“Hiroshima notre amour”, tempo indefinito

Recensione di Kent Jones

Mario Mancini
9 min readFeb 15, 2024

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“Credo che tra qualche anno, tra dieci, venti o forse trent’anni, potremo dire se Hiroshima mon amour è stato il film più importante dalla fine della guerra, il primo film moderno del cinema sonoro”.

Così Eric Rohmer, durante la tavola rotonda che lo staff dei “Cahiers du cinéma” dedicò nel luglio del 1959 al pionieristico primo film di Alain Resnais. L’osservazione è in piena sintonia con lo spirito del film, che, come lo stesso Rohmer avrebbe detto più avanti nella dicussione, “porta in sé un forte senso del futuro, soprattutto dell’angoscia del futuro”.

Lette oltre mezzo secolo dopo, le parole “angoscia del futuro” descrivono bene la particolare sensazione che percorre l’intera opera di Resnais, prima e dopo Hiroshima. In realtà è l’angoscia del passato, del presente, e del futuro: la necessità di capire chi siamo e dove siamo nel tempo, necessità destinata a restare eternamente insoddisfatta.

L’ipotesi di Rohmer è un’ipotesi utile? Può effettivamente essere verificata? Ci sono molti candidati alternativi al titolo di “primo film moderno del cinema sonoro” — Quarto potere, per esempio, o Viaggio in Italia, persino qualche outsider come His Girl Friday di Howard Hawks o Les Dames du Bois de Boulogne di Robert Bresson.

O magari proprio Notte e nebbia, che Resnais aveva girato nel 1955. Ma è possibile che Hiroshima mon amour sia davvero il primo film moderno dell’epoca sonora, moderno in ogni aspetto della sua concezione e realizzazione — costruzione, ritmo, dialogo, stile di recitazione, prospettiva filosofica e colonna sonora.

Se sia stato “il film più importante dalla fine della guerra” è tutt’altra questione, e delle più interessanti. Perché l’idea stessa di individuare un film come “il più importante dalla fine della guerra” può sembrare oggi a molti di noi, cresciuti nel mondo saturo di immagini del capitalismo selvaggio, una strana impresa.

Quelli che ancora riconoscono nella “guerra” uno spartiacque storico, senza un ripasso fornito da Hollywood e da Discovery Channel, sono sempre di meno. Nel 1959, a soli quattordici anni dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, Rohmer e i suoi illustri sodali (tra cui Jean-Luc Godard e Jacques Rivette) avevano certo in mente qualcosa di specifico quando cercavano un cinema del dopoguerra che potesse dirsi veramente moderno, un cinema che rispondesse all’imperativo morale del momento (la messa al bando della poesia dopo Auschwitz, secondo il famoso pronunciamento di Adorno) e in qualche modo definisse il momento stesso, una volta per sempre.

Un’impresa a dir poco ardua. Il fatto che l’incorruttibile film di Resnais arrivi a un passo dal soddisfare una così impossibile richiesta è il miglior tributo alla sua grandezza.

Lo status di pietra miliare, che Hiroshima mon amour ha assunto nella storia del cinema, è però tanto una benedizione quanto una condanna. Può essere difficile, per gli spettatori di oggi, trovare la giusta strada che li conduca a un film come questo, sepolto sotto la propria autorevolezza, la natura monumentale del soggetto e l’alto pedigree culturale.

Diversamente da Fino all’ultimo respiro, con i suoi jump cuts e il suo passo libero e leggero, Hiroshima mon amour è un’opera deliberata, fortemente strutturata, consapevolmente pensosa ed emotivamente devastante.

Se Godard è un corpo elastico, Resnais ha una spina dorsale d’acciaio modernista. Se il film di Godard è un’improvvisazione free-jazz, il film di Resnais è un pezzo di musica atonale che si porta il peso della Storia sulle spalle — Ornette Coleman vs Anton Webern.

Una simile serietà d’intenti viene oggi considerata al pari d’un crimine in quasi tutte le enclave culturali: ma è solo una moda passeggera, e certo non ha bisogno di scuse né di attenuanti la bellezza terribile cesellata nel 1959 da Resnais e dalla sua prima collaboratrice, la grande scrittrice Marguerite Duras.

È difficile quantificare l’ampiezza dell’impatto di Hiroshima mon amour. Resta uno dei film che hanno più influenzato la breve storia del cinema, in primo luogo perché ha liberato i cineasti dalla consuetudine della costruzione lineare. Senza Hiroshima, una gran quantità di film successivi sarebbero stati impensabili, da I fidanzati a L’uomo del banco dei pegni, da Punto zero a Petulia a A Venezia… un dicembre rosso shocking (o qualsiasi altro film di Nicholas Roeg) fino a Out of Sight o a L’inglese di Soderbergh.

