Gramsci e la concezione della società civile

di Norberto Bobbio

Mario Mancini
41 min readFeb 8, 2020

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [febbraio 2020]

Via agli altri saggi della serie “Think | Tank

Questo saggio su Gramsci e la società civile fu presentato, sotto forma di relazione, al convegno di studi gramsciani tenuto a Cagliari nel 1967. Da sunitoesso suscitò un vivacissimo interesse che non si spense negli anni successivi. La tesi innovativa di Bobbio, per la quale la concezione gramsciana di società civile non ha carattere strutturale come in Marx ma solo sovrastrutturale e afferisce al concetto più generale di egemonia mostra la modernità e l’attualità del pensiero di Gramsci.

Buona lettura!

1. Dalla società allo Stato e dallo Stato alla società

Il pensiero politico moderno, da Hobbes a Hegel, è contraddistinto dalla tendenza costante — pur entro diverse soluzioni — a considerare lo Stato o società politica rispetto allo stato di natura (o società naturale) come il momento supremo e definitivo della vita comune e collettiva dell’uomo, essere razionale, come il risultato più perfetto o meno imperfetto di quel processo di razionalizzazione degli istinti o delle passioni o degli interessi, per il quale il regno della forza sregolata si trasforma nel regno della libertà regolata. Lo Stato è concepito come prodotto della ragione, o come società razionale, in cui soltanto l’uomo può condurre una vita conforme a ragione, cioè conforme alla sua natura.

In questa tendenza s’incontrano e si mescolano tanto le teorie realistiche, che descrivono lo Stato com’è (da Machiavelli ai teorici della ragione di Stato), quanto quelle giusnaturalistiche (da Hobbes a Rousseau, a Kant), che propongono modelli ideali di Stato, delineano lo Stato come dovrebbe essere per realizzare il proprio fine. Il processo di razionalizzazione dello Stato (lo Stato come società razionale), che è proprio delle seconde, s’incontra e si confonde col processo di statualizzazione della ragione, che è proprio delle prime (la ragione di Stato).

In Hegel, che rappresenta la dissoluzione e insieme il compimento di questa storia, i due processi si confondono, tanto che nella Filosofia del diritto la razionalizzazione dello Stato celebra il proprio trionfo e insieme viene rappresentata non già come proposta di un modello ideale ma come comprensione del movimento storico reale: la razionalità dello Stato non è più soltanto un’esigenza ma una realtà, non più soltanto un ideale ma un evento della storia.[1]

Il giovane Marx colse esattamente questo carattere della filosofia del diritto hegeliana quando nel commento giovanile scrisse:

Non è da biasimare Hegel perché egli descrive l’essere dello Stato moderno tale qual è, ma perché spaccia ciò che è come la essenza dello Stato.[2]

La razionalizzazione dello Stato avvenne mediante l’utilizzazione costante di un modello dicotomico, contrapponente lo Stato come momento positivo alla società prestatuale o antistatuale, degradata a momento negativo. Di questo modello si possono distinguere, se pure con un certo schematismo, tre varianti principali:

  1. lo Stato come negazione radicale e quindi eliminazione e rovesciamento dello stato di natura, cioè come rinnovamento o restauratio ab imis rispetto alla fase dello sviluppo umano precedente allo Stato (modello Hobbes-Rousseau);
  2. lo Stato come conservazione-regolazione della società naturale e quindi non più inteso come alternativa ma come inveramento o perfezionamento rispetto alla fase che lo precede (modello Locke-Kant);
  3. lo Stato come conservazione e superamento della società prestatuale (Hegel), nel senso che lo Stato è un momento nuovo e non soltanto un perfezionamento (a differenza del modello Locke-Kant), senza peraltro costituire una negazione assoluta e quindi un’alternativa (a differenza del modello Hobbes-Rousseau).

Mentre lo Stato hobbesiano e rousseauiano esclude definitivamente lo stato di natura, lo Stato hegeliano contiene la società civile (che è la storicizzazione dello stato di natura o società naturale dei giusnaturalisti): la contiene e la supera trasformando una universalità meramente formale (eine formelle Allgemeinheit, Enc., § 517) in una realtà organica (organische Wirklichkeit), a differenza dello Stato lockiano che contiene la società civile (la quale in Locke si presenta ancora come società naturale) non per andar oltre ma per legittimarne l’esistenza e gli scopi.

Con Hegel il processo di razionalizzazione dello Stato raggiunge il punto più alto della parabola. Negli stessi anni, attraverso gli scritti di Saint-Simon che, prendendo atto della profonda trasformazione della società prodotta non dalla rivoluzione politica ma dalla rivoluzione industriale, predicevano l’avvento di un nuovo ordine regolato da scienziati e industriali contro l’ordine tradizionale retto da metafisici e militari,[3] era cominciata la parabola discendente: la teoria o soltanto la credenza (il mito) dell’inevitabile deperimento dello Stato.

Questa teoria o credenza sarebbe diventata un tratto caratteristico delle ideologie politiche dominanti nel secolo XIX. Marx ed Engels ne avrebbero fatto uno dei cardini del loro sistema: lo Stato non è più la realtà dell’idea etica, il razionale in sé e per sé, ma, secondo la famosa definizione del Capitale[4]:

“violenza concentrata e organizzata della società”.

L’antitesi alla tradizione giusnaturalistica culminante in Hegel non poteva essere più completa. In contrasto col primo modello lo Stato non è più concepito come eliminazione, bensì come conservazione, prolungamento e stabilizzazione dello stato di natura: nello Stato il regno della forza non è stato soppresso, anzi è stato perpetuato, con la sola differenza che alla guerra di tutti contro tutti si è sostituita la guerra di una parte contro l’altra parte (la lotta di classe, di cui lo Stato è espressione e strumento).

