I problemi quotidiani del revisionismo

Il sistema di Versailles e il suo fallimento (1919–1933)

Mario Mancini
10 min readAug 29, 2020

di Karl Polany

Vai all’indice le libro mosaico “Karl Polany, Europa 1937”

Uno dei dodici esemplari, costruiti dalla Krupp, del “Dicke Bertha” (Grande Berta), il cannone con un obice da 420 mm utilizzato dai tedeschi nelle prima guerra mondiale. Il cannone fu soprannominato “Grande Bertha” dai soldati tedeschi dopo che uno dei suoi proiettili distrusse completamente Fort Loncin durante l’assedio di Liegi, in Belgio.

1. Le riparazioni

Non c’è dubbio che le riparazioni sono state stabilite a un livello troppo elevato. La Bulgaria, l’Ungheria e l’Austria cessarono ben presto i pagamenti, non prima, comunque, che la loro situazione economica ne risultasse seriamente danneggiata.

L’atmosfera internazionale non cessò per questo di venire avvelenata dalla disputa sulle riparazioni. Il peso di esse gravava ora soprattutto sulla Germania.

Anche quando furono ridotti a proporzioni ragionevoli, i pagamenti annuali rimasero di tale entità, che si rivelò difficile eseguirli senza compromettere il sistema economico del paese debitore, e ancora di più quello del creditore.

Il Piano Dawes (1924) cercò di affrontare questa difficoltà con un elaborato sistema di trasferimenti. Ma, stranamente, questa volta l’ammontare definitivo del debito della Germania non fu deciso.

Nel 1929 il Piano Young fissò il totale delle riparazioni, cercò di diminuire un poco l’importo dei pagamenti annuali e «commercializzò» quasi completamente il meccanismo dei trasferimenti trasformando il debito in titoli negoziabili.

Nell’estate 1931, tuttavia, la depressione economica cominciò a colpire il sistema creditizio internazionale con una tale forza, che il presidente Hoover invocò una moratoria generale per tutti i debiti di guerra, riparazioni incluse.

Era troppo tardi. Le banche dell’Europa centrale si trovavano da tempo a un punto di rottura. Il fallimento del Bodencreditanstalt di Vienna nel 1929 fu il primo segnale di allarme.

Quest’importante banca dovette essere rilevata in tutta fretta dalla banca più potente della vecchia Austria-Ungheria, il Creditanstalt di Vienna, la banca dei Rothschild.

Nel maggio 1931 il Creditanstalt, a sua volta, non resse allo sforzo e crollò. Il conseguente ritiro dei depositi esteri dalle banche tedesche causò un panico che, nonostante la moratoria Hoover, provocò la crisi della Darmstadter und National bank.

Fu annunciata in Germania una generale sospensione dei pagamenti. Nel corso della crisi che seguì, le riparazioni furono completamente abolite alla Conferenza di Losanna dell’estate 1932. Attualmente esse sono scomparse dalla scena della politica internazionale.

Le riparazioni erano una componente del sistema di Versailles, erano una fra le più perniciose tra le sue componenti. Eppure la tesi tedesca, che le riparazioni abbiano rovinato la Germania e causato indirettamente la crisi economica mondiale, è tutt’al più una mezza verità.

Nel 1928, quando doveva pagare la prima annualità intera prevista dal Piano Dawes, lo stato tedesco non aveva debito pubblico e doveva mantenere solo un piccolo esercito. Il debito pubblico si era volatilizzato con l’inflazione e il trattato di pace aveva ridotto al minimo l’esercito.

Ciò significa che la Germania poteva risparmiare, rispetto all’Inghilterra o alla Francia, circa 125 milioni di sterline, proprio la somma che era previsto essa pagasse quell’anno per le riparazioni.

Inoltre, gli Stati Uniti stavano riversando in Germania prestiti a lungo termine, che superavano l’entità dei pagamenti da essa dovuti. Riguardo a una parte di questi prestiti, così come ai crediti a breve termine ottenuti in seguito dalle banche di accettazione britanniche, la Germania divenne insolvente nel 1931.

Sia la capacità produttiva degli impianti industriali sia la ricchezza immobiliare erano nel frattempo considerevolmente aumentate attraverso i prestiti esteri.