Hiroshima ha avuto anche un altro tipo di impatto, meno facile da tracciare. Analizzando i dettagli di questo film totalmente nuovo e i suoi rapporti con il nouveau roman, Rivette fa una considerazione importante. Paragona Resnais allo scrittore Pierre Klossowski, autore di II bafometto e di Roberta stasera, fratello del pittore Balthus, e attore, o ‘modello’, in Au hasard Balthazar di Robert Bresson: “Per Klossowski come per Resnais, il problema è dare ai lettori, o agli spettatori, la sensazione che quello che stanno leggendo, o vedendo, non è una creazione dell’autore, ma un elemento del mondo reale”.

Questa è, ancora una volta, un’aspirazione tipica degli anni postbellici, che anima l’intero campo artistico in piena sintonia con il dettato di Adorno. Nel cinema c’erano già stati molti film (tra i quali appunto Quarto potere) che avevano usato effetti di realtà per enfatizzare l’impatto delle loro costruzioni narrative.

Nel dopoguerra, a partire dal neorealismo, alcuni grandi registi avevano girato film in modo che la realtà vi mantenesse la sua integrità e dichiarasse la sua presenza senza doversi adeguare alle regole artificiali della narrazione. Godard prosegue sulla strada indicata da Rossellini, dissolvendo le barriere tra tempo del film e tempo reale, spazio della finzione e spazio reale, storie e documentari.

Resnais lavora invece in un senso che ricorda piuttosto Ėjzenštejn, ed erige un edificio complesso, ritmicamente preciso, nel quale frammenti di realtà vengono intrappolati lasciando che mantengano intatta la loro essenziale estraneità, la loro neutralità minacciosa. Resnais è sempre stato considerato un innovatore, ma l’espressione rischia di suonare vuota.

In quanto artista moralmente responsabile, impegnato a catturare nella rete d’una finzione accuratamente predisposta schegge di realtà non adulterata, ha aperto la strada a molti cineasti, dal Francesco Rosi di Salvatore Giuliano al Dusan Makavejev dei Misteri dell’organismo, dal Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi e Casinò al Terrence Malick di La sottile linea rossa.

E dunque non è così sorprendente che Hiroshima mon amour sia partito non come un film di finzione ma come un documentario. Dauman aveva lanciato l’idea di un film sulla bomba e i suoi effetti agli studi Daiei, e l’idea era stata accolta. Sarebbe stata la prima coproduzione franco-giapponese.

Il titolo doveva essere Pikadon, [termine introdotto nel vocabolario giapponese dopo la guerra, per indicare] il lampo [e il boato] dell’esplosione atomica. Solo dopo mesi di riflessione Resnais arrivò alla conclusione che Pikadon doveva essere un film di finzione, e che l’impatto di Hiroshima sarebbe stato filtrato attraverso il punto di vista di una donna straniera. Fu lui a portare Duras dentro il progetto, alla fine del decennio durante il quale la scrittrice, con Una diga sul Pacifico e Moderato cantabile, era diventata una star delle lettere francesi.

Duras ci mise due mesi a scrivere la sceneggiatura, lavorando sempre a stretto contatto con il regista.

Anche se i legami con Ėjzenštejn sono evidenti (Rivette: “È un film che ricorda Ėjzenštejn, nel senso che possiamo vedere alcune delle idee di Ėjzenštejn messe in pratica… in modo del tutto nuovo”), era Intolerancedi Griffith il film che i due avevano in mente. “Marguerite Duras e io avevamo l’idea di lavorare su due tempi”, spiegava Resnais alla giornalista Joan Dupont in un’intervista realizzata anni dopo.

“Il presente e il passato coesistono, ma il passato non deve arrivare a noi attraverso i flashback. Si deve poter persino pensare che tutto quello che viene narrato dal personaggio di Emmanuelle Riva sia falso; non c’è prova che la sua storia sia davvero accaduta. Sul piano formale, trovavo interessante questa ambiguità”.

Si è detto spesso che Resnais non sarebbe un autore in senso proprio, per il fatto che la presenza dei suoi sceneggiatori — Duras, Alain Robbe- Grillet, Jorge Semprún, David Mercer, Jacques Sternberg, Jean Gruault, Jules Feiffer — compenetra così profondamente le sue opere.

Ma il rapporto tra Resnais e i suoi sceneggiatori non è diverso da quello che c’era, mettiamo, tra Howard Hawks e Jules Furthman. Solo le sensibilità sono diverse: “Sono sempre alla ricerca di un particolare linguaggio non realistico, che abbia una sua musicalità”, diceva Resnais a Dupont, e certamente non si è risparmiato nella ricerca di scrittori con voci distintamente musicali, molti dei quali avevano pochissima o nessuna esperienza cinematografica.

