetto della composizione e delle proporzioni stesse del libro», pur precisando che, se «ogni opera possiede una verità intrinseca», «la verità del film non poteva coincidere esattamente con quella del libro» (citazione da Briot).
A questa discussione, spesso oziosa e incline a smarrirsi in vaghe generalizzazioni sui rapporti tra cinema e letteratura, film e romanzo, recherà un contributo chiarificatore l’esemplare articolo di André Bazin del giugno 1951: «Alla potente evocazione concreta del romanziere, il film sostituisce l’incessante povertà di una immagine che si sottrae per il semplice fatto che non si sviluppa» (e Bresson, in sintonia con il più attento dei suoi critici: «Esprimere comprimendo. Mettere in una immagine quello che lo scrittore diluirebbe in dieci pagine», Notes sur le cinématographe, p. 98; «Non si crea aggiungendo ma levando. Sviluppare è altra cosa dal diluire», ibidem, p. 99).
Particolarmente acute, anche perché facevano giustizia di molte dispute vane, le osservazioni di Bazin sulla “posizione” del film rispetto al romanzo:
«Non si tratta più qui di tradurre nel modo più fedele e intelligente possibile, meno ancora di ispirarsi liberamente, pur con amorevole rispetto, per ottenere un film che sia la ripetizione di un’opera; si tratta piuttosto di costruire sul romanzò, con il cinema, un’opera posta in una seconda posizione. Non già un film “paragonabile” al romanzo o “degno” di questo, ma un nuovo essere estetico che è come il romanzo moltiplicato dal cinema».
La vitalità di questo “nuovo essere” era assicurata, secondo il critico, da «un gioco alterno di letteratura e di realismo che rinnova le possibilità del cinema proprio attraverso una apparente negazione» e che regola la «dialettica bressoniana fra l’astrazione e la realtà, grazie alla quale a noi si rende palpabile soltanto la realtà delle anime» (A. Bazin, Cahiers du cinéma, n. 3, 1951).
Molte delle riserve espresse dalla critica, e respinte da Bazin, nascevano soprattutto dal rilevare come, nella rilettura bressoniana, diventasse dominante, per non dire esclusiva, la figura del curato che ha scelto, una volta per tutte, «la spaventevole presenza del divino» nella propria vita per cui, pur conoscendo spesso il vuoto interiore del silenzio di Dio e il senso di impotenza di fronte al mondo, non abbandona mai la sua vocazione più vera, quella di «andare sino in fondo». Senza dubbio, era stata la “diversità” di questo personaggio, la sua radicale divergenza dal mondo dei valori affermati, la coesistenza in lui — dietro le apparenze squallide e mortificate — di una fortissima temperatura morale e di una intransigente compenetrazione di “spirito d’infanzia” e di “spirito di povertà”, a toccare profondamente l’autore di La conversa di Belfort.
Questa lettura a senso unico, che sacrifica o ignora molti aspetti della “filosofia” bernanosiana, può lasciare, ovviamente, assai insoddisfatto il lettore che si attenda una trasposizione “fedele”, almeno nella sostanza. Scompaiono infatti nella elaborazione definitiva (anche se alcune scene furono girate, ma escluse poi dal montaggio) alcune figure “minori” ma indicative della diffusa sordità morale con cui il protagonista si scontra (è il caso del giovane Mitonner e della signora Pégriot) o di un conflitto interno alla amministrazione ecclesiastica (è il caso del decano).
Altri personaggi (l’istitutrice, il giovane Olivier, il medico di Lilla), che nel romanzo avevano grande rilievo anche in rapporto alla dialettica interiore del curato e alla sua angoscia di fronte alle anime che gli evocano la condizione della “caduta”, perdono densità e durata, riducendosi a labili apparizioni.
Ma l’insoddisfazione può risultare ancora più netta e motivata dinanzi all’impoverimento che subiscono alcune figure le cui implicazioni ideali, in Bernanos, apparivano drammaticamente tese e scoperte. È il caso del dottor Delbende, con la sua morale eroica e disperata del «far fronte», ma pensiamo soprattutto al curato di Torcy, personaggio di vigoroso rilievo spirituale, con il suo «riso coraggioso ma infranto», dietro il quale urge, come una tempesta allontanata ma non mai vinta una volta per tutte, la collera per l’ingiustizia e l’amore della “povertà”: amore profondo, riflessivo, lucido, «da uguale a uguale».
