Hiroshima notre amour

“Cahiers du cinéma” su Hiroshima mon amour, luglio 1959

Mario Mancini
9 min readFeb 15, 2024

Vai agli altri articoli della serie “Indovina chi viene a cena? Il grande cinema”

A seguito della proiezione di Hiroshima mon amour a Cannes, la redazione dei “Cahiers du cinéma” decide che il film rappresenta un “evento di sufficiente importanza” per giustificare la tavola rotonda che aprirà il numero del luglio 1959. Alla conversazione, della quale presentiamo ampi passaggi, prendono parte il caporedattore Eric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Pierre Kast, Jacques Doniol-Valcroze e Jean Domarchi.

éRohmer: Saremo tutti d’accordo, credo, se comincio dicendo che Hiroshima è un film di cui si può dire di tutto.

Godard: E allora cominciamo dicendo che si tratta di letteratura.

Käst: I rapporti tra cinema e letteratura sono, a dir poco, ambigui e travagliati. La sola cosa che si può affermare è che i letterati nutrono un confuso disprezzo nei confronti del cinema, e che i cineasti, non meno confusamente, soffrono di un senso d’inferiorità. La singolarità di Hiroshima è che l’incontro tra Alain Resnais e Marguerite Duras costituisce un’eccezione alla regola.

Godard: Quel che subito colpisce in questo film è che non sembra avere nessun riferimento cinematografico. Possiamo dire che Hiroshima è Laulkner più Stravinskij, ma non potremmo dire che è questo più quel cineasta.

Rivette: Forse non ha riferimenti cinematografici precisi, ma credo che potremmo trovarci riferimenti indiretti e più profondi. È un film che fa molto pensare a Ejzenstejn, nel senso che troviamo in Hiroshima l’applicazione di alcune idee di Éjzenstejn, ma in modo del tutto nuovo.

Godard: Quando ho detto “nessun riferimento cinematografico”, volevo dire che davanti a Hiroshima abbiamo l’impressione di vedere un film che non potevamo prevedere sulla base di quel che già sapevamo del cinema. Per esempio, quando abbiamo visto India di Rossellini, sapevamo che saremmo stati sorpresi, ma di una sorpresa che potevamo più o meno aspettarci. Mentre con Hiroshima, ho l’impressione di vedere qualcosa di assolutamente inatteso.

Doniol-Valcroze: Pensando a Resnais, davvero non potevamo aspettarci almeno un po’ di quello che avremmo visto? Mi riferisco a Notte e nebbia e a Tonte la memoire du monde, per esempio.

Kasf. È vero. Dietro l’apparente diversità dei soggetti, nei cortometraggi di Resnais, da Guernica a Le Chant du styrène, si disegna come una sorta di comune cifra nel tappeto. C’è l’abitudine di considerare contraddittorie l’intelligenza e la sensibilità, la passione intellettuale e l’emozione. Resnais mette nei guai questi tutori della logica.

[…]

Rivette: La grande ossessione di Resnais, se posso usare questo termine, è il senso di frammentazione dell’unità originaria: il mondo si è spezzato, si è frantumato in una serie di minuscoli frammenti, e si tratta di ricostruire il puzzle. Mi sembra che, per Resnais, questa ricostruzione si attui su due piani. In primo luogo sul piano del soggetto, della drammatizzazione. In secondo luogo, e direi soprattutto, sul piano dell’idea stessa di cinema. Ho l’impressione che il cinema, per Resnais, consista nel tentativo di produrre un tutto a partire da frammenti dissimili a priori. Per esempio, in un film di Resnais, due fenomeni concreti, che non hanno rapporto logico né drammatico, sono collegati unicamente dal fatto che vengono filmati entrambi in travelling, alla stessa velocità.

Godard: Tutto quello che c’è di eisensteniano in Hiroshima, alla fine, è l’idea profonda di montaggio, e la sua definizione.

Rivette: Sì. Il montaggio, per Ėjzenštejn come per Resnais, consiste nel ritrovare l’unità a partire dalla frammentazione, ma senza nascondere la frammentazione, al contrario accentuandola, accentuando l’indipendenza delle singole inquadrature.

