Guido Carli ministro della produzione nello Stato democratico

di Filippo Cavazzuti

Mario Mancini
9 min readApr 24, 2020

Estratto dal libro Il capitalismo finanziario italiano. Un’araba fenice? Racconti di politica economica, Firenze, goWare, 2020

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Guido Carli con John Fitzgerald Kennedy a Washington il 30 settembre 1963

Introduzione

La prima volta che incontrai Guido Carli fu in occasione di un seminario che tenne, nella metà degli anni settanta, presso l’istituto di economia di Bologna su invito del prof. Nino Andreatta, che allora dirigeva l’istituto stesso. Lo ricordo oggi per testimoniare il rapporto di reciproca stima tra Carli ed Andreatta, così come ricorda Romano Prodi nella sua testimonianza. D’altronde penso che Carli non avrebbe accettato l’invito se non avesse stimato Andreatta.

Incontrai di nuovo Guido Carli in Senato a partire dalla IX legislatura (inizio 1983) quando lui fu eletto («nominato») senatore indipendente nella lista della DC, ed io fui eletto («nominato») senatore indipendente nella lista del PCI. Poi i costumi politici mutarono e tutti i parlamentari divennero «nominati» e «dipendenti».

Guido Carli, sfaccettato e scomodo…

Guido Carli, come attesta il volume di oggi, è stato un uomo dalle molte sfaccettature, ma è stato costantemente anche un uomo scomodo, non per motivi di carattere, ma per la ferma vocazione culturale, che ambiva a trasformare in azione concreta e di governo, tesa a perseguire sempre maggiori gradi di concorrenza sui diversi mercati di riferimento dell’economia italiana.

Sfaccettato ma sempre scomodo. Infatti, in un paese come l’Italia, ove le classi dirigenti si sono sempre arroccate nella difesa del protezionismo interno («occulto», come diceva Carli), un uomo come Carli non poteva che risultare assai «scomodo».

È sufficiente leggere le testimonianze di Luigi Abete e di Cesare Romiti per percepire l’irritazione e lo sconcerto dei vertici di Confindustria dovuti alla decisione di Gianni Agnelli di «imporre» Carli alla presidenza della stessa per modernizzarla anche culturalmente, come aveva già fatto in Banca d’Italia. D’altronde non si dimentichi che ancora nel 1989 Luigi Lucchini e Walter Mandelli (presidente e vice di Confindustria) si dichiararono contrari all’introduzione anche in Italia, al pari degli altri paesi europei, di una legge nazionale antitrust: così come attestano le loro audizioni in Senato, in occasione per l’appunto di un’indagine conoscitiva preparatoria all’introduzione anche in Italia della legge nazionale antitrust.

Anche oggi, continuo a ritenere che la accennata vocazione di Carli fosse una vocazione giovanile appresa da Marco Fanno, di cui fu allievo fino a quando Fanno dovette abbandonare la cattedra per motivi razziali. E così Carli passò all’IRI.

Ricordo oggi che Marco Fanno fu un importante esponente di quella generazione di economisti italiani liberali, ma non liberisti, che con Pantaleoni, Barone, De Viti De Marco, Borgatta, illustrarono a livello internazionale la scuola italiana di economia politica, così come li ricorda Schumpeter nella sua monumentale opera sulla Storia dell’analisi economica.

Tornando ai ricordi personali, posso dire che una volta eletti in Senato, a partire dal 1983, non ebbi frequenti occasioni per incontrare Carli, poiché lui fece parte della Commissione affari Costituzionali ed io delle due commissioni Finanze e Tesoro e Bilancio e Programmazione economica, quest’ultima presieduta da Andreatta. Non stupì che Carli non facesse parte delle due commissioni economiche poiché, a partire dal Governatorato di Ciampi, vi era l’abitudine di udire i vertici della Banca d’Italia sui più diversi temi riguardanti l’economia e la finanza pubblica italiana. Ben si comprende l’imbarazzo che Guido Carli avrebbe avuto di fronte ai suoi antichi allievi e collaboratori in Banca d’Italia.