Da un punto di vista puramente economico, le riparazioni erano poco più che una seccatura, sia per il debitore che per il creditore. (I paesi che ricevevano le riparazioni dovevano accettarle in oro o in merci, rischiando in entrambi i casi che il danno arrecato al loro sistema commerciale e creditizio provocasse una perdita superiore al guadagno, cioè al vantaggio finanziario per il loro bilancio).

I guai, riguardo alle riparazioni, non erano tanto economici quanto politici. La Germania le considerava come un tributo impostole dai vincitori. I governi che non facevano di tutto per liberarsi delle riparazioni erano accusati dai nazionalisti di essere poco patriottici.

Poiché non volevano pagare le riparazioni, i tedeschi erano inclini a immaginare che tutti i loro mali venissero dall’essere forzati a questi pagamenti. Ma in realtà non era proprio il caso.

Nel 1928 la Germania era altrettanto prospera quanto la Gran Bretagna, e per alcuni aspetti ancora di più. L’entità della disoccupazione, sulla quale fecero abbondantemente leva i nazionalisti e i nazisti per screditare la Repubblica tedesca, non superava quella degli altri paesi; e anzi rimase al di sotto delle cifre raggiunte nella depressione americana.

È un mito che la Germania sia stata rovinata dalle riparazioni.

2. Il disarmo

I paesi sconfitti si sentivano moralmente autorizzati a chiedere il disarmo dei paesi vincitori. Era, in realtà, una pretesa che non aveva solo un fondamento morale. Nei suoi quattordici punti Wilson aveva dichiarato che gli Alleati avrebbero proceduto al disarmo appena la «sicurezza interna» l’avesse consentito.

Nel patto della Società delle Nazioni quest’impegno si riduceva a una «riduzione» degli armamenti entro i limiti della «sicurezza nazionale». È ovvio che i paesi sconfitti avevano diritto a pretendere l’adempimento della promessa almeno in questa versione.

Il disconoscimento di essa da parte degli Alleati o — ciò che è equivalente — la constatazione definitiva della loro inadempienza avrebbe fatalmente suscitato la questione del riarmo degli sconfitti.

Era semplicemente per questa ragione che i governi continuavano a sostenere che la causa del disarmo progrediva, mentre in cuor loro sapevano bene che era vero l’opposto. Un’ammissione di fallimento avrebbe fatto precipitare la situazione.

Mi sia permesso rammentare che non ci si poteva aspettare che la Società delle Nazioni funzionasse in modo efficace o, riguardo al disarmo, che essa semplicemente funzionasse nel lungo periodo, se non veniva assicurata la parità di status di tutti i suoi membri, se tanto i paesi vittoriosi quanto gli sconfitti non venivano posti sullo stesso piano dal punto di vista delle relazioni internazionali.

Il disarmo generale, dunque, non era solo un mezzo per evitare una corsa agli armamenti destinata a condurre verso una guerra anche più terribile di quella trascorsa, ma era anche direttamente necessario per evitare una crisi della Società delle Nazioni.

A meno che fosse stato possibile realizzare o il disarmo generale o il riarmo dei paesi sconfitti, il cosiddetto sistema di Versailles non poteva durare. Ciò fu compreso più o meno chiaramente da tutti i governi coinvolti fin dalla metà degli anni venti.

Molto eroismo fattivo, come quello dimostrato da Arthur Henderson nello svolgere i suoi compiti istituzionali con perseveranza e altruismo, e molto illusionismo diplomatico dei diversi governi, sono stati spesi, dissipati, nel tentativo di sfuggire a questo dilemma.

La ragione fondamentale del fallimento del disarmo generale è la seguente: l’organizzazione economica vigente nei singoli paesi rendeva impossibile per i rispettivi governi procedere a un’organizzazione internazionale su vasta scala della vita economica. (In complesso, la storia della Conferenza per il disarmo sembra confermare la tesi socialista che gli stati capitalistici non sono in grado di organizzare la pace).

Anche un accordo parziale sulla riduzione degli armamenti, comunque, sarebbe stato prezioso. Si sarebbe guadagnato tempo, e questo tempo avrebbe potuto essere usato per riflettere sul sistema sociale e modificarlo.

Ma neanche un po’ di respiro fu concesso. La Francia rifiutò di ridurre i suoi armamenti se preventivamente non fosse stata garantita la sua sicurezza contro la revanche tedesca.

La Germania rifiutò di accettare qualsiasi accordo che potesse suonare come accettazione della propria inferiorità di status. Essa si sentiva autorizzata a riarmarsi fino al livello della Francia, a meno che fosse questa a procedere a un apprezzabile disarmo.

