Il conflitto franco-prussiano del 1870

L’episodio di Ems (12-13 luglio 1870)

Mario Mancini
10 min readMar 16, 2020

Vai agli altri capitoli del libro “Documenti storici”

Napoleone III a Bismark dopo la battaglia di Sedan vinta dai prussiani. Wilhelm Camphausen, 1878, Archvio di Stato centrale di Sofia.

A chiarimento del celebre resoconto che Bismarck dà della vicenda nei suoi Pensieri e ricordi, con le pagine di cui qui sotto si riproducono le parti essenziali, converrà ricordare che, nonostante le sue affermazioni in contrario, Bismarck non era affatto estraneo all’offerta della corona di Spagna al principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen (lontano parente della casa regnante di Prussia, e imparentato anche con i Bonaparte).

Una prima offerta era stata infatti declinata dal principe Leopoldo già nel 1869, anche per lo scarso favore mostrato dal re Guglielmo di Prussia; ma non v’è dubbio che Bismarck agì d’intesa con il primo ministro spagnolo maresciallo J. Prim per ottenere che la stessa offerta venisse ripresentata nel febbraio 1870, e che insistette poi vivamente perché venisse accettata: ciò che accadde il 23 giugno, dopo che il principe Leopoldo aveva ottenuto il riluttante consenso del re Guglielmo.

Senonché, la notizia trapelò il 3 luglio successivo, e il governo francese diede inizio alla sua azione diplomatica che, coronata dapprima da successo, con la rinuncia del principe Leopoldo resa nota il 12 luglio, doveva poi condurre alla guerra (19 luglio), grazie alle eccessive richieste presentate al re di Prussia e al telegramma spedito alle 15.50 del 13 luglio da re Guglielmo, che si trovava ai bagni di Ems, all’indirizzo di Bismarck, a Berlino, che lo ricevette alle 18.09, e lo rese poi noto in forma abbreviata e più drastica.

Per ciò che riguarda i moventi e le mire dei due governi, si tenga presente che Bismarck, con l’offerta della corona spagnola al principe Leopoldo, tendeva soprattutto ad ottenere un successo di prestigio per la dinastia degli Hohenzollern, di cui aveva già proposto invano l’innalzamento alla dignità imperiale germanica; e che in secondo luogo egli mirava a indebolire la Francia, per dissuaderla dal temuto intervento contro gli sforzi diretti a unificare la Germania sotto guida prussiana.

L’umiliazione subita in seguito alla rinuncia del principe Leopoldo lo indussero poi a lanciare, col telegramma di Ems, la sfida che doveva risolvere in maniera radicale il problema dell’unità germanica e quello della sua posizione e della sua sicurezza in Europa. Da parte francese, lo scacco subito nel 1867 sulla questione del Lussemburgo, la gelosia dei successi prussiani, e le preoccupazioni, specialmente vive negli ambienti bonapartisti, per il declinante prestigio dell’impero, avevano creato uno stato d’animo che, impersonato, oltre che da Émile Ollivier e dal duca di Gramont, ministro degli esteri, anche dall’imperatrice Eugenia, fini per prevalere sulle inclinazioni pacifiche di Napoleone III. Si è anzi ritenuto che l’ala bonapartista avrebbe insistito per la guerra anche se il telegramma di Ems non fosse mai esistito.

Il testo di Erinnerung und Gedanke del Bismarck è da vedere, fra le molte edizioni, in quella a cura di G. Ritter e R. Stadelmann, nelle Gesammelten Werke [Opere complete], Berlin, 1924-33, vol. XV. Le pagine che seguono sono tolte dalla traduzione italiana: Pensieri e ricordi, Milano, 1922, vol. II, pp. 79-88. Il dispaccio, nella redazione originaria del re e in quella abbreviata dal Bismarck, insieme con una raccolta dei più importanti documenti relativi alla questione, in Quellen für neueren Geschichte, Die Emser Depesche [Il telegramma di Ems], a cura di E. Walder, Bern, 1959. Per l’inquadramento storico cfr., nella vastissima bibliografia, P. Matter, Bismarck et son temps [Bismarck e il suo tempo], vol. II, Paris, 1908, p. 12 e sgg.; E. Eyck, Bismarck, Leben und Werk [La vita e l’opera], Erlenbach-Zürich, voll. 3, 1941-44; riduzione e traduzione italiana, Bismarck, Torino, Einaudi, 1930, pp. 206 e sgg.; L. Reiners, Bismarck, vol. II, München, 1957, pp. 374-420.

