Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto

di Theodor W. Adorno

Mario Mancini
51 min readMay 15, 2021

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [maggio 2021]

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Le lamentele sulla decadenza del gusto musicale non sono certo più recenti della discordante esperienza che l’umanità fece alle soglie della storia: che la musica rappresenta la manifestazione immediata dell’istinto e, insieme, l’istanza che tende a mitigarlo. Scatena la danza delle menadi e si sprigiona dall’ammaliatore flauto di Pan, ma risuona anche dalla lira d’Orfeo, attorno alla quale i fantasmi dell’istinto si raccolgono in silenzio. E ogni volta che la loro pace sembra turbata dai moti delle baccanti, si parla di decadenza del gusto. Ma se fin dalla noetica greca la funzione disciplinatrice della musica è stata accettata come un alto beneficio, oggi più che mai tutti si accalcano per avere il permesso di obbedire, in musica come altrove. E l’attuale coscienza musicale delle masse può dirsi così poco dionisiaca, quanto poco le sue metamorfosi più recenti hanno a che vedere col gusto. Il concetto stesso di gusto è superato. L’arte responsabile si orienta verso criteri prossimi alla conoscenza, quali il corretto e lo scorretto, il giusto e lo sbagliato. Ma in fondo non c’è più scelta; si rinuncia a porre la domanda e nessuno pretende che la convenzione venga giustificata da un punto di vista soggettivo: la stessa esistenza del soggetto, che potrebbe serbare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile.

Se si cerca ad esempio di scoprire a chi «piace» una canzonetta di successo, non si può trattenere il sospetto che piacere e dispiacere siano concetti inadeguati alla realtà dei fatti, anche se il soggetto intervistato ammanta con questi termini le sue reazioni. La notorietà della canzonetta prende il posto del valore che le viene attribuito: il fatto che piaccia è quasi equivalente al fatto che la si sappia riconoscere. Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione. Non può sottrarsi alla loro strapotenza, né scegliere tra quello che gli viene presentato: tutto è talmente simile che la preferenza è legata al mero dettaglio biografico o alla particolare situazione in cui avviene l’ascolto. Per quanto riguarda la ricezione attuale della musica, le categorie dell’arte intesa come un fatto autonomo sono fuori corso; ciò vale in larga misura anche per la musica seria, quella che barbaramente si suole chiamare «classica», per poterle sfuggire con maggior agio.

Si può certo accogliere l’obiezione che la musica leggera, e tutta la musica destinata al consumo, non sia mai stata intesa secondo quelle categorie. Nondimeno è anch’essa coinvolta in questa mutazione proprio per il fatto che mantiene il diletto, l’attrattiva e il piacere che promette, solo per negarli. In un saggio, Aldous Huxley si è chiesto chi ancora si diverta davvero in un luogo di divertimenti. Con pari diritto ci si potrebbe chiedere chi venga davvero alleggerito dalla musica leggera. Sembra piuttosto che essa sia complementare all’ammutolirsi dell’uomo, all’estinguersi del linguaggio inteso come espressione, all’incapacità di comunicare in generale. Abita le brecce di silenzio che si formano tra uomini deformati dall’angoscia, dalla routine e dalla cieca obbedienza. Assume ovunque, inosservata, la parte lugubre che le toccò al tempo e nella specifica situazione del film muto. Viene percepita solo come uno sfondo sonoro. Se nessuno è davvero più in grado di parlare, nessuno è nemmeno più in grado di ascoltare. Uno specialista americano di pubblicità radiofonica — la quale predilige il mezzo musicale — si è pronunciato scetticamente sul valore di questa pubblicità, perché gli uomini avrebbero imparato a negare l’attenzione a quel che ascoltano nel momento stesso dell’ascolto. La sua osservazione può essere contestata per quanto riguarda il valore che la musica può avere nella pubblicità. Ma è tendenzialmente corretta se riguarda il modo di intendere la musica.

Nelle tradizionali lamentele sulla decadenza del gusto ritornano con ostinazione alcuni motivi che non mancano nemmeno nelle osservazioni muffite e sentimentali di quanti oggi parlano della «degenerazione» musicale delle masse. Il più pervicace di questi motivi è quello della stimolazione dei sensi, che rammollirebbe l’uomo rendendolo incapace di una condotta eroica. È un argomento che si trova già nel terzo libro della Repubblica di Platone, dove vengono rigorosamente proibiti i modi «lamentosi» e «molli», che sono «conviviali», senza che si sia capito fino a oggi per quale ragione Platone abbia attribuito tali proprietà ai modi misolidio, lidio, ipolidio e ionio. Nella concezione platonica dello stato, il modo maggiore della posteriore musica occidentale, corrispondente allo ionio, è reso tabù in quanto degenerato, e anche il flauto e gli strumenti a pizzico «policordi» cadono sotto questa proibizione. Restano solo i modi che sappiano «imitare come si conviene le voci e gli accenti di un uomo valoroso in azione di guerra e in ogni altra opera violenta, e che quando perde o va incontro alle ferite o alla morte, o cade in qualche altra sciagura, pure in tutti questi casi affronta disciplinatamente e con animo forte il destino». La repubblica platonica non è l’utopia in cui la trasfigura la storia ufficiale della filosofia. Essa disciplina i propri cittadini per continuare a esistere, e per conservare ciò che esiste anche nella musica, dove la distinzione tra modi molli ed energici, già all’epoca di Platone, era un avanzo della più ottusa superstizione. L’ironia platonica si dà di buon grado e non senza malignità a canzonare il flautista Marsia, scorticato dal pur tanto moderato Apollo, e il programma etico-musicale di Platone ha il carattere di un’epurazione attica in stile spartano.

Nella medesima classe di lamentele rientrano altri tratti perenni di questo predicozzo sulla musica. Tra i più pronunciati vi sono il rimprovero di superficialità e quello di «culto della persona». Tutti i fattori incriminati fanno anzitutto parte del progresso, sia sociale sia specificamente estetico. Tra gli stimoli compresi nella proibizione si intrecciano la sensuale varietà dei colori e la coscienza che tende a differenziare. La preponderanza della persona sulla costrizione collettiva nella musica rivela il momento della libertà soggettiva, da cui la musica sarà compenetrata in fasi successive; mentre la superficialità rappresenta quell’elemento profano che la libera dall’oppressione magica. I momenti incriminati hanno fatto il loro ingresso in questo modo nella grande musica occidentale: lo stimolo dei sensi come porta d’accesso alla dimensione armonica e poi coloristica; l’individualità sfrenata come veicolo dell’espressione e dell’umanizzazione della musica; la «superficialità» come critica della muta oggettività delle forme nel senso della decisione, presa da Haydn, per il «galante» contro l’erudito. La quale resta però sempre la decisione di Haydn, e non la leggerezza di un cantante dall’ugola d’oro o di uno strumentatore dalle ghiotte sonorità. Quegli elementi sono infatti entrati nella grande musica, che li ha superati senza risolversi in essi. E che proprio nella varietà di fascino e di espressione dà prova della sua grandezza come vigorosa capacità di sintesi. La sintesi musicale non conserva soltanto l’unità dell’apparenza evitandole di frantumarsi in momenti «gustosi» in senso culinario. In questa unità, e nella relazione dei particolari con una totalità che viene prendendo forma, si mantiene anche l’immagine di una condizione sociale che è la sola in cui tutti quei particolari momenti di felicità potrebbero essere qualcosa di più che semplice apparenza. Sino alla fine della preistoria, l’equilibrio musicale tra stimolo parziale e totalità, tra espressione e sintesi, tra superficie e profondità, resta instabile come i momenti d’equilibrio tra domanda e offerta nell’economia borghese. Lo stesso Flauto magico, in cui l’utopia dell’emancipazione e il piacere del couplet musicale coincidono esattamente, è uno di tali momenti. Dopo quest’opera la musica seria e quella leggera non si sono più lasciate stringere insieme.

Ma quelli che si emancipano dalla legge formale non sono ormai più impulsi produttivi che si ribellano alle convenzioni. Fascino dei sensi, soggettività e aspetto profano, antichi oppositori dell’estraneazione reificata, cadono in balia proprio di quest’ultima. Nell’epoca capitalistica i tradizionali fermenti antimitologici della musica congiurano contro la libertà, mentre un tempo erano banditi perché ritenuti a essa elettivamente affini. I veicoli dell’opposizione allo schema autoritario si riducono a testimoniare l’autorità del successo commerciale. Il piacere dell’attimo e quello della facciata variopinta diventano un pretesto per sgravare l’ascoltatore dal pensiero della totalità, sempre presente e necessario in un ascolto esatto; e l’ascoltatore viene tramutato in cliente convinto lungo la sua linea di minima resistenza. I momenti parziali non hanno più una funzione critica di fronte a un tutto preordinato, bensì sospendono la critica che la totalità estetica ben riuscita esercita nei confronti della totalità infranta della società. In loro nome viene insomma sacrificata l’unità sintetica, ed essi non ne producono più una che sostituisca quella reificata, ma si mostrano condiscendenti proprio verso quest’ultima. I momenti isolati del fascino sensoriale si dimostrano inconciliabili con la costituzione immanente dell’opera d’arte e sacrificano ciò che la trascende in direzione di una conoscenza vincolante. Non sono cattivi di per se stessi, ma per la loro funzione smorzatrice. Servi del successo, si spogliano di quel tratto di insubordinazione loro inerente. Congiurano nell’accordo con tutto ciò che l’attimo isolato è in grado di offrire a un individuo isolato, che da tempo non è nemmeno più un individuo. Nell’isolamento gli stimoli si ottundono e producono cliché tratti dal patrimonio corrente. Consegnarsi nelle loro mani significa essere tanto maligni come lo erano una volta i noetici nei confronti dello stimolo sensoriale che giungeva dall’Oriente. La forza di seduzione dello stimolo sopravvive ancora soltanto là dove più forti sono le forze della rinuncia: nella dissonanza che ammette di non credere all’inganno dell’armonia costituita.