In contrasto col secondo modello, la società di cui lo Stato è il supremo regolatore non è una società naturale, conforme alla natura eterna dell’uomo, ma una società storicamente determinata, caratterizzata da certe forme di produzione e da certi rapporti sociali, e pertanto lo Stato, come comitato della classe dominante, anziché essere l’espressione di un’esigenza universale e razionale, è insieme la ripetizione e il potenziamento di interessi particolaristici.

In contrasto col terzo modello, infine, lo Stato non si presenta più come superamento della società civile, ma come il semplice rispecchiamento di essa: tale la società civile, tale lo Stato. Lo Stato contiene la società civile non per risolverla in altro, ma per conservarla così com’è; la società civile, storicamente determinata, non scompare nello Stato, ma riappare in esso con tutte le sue concrete determinazioni.

Da questa triplice antitesi si possono ricavare i tre elementi fondamentali della dottrina marxiana ed engelsiana dello Stato:

  1. lo Stato come apparato coercitivo, o, come si è detto, “violenza concentrata e organizzata della società”: cioè una concezione strumentale dello Stato che è l’opposto della concezione finalistica o etica;
  2. lo Stato come strumento di dominio di classe, per cui “il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la borghesia”[5]: cioè una concezione particolaristica dello Stato opposta alla concezione universalistica propria di tutte le teorie del diritto naturale, Hegel compreso;
  3. lo Stato come momento secondario o subordinato rispetto alla società civile, per cui “non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato”[6]: ovvero una concezione negativa dello Stato che è l’opposto della concezione positiva propria del pensiero razionalistico. Come apparato coercitivo, particolaristico e subordinato, lo Stato non è il momento ultimo del movimento storico, non ulteriormente superabile:

lo Stato è un’istituzione transitoria.

Così l’inversione dei rapporti società civile-società politica ha per conseguenza un completo capovolgimento nella concezione del corso storico: il progresso non muove più dalla società allo Stato, ma, inversamente, dallo Stato alla società. Quel processo di pensiero, iniziato con la concezione dello Stato che sopprime lo stato di natura, termina quando si affaccia e prende forza la teoria secondo cui lo Stato deve essere a sua volta soppresso.

La teoria dello Stato in Antonio Gramsci — mi riferisco in particolare al Gramsci dei Quaderni del carcere — appartiene a questa nuova storia in cui, per riassumere, lo Stato non è un fine in se stesso, ma un apparato, uno strumento; è il rappresentante non di interessi universali ma particolari; non è un ente sovraordinato alla società sottostante, ma condizionato da questa e quindi a questa subordinato; non è un’istituzione permanente, ma transitoria, destinata a scomparire con la trasformazione della società sottostante. Non sarebbe difficile trovare tra le mille e mille pagine dei Quaderni brani che riecheggiano i quattro temi fondamentali dello Stato strumentale, particolare, subordinato, transitorio.

Eppure chiunque abbia acquistato una certa familiarità coi testi gramsciani sa che il pensiero gramsciano ha tratti originali e personali, che non consentono le facili schematizzazioni quasi sempre ispirate a motivi di polemica politica, del tipo “Gramsci è marxista-leninista”, oppure “è più leninista che marxista”, oppure “è più marxista che leninista”, oppure “non è né marxista né leninista”, come se i concetti di “marxismo”, “leninismo”, “marxismo-leninismo” fossero concetti chiari e distinti, entro i quali si possa riassumere questa o quella teoria o gruppo di teorie senza lasciare margini d’incertezza, e si potessero usare come si usa un regolo per misurare l’allineamento di una parete.

Il primo compito di un’indagine del pensiero gramsciano è di rilevare e di analizzare questi tratti originali e personali senz’altra preoccupazione che quella di ricostruire le linee di una teoria, che si presenta frammentaria, dispersa, non sistematica, con qualche oscillazione terminologica, se pur sorretta, specie negli scritti del carcere, da una fondamentale unità d’ispirazione.

Una rivendicazione talora sin troppo puntigliosa dell’ortodossia rispetto ad una determinata linea di partito ha suscitato per reazione l’atteggiamento opposto dei cacciatori dell’eterodossia se non dell’apostasia; l’apologia appassionata sta alimentando, se non m’inganno, un atteggiamento, ancora sotterraneo, ma già rilevabile da alcuni segni d’insofferenza, addirittura iconoclastico. Ma come ortodossia ed eterodossia non sono criteri valevoli per una critica filosofica, così esaltazione e irriverenza sono predisposizioni ingannevoli e fuorvianti per la comprensione di un momento della storia del pensiero.

2. La società civile in Hegel e in Marx

Per una ricostruzione del pensiero politico di Gramsci il concetto-chiave, il concetto da cui occorre prendere le mosse, è quello di società civile. Conviene partire dal concetto di società civile piuttosto che da quello di Stato perché rispetto al primo più che rispetto al secondo l’uso gramsciano si discosta tanto dall’uso hegeliano quanto da quello marxiano ed engelsiano.

Da quando il problema del rapporto Hegel-Marx si è spostato dal confronto tra i metodi (l’uso del metodo dialettico e il cosiddetto rovesciamento) al confronto anche fra i contenuti — per questa nuova prospettiva è stata fondamentale l’opera di Lukács sul giovane Hegel –, i paragrafi dedicati da Hegel all’analisi della società civile sono stati studiati con maggior attenzione: la maggiore o minore quantità di hegelismo in Marx si valuta ormai anche dalla maggiore o minore misura in cui la descrizione della società civile in Hegel (più precisamente della prima parte sul sistema dei bisogni) possa venir considerata come una prefigurazione dell’analisi e della critica marxiana della società capitalistica.