… Alle prime e non giustificate richieste della Francia circa la candidatura al trono spagnuolo, il nostro ufficio degli esteri avea già risposto il 4 luglio, in modo evasivo, ma conformemente alla verità, che cioè il ministero nulla sapeva di questa cosa. Il che era vero in quanto la quistione dell’accettazione del trono spagnuolo da parte del principe Leopoldo era stata trattata da Sua Maestà solamente come un affare di famiglia, il quale non riguardava per nulla né la Prussia né la Confederazione della Germania del Nord; trattandosi unicamente dei rapporti personali tra il Capo supremo dell’esercito e un ufficiale tedesco, fra il Capo, non solo della famiglia reale prussiana, ma di tutta quanta la famiglia Hohenzollern e coloro che portavano questo nome.

Ma in Francia si cercava un caso di guerra contro la Prussia, il quale per quanto possibile fosse privo di colorito nazionale-tedesco; e si credette di averlo trovato nel campo dinastico, presentandosi un pretendente al trono di Spagna di nome Hohenzollern. Ed inoltre la stima soverchia della superiorità militare della Francia, e il poco conto in cui si teneva il sentimento nazionale della Germania costituirono certo il motivo essenziale per cui non si stesse a esaminare questo pretesto di guerra né con onestà né con cognizione di causa… Già nel fatto che il Gabinetto francese si era permesso di domandar conto alla politica prussiana di quest’accettazione della corona spagnuola — e ciò in una forma che, stante l’interpretazione dei fogli francesi, suonava aperta minaccia — già in questo fatto, dico, notavasi una imprudenza internazionale, che per noi, a mio avviso, implicava, l’impossibilità di retrocedere anche soltanto d’un pollice.

Il carattere offensivo della pretensione francese fu aggravato non soltanto dalle sfide minacciose della stampa francese, ma anche dalle manifestazioni parlamentari e dall’atteggiamento che di fronte ad esse prese il ministro Grammont-Ollivier. Le espressioni di Grammont nella seduta del corpo legislativo del 6 luglio, erano una minaccia ufficiale fatta col pugno sull’elsa:

«Noi non crediamo che il rispetto dovuto ai diritti di un popolo vicino ci obblighi a sopportare, che una Potenza straniera ponga uno dei suoi principi sul trono di Carlo V… Questo caso non avverrà, ne siamo certi… Se avvenisse altrimenti, noi… sapremmo adempiere il nostro dovere senza esitazioni e senza debolezza».

Con la frase:

«La Prusse cane»

,la stampa spiegava quale significato dovesse darsi alle discussioni parlamentari del 6 e del 7 luglio; e ciò, pel nostro onore nazionale, rendeva impossibile, secondo me, ogni arrendevolezza.

…Mi decisi il 12 luglio di partire da Varzin per Ems, per raccomandare a Sua Maestà la convocazione del Parlamento dell’Impero a fine di provvedere alla mobilizzazione… Entrando nel cortile della mia casa a Berlino e prima ancora di scendere dalla carrozza ricevetti telegrammi da cui risultava che il re, dopo le minacce e le offese francesi, fatte dal parlamento e dalla stampa, continuava tuttavia a trattare con Benedetti, senza rimandarlo con fredda riserbatezza a’ suoi ministri. Durante il desinare a cui presero parte Moltke e Roon giunse dall’ambasciata di Parigi la notizia che il principe di Hohenzollern aveva rinunciato alla candidatura per evitare la guerra di cui la Francia ci minacciava.