Il concetto stesso dell’ascesi in musica è dialettico. Se un tempo l’ascesi ha sconfitto l’esigenza estetica con un atto reazionario, oggi al contrario diventata suggello dell’arte avanzata: naturalmente non attraverso un’arcaicizzante povertà di mezzi, in cui carenza e povertà si trasfigurano, ma escludendo rigorosamente tutto ciò che è culinario e vuol essere gustato e consumato come tale; come se nell’arte l’elemento sensoriale non fosse veicolo di un fattore spirituale che si presenta nella totalità invece che in momenti isolati del materiale. L’arte registra negativamente quella possibilità della felicità a cui oggi si oppone una sua anticipazione positiva, che è perniciosa in quanto meramente parziale. Tutta l’arte «leggera» e gradevole è diventata menzognera e bugiarda: quel che si affaccia in categorie di piacere non può più essere goduto, e la promesse du bonheur — come qualcuno ha un tempo definito l’arte — può trovarsi soltanto là dove alla falsa felicità è stata strappata la maschera. Il godimento è a casa propria solo nella presenza immediata e in carne e ossa. Quando ha bisogno dell’apparenza estetica è ingannevole proprio dal punto di vista estetico, e defrauda di se stesso il fruitore. Solo dove ogni sua apparenza manca, si tiene fede alla sua possibilità.

La nuova fase della coscienza musicale delle masse è definita da un’ostilità verso il godimento nel momento stesso del godimento. Somiglia al comportamento con cui si reagisce allo sport o alla pubblicità. Il termine «godimento dell’arte» suona strano: la musica di Schönberg è come le canzonette di successo se non altro per il fatto che è impossibile «godersela». Chi ancora si delizia di certi bei passi di un quartetto di Schubert, per non dire del nutrimento tanto sano da parer provocante di un concerto grosso di Handel, nella sua veste di presunto custode della cultura appartiene alla schiera dei collezionisti di farfalle. E non è certo qualcosa di «nuovo» ad arruolarlo tra gaudenti di quella risma. La potenza della canzonaccia, del melodioso, e di tutto il brulichio di forme del banale, vige fin dai primi tempi della borghesia. Allora attaccava però il privilegio culturale della classe dominante. Ma oggi che questa potenza del banale si è estesa sull’intera società, la sua funzione si è trasformata. Questo mutamento di funzione riguarda tutta la musica; non solo quella leggera, nel cui ambito potrebbe venire minimizzato come un fenomeno «graduale», riferendosi ai mezzi meccanici di diffusione. Bisogna pensare nella loro unità due sfere della musica che sono separate da una voragine. L’idea di scinderle in modo statico, come fanno occasionalmente quei custodi della cultura, o di dividere con nettezza il campo di tensione sociale della musica, è illusoria.

Tipico esempio di questo tentativo è il compito che si è voluto imporre alla radio totalitaria. Da un lato di curarsi di intrattenere e distrarre gli ascoltatori a un certo livello, e dall’altro di coltivare i cosiddetti beni culturali: come se in generale ci potesse ancora essere del buon intrattenimento, e come se i beni culturali non volgessero in peggio proprio per il fatto che vengono appositamente coltivati. Tutta la storia della musica a partire da Mozart consiste nella fuga dal banale, e riflette come un negativo fotografico il profilo di quella leggera: così oggi, nell’opera dei suoi maggiori rappresentanti, essa rende conto delle cupe esperienze presenti, con tutta la loro gravità, già nella lieve e inconscia innocenza della musica leggera. Al contrario, sarebbe altrettanto comodo celare la frattura tra le due sfere per ammettere una continuità che consentirebbe a un’educazione progressiva di condurre impunemente dal jazz commerciale e le canzonette fino ai beni culturali. Ma la cinica barbarie non è certo meglio della menzogna culturale. Tutto ciò che riesce a guadagnare distruggendo le illusioni riguardo all’arte superiore, lo paga con le ideologie di originalità e naturalezza con cui trasfigura il bassofondo musicale; il quale a sua volta non esprime più da tempo la contraddizione degli esclusi dalla cultura, ma si nutre semplicemente di ciò che gli viene accordato dall’alto. L’illusione che la musica leggera abbia un privilegio sociale su quella seria si basa proprio sulla passività delle masse che mette il consumo di musica leggera in contraddizione con gli interessi obiettivi dei suoi consumatori. Si invoca spesso il dato che la musica leggera piace di fatto alle masse, e che esse si interesserebbero a quella superiore solo per una ragione di prestigio sociale; mentre basterebbe conoscere il testo di una sola canzonetta per scoprire qual è l’unica funzione possibile di questa musica accettata e legittimata con tanta onestà.

L’unità delle due sfere della musica è perciò quella di una contraddizione insoluta. Il loro rapporto non va dunque inteso nel senso che la musica inferiore costituisca una sorta di propedeutica popolare per quella superiore, o che quest’ultima possa riacquistare dalla prima la forza collettiva ormai perduta. Il tutto non può essere ricostituito addizionando semplicemente con violenza le metà separate; in ciascuna di esse, sia pure in prospettiva, compaiono le modificazioni di una totalità che si muove esclusivamente entro la contraddizione. Nel momento in cui la fuga dal banale si fa definitiva e in cui la smerciabilità della produzione seria, per via delle sue esigenze reali, si riduce a nulla, nel campo della musica inferiore la standardizzazione del successo fa sì che non sia più possibile un successo alla vecchia maniera, ma solo la connivenza. Tra incomprensibilità e inevitabilità non esiste una terza posizione: lo stato delle cose si è polarizzato verso estremi che ormai realmente si toccano. Tra questi poli non c’è spazio per l’«individuo». Le sue esigenze, ammettendo che ne abbia ancora, sono solo apparenti, imitate cioè dal modello degli standard: la liquidazione dell’individuo è il vero suggello del nuova condizione musicale.

Poiché le due sfere della musica stanno tra loro in un rapporto dinamico, varia anche la linea di demarcazione che le divide. La produzione avanzata si è staccata dal consumo. Il resto della musica seria gli viene consegnato a prezzo del proprio contenuto. Si abbandona all’ascolto-merce. Le differenze nella ricezione della musica «classica» ufficiale e di quella leggera non hanno più un significato reale. Vengono manipolate esclusivamente nel senso della smerciabilità: da un lato è necessario rassicurare l’entusiasta delle canzonette sul fatto che i suoi idoli non stanno troppo in alto per lui; dall’altro confermare all’habitué della filarmonica il suo livello culturale. Quanto maggiore è la cura con cui la routine innalza steccati tra le province musicali, tanto più si ingigantisce il sospetto che i rispettivi abitatori potrebbero capirsi con fin troppa facilità. Sia Toscanini sia l’ultimo direttore di orchestrine sono chiamati «Maestro», anche se nel secondo caso non manca una certa ironia; e ci fu una canzonetta, Music, Maestro, please, la quale ebbe successo subito dopo che Toscanini, con l’aiuto della radio, era diventato maresciallo dei cieli. L’impero della vita musicale — che si estende pacificamente dalle imprese compositive di Irving Berlin e Walter Donaldson («the world’s best composer»), attraverso Gershwin, Sibelius e Cajkovskij, fino alla Sinfonia in si minore di Schubert, etichettata come Incompiuta — è un impero di feticci.

Il principio della star è divenuto totalitario. Le reazioni dell’ascoltatore paiono staccarsi dallo svolgimento della musica e riferirsi direttamente al successo accumulato dai pezzi musicali; questo, a sua volta, non può più essere spiegato a sufficienza in base alle trascorse spontaneità dell’ascolto, ma deve essere retrodatato all’imperioso volere degli editori, dei magnati cinematografici e dei padroni della radio. Ormai non sono star solo le personalità celebri. Le opere stesse cominciano ad assumere questa funzione. Si edifica un pantheon di bestseller. I programmi musicali si restringono, e in questo processo non soltanto viene eliminata la produzione mediocre, ma anche i classici già acquisiti soggiacciono a una selezione che non ha nulla a che vedere con la qualità: in America, ad esempio, la Sinfonia n. 4 di Beethoven è già diventata una rarità. Questa selezione instaura un circolo fatale: ciò che è più conosciuto ha maggior successo; per questo viene continuamente eseguito e dunque conosciuto sempre più. La stessa scelta delle opere standard si orienta secondo Inefficacia» nel senso delle categorie di successo che determinano la musica leggera, o che consentono al grande direttore, alla star, di mettere in piedi un programma affascinante: i possenti crescendo dinamici della Sinfonia n. 7 di Beethoven vengono collocati sullo stesso piano dell’ineffabile melodia del corno del tempo lento della Sinfonia n. 5 di Cajkovskij. Melodia significa solo il canto affidato alla voce superiore in frasi simmetriche di otto battute ciascuna. Tale melodia viene registrata come «idea» del compositore; si crede di potersela portare a casa come possesso personale, e allo stesso modo viene affibbiata al compositore come suo bene stabile. Ma proprio il concetto di «idea» è di gran lunga inadeguato alla musica affermatasi come classica. Il suo materiale tematico, formato per lo più da accordi perfetti scomposti nei loro intervalli, non è certo proprietà dell’autore nella stessa maniera specifica del Lied romantico; e la grandezza di Beethoven si rivela proprio nel subordinamento totale dell’elemento melodico privato e casuale all’insieme formale. Ciò non impedisce che tutta la musica — fosse anche quella di Bach, che ha preso in prestito da altri autori alcuni dei temi più importanti del Clavicembalo ben temperato — venga giudicata in base alla categoria dell’«idea tematica» e che si vada a caccia, con tutto le zelo di chi crede nella proprietà, di furti musicali, al punto che un critico musicale poté conquistare il successo legando il suo nome al titolo di detective di melodie.

Ma il feticismo musicale si impone nel modo più appassionato soprattutto nella valutazione della voce. Il suo incanto per i sensi è tradizionale quanto lo stretto legame tra il successo e la persona dotata di «mezzi materiali». Oggi si dimentica però di che materiale si tratti. Per il materialista volgare della musica avere una voce ed essere un cantante sono dei sinonimi. In altri tempi, se non altro, si pretendeva che le star, i castrati e le primedonne dimostrassero del virtuosismo tecnico. Oggi si esalta il mezzo come tale, privo di qualsiasi funzione. Non c’è più bisogno di informarsi sulla capacità di interpretazione musicale. E in fondo non ci si aspetta più nemmeno che il cantante padroneggi tecnicamente i suoi mezzi. Per legittimare la fama del suo proprietario basta che una voce sia particolarmente robusta o acuta. E se qualcuno osasse mettere in dubbio, anche nel corso di una pacifica conversazione, che la voce in sé abbia un’importanza così decisiva, e sostenesse che si può fare musica molto bene anche con una voce mediocre, proprio come si può suonare bene anche su un pianoforte mediocre, avvertirebbe immediatamente una situazione di ostilità e resistenza che ha radici affettive assai più profonde dell’occasione che l’ha suscitata. Le voci sono beni sacri, quasi come una marca nazionale. E come se volessero vendicarsi, già cominciano a perdere proprio quell’incanto dei sensi nel cui nome vengono commerciate. Sembrano quasi sempre imitazioni dei cantanti arrivati, anche se sono già «arrivate» a loro volta.