Alla rilevazione di questo nesso tra l’analisi marxiana della società capitalistica e l’analisi hegeliana della società civile diede occasione lo stesso Marx in un noto passo della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, là dove scrisse che la sua revisione critica della filosofia del diritto di Hegel

arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo xviii, sotto il nome di ‘società civile’; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica.[7]

Ma di fatto, da un lato gli interpreti della filosofia del diritto di Hegel ebbero tendenza a concentrare la loro attenzione sulla teoria dello Stato e a trascurare l’analisi della società civile — la cui importanza emerse negli studi hegeliani attorno agli anni Venti — ; dall’altro, gli studiosi di Marx ebbero per lungo tempo la tendenza a considerare il problema dei rapporti con Hegel esclusivamente alla luce dell’accoglimento da parte di Marx del metodo dialettico. È noto che nei maggiori studiosi italiani di Marx, come Labriola, Croce, Gentile e Mondolfo, alcuni dei quali erano o hegeliani o studiosi di Hegel, non si trova alcun accenno al concetto hegeliano di società civile (per quanto si trovi in Sorel). Gramsci è il primo scrittore marxista che si serve per la sua analisi della società, con un riferimento testuale, come vedremo, anche ad Hegel, del concetto di società civile.

Senonché, a differenza del concetto di Stato, che ha dietro di sé una lunga tradizione, il concetto di società civile, che deriva da Hegel e ricorre attualmente in ispecie nel linguaggio della teoria marxiana della società, viene usato, anche nel linguaggio filosofico, in modo meno tecnico e rigoroso, con significati oscillanti che richiedono una certa cautela nella comparazione, e qualche precisazione preliminare. Credo utile fissare alcuni punti, che meriterebbero un’analisi assai più approfondita di quella che mi sia consentita e di cui sia capace.

In tutta la tradizione giusnaturalistica l’espressione societas civilis, anziché designare la società prestatuale, come avverrà nella tradizione hegelo-marxistica, è sinonimo, secondo l’uso latino, di società politica, quindi di Stato: Locke usa indifferentemente l’uno e l’altro termine; in Rousseau état civil sta per Stato; anche Kant che insieme con Fichte è l’autore più vicino a Hegel, quando nella Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbuergerlicher Absicht parla della tendenza irresistibile cui l’uomo è spinto dalla natura verso la costituzione dello Stato, chiama questa meta suprema della natura nei riguardi della specie umana burgerliche Gesellschaft.[8]

Nella tradizione giusnaturalistica, com’è noto, i due termini della antitesi sono non già, come nella tradizione hegelomarxistica, società civile-società politica, ma stato di natura-stato civile. L’idea di uno stadio prestatuale dell’umanità è ispirata non tanto all’antitesi società-Stato quanto a quella natura-civiltà. Peraltro si va facendo strada anche negli scrittori giusnaturalistici l’idea che lo stato prestatuale o naturale non sia uno stato sociale, cioè di guerra perpetua, ma sia una prima forma di stato sociale, caratterizzato dal prevalere di rapporti sociali regolati, come erano o si credeva fossero quelli familiari e quelli economici, da leggi naturali.

Questa trasformazione dello status naturalis in una societas naturalis è evidente nel passaggio da Hobbes-Spinoza a Pufendorf-Locke. Tutto quello che Locke trova nello stato di natura, cioè prima dello Stato, insieme con le istituzioni familiari, i rapporti di lavoro, la istituzione della proprietà, la circolazione dei beni, il commercio, ecc., mostra che anche se egli chiama societas civilis lo Stato, la immagine che egli ha della fase prestatuale dell’umanità è assai più anticipatrice della bürgerliche Gesellschaft di Hegel che non sia continuatrice dello status naturae di Hobbes-Spinoza.

Questo modo di intendere lo stato di natura come societas naturalis giunge, tanto in Francia quanto in Germania, sino alle soglie di Hegel. La contrapposizione della société naturelle, intesa come sede dei rapporti economici, alla société politique è un elemento costante della dottrina fisiocratica. In un passo della Metafisica dei costumi di Kant, opera da cui muove la prima critica di Hegel alle dottrine del diritto naturale, si dice chiaramente che lo stato di natura è anche uno stato sociale, e pertanto “allo stato di natura non è opposto lo stato sociale, ma lo stato civile (bürgerliche), perché vi può benissimo essere società nello stato di natura, ma non una società civile”, ove per società civile s’intende la società politica, cioè lo Stato, quella società, come spiega Kant, che garantisce il mio e il tuo con leggi pubbliche.[9]

L’innovazione di Hegel rispetto alla tradizione giusnaturalistica è radicale: nell’ultima redazione del suo travagliatissimo sistema di filosofia politica e sociale, qual è contenuta nella Filosofia del diritto del 1821, egli si decide a chiamare società civile, cioè con un’espressione che sino ai suoi immediati predecessori serviva a indicare la società politica, la società prepolitica, cioè quella fase della società umana che sino allora era stata chiamata società naturale.

Questa innovazione è radicale rispetto alla tradizione giusnaturalistica perché Hegel nel rappresentare la sfera dei rapporti prestatuali abbandona le analisi prevalentemente giuridiche dei giusnaturalisti, i quali hanno la tendenza a risolvere i rapporti economici nelle loro forme giuridiche (teoria della proprietà e dei contratti), e attinge sin dagli anni giovanili agli economisti, specie inglesi, ove i rapporti economici costituiscono il tessuto della società prestatuale, e dove la distinzione tra il prestatuale e lo statuale viene raffigurata sempre più come distinzione tra la sfera dei rapporti economici e la sfera delle istituzioni politiche: si suole risalire all’opera di Adam Ferguson, An Essay on History of Civil Society (1767), tradotta in Germania l’anno successivo e nota a Hegel, ove peraltro l’espressione civil society (tradotta in tedesco con bürgerliche Gesellschaft) sta a denotare piuttosto l’antitesi di società primitiva che non l’antitesi di società politica (come in Hegel) o di società naturale (come nei giusnaturalisti), e sarà sostituita infatti da Adam Smith in analogo contesto con civilized society.[10]

Mentre l’aggettivo “civile” in inglese (come pure in francese e in italiano) ha anche il senso di non-barbaro, cioè di “civilizzato”, quando nella traduzione tedesca diventa bürgerliche (e non zivilisierte), l’ambiguità tra il significato di non-barbaro e di non-statuale è eliminata, restando pur sempre l’altra e più grave ambiguità, cui dà luogo l’uso hegeliano, fra prestatuale (in quanto antitesi di “politico”) e statuale (in quanto antitesi di “naturale”).