Qualche incontro con Carli lo ebbi invece in Senato, quando si iniziò a discutere dell’esuberante espansione del debito pubblico italiano (da circa il 55% nel 1980 al 100% del PIL nel 1990) e dei problemi che questo avrebbe posto alla partecipazione dell’Italia alle fasi preliminari alla firma del trattato di Maastricht. È probabile che tali incontri fossero dovuti anche al fatto che avevo pubblicato nel corso della legislatura un saggio su Debito pubblico e ricchezza privata che non era dispiaciuto a Carli tanto che lo ricorderà più tardi nel suo volume sui Cinquanta anni di vita italiana.

…anche per la sua avversione al debito pubblico

Nel frattempo Carli era diventato Ministro del Tesoro nel governo Andreotti e a Roma si tennero (nel 1990) due conferenze intergovernative in preparazione del trattato di Maastricht. Fu questa l’occasione, sempre in Senato nei momenti liberi dagli impegni di aula o di commissione, per scambiare qualche opinione con Carli. D’altronde con Carli non erano necessarie lunghe conversazioni per giungere «al punto» sulla probabile o improbabile tenuta dell’Italia di fronte al nuovo vincolo estero da parte dei possibili comportamenti dei più diversi operatori economici.

Si trattava di un nuovo vincolo estero in radicale conflitto con le politiche che da decenni perpetuavano il protezionismo interno tramite il credito agevolato, le svalutazioni competitive, i trasferimenti di spesa pubblica, l’imponente erosione tributaria, l’uso sconsiderato (ma politicamente gradito) delle imprese pubbliche e in particolare dell’IRI e dell’EFIM, divenute nel tempo il «lazzaretto» delle imprese private.

Inoltre, non si dimentichi che Carli firmò l’adesione a Maastricht il 7 gennaio del 1992 con due cofirmatari (Andreotti e De Michelis, rispettivamente presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri) di cui si poteva sospettare la capacità di «tenuta» di fronte ai ben noti parametri di Maastricht.

Anche per questo ho sempre pensato che i brevi incontri consentiti da Carli avevano anche lo scopo di indagare discretamente, dato per scontato che il mio voto in aula sarebbe stato positivo, su come si sarebbe invece comportato l’intero gruppo parlamentare della sinistra non socialista nel corso del voto in aula sul Trattato di Maastricht, considerati i voti contrari sia al Trattato di Roma, sia all’ingresso dell’Italia nello SME. Ma il voto, seppure sofferto, questa volta fu favorevole.

Carli, «ministro della produzione» nello stato democratico

Ciò che oggi però mi preme di ricordare, fu il contenuto di un incontro con Carli che allora mi stupì. Avvenne infatti che il Ministro Carli accennò a come si sarebbe comportato in Italia quel «Ministro» descritto da Enrico Barone nel famoso saggio del 1908. La cosa mi stupì non poco. Evidente era il riferimento di Guido Carli al famoso saggio di Enrico Barone, che ricordavo di avere studiato in gioventù, ma il cui titolo non si addiceva al liberale ministro Carli. Il saggio infatti si intitolava Ministro della produzione nello stato collettivista.

Si trattava di un testo non semplice, denso di equazioni e grafici sulle relazioni (dimostrate con dovizia di matematica) tra la concorrenza perfetta e il monopolio puro.

Ne conclusi che il riferimento fatto ad Enrico Barone doveva essere frutto degli studi giovanili di Carli, che parimenti spesso citava Maffeo Pantaleoni con maggiore frequenza di Luigi Einaudi. Non a caso, nella Storia di Schumpeter, Barone e Pantaloni sono citati un numero di volte superiore alle citazioni riferite all’opera di Einaudi. Si aggiunga che Enrico Barone era stato un soggetto assai singolare: colonnello dell’esercito italiano, da cui si dimise per dissapori con i vertici dello stesso, matematico e giornalista, venne sempre considerato un tipo alquanto eclettico, ma non per questo meno geniale.