Tutto ciò sfiora l’assurdo nel culto dei violini d’autore. Si è pronti ad andare in estasi al suono ben reclamizzato di uno Stradivari o di un Amati, che solo l’orecchio dello specialista è in grado di distinguere da un passabile violino moderno, e si dimentica in tal modo di prestar ascolto alla musica e all’esecuzione, che potrebbero sempre insegnare qualcosa. Quanto più la liuteria moderna progredisce, tanto più vengono evidentemente apprezzati gli strumenti antichi. I momenti di fascino sensuale dell’idea tematico-musicale, della voce e dello strumento vengono però feticizzati e strappati da tutte le funzioni che potrebbero conferire loro un senso; a questi istanti fanno eco, nel medesimo isolamento e come uniche forme di rapporto con la musica, le emozioni cieche e irrazionali di individui ormai incapaci di ogni altro rapporto, ben lontane dal significato dell’insieme e determinate esclusivamente dal successo. Ma gli stessi rapporti intercorrono tra i consumatori di canzonette e le canzonette stesse. Sentono vicino soltanto ciò che è estraneo all’uomo; ed estraneo, come separato dalla coscienza delle masse da un fitto velo, quel che cerca di parlare a uomini muti. E le rare volte che reagiscono, non ha più nessuna importanza che si tratti della Sinfonìa n.7 o dei Papaveri.

Non è possibile derivare il concetto di feticismo musicale per via psicologica. Il fatto che dei «valori» vengano consumati attirando su di sé gli affetti dei consumatori, senza peraltro che le loro qualità specifiche vengano afferrate dalla loro coscienza, è la più matura espressione del loro carattere di merce. Tutta la vita musicale contemporanea è infatti dominata dalla forma di merce: anche gli ultimi rimasugli precapitalistici sono ormai stati rimossi. La musica, con tutti gli attributi dell’etereo e del sublime che le vengono generosamente elargiti, serve in America essenzialmente alla pubblicità di merci che bisogna procurarsi per potere ascoltare della musica. Se la funzione pubblicitaria è accuratamente occultata nel campo della musica seria, essa viene ovunque clamorosamente alla luce in quello della musica leggera. Tutto il mercato del jazz, con la distribuzione gratuita di musiche alle orchestrine, ha il solo scopo di permettere che l’esecuzione vera e propria serva solo da pubblicità per la vendita di dischi e spartiti; innumerevoli sono i testi delle canzonette che esaltano la canzonetta stessa, ripetendone il titolo in lettere maiuscole. E da queste massicce maiuscole occhieggia come un idolo il valore di scambio, da cui è scomparsa ogni traccia di possibile godimento.

Marx ha determinato il carattere di feticcio della merce come venerazione del prodotto uscito dalla mano dell’uomo, ugualmente estraniato, in quanto valore di scambio, sia dai produttori sia dai i consumatori:

L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. [K. Marx, Das Kapital. Kritik der polìtischen Ökonomìe [trad. it. Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1997, vol. I, p. 104].

È questo il vero arcano del successo. Il semplice riflesso di ciò che si paga sul mercato per un determinato prodotto: a ben guardare, il consumatore idolatra il denaro che spende per un biglietto del concerto di Toscanini. In tal modo egli ha letteralmente «creato» il successo, che reifica e accetta come un criterio oggettivo, senza più riconoscersi in esso. Ma questo successo non l’ha «creato» per il fatto che il concerto gli è piaciuto, bensì perché ha comprato il biglietto. Certo, nell’ambito dei beni culturali il valore di scambio si impone in maniera peculiare, poiché nel mondo delle merci esso appare escluso dal potere dello scambio, come in una sfera di rapporto immediato con i beni: ed è proprio a questa apparenza che i beni culturali debbono il loro valore di scambio. Ma contemporaneamente essi ricadono interamente nel mondo delle merci, vengono approntati per il mercato e si orientano secondo le sue esigenze. Tanto fitta è l’apparenza della immediatezza, quanto inesorabile la costrizione del valore di scambio. La connivenza sociale pacifica la contraddizione. L’apparenza dell’immediatezza si impossessa di ciò che viene mediato, vale a dire dello stesso valore di scambio. La merce consta comunque di valore di scambio e valore d’uso: ma il puro valore d’uso, di cui i beni culturali devono serbare l’illusione nella società pervasa dal capitalismo, viene sostituito dal puro valore di scambio, che, proprio come tale, si assume ingannevolmente la funzione di valore d’uso. In questo quid pro quo prende forma lo specifico carattere di feticcio della musica: gli affetti, che si riferiscono al valore di scambio, producono l’apparenza dell’immediatezza, che viene al contempo smentita dalla mancanza di rapporti del soggetto verso l’oggetto. Questa mancanza di rapporti poggia sull’astrattezza del valore di scambio. Da questa sostituzione sociale dipende ogni ulteriore soddisfazione «psicologica» e compensativa.

Il cambiamento di funzione della musica tocca elementi fondamentali del rapporto tra arte e società. Quanto più inesorabilmente il principio del valore di scambio priva gli uomini dei valori d’uso, tanto più impenetrabilmente lo stesso valore di scambio si camuffa in oggetto del godimento. Qualcuno si è chiesto che cosa tenga ancora cementata la società delle merci. Un contributo alla chiarificazione di questo interrogativo chiama in causa la trasposizione del valore d’uso dei beni di consumo sul loro valore di scambio, nell’ambito di una situazione generale in cui qualsiasi godimento che si emancipi dal valore di scambio acquista in fondo tratti sovversivi. Il fenomeno del valore di scambio delle merci ha assunto una specifica funzione cementante. La donna che ha del denaro per fare la spesa si inebria nell’atto dell’acquisto. Nel linguaggio convenzionale americano, «having a good time» significa «essere presenti al divertimento altrui», ove l’unico contenuto della frase è a sua volta il mero fatto di essere presenti. Nel momento sacramentale in cui risuonano le parole «questa è una Rolls Royce», la religione dell’auto rende tutti gli uomini fratelli; e nei momenti di intimità le donne tengono più a conservare l’acconciatura e il trucco, che non alla situazione a cui acconciatura e trucco erano destinati. La relazione con ciò che non ha relazioni svela la sua natura sociale nell’obbedienza. La coppia in automobile che passa il tempo a identificare ogni macchina che vede, ed è felice se dispone di una marca di gran moda; la fanciulla che ha per unica soddisfazione di sapere che lei e il suo ganzo «sono una gran bella coppia»; la perizia dell’entusiasta di jazz che trova la propria legittimazione nell’essere perfettamente al corrente di quel che è d’altronde ineluttabile: tutti si muovono obbedendo allo stesso ordine. Davanti ai capricci teologici della merce i consumatori si trasformano in sacrestani: quelli che non si arrendono mai, qui riescono a farlo, e proprio qui si completa il loro inganno.

Nel feticista della merce di nuovo stile, nel «carattere sadomasochistico» e nell’accettazione dell’odierna arte di massa, lo stesso oggetto si presenta sotto aspetti diversi. La cultura di massa masochistica è la necessaria manifestazione dell’onnipotenza della produzione. L’investimento affettivo del valore di scambio non è una transustanziazione mistica. Corrisponde all’atteggiamento del prigioniero che ama la sua cella perché non gli viene concesso nient’altro da amare. La rinuncia all’individualità adattandosi alla regola di ciò che ha successo, fare quel che tutti fanno: questo deriva dal fatto fondamentale che la produzione standardizzata dei beni di consumo offre sempre la stessa cosa a chiunque. Tuttavia la necessità che il mercato ha di occultare tale uguaglianza porta alla manipolazione del gusto e a quell’apparenza di individualità della cultura ufficiale, che di necessità cresce proporzionalmente alla liquidazione dell’individuo. Anche nell’ambito della sovrastruttura l’apparenza non solo occulta l’essenza, ma è costretta a scaturire forzatamente dall’essenza stessa. L’identità di ciò che viene offerto, e che tutti debbono acquistare, si maschera con la severità di uno stile vincolante per chiunque; la finzione del rapporto di domanda e offerta continua a esistere nelle sfumature falsamente individuali.

Se abbiamo contestato la validità del gusto nella situazione presente, possiamo d’altro canto distinguere assai bene di che cosa si compone il gusto in tale situazione. L’adattamento viene razionalizzato come evasione, come ostilità verso l’arbitrio e l’anarchia: anche la noetica musicale è oggi radicalmente intristita al pari degli stimoli sensori della musica; e il conteggio ottuso e idiota del tempo di battuta ne fa la parodia. A completamento di tutto ciò sopraggiunge una differenziazione puramente casuale nel rigido quadro di quel che viene offerto. Ma nel momento in cui l’individuo liquidato si appropria realmente e con passione della totale esteriorità delle convenzioni allora, nell’attimo stesso in cui il gusto non esiste più, ha inizio l’età aurea del gusto.

Le opere che soggiacciono alla feticizzazione diventando beni culturali vanno in tal modo soggette a modificazioni costitutive. Si depravano. Il consumo, privo di relazioni, le fa decadere. Non solo le poche composizioni suonate e risuonate si logorano come la madonna della Cappella sistina appesa in camera da letto. La reificazione afferra la loro struttura interiore. Si mutano in un agglomerato di idee che si imprimono nell’ascoltatore con i mezzi del crescendo dinamico e della ripetizione, senza che l’organizzazione dell’insieme abbia il benché minimo potere su di esse. Il valore mnemonico delle parti dissociate, dovuto ai crescendi e alle ripetizioni, ha già un precedente nelle tecniche compositive tardo-romantiche, specie in quella wagneriana. Quanto più la musica è reificata, tanto più romantica essa suona a orecchie alienate, e proprio in tal modo diventa una «proprietà». Una sinfonia di Beethoven, ascoltata nella sua interezza e con partecipazione spontanea, non si fa catturare. L’uomo che in metropolitana fischietta trionfante il tema del Finale della Sinfonia n. 1 di Brahms, maneggia soltanto le sue macerie. Ma mentre la decadenza dei feticci li minaccia avvicinandoli virtualmente alle canzonette, per conservare il proprio carattere di feticcio produce al contempo una tendenza contraria. Se la romanticizzazione del singolo elemento di un brano musicale si alimenta del corpo totale dell’opera, questa stessa totalità minacciata si corazza galvanizzandosi. Il crescendo dinamico, che sottolinea le parti reificate, assume il carattere di un rituale magico in cui l’esecutore rievoca tutti quei misteri di personalità, interiorità, anima e spontaneità che sono evasi dall’opera come tale. Proprio perché l’opera d’arte in sfacelo si spoglia dei momenti di spontaneità, questi le vengono iniettati dall’esterno con lo stesso procedimento stereotipato usato per le idee tematiche. A onta delle chiacchiere su una presunta neue Sachlichkeit, la funzione essenziale delle esecuzioni musicali conformiste non è tanto quella di rappresentare l’opera nella sua «purezza», bensì di presentarla ormai depravata, con un insieme di gesti che si sforza con enfasi e impotenza di tenere lontana la parvenza della depravazione.