L’innovazione terminologica di Hegel ha spesso celato il vero significato della sua innovazione sostanziale, la quale non consiste, com’è stato più volte ripetuto, nella scoperta e nell’analisi della società prestatuale, perché questa scoperta e questa analisi erano state introdotte per lo meno sin da Locke anche se sotto il nome di stato di natura o società naturale, ma nell’interpretazione che la Filosofia del diritto ce ne offre: la società civile di Hegel, a differenza della società da Locke sino ai fisiocrati, non è più il regno di un ordine naturale, che deve essere liberato dalle restrizioni e dalle distorsioni imposte da cattive leggi positive, ma, al contrario, il regno “della dissolutezza, della miseria, e della corruzione fisica ed etica”,[11] che deve essere regolato, dominato e annullato nell’ordine superiore dello Stato.

In questo senso, e solo in questo senso, la società civile di Hegel, non la società naturale dei giusnaturalisti, da Locke e Rousseau ai fisiocrati, è un concetto premarxista. Nonostante questo, occorre ancora avvertire che il concetto di società civile di Hegel è per un certo aspetto più ampio e per un certo aspetto più ristretto del concetto di società civile, quale sarà accolto nel linguaggio marx-engelsiano, divenuto poi corrente.

Più ampio perché nella società civile Hegel comprende non solo la sfera dei rapporti economici e la formazione delle classi, ma anche l’amministrazione della giustizia e l’ordinamento amministrativo e corporativo, cioè due argomenti del diritto pubblico tradizionale; più ristretto perché nel sistema tricotomico di Hegel (non dicotomico come quello dei giusnaturalisti), la società civile costituisce il momento intermedio tra la famiglia e lo Stato, e pertanto non comprende, come comprendono invece la società naturale di Locke e la società civile nel prevalente uso odierno, tutti i rapporti e le istituzioni prestatuali, ivi compresa la famiglia.

La società civile in Hegel è la sfera dei rapporti economici e insieme la loro regolamentazione esterna secondo i principi dello Stato liberale ed è congiuntamente società borghese e Stato borghese: in essa Hegel concentra la critica dell’economia politica e della scienza politica, ispirate rispettivamente ai principi della libertà naturale e dello stato di diritto.

La fissazione del significato di “società civile”, estendentesi a tutta la vita sociale prestatuale, come momento dello sviluppo dei rapporti economici, che precede e determina il momento politico, e quindi come uno dei due termini dell’antitesi società-Stato, avviene in Marx. La società civile diventa uno degli elementi del sistema concettuale marx-engelsiano, dagli studi giovanili di Marx, come Il problema ebraico, in cui il richiamo alla distinzione hegeliana tra bürgerliche Gesellschaft e politischer Staat è il presupposto della critica alla soluzione data da Bauer al problema ebraico,[12] sino agli scritti più tardi di Engels, come il saggio su Feuerbach, che contiene uno dei passi giustamente più citati per la sua incisività semplificante[13]:

Lo Stato, l’ordine politico, è l’elemento subordinato, mentre la società civile, il regno dei rapporti economici, è l’elemento decisivo.

L’importanza dell’antitesi società civile-Stato deve essere messa in relazione anche al fatto che essa è una delle forme in cui si presenta l’antitesi fondamentale del sistema, quella fra struttura e sovrastruttura: se è vero che la società politica non esaurisce il momento sovrastrutturale, è pur vero che la società civile coincide — nel senso che si estende tanto quanto — con la struttura.

Nello stesso passo della Critica dell’economia politica in cui Marx richiama l’analisi hegeliana della società civile, precisa che “l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica”, e subito dopo esamina la tesi del rapporto struttura-sovrastruttura in una delle sue più famose formulazioni.[14]

A questo proposito conviene citare e avere continuamente sott’occhio uno dei passi marxiani più importanti in materia[15]:

“La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile […]. Qui già si vede che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali […]. La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo Stato e la nazione, benché, d’altra parte, debba nuovamente affermarsi verso l’esterno come nazionalità e organizzarsi verso l’esterno come Stato”.

3. La società civile in Gramsci

Quest’analisi sommaria del concetto di società civile dai giusnaturalisti sino a Marx[16] ha messo capo alla identificazione, avvenuta in Marx, tra società civile e momento strutturale. Ebbene questa identificazione può essere considerata come il punto di partenza dell’analisi del concetto di società civile in Gramsci, perché — proprio nell’individuazione della natura della società civile e della sua collocazione nel sistema — la teoria di Gramsci introduce una profonda innovazione rispetto a tutta la tradizione marxistica.

La società civile in Gramsci non appartiene al momento della struttura ma a quello della sovrastruttura. Nonostante le numerose analisi cui il concetto gramsciano di società civile è stato sottoposto negli ultimi anni, questo punto essenziale, su cui s’impernia tutto il sistema concettuale gramsciano, non mi pare sia stato sufficientemente sottolineato, anche se non sono mancati gli studiosi che hanno messo in rilievo l’importanza sovrastrutturale in questo sistema.[17]

Basterà citare un passo fondamentale in uno dei testi più importanti dei Quaderni:[18]

“Si possono, per ora, fissare due grandi piani superstrutturali, quello che si può chiamare della società civile, cioè dell’insieme di organismi volgarmente detti privati e quello della società politica o Stato e che corrispondono alla funzione di egemonia che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quello di dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato o nel governo giuridico”.

E di rincalzo addurre un grande esempio storico: nel Medioevo società civile è per Gramsci la Chiesa[19] intesa come

“l’apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale l’organizzazione ecclesiastica universale”.