In un certo senso potremmo pensare a Resnais come al Pierre Boulez del cinema, un brillante impresario che si è dato la missione di accordare i nostri occhi e le nostre orecchie alle visioni e ai suoni del modernismo (penso qui al Boulez direttore d’orchestra, non al compositore). Ma questo direttore d’orchestra ha sempre operato in strettissima collaborazione con i propri compositori nel dar forma a un oggetto di cui sono insieme, infine, i co-creatori.

L’immaginazione di Resnais è evidentemente sollecitata dai suoni, dalla musica e dalle parole, e dalla musica delle parole. Il discorso musicale della memoria, che emana dai personaggi di Duras, stabilisce un tono dominante sullo sfondo del quale le fratture temporali e il ritmo visivo — talvolta tagliente come un cristallo, talvolta fluido come acqua che scorre — compongono un preciso, spesso misterioso, sempre dinamico contrappunto.

Hiroshima mon amour è la storia di una donna? O è la storia d’un luogo che è stato testimone d’una tragedia? O di due diversi luoghi, testimoni di due diverse tragedie, una collettiva e una privata?

In un certo senso, sono domande intrinseche al film stesso. Il fatto che Hiroshima, a oltre cinquantanni dalla sua uscita, continui a resistere a ogni rassicurante tentativo di definizione, aiuta a spiegare il nervosismo con cui Resnais si dispose a partire per le riprese in Giappone.

Era convinto che il film fosse destinato a cadere a pezzi — dove l’ironia sta nel fatto che né lui né Duras avevano mai pensato che quei ‘pezzi’ dovessero veramente tenersi insieme.

Quello che stavano creando, con la massima delicatezza e precisione fisica ed emotiva, era un oggetto estetico inquieto, tanto incerto sulla propria identità e direzione quanto il mondo era incerto su come andare avanti, dopo il cataclisma e l’orrore della Seconda guerra mondiale.

Con il suo racconto di un’attrice che arriva ad Hiroshima (è l’interprete di un film sulla pace) sperando di cancellare il proprio passato tragico, e trova invece le memorie personali rilanciate e amplificate dalla memoria collettiva della distruzione atomica, Hiroshima mon amour non individua mai un punto fisso verso il quale l’emozione, la morale, l’etica possano gravitare.

La magnifica Riva non è tanto la ‘star’ del film quanto la sua ‘solista’, per proseguire nella metafora musicale — al confronto, l’architetto-amante di Eiji Okada è più una sorta di primo violino.

Il motivo dominante è il senso di essere sopraffatti, incantati, violentati — in una donna francese che vuole essere soggiogata dal suo amante giapponese (“Prendimi. Deformami. Fino alla bruttezza”); in un uomo asiatico consumato dalla bellezza e dal mistero della sua amante occidentale; in un film di propaganda sulla pace che si ritrova sommerso dagli eventi reali che l’hanno motivato; nella realtà che annega in un flusso di memoria, in una città devastata dalla potenza nucleare.

“Hi-ro-shi-ma. Questo è il tuo nome”. “È il mio nome. Sì. E il tuo nome è Nevers. Nevers-en-France”. In modo coerente, per un film sull’ansia dell’irresolutezza, il finale non chiude i conti quanto piuttosto suggerisce un nuovo, sommesso punto di partenza. È un momento di comprensione reciproca che non ha un’eco tragica né definitiva, solo terribilmente esatta.

Ma c’è un altro punto di chiusura, un finale spirituale, che arriva quasi subito — la famosa, ed eternamente angosciante, sequenza d’apertura.

Vediamo le immagini d’una Hiroshima ricostruita, diventata un’attrazione turistica meno di quindici anni dopo essere stata rasa al suolo, probabilmente popolata di persone, come l’attrice di Emmanuelle Riva, che inconsciamente e sbagliando tutto si aspettano che le proprie tragedie personali siano rese insignificanti dal peso incombente d’una tragedia monumentale.

Le immagini di Resnais, splendidamente calibrate, si muovono in sinuoso contrappunto con la musica verbale di Duras — e di Riva. Sentiamo la voce triste dell’attrice scandire parole che suonano ancora vere oggi, e probabilmente saranno vere per sempre:

“Ascoltami. Io so qualcos’altro. Accadrà di nuovo. Duecentomila morti e ottantamila feriti in nove secondi. Queste sono le cifre ufficiali. Accadrà di nuovo. Ci saranno diecimila gradi sulla terra. Diecimila soli, dirà la gente. L’asfalto brucerà. Una città intera sarà sollevata dalle sue fondamenta, poi ricadrà sulla terra in cenere”.

Da: Hiroshima mon amour, booklet della Cineteca di Bologna, pp. 3–43

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.