Il processo di depravazione e quello che rende magici i prodotti musicali — fratelli legati e divisi da ostilità — albergano insieme nei cosiddetti arrangiamenti, insediatisi in vaste regioni della musica. La prassi dell’arrangiamento si estende nelle dimensioni più diverse. Si impadronisce dell’epoca. Frantuma le idee musicali reificate strappandole al loro contesto, e ne fa un montaggio a potpourri, smembra la multiforme unità di intere opere per estrarne solo alcuni brani particolarmente gradevoli: il minuetto della Sinfonia in mi bemolle maggiore di Mozart, ad esempio, suonato senza gli altri tempi, perde la sua necessità sinfonica e nel momento dell’esecuzione si trasforma in un artigianale di genere, più vicino alla gavotta di Stefania che al tipo di classicità che dovrebbe reclamizzare. Ma l’arrangiamento diventa anche principio del colorismo strumentale. Gli arrangiatori trattano tutto quello di cui riescono a impadronirsi purché non glielo impedisca il veto di interpreti famosi. Poiché nel campo della musica leggera sono i soli musicisti preparati, si sentono in dovere di maneggiare con la massima disinvoltura i beni culturali. Per giustificare la modifica degli organici orchestrali accampano ogni genere di motivo: nel caso di pezzi per grande orchestra si tratterebbe di rendere l’esecuzione meno costosa, in altri casi rimproverano al compositore un’insufficiente tecnica di strumentazione.

Questi argomenti sono soltanto dei pietosi pretesti. Quelli che con le loro istanze difendono a spada tratta la prassi dell’arrangiamento, dispongono di tale soverchia abbondanza di mezzi orchestrali, che il pretesto del minor costo, che esteticamente si autocondanna, cade da sé. È inoltre un fatto che spessissimo, come nel caso della strumentazione di Lieder accompagnati dal solo pianoforte, gli arrangiamenti vengono a costare assai più cari di un’esecuzione con l’organico originale. Quanto poi alla convinzione che la musica del passato debba essere rinfrescata nello strumentale, ciò presuppone una tale casualità del rapporto fra colore e forma, che la potrebbe sostenere soltanto chi non ha la più pallida conoscenza del classicismo viennese, né di Schubert, musicista prediletto dagli arrangiatori. La vera scoperta della dimensione timbrica può certo essere avvenuta solo nell’epoca di Berlioz e di Wagner; ma la povertà coloristica di uno Haydn o di un Beethoven sta in profonda relazione con la preponderanza del principio costruttivo sul singolo elemento melodico, che non deve scaturire con colori luminosi dall’unità dinamica. Proprio grazie a questa povertà le terze dei fagotti all’inizio della terza ouverture per Leonora, o la cadenza dell’oboe nella ripresa del primo tempo della Sinfonia n. 5 di Beethoven, hanno una potenza che andrebbe irrimediabilmente perduta in una sonorità colorita e multiforme. Bisogna dunque supporre che la prassi dell’arrangiamento abbia motivazioni sui generis. In primo luogo essa vuole rendere assimilabili le sonorità solenni e distanziate, che presentano sempre i tratti di ciò che è pubblico, di quel che non è privato. Il bottegaio stanco può così battere la mano sulla spalla dei classici arrangiati e palpeggiare i parti della loro musa. È lo stesso impulso che spinge gli amanti della radio a immischiarsi, in veste di zii e zie, negli affari privati dei loro ascoltatori per simulare una vicinanza umana.

La reificazione radicale tesse il suo velo di immediatezza e intimità. Mentre ciò che è realmente intimo, proprio perché troppo contenuto, viene gonfiato e colorito negli arrangiamenti. I momenti di fascino dei sensi che risaltano nell’unità in disfacimento, e che sono stati determinati nell’attimo della creazione solo come momenti di un tutto, sono troppo deboli per sprigionare quel fascino che si richiede loro affinché adempiano il loro dovere pubblicitario. Gli elementi di protesta, ai tempi in cui l’elemento individuale era delimitato, avevano forza e significato propri di fronte alla routine, mentre oggi scompaiono con l’abbellimento e l’ingrandimento di questo elemento individuale; allo stesso modo, nel momento in cui la grandezza viene resa intima va perduta la visione della totalità, che una volta costituiva nella musica d’arte il limite della cattiva immediatezza individuale. In sua vece si istituisce un falso equilibrio che a ogni pie’ sospinto si rivela tale a causa della contraddizione con il materiale. La serenata di Schubert, nella sonorità pretenziosa di un pianoforte combinato con gli archi, con la stupida evidenza delle imitazioni introdotte nelle pause della melodia, è assurda come se fosse stata composta nella casa delle tre ragazze. Né meno assurdo è il canto di lode dei Maestri cantori quando è eseguito da una semplice orchestra d’archi. Nella monotonia timbrica esso perde oggettivamente quell’articolazione che nella partitura wagneriana lo rende plastico. E proprio così acquista plasticità per l’ascoltatore, che non ha più bisogno di ricomporre l’unità del Lied dai diversi timbri, ma si può abbandonare fiducioso all’unica e ininterrotta melodia della voce superiore. Si tocca qui con mano l’antagonismo in cui si vengono a trovare al cospetto degli ascoltatori opere che oggi figurano come classiche. Ma il più oscuro arcano dell’arrangiamento sta forse in quell’impulso di non lasciare nulla com’è, e di manomettere tutto ciò che intralcia: un impulso che ingrandisce vieppiù, quanto meno le fondamenta della realtà esistente si lasciano manomettere. La costituzione onnipotente della società conferma la propria forza e maestà mediante il marchio che imprime a tutto ciò che finisce nell’ingranaggio. Questa affermazione è però al contempo distruttiva. Gli ascoltatori contemporanei vorrebbero distruggere più di ogni altra cosa proprio ciò che li costringe al cieco rispetto, e la loro pseudoattività si schiera già modellata e convalidata dalla parte della produzione.

La prassi dell’arrangiamento nasce dalla musica da salotto. È la prassi dell’intrattenimento elevato, che prende in prestito dai beni culturali la pretesa di mantenersi a un certo livello, trasformando però la funzione di quei beni in materiale da passatempo sul tipo delle canzonette. Questo passatempo, destinato una volta ad accompagnare il ronzio degli uomini, si estende oggi a tutta la vita musicale, che in fondo non viene più presa sul serio da nessuno e si ritira sempre più sullo sfondo, a onta di tutte le chiacchiere sulla cultura. Si può scegliere tra accettare di collaborare zelantemente con la routine, magari sedendosi davanti alla radio il sabato pomeriggio, o dichiararsi senza esitazione impenitenti e maligni, per la robaccia che viene approntata per i bisogni reali o presunti delle masse. L’inconsistenza e il disimpegno degli oggetti del passatempo elevato impone agli ascoltatori la distrazione. Ci si mette la coscienza in pace offrendo merci di prima qualità; e se qualcuno obietta che quella roba è già un avanzo di magazzino, è subito pronta la replica: è proprio quello che gli ascoltatori vogliono avere; una replica a cui non andrebbe certo tolto vigore attraverso una diagnosi della condizione degli ascoltatori, bensì esaminando l’intero processo che vuole accordare in diabolica armonia produttori e consumatori. Ma il feticismo afferra anche l’attività musicale che vorrebbe essere seria e che contro l’intrattenimento elevato mobilita il pathos della distanza. La purezza e la fedeltà con cui essa presenta le opere si dimostra spesso altrettanto ostile al suo oggetto quanto la depravazione dell’arrangiamento. L’ideale ufficiale delle esecuzioni musicali, diffusosi in tutto il mondo in seguito alle straordinarie prestazioni di Toscanini, è un nuovo ausilio a sanzionare e convalidare uno stato di cose che, con le parole di Eduard Steuermann, può ben essere detto «barbarie della perfezione». Certo, qui non vengono più trasformati in feticcio i nomi delle opere più famose, anche se quelle meno celebri che trovano posto nei programmi farebbero quasi desiderare una tale delimitazione. Certo, qui non vengono più sbandierate ai quattro venti le «idee musicali», e i grandi crescendi dinamici non hanno lo scopo di provocare una determinata fascinazione. Domina una disciplina ferrea. Ma ferrea davvero.

Il nuovo feticcio è l’apparato in sé, che funziona senza intralci e risplende come metallo, nel quale tutte le rotelle s’ingranano con tale regolarità che non resta più nemmeno uno spiraglio per il senso dell’insieme. L’esecuzione musicale oggi in voga, perfetta e senza macchia, conserva l’opera al prezzo di reificarla definitivamente. Già con la prima nota sembra che la composizione sia terminata: l’esecuzione suona come il disco sul grammofono. La dinamica è predisposta con tale minuzia che non ci sono più tensioni. Le resistenze della materia sonora vengono rimosse con tale inesorabilità nel momento stesso in cui risuonano, che non si raggiunge più la sintesi, quel prodursi da sé che è il significato di ogni sinfonia di Beethoven. A che serve tanto dispendio di forza sinfonica, quando la materia nella quale la forza dovrebbe mettersi alla prova è ormai ridotta in polvere ? La fissazione che vorrebbe conservare l’opera ha come effetto la sua distruzione: la sua unità si realizza proprio in quella spontaneità che cade vittima della fissazione. L’estremo feticismo afferra la cosa e la soffoca: l’assoluta fedeltà all’opera la smentisce e la fa scomparire con indifferenza dietro l’apparato, come quando si impiegano intere colonne di lavoratori per opere di prosciugamento non tanto perché si tratti di operazioni utili, ma per la necessità di dare lavoro. Non per nulla l’autorità dei direttori d’orchestra di successo rammenta quella del Führer totalitario. In modo analogo riducono fama e organizzazione a un denominatore comune. Il direttore d’orchestra è il tipo moderno del virtuoso: sia il leader di una band, sia quello della filarmonica. È arrivato al punto da non avere quasi più nulla da fare; e lo stato maggiore dei maestri sostituti lo esonera a volte persino dalla fatica di leggere la partitura. Egli normalizza e a un tempo individualizza le opere: la normalizzazione viene messa in conto alla sua personalità, e i suoi virtuosismi individuali forniscono massime universali. Il carattere di feticcio del direttore d’orchestra è il più evidente e insieme il più occulto: le virtuose orchestre contemporanee sono presumibilmente in grado di eseguire alla perfezione le opere standard anche senza direttore, e il pubblico che lo acclama non arriverebbe nemmeno ad accorgersi che nella fossa dell’orchestra il posto dell’eroe, vittima di un raffreddore, è stato preso dal maestro sostituto.