Osservo che, nelle testimonianze raccolte nel volume di oggi, soltanto Mario Sarcinelli ricorda che Guido Carli citava spesso il saggio di Enrico Barone sul ministro della produzione nello stato collettivista.

Decisi allora di informarmi sugli scritti giovanili di Guido Carli, e così rintracciai, e ne feci la fotocopia che oggi esibisco, il seguente libro: Guido Carli, La disciplina dei prezzi, 1943, lire trenta nette. Libro che, purtroppo, Federico Carli non ricorda nell’introduzione nel volume di oggi. Ma non so se sia citato nel libro curato da Piero Barucci.

A mio avviso quel libro giovanile consente di comprendere, meglio di qualunque altro testo o discorso, lo schema intellettuale con cui ragionava Guido Carli, ed entro cui riportava le sue analisi ed i suoi comportamenti e giudizi.

Come noto, Carli aveva studiato in Germania, dove aveva visto all’opera il nazionalsocialismo che, nel suo libro ora richiamato, critica diffusamente in tutte le sue manifestazioni: compresa la pervasiva «amministrativizzazione» dell’economia tedesca di allora, ma che oggi purtroppo continua a pervadere l’economia italiana. Basti pensare al ruolo pervasivo dei TAR che giudicano i rapporti economici tra operatori privati mossi da interesse contrapposti, ma pur sempre legittimi; oppure alle Autorità indipendenti attratte entro il perimetro del diritto amministrativo e da questo condizionate.

Volendo oggi semplificare, posso dire che la tesi di fondo del libro giovanile di Guido Carli è quella per cui l’azione svolta dal Ministro dell’Economia del Reich allontanava l’economia tedesca dalla frontiera della concorrenza perfetta e non generava il massimo benessere collettivo. Ciò in quanto il Ministro del Reich non aveva adottato le politiche che potessero realizzare la migliore combinazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro), così come postulato dalla teoria economica che porta verso la frontiera della concorrenza perfetta. Frontiera nei fatti non raggiungibile, ma punto di riferimento per realizzare il massimo beneficio per la collettività governata. Conseguentemente, nello schema intellettuale di Guido Carli (che ha fatto suo il pensiero di Barone), il Ministro della produzione nello stato collettivista che intende raggiungere l’equilibrio economico e il massimo beneficio della sua collettività, deve realizzare una combinazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) nello stesso modo della concorrenza perfetta.

Così come ha dimostrato analiticamente Enrico Barone del suo saggio del 1908, opportunamente citato al termine dell’introduzione che pone i problemi da risolvere nei successivi capitoli del libro. Riprende infatti Guido Carli dal testo di Enrico Barone:

Se il Ministro della produzione non vorrà rimanere legato a coefficienti di produzione tradizionali […] deve di necessità ricorrere ad esperimenti su larga scala per poi decidere quali siano gli organamenti vantaggiosi […] per meglio conseguire il massimo collettivo, e quali invece conviene scartare e considerare come falliti.

Concludo che Guido Carli, liberale ma non liberista, ha sempre inteso tentare esperimenti per correggere le combinazioni produttive al fine di avvicinare l’economia italiana il più possibile a quella della concorrenza perfetta: frontiera che non potrà mai essere raggiunta nel concreto delle economie, ma a cui il «ministro della produzione» deve uniformare la sua azione.

Da allora ho sempre pensato all’azione di Guido Carli in Italia al pari di quella del ministro della produzione nello stato liberaldemocratico.

A mio avviso, Guido Carli era un liberale che accettava il ruolo dello Stato per dare regole al mercato (un mercato senza regole non è un mercato), che si rifaceva più a Maffeo Pantaleoni e ad Enrico Barone che ad Einaudi (punta estrema del liberismo italiano, come sostenne Meuccio Ruini nel corso del dibattito alla Costituente per la preparazione degli articoli dedicati ai rapporti economici).