La Francia, come abbiamo visto, rifiutò il disarmo, a meno di ottenere dai suoi alleati l’impegno di intervenire al suo fianco in caso di necessità. Una garanzia di questo tipo poteva essere data mediante alleanze o accordi regionali, come l’estensione del trattato di Locarno, oppure collettivamente, come è adombrato nell’articolo 16 del patto della Società delle Nazioni.

Ritorniamo così al circolo vizioso. La richiesta di una sicurezza collettiva, infatti, suscitava la contro-richiesta della revisione, e principalmente della revisione territoriale. Non era insomma possibile alcun passo avanti verso il disarmo senza che prima si chiarisse quale avrebbe potuto essere il nuovo assetto dell’Europa.

Nulla di meno sarebbe bastato. Le conferenze sul disarmo non potevano non fallire fino a che Francia e Gran Bretagna non riuscivano a raggiungere un accordo sulla sicurezza collettiva.

Accadde, infine, l’inevitabile. Da quando Hitler prese il potere, la Germania divenne sempre più insofferente delle continue prevaricazioni della Conferenza sul disarmo. E lasciò quest’ultima, e anche la Società delle Nazioni.

In definitiva la Francia dovette accettare il riarmo tedesco in una misura molto maggiore di quella, della quale la Germania si era detta disposta ad accontentarsi.

La Gran Bretagna scoprì troppo tardi che anch’essa aveva bisogno della sicurezza collettiva tanto quanto la Francia. Di tutte le forme di uguaglianza di status fu conseguita la più nefasta: l’uguale diritto di tutti di seguire la deriva di una suicida corsa agli armamenti.

3. La protezione delle minoranze etniche

L’ultimo gruppo di rivendicazioni riguardava il trattamento delle minoranze etniche. La maggior parte delle variazioni territoriali conseguenti ai trattati di pace scaturivano dal principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli.

Ma l’istituzione di nuovi stati nazionali come la Cecoslovacchia, la ricostituzione di vecchi stati come la Polonia, l’ampliamento di quelli esistenti come nel caso della Jugoslavia e della Romania, mentre liberavano milioni di persone dal dominio straniero, avevano l’effetto secondario di trasferire consistenti gruppi nazionali prima dominanti sotto il potere degli antichi dominati.

Ho sopra menzionato il trasferimento di magiari e di ebrei ungheresi nei nuovi stati della Piccola Intesa. Similmente, popolazioni tedesche passarono alla Polonia e all’Italia. Andava salvaguardata, d’altra parte, anche la posizione dei polacchi che rimanevano in Germania e degli esigui gruppi di altre nazionalità che risiedevano in Ungheria.

I trattati imposero, quindi, alla Polonia, alla Cecoslovacchia, alla Germania, all’Ungheria ecc. l’obbligo di trattare con giustizia le minoranze etniche sottoposte alla loro sovranità. La protezione offerta alle minoranze riguardava soprattutto la loro libertà culturale — l’uso della loro lingua nelle scuole, nelle amministrazioni locali e così via.

L’Italia, nella sua qualità di grande potenza vittoriosa, non fu costretta a un impegno formale in questo senso, benché la popolazione tedesca del Sud Tirolo ne avesse seriamente bisogno.

L’italianizzazione forzata di questa popolazione, in effetti, è uno dei più impressionanti esempi di abuso di potere da parte di una nazionalità dominante, decisa a spogliare della sua lingua e degli antichi costumi, mediante la mera pressione politica, una popolazione dotata di un’elevata cultura.

Il caso del Sud Tirolo è rilevante anche da un altro punto di vista. Esso mostra chiaramente che i problemi etnici di per sé non portano a contrasti permanenti fra le nazioni, a meno che non siano connessi con pretese di revisione territoriale.

I Sudtirolesi sono tedeschi di antico ceppo. Prima della guerra essi erano cittadini austriaci, e la nuova Austria è uno stato integralmente tedesco.

La Germania hitleriana, a sua volta, ha la fama meritata di essere molto sensibile alle rivendicazioni culturali di tutti i tedeschi che vivono fuori dai suoi confini, sia in Cecoslovacchia o in Polonia sia, se vogliamo, nei paesi africani che fanno parte dell’impero britannico.