Parafrasando il passo di Marx sopra citato si sarebbe tentati di dire che la società civile comprende per Gramsci non già “tutto il complesso delle relazioni materiali”, bensì tutto il complesso delle relazioni ideologico-culturali, non già “tutto il complesso della vita commerciale e industriale”, bensì tutto il complesso della vita spirituale e intellettuale.

Ora se è vero che la società civile è, come dice Marx, “il vero focolare, il teatro di ogni storia”, questo spostamento di significato di società civile in Gramsci non ci induce a porre subito la domanda se egli non abbia per avventura posto “il vero focolare, il teatro di ogni storia” in altro luogo? Si può presentare il problema del rapporto tra Marx (ed Engels) e Gramsci anche in questo modo, ancor più netto: tanto in Marx che in Gramsci la società civile, non già lo Stato come in Hegel, rappresenta il momento attivo e positivo dello sviluppo storico.

Senonché, in Marx, questo momento attivo e positivo è strutturale, in Gramsci sovrastrutturale. In altre parole, entrambi mettono l’accento non più sullo Stato, come aveva fatto Hegel concludendo la tradizione giusnaturalistica, ma sulla società civile, cioè in un certo senso rovesciando Hegel. Ma con questa differenza: che il rovesciamento di Marx comporta il passaggio dal momento sovrastrutturale o condizionato al momento strutturale o condizionante, mentre il rovesciamento avviene in Gramsci nell’interno stesso della sovrastruttura.

Quando si dice che il marxismo di Gramsci consiste nella rivalutazione della società civile rispetto allo Stato, si tralascia di dire che cosa rispettivamente per Marx e per Gramsci significhi “società civile”. Sia ben chiaro che con questo non intendo assolutamente smentire il marxismo di Gramsci, ma richiamare l’attenzione sul fatto che la rivalutazione della società civile non è ciò che lo collega a Marx, come potrebbe sembrare a un lettore superficiale, ma se mai ciò che lo distingue.

In realtà, contrariamente a quel che si crede, Gramsci deriva il proprio concetto di società civile non da Marx, ma dichiaratamente da Hegel, se pur attraverso una interpretazione un po’ forzata, o per lo meno unilaterale, del di lui pensiero. In un passo di Passato e presente, Gramsci parla della società civile “come è intesa dallo Hegel e nel senso in cui è spesso adoperata in queste note”, e subito spiega che si tratta della società civile “nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato”.[20]

Questo breve passo serve per mettere in luce due punti molto importanti:
1) il concetto gramsciano di società civile pretende di essere derivato da quello di Hegel;
2) il concetto hegeliano di società civile quale ha in mente Gramsci è un concetto sovrastrutturale.

Questi due punti sollevano una grossa difficoltà: da un lato, Gramsci deriva la sua tesi della società civile come appartenente al momento della sovrastruttura e non a quello della struttura, da Hegel; ma d’altro canto, anche Marx si era richiamato alla società civile di Hegel, come abbiamo visto, quando aveva identificato la società civile con l’insieme dei rapporti economici, cioè col momento strutturale. Come si spiega questo contrasto?

Credo che l’unica possibile spiegazione vada ricercata nella stessa Filosofia del diritto di Hegel, dove, come abbiamo notato, la società civile comprende non soltanto la sfera dei rapporti economici ma anche le loro forme di organizzazione, spontanee o volontarie, cioè le corporazioni, e la loro prima e rudimentale regolamentazione nello Stato di polizia.

Questa interpretazione è avvalorata da un passo gramsciano in cui si enuncia il problema della “dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama privata dello Stato”,[21] e lo si risolve con l’osservazione che Hegel, mettendo in particolare rilievo nella sua dottrina dello Stato l’importanza delle associazioni politiche e sindacali, se pur attraverso una concezione ancor vaga e primitiva dell’associazione, che si ispira storicamente ad un solo esempio compiuto di organizzazione, quello corporativo, supera il puro costituzionalismo (cioè lo Stato in cui individui e governo si trovano di fronte gli uni all’altro senza società intermedie) e “teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti”.[22]

Che Hegel anticipi lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti è inesatto[23]: nel sistema costituzionale accolto da Hegel che si arresta alla rappresentanza degli interessi e rifiuta la rappresentanza politica[24] non c’è posto per un parlamento composto da rappresentanti di partiti, ma solo per una camera bassa corporativa (accanto ad una camera alta ereditaria).

Ma è estremamente, direi quasi letteralmente, esatta, la rapida annotazione in cui Gramsci, riferendosi a Hegel, parla della società civile come del “contenuto etico dello Stato”[25] letteralmente esatta, dico, se si riconosce che la società civile hegeliana che Gramsci ha in mente non è il sistema dei bisogni (da cui prese le mosse Marx), cioè dei rapporti economici, ma le istituzioni che li regolano, di cui Hegel dice che, come la famiglia, costituiscono “la radice etica dello Stato, profondata nella società civile”[26], o, altrove, “la base stabile dello Stato”, “le pietre angolari della libertà pubblica”.[27]

Insomma, la società civile che Gramsci ha in mente, quando si riferisce a Hegel, non è quella del momento iniziale in cui scoppiano le contraddizioni che lo Stato dovrà dominare, ma quella del momento finale in cui attraverso l’organizzazione e regolamentazione dei diversi interessi (le corporazioni) vengono poste le basi per il passaggio allo Stato.[28]

4. Il momento della società civile nel duplice rapporto struttura-sovrastruttura e direzione-dittatura

Si intende che, se in Marx la società civile si identifica con la struttura, lo spostamento della società civile, operato da Gramsci, dal campo della struttura a quello della sovrastruttura, non può non avere una influenza decisiva sulla stessa concezione gramsciana dei rapporti tra struttura e sovrastruttura.

Il problema dei rapporti tra struttura e sovrastruttura in Gramsci non è stato esaminato sinora come avrebbe dovuto, data l’importanza che lo stesso Gramsci vi assegna. Credo che l’individuazione del posto che la società civile vi occupa permetta di assumere la giusta prospettiva per un’analisi più approfondita. Le differenze fondamentali tra la concezione marxiana e quella gramsciana dei rapporti tra struttura e sovrastruttura mi sembrano essenzialmente due.