La coscienza della massa di ascoltatori è consona alla musica feticizzata. Si ascolta in base alle prescrizioni ricevute, e la depravazione non sarebbe certo possibile se vi fosse una resistenza; se le esigenze degli ascoltatori si spingessero anche di poco oltre il perimetro di quel che viene offerto loro. D’altra parte, chi tentasse di «verificare» il carattere di feticcio della musica vagliando con interviste e questionari le reazioni degli ascoltatori, si troverebbe inopinatamente burlato. Nella musica, come altrove, la tensione tra la parvenza e l’essenza si è talmente accresciuta che ormai più nessuna parvenza può documentare l’essenza. Le reazioni inconsce degli ascoltatori sono talmente smorzate, il loro calcolo cosciente si orienta così esclusivamente verso le categorie feticistiche dominanti, che tutte le risposte ricevute corrispondono in anticipo alla superficie di quella routine musicale che la teoria della «verifica» vorrebbe attaccare. Ponendo all’ascoltatore la domanda primitiva se un pezzo gli piace o meno, si pensa di rendere trasparente e di eliminare il meccanismo che si mette invece in moto proprio quando si formula quella domanda. Se poi si cerca addirittura di sostituire alcune elementari condizioni sperimentali con altre che tengano conto della reale dipendenza dell’ascoltatore da questo meccanismo, tale complicazione del metodo d’indagine non rende solo più difficile interpretare i risultati, ma potenzia anche le resistenze delle persone su cui l’esperimento è condotto, spingendole ancora più profondamente verso quel comportamento conformistico che le fa ritenere al sicuro dal pericolo di venire scoperte. Non è ad esempio possibile stabilire chiaramente un nesso causale tra l’«azione» delle canzonette e i loro effetti psicologici sugli ascoltatori. Se è vero che oggi gli individui non appartengono più a se stessi, ciò significa anche che essi non vengono più «influenzati». I poli opposti di produzione e consumo sono sempre strettamente correlati, ma non sono reciprocamente dipendenti in modo isolato. La loro mediazione non si sottrae affatto alla congettura teoretica. Basta rammentare quanto dolore viene risparmiato a chi non pensa troppo, quanto più «giusto nei confronti della realtà» sia l’atteggiamento di chi l’accetta come giusta, e come il potere di disporre del meccanismo spetti solo a colui che vi si adatta docilmente, perché la corrispondenza tra la coscienza dell’ascoltatore e la musica feticizzata risulti comprensibile anche quando la prima non può ridursi in modo univoco alla seconda.

Al polo opposto del feticismo della musica si compie una regressione dell’ascolto. Non si tratta di una ricaduta del singolo ascoltatore in una fase precedente del suo sviluppo, né di una decadenza del livello complessivo, dal momento che i milioni di individui raggiunti dalla musica con i mezzi dell’odierna comunicazione di massa non possono certo paragonarsi agli uditori del passato. L’attuale tipo di ascolto è piuttosto quello di individui regrediti, bloccati a uno stadio di sviluppo infantile. Insieme alla libertà di scelta e di responsabilità, i soggetti perdono non solo la capacità di conoscere consapevolmente la musica — una capacità che del resto è sempre stata limitata a gruppi esigui di ascoltatori — ma negano con ostinazione addirittura la possibilità di una simile conoscenza. Fluttuano tra dimenticanza illimitata e attimi di improvvisa reminiscenza che scompaiono subito; ascoltano in modo atomistico e dissociato, sviluppando però nell’atto della dissociazione determinate facoltà che sono più facili da formularsi nel linguaggio del football o dell’automobilismo che attraverso i tradizionali concetti estetici. Non sono infantili, come si potrebbe supporre stabilendo un nesso tra il nuovo tipo di ascolto e l’ingresso nel mondo della musica di nuovi strati sociali un tempo estranei. Bensì infantilistici: la loro primitività non è quella dell’individuo non sviluppato, ma quella dell’individuo respinto e bloccato coattivamente in uno stadio anteriore. L’odio contratto che palesano non appena viene dato loro il permesso, dimostra che intuiscono l’altro volto del problema, ma lo allontano per poter continuare a vivere indenni: è l’odio di colui che farebbe di tutto per estirpare quella minacciosa possibilità. Il vero regresso si verifica di fronte a questa possibilità presente o, per esprimersi in modo più concreto, di fronte alla possibilità di una musica diversa e di opposizione.

Regressiva è però anche la funzione dell’attuale musica di massa nell’economia psicologica delle sue vittime. Queste non vengono soltanto private di quel che è veramente importante, ma anche confermate nella loro nevrotica stupidità: e poco importa come le loro facoltà musicali reagiscono nei riguardi della cultura propriamente musicale di precedenti fasi sociali. Il fenomeno di chi canticchia le canzonette e quello dei beni culturali depravati rientrano nella stessa sintomatologia di quei volti di cui non è più possibile dire se sia stato il cinema a trarli dalla realtà o viceversa; quei volti che spalancano una bocca enorme e sformata, piena di denti scintillanti, per ridere ingordamente mentre gli occhi stanchi restano sfatti e desolati. Insieme con lo sport e il cinema, la musica di massa e il nuovo tipo d’ascolto contribuiscono a rendere impossibile l’evasione da una generale situazione di infantilismo. È una malattia a carattere permanente. Anche i modi d’ascolto delle masse odierne non sono certo nuovi, e si può ben concedere che il tipo di ricezione di Puppchen, la popolarissima canzonetta d’anteguerra, non sia poi stato tanto differente da quello di un motivetto jazz infantile. Ma la peculiarità specifica del nuovo modo d’ascolto consiste nello schernire masochisticamente il proprio desiderio di una felicità perduta, o nel compromettere il proprio anelito alla felicità con la retroversione verso un’infanzia che è altrettanto irraggiungibile quanto la felicità stessa: ed è in questa configurazione che si inserisce quel canto infantile. Nulla di ciò che perviene all’orecchio è risparmiato da questo schema di assimilazione. Certo persistono differenze sociali, ma il nuovo modo d’ascolto si estende a tal misura che la stupidità degli oppressi contagia gli stessi oppressori, e vittime della ruota in movimento diventano anche coloro che credono di poterne dirigere il corso.

Il modo d’ascolto regressivo coincide tangibilmente con la produzione a causa del meccanismo di diffusione, la pubblicità. L’ascolto regressivo subentra quando la pubblicità si trasforma in terrore: quando di fronte allo strapotere del prodotto reclamizzato, alla coscienza non resta che capitolare e pagare la propria pace interiore facendo letteralmente propria la merce concessa in tal modo. Nell’ascolto regressivo la pubblicità assume carattere coercitivo. Per un certo periodo una fabbrica inglese di birra si fece pubblicità con un cartellone che sembrava uno di quei muri di mattone così frequenti nei quartieri poveri di Londra e nelle città industriali del Nord. Disposto ad arte era quasi impossibile distinguerlo da un muro vero e proprio. Sul cartello, tracciata col gesso, si leggeva una scritta che imitava una grafia intenzionalmente malcerta. Le parole dicevano: «What we want is Watney’s». La marca della birra assumeva l’evidenza di uno slogan politico. Questo cartellone tradisce la qualità della propaganda più recente, che presenta all’uomo della strada i suoi slogan come se fossero una merce, mentre a sua volta la merce si maschera da slogan politico.

Lo stesso atteggiamento suggerito da questo cartellone si ripresenta come schema di ricezione della musica leggera: le masse fanno di una merce loro consigliata l’oggetto della propria azione. Usano ed esigono ciò che viene loro appioppato, superano il senso di impotenza che le coglie di fronte alla produzione monopolistica, identificandosi con il prodotto a cui non possono sottrarsi. In tal modo tolgono estraneità ai prodotti musicali, che sono lontani e al tempo stesso così minacciosamente vicini, e in più ci guadagnano la sensazione di partecipare alle imprese del grande signor Tizio, in cui si imbattono ogni momento. Ciò spiega perché si trovino d’accordo su dichiarazioni di preferenze — e naturalmente anche ripulse individuali — in un campo dove l’oggetto e il soggetto rendono dubbie entrambe le reazioni. Attraverso l’identificazione degli ascoltatori con i feticci, il carattere di feticcio della musica produce il suo stesso occultamento. Soltanto questa identificazione concede alle canzonette il potere sulle loro vittime. Essa si attua in un succedersi di oblio e reminiscenza. Come ogni pubblicità si compone di elementi noti e poco appariscenti, e di altri ignoti ma appariscenti, così anche la canzonetta odierna se ne resta caritatevolmente abbandonata nel semicrepuscolo della sua notorietà, pronta a stagliarsi dolorosamente per un attimo nel ricordo come nel cono di luce di un riflettore. Si è quasi tentati di identificare l’attimo di questo ricordo con il momento in cui vengono in mente alla vittima il titolo o la strofa iniziale del suo motivetto: egli forse si identifica con questo nell’attimo stesso in cui lo identifica incorporandolo come suo possesso. Ma la scritta che sta sotto questa immagine sonora e permette l’identificazione, non è altro che il marchio di fabbrica della canzonetta.

La deconcentrazione è il comportamento percettivo con cui sono preparati i momenti della dimenticanza e del ricordo della musica di massa. Se i prodotti standardizzati, disperatamente simili tra loro a eccezione di alcuni dettagli appariscenti perché scritti in caratteri cubitali, non consentono un ascolto concentrato senza diventare insopportabili agli ascoltatori, questi sono a loro volta ormai incapaci di un ascolto concentrato. Non possono sopportare la tensione di aguzzare l’attenzione e si abbandonano come rassegnati a ciò che scorre sopra di loro, e di cui possono godere solo se non lo ascoltano attentamente. A proposito dell’appercezione del film, Walter Benjamin ha detto che essa avviene in uno stato di distrazione: ciò vale anche per la musica leggera. Il solito jazz commerciale può ad esempio adempiere la sua funzione solo se non viene inteso nel senso dell’attenzionalità, ma nel corso di una conversazione e soprattutto come accompagnamento del ballo. In realtà ci si imbatte assai spesso nell’affermazione che il jazz è gradevole a danzarsi, ma orribile da ascoltare. Ma mentre sembra che il film nel suo insieme possa andare incontro all’atteggiamento ricettivo deconcentrato, in musica un ascolto deconcentrato rende impossibile la percezione del tutto. Si realizza solo ciò che casualmente cade entro il cono di luce del riflettore: intervalli melodici appariscenti, brusche transizioni armoniche, errori più o meno intenzionali, e comunque tutto quel che può condensarsi in formule grazie a una fusione particolarmente intima della melodia col testo.