Da qui, forse, la diffidenza di Einaudi verso Carli, come traspare da alcune testimonianze (Sarcinelli e altri).

In questo senso mi pare che si muova anche il saggio di Alfredo Gigliobianco intitolato: Guido Carli, tra pianificazione e libero mercato, che, a sua volta, contiene ampi riferimenti al libro La disciplina dei prezzi.

Ritengo anche che è da questa impostazione teorica di Carli — che comporta il «governo dell’economia» (altra suggestione che lo avvicina ad Andreatta) — che nasce il modello econometrico della Banca d’Italia che, non a caso, si accompagna negli stessi anni al modello econometrico di Bologna (voluto da Andreatta).

Infine, osservo che questo «modo di ragionare» di Guido Carli spieghi anche alcuni giudizi assai severi sulle circostanze che Carli riteneva avessero allontanato l’economia italiana dalla frontiera della concorrenza. Guido Carli fu dunque «scomodo» perché profondamente coerente con il ruolo e i doveri del ministro della produzione nello stato liberaldemocratico.

Per concludere, qui di seguito riporto tre giudizi di Guido Carli che ritengo siano validi anche oggi, ma che potrebbero essere male interpretati se non considerati all’interno dello schema concettuale di Guido Carli che ho inteso delineare.

Quello sugli economisti:

L’economia teoretica si esaurisce nell’ambito delle ipotesi postulate; da quelle deduce tutte le conseguenze possibili, senza preoccuparsi di esaminare se le condizioni supposte siano realizzate o siano state mai realizzate. Le sue illazioni sono valide nei limiti della veridicità delle premesse: è una filosofia del possibile.

Se Guido Carli avesse vissuto la crisi finanziaria iniziata nel 2007 credo che avrebbe rivolto queste parole ad alcuni garruli economisti profeti e vestali dei mercati efficienti che si autoregolano.

Quello sulle banche e gli imprenditori a proposito del finanziamento delle imprese e della loro conseguente fragilità finanziaria di ieri e di oggi. Ha infatti scritto Carli:

Nessun progresso è stato compiuto verso la soluzione del problema del finanziamento delle imprese in forme diverse dall’assunzione di debiti; il declino del capitale di rischio è un fenomeno sul quale abbiamo attirato l’attenzione nel corso degli anni […]; venne abbandonata la «regoletta» che in tempi ormai lontani gli amministratori del credito applicavano: i nuovi investimenti si finanziano per un terzo con capitali propri, per un terzo con ammortamenti, per un terzo con debiti. Oggi quella regoletta è stata sostituita da quella seguente: i nuovi investimenti si finanziano per un terzo con debiti, per un terzo con debiti, per un terzo con debiti.

Quello rivolto sulla classe dirigente:

La classe dirigente, la società stessa, non erano pronte per accogliere dall’esterno la cultura dell’economia di mercato e reagivano con forza. Allo smantellamento del «protezionismo esterno» […] si sostituì rapidamente un complesso sistema di «protezionismo interno» sotto forma di credito agevolato, di fondi di dotazione concessi per pianare perdite e non per apportare capitale, di agevolazioni fiscali, di aiuti diretti ed indiretti contro i quali negli anni ottanta la Commissione Europea ha giustamente rivolto le sue condanne più dure.

Concludo dicendo che Guido Carli svolse il ruolo assai scomodo di «ministro della produzione nello stato liberal democratico» nell’arduo tentativo di avvicinare anche soltanto di poco l’economia italiana alla frontiera della concorrenza perfetta. Non sempre ebbe successo per il prevalere nella politica e nell’economia italiana degli interessi politici domestici e corporativi.

Filippo Cavazzuti professore ordinario dell’Università di Bologna, senatore della Repubblica (1983–1986), sottosegretario al tesoro (1996–1999), commissario Consob (1999–2003). Autore di libri e saggi in tema di debito pubblico, privatizzazioni, regolazione dei mercati finanziari, politica di bilancio. Opinionista di Firstonline.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.