Prima di tutto, dei due momenti, pur sempre considerati in relazione reciproca, in Marx il primo è il momento primario e subordinante, il secondo è il momento secondario e subordinato, almeno se ci si riferisce alla lettura sempre abbastanza chiara dei testi e non si faccia il processo alle intenzioni; in Gramsci, è precisamente l’opposto. Teniamo presente, di Marx, la celebre tesi della Prefazione a Per la critica dell’economia politica: “L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”.[29]

Contro le semplificazioni delle interpretazioni deterministiche del marxismo Gramsci ebbe sempre chiarissima l’idea della complessità dei rapporti fra struttura e sovrastruttura. In un articolo del 1918 scriveva[30]:

“Tra la premessa (struttura economica) e la conseguenza (costituzione politica) i rapporti sono tutt’altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata solo dai fatti economici. Lo snodarsi della causazione è complesso e imbrogliato, e a districarlo non giova che lo studio approfondito e diffuso di tutte le attività spirituali e pratiche”.

E già preannunciava l’impostazione dei Quaderni[31] sostenendo che

“non la struttura economica determina direttamente l’azione politica, ma l’interpretazione che si dà di essa e delle cosiddette leggi che ne governano lo svolgimento.”

Nei Quaderni questo rapporto viene rappresentato con una serie di antitesi, di cui le principali sono le seguenti: momento economico-momento etico-politico, necessità-libertà, oggettivo-soggettivo. Il passo più importante, a mio parere, è il seguente:[32]

Si può impiegare il termine di ‘catarsi’ per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà”.

In tutte queste tre antitesi il termine che indica il momento primario e subordinante è sempre il secondo. Si noti inoltre che dei due momenti sovrastrutturali, il momento del consenso e il momento della forza, dei quali l’uno ha una connotazione positiva e l’altro negativa, viene in considerazione in quest’antitesi sempre soltanto il primo.

La sovrastruttura è il momento della catarsi, cioè il momento in cui la necessità si risolve in libertà, intesa hegelianamente come consapevolezza della necessità. E questa trasformazione avviene per opera del momento etico-politico. Alla necessità intesa come insieme delle condizioni materiali che caratterizzano una determinata situazione storica è assimilato il passato storico, considerato anch’esso come parte della struttura.[33]

Tanto il passato storico quanto i rapporti sociali esistenti costituiscono le condizioni obiettive il cui riconoscimento è opera del soggetto storico attivo, che Gramsci identifica nella volontà collettiva: solo attraverso il riconoscimento delle condizioni obiettive il soggetto attivo diventa libero e si mette in condizione di poter trasformare la realtà. Inoltre, nel momento stesso in cui le condizioni materiali vengono riconosciute, esse sono degradate a strumento di un fine voluto[34]:

“La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative”.

Il rapporto struttura-sovrastruttura che, considerato naturalisticamente, viene interpretato come rapporto di causa-effetto, e porta al fatalismo storico,[35] considerato dal punto di vista del soggetto attivo della storia, della volontà collettiva, si rovescia in un rapporto mezzo-fine. Il riconoscimento e il perseguimento del fine avvengono per opera del soggetto storico che opera nella fase sovrastrutturale servendosi della struttura, la quale da momento subordinante della storia diventa momento subordinato.

Riassumendo schematicamente i passaggi da un significato all’altro dell’antitesi struttura-sovrastruttura, si possono fissare questi punti: il momento etico-politico, in quanto momento della libertà intesa come coscienza della necessità (cioè delle condizioni materiali), domina il momento economico, attraverso il riconoscimento che il soggetto attivo della storia fa dell’oggettività, riconoscimento che permette di risolvere le condizioni materiali in strumento d’azione, e quindi di raggiungere lo scopo voluto.

In secondo luogo, all’antitesi principale tra struttura e sovrastruttura, Gramsci aggiunge un’antitesi secondaria che si sviluppa nella sfera della sovrastruttura tra il momento della società civile ed il momento dello Stato.[36] Di questi due termini il primo è sempre il momento positivo, il secondo è sempre il momento negativo, come risulta chiaramente da questo elenco di opposti che Gramsci propone a commento[37] dell’affermazione del Guicciardini, secondo cui sono assolutamente necessarie allo Stato le armi e la religione:

“La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie altre formule, meno drastiche: forza e consenso; coercizione e persuasione; Stato e Chiesa; società politica e società civile; politica e morale (storia etico-politica del Croce); diritto e libertà; ordine e disciplina; o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode”.

Non sembra dubbio che Gramsci alludesse alla concezione marxiana dello Stato là dove in una lettera dal carcere (7 settembre 1931) parlando della sua ricerca sugli intellettuali dice[38]:

“Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della società politica con la società civile”.

È vero che nel pensiero di Marx lo Stato, pur sempre inteso esclusivamente come forza coattiva, non occupa da solo il momento della sovrastruttura, e che rientrano in questa anche le ideologie; ma è anche vero che nel passo citato, e noto a Gramsci, della Prefazione a Per la critica dell’economia politica — passo di cui Gramsci avrebbe trovato ampia conferma nella prima parte della Ideologia tedesca, se avesse mai potuto conoscerla[39] — le ideologie vengono sempre dopo le istituzioni, quasi come un momento riflesso nell’ambito dello stesso momento riflesso, in quanto vengono considerate nel loro aspetto di giustificazioni postume e mistificate-mistificanti del dominio di classe.