Impoverimento particolarmente sensibile perché la restituzione bressoniana appare esile, risolvendosi il personaggio in una sorta di contraltare solido e bonario alla fragilità e alle esitazioni del protagonista. Scompaiono cosi le due facce della polemica antiistituzionale e antimondana di Bernanos: quella aristocratica, racchiusa nel «tutto o nulla» di Olivier, con le sue conseguenze nichilistiche, e quella cristiana e “miserabilistica” del curato di Torcy. Due facce che, accomunate dal radicalismo etico antiborghese, coesistono e spesso si sovrappongono con esiti inquietanti.
Con questi, e altri possibili rilievi, non si tratta, ovviamente, di rimproverare a Bresson scarso “rispetto” dell’originale né di pretenderne un puntuale “adattamento” cinematografico, estraneo agli interessi e alle propensioni del regista, ma di chiarire il senso e i limiti della sua rilettura. La quale, del resto, non è poi meno netta, anche se meno appariscente, nei confronti del protagonista.
Scomparse del tutto certe “tentazioni” che il giovane curato sente riaffiorare dalla propria sgraziata adolescenza (l’orgoglio dei miserabili», ad esempio, e il sentimento, che gli veniva dalle pagine di Gor’kij, di «tutto un popolo per compagno»), è la dialettica interiore del personaggio, ansiosamente sbilanciata tra “rigore” e “tenerezza”, “riflessione” e “slancio”, a interessare il regista ma, anche qui, lasciando spesso in ombra il versante del tormentoso confronto del curato con se stesso, per isolare e circoscrivere invece il nucleo lirico di una situazione spirituale: l’impulso interiore, la violenza e la capacità di slancio della determinazione morale, un’intransigenza che brucia come fuoco bianco dentro quelle apparenze timide e sgraziate.
La struttura e la scansione del diario, conservate amorevolmente dal regista, accentuano, esasperandola, la condizione di isolamento: le pagine del quaderno sulle quali il curato annota i poveri fatti e i grandi dubbi e trasalimenti delle sue giornate, riempiono lo schermo fin dall’inizio e vi torneranno più di una volta, a racchiudere e scandire il luogo di una riflessione solitaria e implacata.
Le parole, tracciate sui fogli con una grafia incerta e smozzicata, vengono restituite contemporaneamente dalla voce uniforme e sommessa del protagonista, spegnendone l’inflessione drammatica, presente nella pagina del romanziere, nella neutralità di quel parlare “recto tono” su cui si fermava Bazin, per il quale il Diario poteva essere definito «un film muto con sottotitoli parlati».
Se Bernanos era incurante delle sproporzioni che si stabilivano, nella distribuzione della materia, tra l’annotazione breve e brevissima — non più di un appunto, da colmare con le risorse della memoria e del discorso interiore — e alcuni blocchi di grande respiro narrativo e drammatico, Bresson sembra perseguire invece una durata uniforme e continua attraverso l’estrema frammentazione del diario-racconto in sequenze brevi e brevissime, che si sciolgono l’una nell’altra senza soluzione di continuità, rifiutando quasi sempre gli stacchi e valendosi prevalentemente di dissolvenze, molte delle quali incrociate.
L’azione sullo schermo si svolge al presente, ma la voce del protagonista, in campo o fuori, descrivendola e commentandola, la allontana nel passato: gesti e parole ci ritornano smorzati, attutiti, come se la sordità del contesto li riassorbisse non appena vengono compiuti e pronunciati. Lo stesso procedimento, ma con altra funzione, torna nelle frequenti dissolvenze verbali per cui, ad esempio, un dialogo si spegne e continua in un monologo.
Nel primo colloquio con il parroco di Torcy, le parole di questi si smorzano improvvisamente sul volto in lacrime del suo giovane interlocutore, poi riprendono e concludono sul motivo, anticipato dall’immagine precedente, del “prigioniero della Santa Agonia”; nella sequenza dei funerali del medico, il dialogo tra quegli stessi personaggi dissolve nel monologo del curato, e così avviene anche nella scena del drammatico scontro con la contessa.
Questi e altri procedimenti indussero certa critica italiana a parlare di “compostezza” eccessiva, amore maniaco dello stile, ecc. Ma si trattava di ben altro. Nelle sequenze che abbiamo ricordato (ma il rilievo interessa tutto il film), l’aspirazione e l’apertura al dialogo si richiude continuamente, penosamente, nella coazione al monologo. Il sentimento doloroso della solitudine riaffiora, con intermittente fissità, da tutti i luoghi del film.