Mio primo pensiero fu di abbandonare il servizio, poiché dopo tutte le provocazioni offensive che avevano avuto luogo, vedevo in questa sottomissione forzata un’umiliazione della Germania di cui non volevo rendermi ufficialmente responsabile. Quest’impressione di offesa fatta al nostro sentimento nazionale coll’obbligarci a una tale ritirata era in me così prepotente, ch’io ero risoluto di annunziare ad Ems le mie dimissioni… Nello stesso senso parlai col ministro della guerra von Roon: dissi oramai aver noi lo schiaffo francese sulla guancia; e l’arrendevolezza nostra averci posto in tal condizione, che se avessimo voluto far la guerra, la quale sola potea lavarci questa macchia dal viso, saremmo stati chiamati attaccabrighe; essere la mia posizione ora insostenibile già divenuta tale dal fatto che il re, durante la sua cura ai bagni, e sotto la pressione di minacce, aveva per quattro giorni consecutivi ricevuto in udienza l’ambasciatore francese, e, senza chi l’assistesse, esposto la sua real persona ai maneggi spudorati di questo agente francese.

Per questa inclinazione a prendere personalmente su di sé solo gli affari di stato, il re era stato spinto in una situazione che io non potevo approvare; a mio avviso Sua Maestà avrebbe dovuto respingere ogni pretesa che il negoziatore francese, a lui non pari, avesse di trattar d’affari con lui, e dirigerlo a Berlino presso gli uffici competenti; avrebbe poi avuto notizie delle decisioni del re stesso per mezzo di una comunicazione orale a Ems o — se si trovava utile una dilazione — per mezzo di una comunicazione scritta.

Ma l’augusto Signore, per quanto correttamente rispettasse di regola l’opinione de’ suoi ministri, era troppo proclive, non già a decidere personalmente delle quistioni importanti, ma a trattarle; e perciò non poteva trar profitto di quei ripari di cui è circondata opportunamente la Corona contro le indiscrezioni, le sconvenienti domande e le pretensioni…

Deciso di ritirarmi a dispetto dei rimproveri che mi faceva Roon, il 13 [luglio] l’invitai unitamente a Moltke, a pranzare meco in tre; e a tavola comunicai loro le mie vedute e le mie intenzioni. Ambedue rimasero costernati assai e indirettamente si lagnarono meco che io approfittassi egoisticamente della maggior facilità che in confronto di loro avevo di ritirarmi dal servizio. Sostenni l’opinione che io non potevo sacrificare alla politica la mia dignità, e che essi, come soldati di professione, non essendo liberi di agire, non dovevano considerare la cosa dal medesimo punto di un ministro degli esteri responsabile.

Durante la conversazione mi fu annunziato che si stava traducendo un telegramma in cifre, di circa 200 gruppi se ben ricordo, il quale veniva da Ems ed era firmato dal Consigliere segreto Abeken. Dopo che fu decifrato me lo portarono, e visto che Abeken aveva redatto e sottoscritto il telegramma per ordine di Sua Maestà, lo lessi a’ miei ospiti, i quali furono colti da sì profonda costernazione, che ebbero a sdegno e cibi e bevande[1].

Rileggendo il documento, mi soffermai sulle parole con le quali S. M. mi autorizzava à comunicare subito, sia ai nostri ambasciatori sia alla stampa, la nuova pretesa di Benedetti e la ripulsa avutane. L’autorizzazione implicava un incarico. Feci alcune domande a Moltke per conoscere quanta fiducia egli avesse nei nostri preparativi e il tempo che essi richiedevano ancora per poter far fronte a un improvviso pericolo di guerra.

Egli rispose, che se la guerra doveva farsi, non c’era nessun vantaggio per noi in una dilazione nel venire alle armi; quando pure non potessimo da principio essere forti abbastanza da difendere ogni punto della riva sinistra del Reno contro l’invasione francese, ben presto tuttavia saremmo pronti alla guerra assai più dei francesi, mentre in un periodo posteriore questo vantaggio si sarebbe fatto minore; ch’egli, tutto considerato, riteneva più vantaggioso per noi un rapido scoppio della guerra, che non un indugio.