Questa tesi marxiana aveva ricevuto una interpretazione canonica, almeno nel marxismo teorico italiano, per opera di Labriola, il quale aveva spiegato che la struttura economica determina in primo luogo e per diretto i modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini, cioè il diritto (la morale) e lo Stato, in secondo luogo e per indiretto, gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della scienza.[40]

In Gramsci il rapporto tra istituzioni e ideologie, pur nello schema di un’azione reciproca, è invertito: le ideologie diventano il momento primario della storia, le istituzioni il momento secondario. Una volta considerato il momento della società civile come il momento attraverso cui si realizza il passaggio dalla necessità alla libertà, le ideologie, di cui la società civile è la sede storica, sono viste non più soltanto come giustificazione postuma di un potere la cui formazione storica dipende dalle condizioni materiali, ma come forze formatrici e creatrici di nuova storia, collaboratrici nella formazione di un potere che si va costituendo più che non giustificatrici di un potere già costituito.

5. Uso storiografico e uso pratico-politico del concetto di società civile

Il posto veramente singolare della società civile nel sistema concettuale gramsciano opera quindi non soltanto una ma due inversioni rispetto al modo tradizionale scolastico di intendere il pensiero marx-engelsiano: la prima consiste nel privilegiamento della sovrastruttura rispetto alla struttura, la seconda consiste nel privilegiamento, nell’ambito della sovrastruttura, del momento ideologico rispetto a quello istituzionale.

Rispetto alla dicotomia semplice, da cui abbiamo preso le mosse — società civile-Stato — , diventata schema concettuale corrente delle interpretazioni storiche richiamantisi a Marx, lo schema gramsciano è più complesso nel senso che utilizza, senza che il lettore se ne renda sempre ben conto, due dicotomie che solo in parte si sovrappongono: quella fra necessità e libertà, che corrisponde alla dicotomia struttura-sovrastruttura, e quella tra forza e consenso, che corrisponde alla dicotomia istituzioni-ideologie.

In questo schema più complesso la società civile è insieme il momento attivo (contrapposto a passivo) della prima dicotomia, e il momento positivo (contrapposto a negativo) della seconda. In questo senso mi pare sia veramente il pezzo centrale del sistema. Questa interpretazione può essere provata, testi alla mano, osservando le conseguenze che Gramsci trae dal frequente e vario uso che egli fa delle due dicotomie nelle riflessioni del carcere. Per maggiore chiarezza credo utile distinguerne due usi diversi: l’uno meramente storiografico, in cui le dicotomie sono utilizzate come canoni di interpretazione-spiegazione storica; l’altro più direttamente pratico-politico, in cui le stesse dicotomie vengono utilizzate come criteri per distinguere ciò che si deve fare da ciò che non si deve fare.

In generale, mi pare si possa dire che nell’uso storiografico gramsciano la prima dicotomia, quella tra momento economico e momento etico-politico, serve a individuare gli elementi essenziali del processo storico; la seconda, quella tra momento etico e momento politico, serve a distinguere nel processo storico fasi di ascesa e fasi di decadenza, secondoché prevalga il momento positivo o quello negativo. In altre parole, partendo dal concetto veramente centrale nel pensiero gramsciano, di “blocco storico”, con cui Gramsci intende designare una situazione storica globale, comprendente tanto l’elemento strutturale quanto quello sovrastrutturale, la prima dicotomia serve a definire e a delimitare un determinato blocco storico, la seconda serve a distinguere un blocco storico progressivo da uno regressivo.

Per fare qualche esempio: la prima dicotomia è lo strumento concettuale con cui Gramsci individua nel partito dei moderati e non nel Partito d’azione il movimento che guidò l’opera dell’unificazione italiana, che è uno dei temi fondamentali degli appunti sul Risorgimento; la seconda dicotomia serve a spiegare la crisi della società italiana nel primo dopoguerra, in cui la classe dominante ha cessato di essere la classe dirigente, crisi che per la frattura apertasi tra governanti e governati non può essere risolta “se non col puro esercizio della forza”.[41] Il maggior sintomo della crisi, cioè della dissoluzione di un blocco storico, sta nel fatto che esso non riesce più ad attrarre a sé gli intellettuali, che sono i protagonisti della società civile: quelli tradizionali fanno prediche morali, quelli nuovi costruiscono utopie, cioè girano, gli uni e gli altri, a vuoto.[42]

Sotto l’aspetto non più storiografico ma pratico, cioè dell’azione politica, l’uso della prima dicotomia è alla base della continua polemica di Gramsci contro l’economismo, cioè contro la pretesa di risolvere il problema storico, che sta di fronte alla classe oppressa, operando esclusivamente sul terreno dei rapporti economici e delle forze antagonistiche che essi sprigionano (i sindacati); l’uso della seconda è una delle maggiori, se non la maggiore, fonti di riflessione dei Quaderni, dove la conquista stabile del potere da parte delle classi subalterne è sempre considerata in funzione della trasformazione da compiersi in prima istanza nella società civile. Solo tenendo conto del continuo sovrapporsi delle due dicotomie, si riesce a dare una spiegazione del duplice fronte su cui si muove la critica gramsciana: contro la considerazione esclusiva del piano strutturale che conduce la classe operaia ad una lotta sterile o non risolutiva, contro la considerazione esclusiva del momento negativo del piano sovrastrutturale che conduce ad una conquista effimera e anch’essa non risolutiva.

Il luogo di questa duplice battaglia è ancora una volta la società civile, di cui una faccia è rivolta al superamento delle condizioni materiali operanti nella struttura, l’altra faccia contro il falso superamento di esse attraverso il puro dominio senza consenso. Il non uso o il cattivo uso dell’una o dell’altra dicotomia conduce a due errori teorici tra loro opposti: la confusione tra società civile e struttura genera l’errore del sindacalismo, la confusione tra società civile e società politica l’errore della statolatria.[43]

6. Direzione politica e direzione culturale

Mentre la prima polemica contro l’economismo è collegata al tema del partito, la seconda contro la dittatura, non accompagnata da una riforma della società civile, fa emergere il tema dell’egemonia. Le analisi precedenti quindi ci mettono nella migliore condizione per renderci conto che partito ed egemonia occupano un posto centrale nella concezione gramsciana della società e della lotta politica: essi infatti sono due elementi della società civile, sia in quanto opposta come momento sovrastrutturale alla struttura, sia in quanto opposta come momento positivo della sovrastruttura al suo momento negativo dello Stato-forza. Partito ed egemonia, in uno col tema degli intellettuali che si collega, del resto, a entrambi, sono, com’è ben noto, due temi fondamentali dei Quaderni, e sono insieme i temi che maggiormente permettono un raffronto tra Gramsci e Lenin.