La “camera” si avvicina al personaggio, isolandone il volto e spiandone le reazioni più segrete, mentre gli altri lo feriscono con i loro discorsi o con il silenzio: «si tratta — diceva Bresson — di sorprendere l’attore, non l’attore-attore, ma l’attore-creatura vivente, di captare in lui, in quel certo tratto della sua fisionomia, ciò che egli può dare di più raro e di più segreto, ciò che egli può dare in proprio, quella scintilla che mi fornirà la chiave del problema» (Briot). E Bazin parlava di «permanenza dell’essere», «velo di un destino».
È una solitudine che, negli altri, sottintende e rivela, nelle apparenze dell’inimicizia o del rancore, una diffidente paura di aprirsi: nella sequenza in cui i volti del curato e di Chantal affiorano e si stagliano sul fondo nero del quadro, la contiguità di due condizioni interiori che si negano irreversibilmente a vicenda non potrebbe essere suggerita con maggiore evidenza, fuori da ogni mediazione psicologica, attingendo i moti della coscienza nella fisicità del volto e del gesto “automatico”. Nel difficile, triste incontro con Dufréty, l’ex compagno di seminario, le luci radenti illividiscono i volti, chiusi e contratti nella pena e nello sforzo della reticenza.
La solitudine trova un riscontro continuo e fermissimo nella uniformità del paesaggio autunnale: il giardino del conte, con la casa che si intravede nel fondo, dietro una cortina di viali umidi di pioggia; il crinale del monte, con il grande albero piegato e contorto al quale il curato si appoggia; le file di piante sottili e intirizzite dove la sua sagoma scura, curva sulla bicicletta, appare e sparisce come una presenza incongrua; il fango delle strade di paese nelle quali si allontana di corsa Séraphita dopo avergli gettato ai piedi la cartella di scuola, con uno scatto impenetrabile e ostile. Tutto riporta sempre a se stessi, alla tormentosa confidenza con la propria “natura”.
E il motivo della separazione e della impenetrabilità delle anime viene restituito, secondo un procedimento che tornerà spesso nel Bresson maggiore, attraverso il linguaggio delle cose e degli oggetti: anche qui una porta che si chiude alle spalle sottintende incomprensione e rifiuto, vetri e finestre separano dagli altri, i cancelli del palazzo nobiliare tengono lontani i “semplici” («dovrebbero dire: i re», commentava Bernanos) dai mediocri intrighi dei grandi.
Questa continuità della solitudine, in cui Bresson spegne le accensioni e gli strappi dello scrittore, non è senza conseguenze sulla definizione morale del protagonista: la sua “diversità”, oggetto di disagio e di scandalo («che mi si rimprovera?», «d’essere quel che siete… la gente non odia la vostra semplicità, se ne difende. È una specie di fuoco che brucia», risponde il canonico di La MotteBeuvron), viene affermata spesso ma non traspare sempre con la necessaria intensità e nettezza.
E la “recitazione” incerta, estenuata, di Claude Laydu, soprattutto nella prima parte, accentua l’aspetto predicatorio-supplichevole rispetto a quello “infantile” ed estremo. La “diversità” viene dunque recuperata alla distanza, per via di sintesi affidata a un arduo impegno di ricomposizione da parte dello spettatore.
Esplode violentemente, con tutta la sua carica implicita e sottaciuta di antagonismo, solo in alcuni momenti di più aspro confronto morale. In questo senso, commisurata al contesto da cui prende corpo, la sequenza del drammatico scontro con la contessa risulta veramente “spropositata”: letteralmente fuori delle proporzioni e cadenze del film.
Ma non meno “inattendibile” appare la figura del giovane parroco infantilmente appollaiato sulla motocicletta di Olivier che corre verso la stazione fendendo il silenzio del paese. Due situazioni profondamente diverse: un aspro e impietoso confronto la prima, che può concludersi soltanto con una duplice e convergente sconfittavittoria dell’orgoglio e della verità; un momento di infantile, insperato abbandono, la seconda.
Entrambe spezzano, per vie diverse, il continuum della solitudine e, attraverso il varco che si apre, la vita interiore del protagonista si afferma, o viene suggerita, in tutta la sua ansia di apertura e condivisione.
Tra questi rari momenti di conquista il vuoto ha una densità tangibile, e i suoi rumori che affiorano dal silenzio, accentuano la solitudine e la irriducibilità di queste esperienze interiori: durante il dialogo del curato con la contessa, si avverte il suono sottile e insistito del rastrello che il giardiniere passa sull’erba del prato; al castello, dopo la morte della signora, la presenza della gente intorno al protagonista è un confuso andirivieni di figure incolori, un indistinto brusio di parole.