Anche in questo gli ascoltatori entrano in armonia con i prodotti: non viene più nemmeno presentata loro la struttura di un pezzo musicale, che del resto non sarebbero in grado di seguire. Mentre nella musica superiore l’ascolto atomizzato coincide con una decomposizione progressiva, in quella inferiore non c’è più nulla da decomporre; le forme delle canzonette sono così rigorosamente standardizzate fino al numero di battute e alla durata di tempo, che nel singolo brano non compare nemmeno una forma specifica. Lo spostamento dell’interesse musicale sul fascino particolare e sensuale inizia con l’emancipazione delle parti dalla loro connessione e da tutti i momenti che vanno oltre la loro presenza immediata. Significativa è in questo senso la partecipazione degli ascoltatori non solo per certe particolari acrobazie virtuosistiche, ma anche per i singoli timbri strumentali in quanto tali; partecipazione incoraggiata dalla prassi della «popular music» americana, ove ogni variazione — il «chorus» — presenta con uno stile quasi concertante un determinato timbro strumentale, sia esso del clarinetto, del pianoforte o del trombone. Questa prassi arriva al punto che gli ascoltatori sembrano interessati più al trattamento strumentale e allo «stile», che al materiale, di per sé indifferente: solo che questo trattamento strumentale si conserva unicamente in particolari effetti sensori. Nella predilezione per il timbro in quanto tale è ovviamente in gioco la venerazione manuale per lo strumento e lo stimolo di partecipazione e imitazione; ma forse anche qualcosa del profondo rapimento che i bambini provano per gli oggetti colorati: e questo fenomeno si ripresenta sotto la pressione dell’attuale esperienza musicale.

Sarebbe un errore interpretare ottimisticamente questo spostamento dell’interesse sull’allettamento timbrico e il singolo trucchetto — senza rapporti con l’insieme e la stessa «melodia» — come una rinnovata rivolta contro la funzione disciplinatrice. Entro lo schema rigido gli allettamenti appercepiti non sono in grado di offrire resistenza, e chi vi si consegna non si ribellerà mai più. Essi sono inoltre di tipo estremamente limitato. Si mantengono tutti nell’ambito di una tonalità ammorbidita con i mezzi armonici dell’impressionismo. E fuori discussione che l’interesse per un timbro o una sonorità isolati possa risvegliare la comprensione per nuovi timbri e nuove sonorità. Semmai i primi a denunziare queste sonorità come «intellettuali» o assoluta- mente cacofoniche, sono proprio gli individui che ascoltano in modo atomistico. Gli stimoli che li fanno godere devono essere del tipo approvato. Certo, nella prassi jazzistica compaiono sonorità dissonanti, e si sono perfino venute formando delle tecniche musicali in cui gli sbagli nell’armonia sono intenzionali. Ma tutte queste tecniche musicali sono munite di un nulla osta: ogni sonorità stravagante deve essere conformata in modo tale che l’ascoltatore la possa riconoscere come sostituzione di una sonorità «normale»; e mentre egli si rallegra di questo maltrattamento, che concede la dissonanza alla consonanza sostituendo questa con quella, la consonanza virtuale garantisce al tempo stesso che si resta nell’ambito ben noto. Nel corso di test sulla ricezione delle canzonette, gli esaminatori si sono imbattuti in individui che chiedevano come dovevano comportarsi quando un brano gli piaceva e, al contempo, non gli piaceva. È lecito supporre che costoro testimonino un’esperienza fatta anche da coloro che non ne fanno menzione. Le reazioni agli stimoli isolati sono ambivalenti. Ciò che può essere gradevole ai sensi si rovescia in sensazione di nausea non appena ci si accorge che serve solo a ingannare il consumatore. L’inganno consiste nell’offerta del sempre uguale. Anche il più ottuso appassionato di musica leggera non potrà sfuggire per sempre alla sensazione ben nota al bambino goloso che esce da una pasticceria.

Mentre gli stimoli si ottundono e tendono al loro contrario — la breve vita della maggior parte delle canzonette rientra in questo fenomeno — l’ideologia culturale che riveste l’attività musicale delle sfere superiori fa si che quella inferiore venga ascoltata con la coscienza sporca. Nessuno in fondo crede completamente a questo piacere imposto dall’alto. Ma l’ascolto resta ugualmente regressivo in quanto dice di sì a questo stato di cose a onta di tutta la sfiducia e l’ambivalenza. Lo spostamento degli affetti sul valore di scambio fa si che in musica non si avanzino più delle vere e proprie pretese. Per questo gli elementi di sostituzione adempiono assai bene al loro scopo, in quanto le pretese stesse a cui rispondono sono state a loro volta già sostituite. D’altro canto, anche chi è solo in grado di avvertire nella musica che ascolta ciò che da lui si vuole, e registra l’allettamento astratto invece di fare una sintesi dei diversi momenti singoli, non ha buone orecchie: anche nel fenomeno «isolato» gli sfuggiranno tratti decisivi, che sono quelli in forza dei quali il fenomeno trascende il suo stesso isolamento. Anche nell’ascolto esiste di fatto un meccanismo di nevrotica stupidità; e la ripulsa idiota e tracotante di tutto quanto non è abituale ne è il sintomo infallibile.

Gli ascoltatori regrediti si comportano come i bambini. Continuano a desiderare ostinatamente sempre la stessa pappa che gli hanno messo davanti una volta.

Per costoro si predispone una sorta di linguaggio musicale infantile che si differenzia da quello autentico per il fatto che il suo vocabolario consta esclusivamente di macerie e deformazioni del linguaggio artistico della musica. Negli spartiti delle canzonette si trovano curiosi diagrammi. Per la chitarra, l’ukulele e il banjo — che, come la fisarmonica nei tanghi, sono strumenti infantili se paragonati al pianoforte — questi segni sono destinati a esecutori che non sanno leggere la musica. Rappresentano graficamente la posizione della mano sulle corde di quegli strumenti a pizzico. In tal modo il testo musicale, che tutto abbraccia in maniera razionale, viene sostituito con comandi ottici, che si potrebbero paragonare a segnalazioni per il traffico musicale. Queste indicazioni si limitano naturalmente ai tre principali accordi della scala, escludendo ogni decorso armonico che abbia un senso. Il traffico musicale che essi regolano è in tutto degno di loro, e non può certo essere confrontato con quello stradale, tanto brulica di errori di scrittura e d’armonia (false relazioni, raddoppi sbagliati della terza, quinte e ottave parallele e moti delle parti illogici, specie nel basso). Si sarebbe tentati di addebitarli agli autori di queste canzonette, che sono per lo più dilettanti, mentre il vero e proprio lavoro musicale viene svolto dagli arrangiatori. Ma come gli editori non manderebbero in giro per il mondo una lettera con degli errori di ortografia, così è impensabile che pubblichino senza controllo versioni musicali dilettantesche, tanto più che sono assai ben consigliati dai loro esperti.

Gli errori sono dunque creati consapevolmente oppure vengono lasciati a bella posta, pensando agli ascoltatori. Si potrebbe attribuire agli editori e agli esperti il desiderio di conquistare gli ascoltatori presentandosi loro alla buona e fingendo la stessa noncuranza con cui un dilettante pesta a orecchio una canzonetta sul pianoforte. Questi intrighi sono della stessa risma dell’ortografia scorretta su tante scritte pubblicitarie, anche se si basano su un diverso calcolo psicologico. Ma se pur volessimo escluderli e ammettessimo che sono troppo tirati per i capelli, questi errori stereotipi si possono comprendere con pari facilità. Da un lato il tipo di ascolto infantilistico esige una sonorità sensorialmente ricca e piena, molto ben resa soprattutto dagli abbondanti raddoppi della terza (ed è questo un aspetto in cui il linguaggio musicale infantilistico contraddice brutalmente il canto infantile). Dall’altro questo tipo di ascolto pretende sempre le soluzioni più comode e correnti. A voler condurre correttamente le parti in una composizione dalla sonorità «ricca», si otterrebbero dei risultati così lontani dai rapporti armonici standardizzati che gli ascoltatori dovrebbero respingerli come «innaturali». Questi errori possono dunque essere considerati come atti di violenza che eliminano gli antagonismi della coscienza infantilistica dell’uditore. Non meno caratteristica per il linguaggio musicale regressivo è la citazione. Il suo campo d’azione va da quella cosciente di canti popolari o infantili ad allusioni ambigue e quasi casuali, fino a somiglianze e imitazioni molto latenti. Questa tendenza trionfa nei casi in cui si arrangiano interi pezzi del patrimonio classico o di quello operistico. La prassi della citazione rispecchia l’ambivalenza della coscienza infantilistica dell’uditore. Le citazioni sono insieme autoritarie e parodistiche. Cosi il bambino imita il maestro.

L’ambivalenza degli ascoltatori regrediti trova la sua estrema espressione nel fatto che gli individui non ancora perfettamente reificati continuano a volersi sottrarre al meccanismo della reificazione musicale a cui sono consegnati, ma ogni rivolta contro il feticismo non fa che irretirli ancor più in esso. Anche se cercano di svincolarsi dallo stadio passivo del consumatore coatto e si «attivano», cadono in preda alla pseudoattività. Nella folla dei regrediti spiccano quelli che si distinguono per la pseudoattività, ma che invece manifestano soltanto la regressione con maggior enfasi. Al primo posto si collocano gli appassionati che inviano lettere entusiaste alle stazioni radio e alle orchestre e che, nel corso di congressi sul jazz ben manovrati, manifestano in forma pubblicitaria il loro entusiasmo per la merce che consumano. Si sono dati l’appellativo di «jitterbug», come se volessero contemporaneamente accettare e schernire la perdita della loro individualità e la loro metamorfosi in scarafaggi che svolazzano ammaliati. Sola loro scusante è che la parola jitterbug, come tutta la terminologia falsamente specialistica dei dilettanti del cinema e del jazz, gliel’hanno cacciata in testa gli imprenditori, per far credere loro di essere entrati nel giro. L’unico contenuto della loro estasi consiste nel verificarsi dell’estasi stessa nell’obbedienza alla musica. È un’estasi priva di contenuto. Il fatto che abbia luogo, che si obbedisca alla musica: questo rimpiazza il contenuto. L’estasi possiede il proprio oggetto per via del suo carattere coatto. È modellata sulla mimesi con cui i selvaggi reagiscono al tamburo guerresco. Ha tratti convulsi che rammentano il ballo di San Vito o i riflessi di certi animali mutilati. La stessa passione pare generarsi da queste infermità. Ma il rituale estatico rivela di essere una pseudoattività nel momento mimico. Chi danza o ascolta non lo fa per «sensualità», e tanto meno soddisfa la sensualità con l’ascolto, ma imita soltanto i gesti di individui sensuali. C’è in questo un’analogia con la rappresentazione cinematografica di moti particolari (dove esistono schemi fisiognomici per l’angoscia, il desiderio e la pienezza erotica); con il «keep smiling» e con Inespressivo» atomistico della musica depravata. Si appropriano di modelli ricavati dalle merci e li imitano, introducendo l’usanza folcloristica della mimesi. Nel jazz il rapporto di questa mimica con gli individui imitanti è assai rilassata, e si esprime molto bene nella caricatura. La danza e la musica contraffanno gli stadi dell’eccitazione sensuale solo per ridicolizzarli. È come se il surrogato del piacere si rivolgesse con astio contro il piacere stesso: il comportamento dell’oppresso è «consono alla realtà» e trionfa sul sogno di felicità nel momento in cui viene iscritto in esso.