[…]

Rohmer: Insomma, Alain Resnais è un cubista. Voglio dire che è il primo cineasta moderno del cinema sonoro. Ci sono stati molti cineasti moderni nel cinema muto, Ėjzenštejn, gli espressionisti, anche Dreyer. Ma penso che il cinema sonoro sia in un certo senso più classico di quello muto. Non esiste ancora un cinema profondamente moderno, che cerchi di fare quel che ha fatto il cubismo in pittura e il romanzo americano in letteratura, ovvero una ricostituzione del reale a partire da una frammentazione che potrebbe sembrare arbitraria. Si potrebbe spiegare così l’interesse di Resnais per Guernica, e d’altra parte il fatto che sia stato ispirato da Faulkner o Dos Passos — anche se per il tramite di Marguerite Duras. […] È certo che anche il cinema può superare la sua epoca classica per entrare in un’epoca moderna. Credo che tra dieci, venti, forse trent’anni sapremo se Hiroshima mon amour è stato il film più importante dalla fine della guerra, il primo film moderno del cinema sonoro, o invece se è meno importante di quanto crediamo oggi. In ogni caso si tratta d’un film estremamente importante: ma potrebbe ancora migliorare con l’età, o al contrario, potrebbe perderci qualcosa. […] Mi riservo il giudizio perché ci sono alcuni elementi di Hiroshima che mi hanno sedotto meno di altri. Nelle prime immagini, c’era qualcosa che mi dava fastidio. Poi, molto rapidamente, il film è riuscito a far sparire questa sensazione. Ma capisco che si possa amare e ammirare Hiroshima e, allo stesso tempo, trovarlo in alcuni momenti piuttosto irritante.

Doniol-Valcroze: Moralmente o esteticamente?

Godard: E la stessa cosa. I travelling sono una questione morale.

[…]

Rohmer: Una delle cose notevoli, in Hiroshima, è che in effetti i personaggi mi sembrano spesso irritanti, ma nonostante questo, anziché stancarmi di loro, trovo che mi appassionano ancora di più.

Godard: È vero. Prendiamo il personaggio di Emmanuelle Riva. Potremmo incrociarla per strada, vederla tutti i giorni, e credo che susciterebbe l’interesse di un numero molto limitato di persone. Nel film, suscita l’interesse di tutti.

Rohmer: Perché non è un’eroina classica, perlomeno non del tipo cui ci aveva abituato un certo cinema classico, da Griffith a Nicholas Ray.

Doniol-Valcroze: È unica. È la prima volta che si vede sullo schermo una donna adulta con un’interiorità e una lucidità di pensiero di questo tipo. Non saprei dire se sia classica o no, moderna o no.

Domarchi: È moderna nel suo comportamento classico.

Godard: Per me, è il tipo di ragazza che lavora alle Editions du Seuil o a “L’Express”, una George Sand del 1959. In linea di principio non mi interessa, perché preferisco il genere di ragazze che si vedono nei film di Castellani. Detto questo, Resnais ha diretto Emmanuelle Riva in maniera così prodigiosa che mi ha fatto venir voglia di leggere i libri di Seuil o “L’Express”.

Rohmer: Ma si sono già viste donne adulte al cinema?

Domarchi: Madame Bovary.

Godard: Quella di Renoir o quella di Minnelli?

Domarchi: C’è bisogno di chiederlo?

[…]

Domarchi: Hiroshima è in realtà, in un certo senso, un documentario su Emmanuelle Riva.

Rivette: La sua recitazione va nel senso del film. È un immenso sforzo di composizione. Credo che vi si rintracci lo schema che cercavo di spiegare prima: un tentativo di rimettere insieme i pezzi; un tentativo interiore dell’eroina di rimettere insieme i diversi elementi della sua persona e della sua coscienza, di ricomporre i frantumi, o perlomeno ciò che in lei è andato in frantumi dopo lo choc di questo incontro a Hiroshima. Siamo autorizzati a pensare che il film cominci doppiamente dopo la bomba: da una parte sul piano plastico e concettuale, perché la prima immagine del film è l’immagine astratta della coppia sulla quale cade la pioggia di cenere, e perché tutta la prima parte è una meditazione su Hiroshima dopo l’esplosione atomica.
Ma si può anche dire, d’altra parte, che il film cominci dopo l’esplosione per Emmanuelle Riva, ovvero dopo lo choc che l’ha disintegrata, che ha disgregato la sua identità sociale e psicologica, tanto che solo poco a poco, per via d’allusioni, veniamo a sapere che è sposata, che ha dei figli in Francia, che è un’attrice, insomma che ha una vita organizzata. A Hiroshima subisce uno choc, l’incontro è una ‘bomba’ che fa esplodere la sua coscienza, e per lei la questione, a questo punto, è quella di ritrovarsi, ricomporsi. Come Hiroshima ha dovuto ricostruirsi dopo la distruzione atomica, così Emmanuelle Riva, a Hiroshima, cerca di ricomporre la propria realtà. Ci riuscirà solo operando una sintesi del presente e del passato, di quello che ha scoperto con i suoi occhi a Hiroshima e di quello che un tempo ha subito a Nevers.

Doniol-Valcroze: Qual è il senso della battuta che il giapponese continua a ripetere all’inizio del film, “No, tu non hai visto niente a Hiroshima”?