Né Austria né Germania, tuttavia, hanno mai portato la causa dei Sudtirolesi davanti a una corte internazionale. L’Austria era troppo debole per sostenere un reclamo di questo genere; Hitler aveva fondato l’amicizia con l’Italia fascista sull’impegno esplicito di non sollevare la questione del Sud Tirolo.

Non essendoci alcuna istanza di revisione territoriale, la denazionalizzazione dei tedeschi del Sud Tirolo non è mai diventato un problema politico. Ovunque venga pretesa una revisione territoriale, invece, le rimostranze delle minoranze etniche che si trovano fuori dai confini mantengono il pubblico della madrepatria in uno stato di perpetua agitazione.

Tali rimostranze — spesso, purtroppo, giustificate — sono usate come una leva per dare evidenza e forza alla questione politica della revisione territoriale.

Ne consegue che gli stati minacciati da quest’ultima divengono meno inclini che mai ad ascoltare pazientemente le lamentele dei loro cittadini di etnia diversa, sospettandoli, a volte ingiustamente, di volersi staccare dalla loro nuova patria.

L’accondiscendere anche minimamente alle loro richieste può facilmente essere considerato, data la situazione complessiva, un successo politico delle forze del disfattismo.

Quest’atteggiamento da parte delle nazioni dominanti, oltre a contravvenire alle obbligazioni internazionali, è, ovviamente, tanto miope quanto ingiusto. Esso fornisce comunque un’ulteriore conferma del fatto che, fra tutte le pretese di revisione, quelle territoriali hanno un’importanza primaria.

Siamo ora in grado di valutare il vero significato e l’importanza del revisionismo nella pratica della politica internazionale. Si può dire che la revisione territoriale non sia mai stata oggetto immediato di rivendicazione.

Ne sarebbe facilmente conseguito un conflitto bellico. Eppure la questione del revisionismo ha continuato ad aleggiare minacciosamente sulla politica europea dalla fine della guerra.

I paesi sconfitti sostenevano la revisione sia per proprio conto, come la Germania, l’Ungheria e la Bulgaria, sia a titolo di solidarietà, come l’Austria e la Turchia.

Due grandi potenze, la Russia e l’Italia, hanno appoggiato i revisionisti. Ciò ha significato in pratica che esse stavano dalla parte dei paesi sconfitti nelle numerose controversie cui hanno dato origine questioni come il controllo del disarmo, le zone smilitarizzate, la limitazione degli armamenti, e infine l’obbligo delle riparazioni e i tentativi di farlo valere.

In questo senso si sono schierate con il fronte revisionistico la Russia dal 1922 e l’Italia dal 1928. Esse si opponevano ad ogni rafforzamento della sicurezza collettiva, a meno che agli stati sconfitti venisse preventivamente aperta la strada della revisione.

Esse appoggiavano, in conseguenza, la pretesa della parità di status da parte dei paesi sconfitti e si opposero a tutti i tentativi di istituire un organismo esecutivo della Società delle Nazioni, una forza di polizia internazionale, o qualsiasi altro strumento per rendere davvero efficaci le sanzioni.

Alla lunga serie di conferenze, e ai numerosi piani e contro-piani in esse presentati, sulla ricostruzione finanziaria ed economica e su possibili unioni doganali regionali, i revisionisti parteciparono invariabilmente come se il loro scopo fosse di sconfiggere qualsiasi tentativo dello schieramento opposto di separare i membri del gruppo revisionista o di portare qualcuno di essi sotto l’influenza della Francia, della Polonia o di uno degli stati della Piccola Intesa.

Tutti i suggerimenti, le offerte di aiuto o i piani proposti in questo periodo nel bacino del Danubio o nell’Europa centrale subirono la stessa sorte.

Qualsiasi proposta sembrasse favorire uno stato membro di uno schieramento a spese di uno dello schieramento avverso provocava una levata di scudi degli altri membri del gruppo svantaggiato; il piano veniva così silurato, anche se esso avrebbe potuto arrecare, se realizzato, sostanziosi vantaggi economici per tutti.

Il mero sospetto che una proposta, per quanto saggia fosse, nascesse nel campo avverso, bastava per toglierle forza. Nessun piano veramente collettivo fu mai presentato; né sarebbe stato ragionevole aspettarsi che una cosa del genere accadesse.

Un piano di questo tipo presupponeva appunto quella concordanza sui problemi politici dell’Europa, l’assenza della quale stava alla base di tutte le difficoltà.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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