Come per convalidare l’illusorietà e l’insidia di questo tipo di estasi, i piedi non sono capaci di compiere ciò che l’orecchio pretende. Gli stessi jitterbug, che si comportano come se fossero elettrizzati dalle sincopi, quando ballano marcano coi piedi quasi soltanto il tempo forte. La debolezza della carne smentisce lo spirito volonteroso; l’estasi gestuale dell’ascoltatore infantile viene meno di fronte al gesto estatico. Il contraltare di questo tipo sembra essere lo zelante, quello che si sottrae alla routine e si «occupa» di musica nella quiete della sua cameretta. E un tipo timido e inibito, forse non ha fortuna con le ragazze e in ogni caso vuole conservarsi la sua sfera particolare, cosa che cerca di fare in veste di tecnico dilettante. A vent’anni è ancora allo stadio di quei ragazzini che fanno cose meravigliose col meccano, o eseguono lavoretti di traforo per compiacere i genitori. In campo radiofonico il tecnico dilettante ha raccolto grandi onori: costruisce pazientemente apparecchi di cui deve acquistare le parti essenziali, ed esplora l’etere in cerca di onde corte pregne di misteri che tali non sono. Lettore di storie di indiani e di libri di viaggi, ha scoperto un tempo terre sconosciute, e si è aperto il suo varco attraverso la foresta vergine. Da quel tecnico in erba che è, scopre proprio quei prodotti industriali che sono interessati a essere scoperti da lui. Non porta a casa nulla di ciò che non gli verrebbe comunque fornito a domicilio. Gli avventurieri della pseudoattività si sono già organizzati in legioni: i radioamatori si fanno spedire dei moduli dalle stazioni radio a onde corte, e organizzano concorsi dove risulta vincitore chi presenta il numero più alto di queste cartoline. Tutto ciò viene accuratamente manovrato dall’alto. Il tecnico dilettante è forse il più perfetto tra tutti gli ascoltatori feticistici. Gli è perfettamente indifferente ciò che ascolta e come ascolta, e lo interessa solo il fatto di ascoltare qualcosa, di potersi inserire col suo ordigno privato nel meccanismo pubblico, senza peraltro esercitare il benché minimo influsso su di esso. È in fondo la stessa operazione di innumerevoli ascoltatori che azionano il sintonizzatore e il regolatore di volume senza per questo mascherarsi da tecnici.

C’è poi un altro tipo, più esperto e in ogni caso più aggressivo. Sono quegli eccellenti ragazzotti che si sentono ovunque a casa loro e sono potenzialmente in grado di fare ogni cosa: può essere lo studente liceale pronto in qualsiasi compagnia a sgranare con precisione meccanica dei pezzi jazz sul pianoforte per far ballare o divertire gli amici; o il giovane benzinaio che canticchia imperterrito le sue sincopi mentre riempie il serbatoio; o l’esperto in grado di identificare qualsiasi band, che si immerge nella storia del jazz come se fosse la storia della grazia divina. Costui è assai affine allo sportivo — se non proprio al giocatore di calcio, comunque al giovane millantatore che impera sulle tribune — e brilla per le sue capacità di improvvisazione immediata e brutale; anche se poi deve studiare in segreto per ore il pianoforte per trarne al momento opportuno quei ritmi recalcitranti. Si fa passare per un indipendente che se ne infischia del mondo. Ma intanto fischietta proprio la melodia di quel mondo, e le sue trovate non sono invenzioni del momento, quanto un’esperienza accumulata mediante la pratica degli oggetti tecnici a cui fa la corte. Le sue improvvisazioni sono sempre gesti di rapida subordinazione a ciò che l’apparato pretende da lui. Il modello del tipo d’ascolto praticato dal nostro eccellente giovane è l’autista: il suo accordo con tutto ciò da cui viene comandato si spinge al punto che egli non oppone nemmeno più resistenza, ma fa sempre di sua spontanea volontà quel che da lui si esige per la sicurezza del funzionamento. Perfettamente subordinato al meccanismo reificato, rovescia questa subordinazione in una padronanza che è menzogna. Allo stesso modo, la sovrana routine del dilettante di jazz non è altro che la capacità passiva di non farsi sconcertare da nulla mentre ci si adatta ai modelli. E lui il vero «tema» del jazz: le sue improvvisazioni vengono dallo schema, ed egli lo pilota, indifferente e noncurante, con la sigaretta tra le labbra, come se lo avesse inventato in quel momento.

Gli ascoltatori regressivi hanno molti elementi in comune con l’uomo che deve ammazzare il tempo perché non ha modo di sfogare altrimenti la sua aggressività, ma anche con il lavoratore occasionale. Bisogna avere molto tempo libero e poca libertà per fare di se stessi degli esperti di jazz o per stare tutto il giorno attaccati alla radio; e chi si adatta alle sincopi e ai ritmi fondamentali assomiglia al garagista che è anche in grado di riparare l’altoparlante e la lampada. I nuovi ascoltatori sono simili ai meccanici specializzati che sono anche capaci di impiegare le loro conoscenze specialistiche in luoghi insperati, fuori dal campo di lavoro in cui si sono formati. Ma questo liberarsi dalla specializzazione li aiuta solo in apparenza a evadere dal sistema.

Quanto più flessibilmente essi corrispondono alle esigenze della vita quotidiana, tanto più rigidamente si subordinano a quel sistema. L’esito di una ricerca che mostra come tra i radioascoltatori gli amanti della musica leggera appaiano privi di interessi politici non è casuale. La possibilità di cavarsela da soli e di una sicurezza pur sempre problematica non permette di vedere che la situazione in cui ce la si vuole cavare è mutata. Un’esperienza superficiale contraddice quanto affermato. Sembra infatti che la «giovane generazione» — il concetto stesso è un mero mascheramento ideologico — sia in contrasto con i genitori e con la loro cultura da salotto proprio per via del nuovo modo d’ascolto. In America, tra gli avvocati difensori della musica leggera, si trovano persino dei liberali e dei progressisti che la classificano come democratica per via dell’ampiezza della sua diffusione. Ma se è vero che l’ascolto regressivo è più progredito di quello «individualistico», lo è solo nel senso dialettico che si adegua meglio di quest’ultimo alla progressiva brutalità. Ogni odore di muffo viene spazzato via dalla bassezza, mentre la critica rivolta ai rimasugli estetici di un’individualità che ormai da tempo è stata sottratta agli individui diviene legittima. Ma questa critica non può certo risultare stringente se giunge dalla sfera della musica popolare, perché proprio questa sfera mummifica i resti depravati e putrescenti dell’individualismo romantico. Le sue innovazioni sono indissolubilmente imparentate con questi rimasugli.

Il masochismo auditivo non è caratterizzato solo dalla rinuncia a sé e dal desiderio sostitutivo di identificazione con il potere. Esso poggia sull’esperienza che la sicurezza di una fuga in seno alla situazione dominante è qualcosa di provvisorio, rappresenta solo un sollievo momentaneo; tutto alla fine dovrà andare in frantumi. Anche nella rinuncia a sé non c’è dunque bontà nei propri riguardi: godendo si sente di tradire il possibile e insieme di essere traditi dalla realtà esistente. L’ascolto regressivo è pronto a ogni istante a degenerare in rabbia. Sapendo che in fondo non si riesce a fare un solo passo avanti, la rabbia si scaglia contro tutto ciò che potrebbe sconfessare la modernità della partecipazione al divertimento altrui e dell’up to date, rivelando come in realtà sia cambiato ben poco. La fotografia e il cinema ci hanno reso familiare l’effetto del moderno invecchiato: questo effetto, originariamente impiegato dai surrealisti per produrre uno shock, è in seguito decaduto, diventando divertimento a buon mercato per individui il cui feticismo si aggrappa all’astrattezza del presente. Per gli ascoltatori regrediti questo effetto ritorna con una selvaggia contrazione: vorrebbero deridere e distruggere ciò di cui ieri ancora si inebriavano, come per vendicarsi a posteriori del fatto che l’ebbrezza non era affatto tale. A ciò hanno dato il nome di «corny», propagandolo nella radio e nei giornali. Ma questo termine non indica, come si sarebbe indotti a pensare, la musica leggera dai ritmi semplici del periodo precedente al jazz e ai suoi relitti, ma tutta quella sincopata che non è costituita esattamente con le formule ritmiche correnti. Ascoltando un pezzo che sul tempo forte ha un sedicesimo seguito da un ottavo puntato, all’esperto di musica jazz vengono le convulsioni dalle risa, benché questo ritmo sia più aggressivo e non certo più provinciale nel carattere di tutte le combinazioni di sincopi praticate più tardi, o della rinuncia a spostare gli accenti. Gli ascoltatori regressivi sono realmente distruttivi. L’ingiuria casalinga ha una sua ironica ragion d’essere: ironica perché le tendenze distruttive degli ascoltatori in regresso puntano in realtà allo stesso bersaglio odiato dalla vecchia generazione, vale a dire all’insubordinazione in quanto tale, a meno che non si ammanti con la spontaneità tollerata di eccessi collettivi. L’apparente contrasto tra le generazioni acquista nell’ira la massima trasparenza. I bigotti, che in lettere pateticamente sadiche alle catene radiofoniche si lamentano del fatto che i beni sacri della musica vengano adattati a jazz, e la gioventù che si rallegra di tali esibizioni, denotano un’identica mentalità. Basta la circostanza adatta perché formino un fronte unitario.