Godard: Bisogna prenderla nel senso più semplice. Lei non ha visto niente perché non era là. E nemmeno lui. D’altra parte, lui le dice ugualmente che lei non ha visto niente di Parigi, nonostante lei sia parigina. Il punto di partenza è la presa di coscienza, o perlomeno il desiderio di prendere coscienza. Credo che Resnais abbia filmato il romanzo che tutti i giovani scrittori francesi, gente come Butor, Robbe-Grillet, Bastide, e naturalmente Marguerite Duras, stanno cercando di scrivere.

[…]

Godard: C’è una cosa che mi disturba in Hiroshima, e che mi aveva disturbato ugualmente in Notte e nebbia, ed è una certa facilità nel mostrare le scene dell’orrore. Perché basta un attimo e si è fuori dall’estetica. Voglio dire, poco importa se filmate bene o male, quelle sono scene che producono comunque un’impressione terribile sullo spettatore. Un film sui campi di concentramento o sulla tortura, che sia firmato da Couzinet o da Visconti, per me è più o meno la stessa cosa. […] Il guaio, quando si mostrano scene d’orrore, è che ci si ritrova automaticamente traditi dalle proprie intenzioni, e lo choc prodotto da quelle immagini è un po’ come quello prodotto dalle immagini pornografiche. In fondo quello che mi sconvolge in Hiroshima è che i primi piani della coppia che fa l’amore, nelle inquadrature iniziali, mi fanno paura quanto i primi piani delle piaghe prodotte dalla bomba atomica. C’è qualcosa non di immorale, ma di amorale, nel mostrare così l’amore o l’orrore, con gli stessi primi piani. Ed è forse qui che Resnais è veramente moderno se lo paragoniamo, per esempio, a Rossellini. Ma allora io trovo che si tratta piuttosto d’una regressione, perché in Viaggio in Italia, quando George Sanders e Ingrid Bergman guardano la coppia carbonizzata di Pompei, c’è lo stesso sentimento di angoscia e di bellezza, ma con qualcosa in più.

Rivette: Certe questioni di giustificazione morale ed estetica Resnais non solo se le pone, ma le include nel movimento interno del film. In Hiroshima, il commento e le reazioni di Emmanuelle Riva assumono questo ruolo di riflessione sul documento. È così che riesce a superare quel primo grado di facilità che c’è nell’uso dei materiali documentari. Lo sforzo che deve fare per risolvere questa contraddizione è il soggetto stesso dei film di Resnais.

Doniol-Valcroze: A questo proposito, Resnais ha spesso usato le parole “dolcezza terribile”.

[…]

Rivette: Se Resnais oggi è in anticipo di dieci anni, lo è restando fedele a Ottobre, nel senso in cui Las Meninas di Picasso restano fedeli a Velázquez.

Rohmer: Si, Hiroshima è un film immerso nel passato, nel presente e anche nel futuro. C’è in Hiroshima un senso molto forte del futuro, e soprattutto dell’angoscia del futuro.

Rivette: È giusto parlare di un lato science-fiction di Resnais. Ma allo stesso tempo non è giusto affatto, perché Resnais è il solo cineasta a darci la sensazione di aver già raggiunto un mondo che agli occhi degli altri resta ancora futuribile. Detto altrimenti, è il solo a sapere che viviamo già nell’epoca in cui la fantascienza è diventata realtà. Insomma: Alain Resnais è il solo tra noi che viva veramente nel 1959.

[…]

Godard: Ma alla fine del film, Emmanuelle Riva se ne va? O resta?

Rivette-. Non ha importanza. Va benissimo che metà degli spettatori pensino che Emmanuelle Riva resti con il giapponese, e l’altra metà pensi che tornerà in Francia.

Domarchi: Marguerite Duras e Resnais dicono che se ne va, e che se ne va davvero.

Godard: Ci crederò quando faranno un altro film che me lo dimostri.

Rivette: Credo che veramente non abbia importanza, perché Hiroshima è un film circolare. L’ultimo rullo potrebbe benissimo riagganciarsi al primo, e così via. Hiroshima è una parentesi nel tempo. È il film della riflessione, sul passato e sul presente. […] In questo senso Resnais è vicino a uno scrittore come Borges, che ha sempre cercato di scrivere storie nelle quali, giunti all’ultima riga, si è obbligati a ricominciare dalla prima, per capire di che si tratta. E così via, senza fine. In Resnais c’è la stessa idea di un infinitesimale raggiunto con mezzi materiali, di specchi riflessi negli specchi, di labirinti in serie. Un’idea dell’infinito, ma chiuso in un intervallo assai breve, perché infine il ‘tempo’ di Hiroshima può durare ventiquattro ore come un solo secondo.

Da Hiroshima notre amour, “Cahiers du cinéma” n. 97, luglio 1959, pp.32–37, traduzione dal francese di Paola Cristalli

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.