Di fronte al contegno della Francia, ci costringeva alla guerra, a mio avviso, il sentimento dell’onor nazionale; e se non avessimo reso giustizia alle esigenze di codesto sentimento, avremmo perduto, quanto al compimento del nostro sviluppo nazionale, tutto il vantaggio avuto nel 1866. Si sarebbe raffreddato di nuovo il sentimento nazionale tedesco, che i nostri successi militari del 1866 avevano reso così forte al sud del Meno, come si vide dalla prontezza con cui gli Stati del sud aderirono alla Confederazione.

… Così convinto, feci uso dell’autorizzazione reale rimessami da Abeken, di pubblicare il contenuto del telegramma e, mediante cancellature, senza aggiungere o mutare parola, in presenza di ambedue i miei ospiti, ridussi il telegramma alla seguente forma:

«Dopo che le notizie della rinuncia del Principe ereditario di Hohenzollern sono state comunicate al Governo imperiale francese da quello reale spagnolo, l’ambasciatore francese in Ems ha richiesto ancora Sua Maestà il Re di autorizzarlo a telegrafare a Parigi che Sua Maestà il Re si impegnava per tutto il tempo avvenire a non dare giammai il suo consenso, qualora gli Hohenzollern ritornassero alla loro candidatura. Sua Maestà il Re ha ricusato di ricevere ancora l’ambasciatore francese e ha fatto dire per mezzo del suo aiutante che non aveva nulla da comunicare all’ambasciatore».

La differenza di effetto che il testo abbreviato del dispaccio d’Ems produceva in confronto di quello che avrebbe prodotto l’originale, non era il risultato di parole più vivaci, ma della forma; la quale faceva apparire questa comunicazione come decisiva, mentre la redazione di Abeken sarebbe apparsa solamente come un brano di un negoziato in aria e da continuarsi a Berlino.

Letta ai miei due ospiti la redazione condensata in tal modo, Moltke osservò:

«Così ha un altro suono: prima era quello di una ritirata, ora quello di una fanfara che risponde ad una sfida».

Io replicai:

«Se questo testo, il quale non contiene né cambiamenti né aggiunte al telegramma, ed è conforme all’incarico datomi da Sua Maestà, lo comunico subito non solo alle gazzette, ma anche telegraficamente a tutte le nostre ambasciate, prima di mezzanotte sarà noto a Parigi e farà quivi l’impressione del panno rosso sul toro francese, non pure a causa del contenuto, ma anche del come è divulgato. Noi dobbiamo battere se non vogliamo far la parte di chi senza lotta è battuto. Ma l’esito dipende pure in modo essenziale dalle impressioni che produrrà presso di noi e presso altri l’origine della guerra; importa che noi siamo gli assaliti e l’arroganza e l’irascibilità dei francesi ci serviranno in questo, se noi, con pubblicità europea, per quanto ci è possibile senza il portavoce del Parlamento, annunziamo che impavidi facciamo fronte alle minacce della Francia».

Nota

[1] Sua Maestà mi scrive: «Il conte Benedetti mi ha sorpreso insidiosamente alla passeggiata, chiedendo in modo molto insistente l’autorizzazione di telegrafar subito, che per l’avvenire non avrei dato mai più il mio consenso, qualora gli Hohenzollern fossero ritornati alla loro candidatura. Ho finito con congedarlo un po’ severamente, poiché né si devono né si possono prendere tali impegni à tout jamais. Gli ho detto naturalmente che non avevo ricevuto ancor nulla, e che avendo egli prima di me le informazioni di Parigi e di Madrid, vedeva bene che il mio Governo era di nuovo fuori questione». Di poi Sua Maestà ha ricevuto una lettera del Principe. Siccome Sua Maestà aveva detto al conte Benedetti che aspettava notizia del Principe, così, tenuto conto della pretesa di lui, la stessa Maestà, per consiglio mio e del conte Eulenburg, ha deciso di non più ricevere il conte Benedetti, ma di fargli dire da un aiutante, avere ora ricevuto dal Principe la conferma della notizia che Benedetti già aveva avuto da Parigi, e non aver più nulla da dire all’ambasciatore. Sua Maestà lascia all’arbitrio dell’Eccellenza Vostra se non si debba comunicare subito, sia ai nostri ambasciatori, sia alla stampa, la nuova pretesa del Benedetti ed il rifiuto ad essa opposto».

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.