Abbiamo così sottoposto a critica le «nuove possibilità» dell’ascolto regressivo. Si potrebbe esser tentati di salvarlo come un tipo di ascolto in cui il carattere «auratico» dell’opera d’arte, gli elementi della sua apparenza, retrocede in favore del carattere di gioco. Quale che sia l’atteggiamento che si assume nei riguardi del film, è un fatto che l’odierna musica di massa mostra ben poco di tale disincantamento progressivo. Nulla in essa sopravvive con più pervicacia dell’apparenza; e nulla è più apparente della sua oggettività. Il gioco infantilistico ha ormai solo il nome in comune con il gioco creativo dei bambini. Non per nulla lo sport borghese vorrebbe distinguersi nettamente dal gioco. La sua bestiale serietà consiste nel fatto che, invece di tener fede — distanziandosi dagli scopi — al sogno di libertà, accoglie l’azione del gioco tra gli scopi utili alla stregua di un obbligo, cancellando così ogni traccia di libertà. Ciò vale con ancora maggior forza per l’odierna musica di massa. È gioco solo in quanto ripetizione di modelli precostituiti; e il ludico esonero dalla responsabilità che così si realizza anticipa non soltanto una condizione sanata dal marchio del dovere, ma sposta anche la responsabilità sui modelli che si fa poi un obbligo di seguire. Questo gioco è solo una parvenza di gioco; per questo l’apparenza è di necessità inerente allo sport musicale dominante.

E illusorio cercare di favorire i momenti tecnico-razionali dell’odierna musica di massa, oppure — il che è lo stesso — le capacità specifiche degli ascoltatori in regresso, a spese di un incanto impigrito che a sua volta determina le regole del nudo e crudo funzionamento. E sarebbe illusorio anche perché le innovazioni tecniche della musica di massa non sono affatto tali. Per quanto riguarda l’armonia e il melodizzare questo si capisce da sé: l’acquisizione coloristica specifica della nuova musica da ballo e l’avvicinamento dei diversi timbri al punto che uno strumento può sostituire o mascherarsi in un altro senza inceppi, è familiare alla tecnica orchestrale wagneriana e postwagneriana almeno quanto gli effetti di sordina degli ottoni. E tra gli artifici basati sulla sincope non ce n’è uno che non sia stato rudimentalmente presentito da Brahms, e superato più tardi da Schönberg e Stravinskij. La prassi dell’odierna musica popolare non ha tanto sviluppato quelle tecniche, ma le ha piuttosto private conformisticamente del contenuto emotivo. Gli ascoltatori che ammirano da esperti questi artifici non ne ricavano alcun insegnamento tecnico, mentre reagiscono con opposizione e ripulsa non appena tali procedimenti vengono loro presentati nei contesti in cui hanno un vero senso. Solo da questo senso, solo dalla loro posizione nella totalità sociale e nell’organizzazione della singola opera d’arte, dipende se una tecnica può essere ritenuta progressiva e «razionale». La tecnicizzazione come tale può mettersi al servizio della nuda reazione non appena si afferma come feticcio, facendo credere, con la sua perfezione, che sia già data un’inesistente perfezione sociale. Per questo tutti i tentativi di mutare le funzioni della musica di massa e dell’ascolto regressivo che restano sul terreno della realtà esistente sono sempre naufragati. Una musica d’arte atta al consumo deve pagare il prezzo della propria coerenza; gli errori che essa contiene non sono fatti «ad arte», e ogni accordo sbagliato 0 arretrato esprime l’arretratezza degli individui alla cui domanda si adegua. Ma una musica di massa che fosse coerente nella tecnica, esatta, e depurata dagli elementi della cattiva apparenza, si capovolgerebbe in musica d’arte: perderebbe così la base di massa. Tutti i tentativi di conciliazione, vuoi da parte di artisti (da circo 0 di varietà) che credono nel mercato, vuoi da parte di pedagoghi dell’arte che credono nella collettività, sono sterili. Non hanno creato nulla se non prodotti di artigianato artistico, o quel tipo di prodotti che devono essere accompagnati da istruzioni per l’uso 0 da un testo sociale perché al momento opportuno si possa apprendere qualcosa sui loro veri retroscena.

Qualcuno sostiene che la nuova musica per le masse e l’ascolto regressivo contengono degli elementi positivi: vitalità e progresso tecnico, diffusione collettiva e rapporto con una prassi indefinita: quest’ultima avrebbe accolto nelle proprie categorie la supplichevole autodenuncia degli intellettuali, che non possono certo eliminare la propria estraneazione sociale dalle masse allineandosi alla loro attuale coscienza. Ma questi aspetti positivi sono negativi, e rappresentano l’irruzione nella musica di una fase catastrofica della società. Il positivo si trova racchiuso soltanto nella sua negatività. La musica di massa feticizzata minaccia i beni culturali feticizzati. La tensione tra le due sfere musicali è cresciuta al punto che la tensione ufficiale fa fatica a imporsi. I modelli tecnici dell’ascolto di massa standardizzato sono insignificanti: eppure, se si paragonano le conoscenze di un esperto di jazz con quelle di un adoratore di Toscanini, il primo è di gran lunga superiore al secondo. L’ascolto regressivo diventa uno spietato nemico non soltanto dei beni culturali da museo, ma anche della funzione sacrale e antichissima della musica intesa come istanza domatrice degli istinti. Senza sanzione né smodatezza, i prodotti depravati della cultura musicale vengano consegnati al gioco irrispettoso e allo humour sadico. Di fronte all’ascolto regressivo, la musica comincia nel suo insieme ad assumere un aspetto comico. Basta ascoltare dall’esterno le intrepide sonorità delle prove di un coro per rendersene conto. Alcuni film dei fratelli Marx hanno registrato con grandiosa forza plastica questa sensazione: quando demoliscono una scena di teatro come se volessero far notare allegoricamente, da un punto di vista storico-filosofico, la decadenza dell’opera come forma musicale; o quando con un rispettabilissimo pezzo di buona musica leggera fanno a pezzi il pianoforte per servirsi del telaio con tutte le sue corde come della vera arpa del futuro, su cui possono mettersi fantasticamente a improvvisare.

Nella fase attuale la musica diventa gradualmente comica anzitutto per il motivo che qualcosa di così totalmente inutile viene praticato con tutti i segni manifesti dello sforzo che si impiega in un lavoro serio. L’estraneità della musica dagli uomini per bene ne scopre l’estraneazione reciproca, e la coscienza di questa estraneità si sfoga nella risata. Nella musica — e similmente nella poesia lirica — diventa comica quella società che condanna se stessa alla comicità. Tuttavia anche il declino della sacra tendenza alla conciliazione ha la sua parte in questa risata: è probabile che oggi tutta la musica faccia agli ascoltatori l’effetto che faceva il Parsifal alle orecchie Nietzsche. Ricorda riti incomprensibili e maschere sopravvissute della preistoria, irrita perché ha la parvenza di un vaniloquio. A ciò contribuisce soprattutto la radio, che leviga e insieme sovraespone la musica. Forse questo declino potrà generare qualcosa di inatteso. Forse verrà un’ora migliore anche per i nostri elegantoni, quando si chiederà loro di maneggiare prontamente materiali già predisposti, di improvvisare sullo spostamento degli oggetti, invece di dover sempre e radicalmente cominciare da capo, come impone l’imperturbabile mondo reificato; anche la disciplina può assumere l’espressione di una libera solidarietà quando la libertà diventa il suo contenuto. L’ascolto regressivo non è un sintomo di progresso nella coscienza della libertà, eppure potrebbe repentinamente mutare, una volta che l’arte e la società lasciassero insieme, i binari dell’eternamente uguale.

Per una simile possibilità non è la musica popolare, ma quella artistica ad avere creato un modello. Non per nulla Mahler irrita tanto l’intera estetica musicale dei borghesi. Lo chiamano sterile, perché sospende il loro concetto di fecondità. Tutto il materiale che maneggia esiste già. Prende tutto nella forma già depravata; i suoi temi sono espropriati. Eppure nessuno di essi produce l’effetto abituale, e tutti sembrano come deviati da un magnete. Proprio perché consunto, il materiale è flessibile e cede alla mano che se ne serve per improvvisare; e proprio i punti più logori acquistano nuova vita in veste di varianti. Come l’autista, conoscendo a fondo la vecchia automobile che ha acquistato usata, è in grado di pilotarla in tempo e senza dare nell’occhio al luogo convenuto, così l’espressione di una melodia rovinata dal troppo uso può, applicata alla leva di un clarinetto piccolo e degli oboi nel registro acuto, arrivare a punti che un linguaggio musicale più eletto non ha mai potuto raggiungere senza perdere la sua integrità. In questa musica, che connette nel suo decorso i singoli frammenti depravati, l’insieme converge realmente in un fatto nuovo, pur avendo preso il suo materiale nell’ambito dell’ascolto regressivo; si potrebbe quasi pensare che nella musica di Mahler l’esperienza di quell’ascolto sia registrata sismograficamente, con quarantanni di anticipo sul suo ingresso nella società. La posizione di Mahler nei confronti del concetto di progresso musicale era critica, e di fatto non è più possibile continuare a sussumere la musica nuova e radicale nel solo concetto di progresso: questa musica che attraverso i suoi rappresentanti più avanzati continua a richiamarsi a Mahler in maniera apparentemente paradossale. Il terrore che la musica di Schönberg e Webern diffonde, ora come allora, non deriva dal fatto che essa siaincomprensibile, ma dal fatto che la si comprende fin troppo esattamente. Essa dà forma a quell’angoscia, a quello spavento e a quella visione di una condizione catastrofica, a cui gli altri possono sottrarsi solo regredendo. Li si chiama individualisti, eppure la loro opera è tutto un dialogo con le forze che distruggono l’individualità, e le cui «ombre informi» si proiettano gigantesche sulla loro musica. Le forze collettive liquidano anche nella musica l’individualità irrimediabilmente perduta; ma solo degli individui sono in grado, conoscendo, di rappresentare ancora al loro cospetto l’istanza della collettività.

Th. W. Adorno, Über den Fetischcharakter in der Musik und die Regression des Hörens, in Die Zeitschrift für Sozialforschung, 1938, pp.321–355

Da: La scuola di Francoforte. La storia e i testi, a cura di Enrico Donaggio, Einaudi, Torino, Einaudi, 2005, pp. 118–156.
Traduzione italiana di G. Manzoni.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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