Altre volte, invece, si creano lancinanti, inspiegabili sintonie: il suicidio del dottor Delbende viene anticipato, prima del dialogo esplicativo con il sacrestano, da un colpo di fucile e dal latrato di un cane che si staccano sul volto attento e inquieto del curato, su una strada di campagna.
«Di fatto — osservava Bazin — il suono qui non si trova mai per completare l’avvenimento visto: lo rafforza e lo moltiplica, come la cassa armonica del violino le vibrazioni delle corde». E Bresson, nelle Notes: «I soggetti religiosi ricevono la loro dignità ed elevazione dalle immagini e dai suoni. Non (come si crede) il contrario: che le immagini e i suoni le ricevano dai soggetti religiosi…».
La tensione che il film accumula e allontana per tutto l’arco della sua crescita diventa più scoperta e si scioglie, infine, nell’ultima parte con i suoi tempi raccorciati e riavvicinati, quasi rovinosamente: l’incontro con il medico si riduce al chiudersi di una porta — qualcosa di silenziosamente definitivo — alle spalle del curato; nella strada egli cammina come un sonnambulo; il gelo e il sordo frastuono della chiesa lo rimanda a se stesso e alla sentenza appena ascoltata; le parole della donna del bar suonano inconsapevole scherno; l’incontro con Dufréty e con la sua compagna è l’ultima tappa, penosissima, di un calvario oscuro e misconosciuto.
Una sorda, angosciata discesa verso l’oscurità: ma con l’intermezzo dei puri mattini di Ambricourt che riaffiorano, bellissimi e struggenti, nella trasparenza della memoria, e la ritrovata persuasione che «tutto è Grazia»: l’ultima immagine sarà quella di una croce nera e spoglia che accompagna, in un interminabile piano fisso, la lettura della “relazione” inviata da Dufréty al parroco di Torcy.
Ancora Bazin, dopo aver osservato che la «vera struttura» del film non era quella della tragedia ma della Via Crucis, segnalava attentamente «le analogie cristologiche di cui abbonda il finale», culmine di una «nuova drammaturgia specificatamente religiosa o, meglio, teologica: una fenomenologia della salvezza e della Grazia».
Interpretazione che, accogliendo integralmente la rilettura bressoniana del romanzo, non solo non la discute ma ne eleva i limiti a proposta esemplare e assoluta: i «rapporti fra interprete e testo, fra parole e volti» intesi come “complicità” e “linguaggio dell’anima”, la celebrazione dello «schermo privo di immagini e dato in possesso alla letteratura» come «successo del cinema puro» e «trionfo del realismo cinematografico» («Bresson “ritorna” al cinema muto… per ritrovare la dignità del volto umano come l’avevano compreso Stroheim e Dreyer»).
Mentre, su un diverso versante, un Estève lamenterà l’assenza, nel finale, della «doppia dimensione storica e sociale» che era presente in Bernanos. In effetti, l’eclissi di certi personaggi e situazioni e la riduzione di altri a mera occasionalità comporta, con l’impoverimento di cui abbiamo parlato, una limitazione dello spazio sociale del romanzo e una restituzione ellittica e allusiva della dialettica tra il personaggio e l’ambiente.
Ma Bazin, nell’accostarsi a un film che gli è per tanti versi congeniale, rende la rilettura bressoniana ancora più rettilinea e unilaterale. La «fenomenologia della salvezza e della Grazia», celebrata dal critico francese e sospetta, di riflesso, a molta critica italiana degli anni Cinquanta, è molto più accidentata e controversa di quanto non risulti dalla pagina di Bazin. Essa non si afferma contro la miseria del curato, come una necessità trascendente e irreversibile, ma ne costituisce la liberazione lirica, penosamente conquistata dentro le strutture di un’esistenza impoverita e meschina. Come la musica che si stacca, alta e vittoriosa, sulla figura del parroco che benedice la contessa, quella liberazione vive di movimenti impetuosi che si sciolgono dalla scorza di una quotidianità insidiosa e umiliante, ma rischiano di esserne continuamente spenti e risucchiati. È soltanto nella morte (come in La conversa di Belfort, o in Mouchetté) che la liberazione di quella “diversità” irriducibile può trovare, paradossalmente, realizzazione e compimento. Il cristianesimo di Bresson conosce e condivide, fin dagli inizi, il fascino e il mistero della negazione.
Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 55–65