Nel corso della elaborazione del concetto di egemonia che svolse nelle riflessioni del carcere, Gramsci rese omaggio in più luoghi a Lenin, proprio in quanto teorico dell’egemonia.[44] Ma non viene di solito notato che il termine “egemonia” non appartiene al linguaggio abituale di Lenin, mentre è abituale in quello di Stalin, che lo ha per così dire canonizzato. Lenin preferì parlare di direzione (rukovodstvo) e dirigente (rukovoditel): in uno dei rari passi in cui entra il termine egemone (gegemon), questo è usato manifestamente come sinonimo di dirigente.[45]

Anche nel linguaggio gramsciano il termine “egemonia” e derivati entrò con un certo spicco molto tardi, in due scritti del ’26 (nella Lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico e nello scritto incompiuto Alcuni temi della questione meridionale)[46], cioè negli ultimi scritti prima dei Quaderni, mentre è insolito negli scritti di diretta ispirazione leniniana dal ’17 al ’24.[47]

Naturalmente, non importa tanto la questione linguistica quanto quella concettuale. Ebbene, dal punto di vista concettuale, lo stesso termine “egemonia” nei Quaderni (e nelle Lettere) non ha più lo stesso significato che nei due scritti del ’26; in questi viene impiegato, conformemente al prevalente significato ufficiale dei testi sovietici, con riferimento all’alleanza tra operai e contadini, cioè nel senso di direzione politica;[48] in quelli acquista anche e prevalentemente il significato di “direzione culturale”.[49]

In questo mutamento di significato, tutt’altro che trascurabile, ma generalmente trascurato, sta la novità del pensiero gramsciano, si che oggi, nonostante l’omaggio reso da Gramsci a Lenin, come teorico dell’egemonia, il teorico dell’egemonia per eccellenza in un significato più pregnante nel dibattito contemporaneo intorno al marxismo, non è Lenin ma Gramsci.

Schematicamente, il mutamento di significato è avvenuto attraverso una inconsapevole ma non per questo meno rilevante distinzione tra un significato più ristretto, per cui egemonia significa direzione politica (ed è il significato degli scritti gramsciani del ’26 e quello prevalente nella tradizione del marxismo sovietico) e un significato più largo per cui significa anche direzione culturale.

Dico “anche”, perché nei Quaderni il secondo significato non esclude il primo, bensì lo include e lo integra: nelle pagine programmatiche dedicate al moderno Principe (pubblicate in testa alle Note sul Machiavelli), Gramsci propone per lo studio del partito moderno due temi fondamentali, quello della formazione della “volontà collettiva” (che è il tema della direzione politica) e quello della “riforma intellettuale e morale” (che è il tema della direzione culturale).[50]

Insisto sulla differenza tra questi due significati di egemonia perché, a mio parere, i termini di un raffronto concludente tra Lenin, e in generale il leninismo ufficiale , e Gramsci si possono porre soltanto prendendo atto che il concetto di egemonia si è venuto allargando nel passaggio dall’uno all’altro, sino a comprendervi il momento della direzione culturale, e riconoscendo che per “direzione culturale” Gramsci intende l’introduzione di una “riforma” nel senso forte che questo termine ha, si badi, quando viene riferito a una trasformazione dei costumi e della cultura in antitesi al senso debole che esso è venuto acquistando nel linguaggio politico (donde la differenza tra “riformatore” e “riformista”).

Si potrebbe dire che in Lenin prevale il significato di direzione politica, in Gramsci quello di direzione culturale; ma si dovrebbe aggiungere che questa diversa prevalenza assume due diversi aspetti:
a) per Gramsci il momento della forza è strumentale e quindi subordinato al momento dell’egemonia, mentre in Lenin, negli scritti della rivoluzione, dittatura ed egemonia procedono di pari passo, e comunque il momento della forza è primario e decisivo;
b) per Gramsci la conquista dell’egemonia precede la conquista del potere, in Lenin l’accompagna o addirittura la segue.[51]

Ma per quanto importanti e fondate sui testi, queste due differenze non sono essenziali, perché si possono spiegare entrambe tenendo conto della profonda differenza delle situazioni storiche in cui le due teorie furono elaborate, l’una quella di Lenin, nel momento della lotta in corso, l’altra, quella di Gramsci, nel momento della ritirata dopo la sconfitta. La differenza essenziale, a mio avviso, è un’altra: non è una differenza di più o di meno, di prima o di dopo, ma di qualità. Voglio dire che la differenza non sta nel diverso rapporto tra il momento dell’egemonia e quello della dittatura, ma — indipendentemente da questo rapporto, la cui differenza può essere spiegata anche storicamente — nella estensione e quindi nella funzione del concetto nei due rispettivi sistemi.

Rispetto all’estensione l’egemonia gramsciana, comprendendo, come si è visto, oltre il momento della direzione politica anche quello della direzione culturale, abbraccia, come enti portatori, non solo il partito, ma tutte le altre istituzioni della società civile (intesa in senso gramsciano) che hanno qualche nesso con l’elaborazione e la diffusione della cultura.[52] Rispetto alla funzione, l’egemonia non mira soltanto alla formazione di una volontà collettiva capace di creare un nuovo apparato statale e di trasformare la società, ma anche alla elaborazione e quindi alla diffusione e all’attuazione di una nuova concezione del mondo.

Sinteticamente e più precisamente: la teoria dell’egemonia è connessa in Gramsci non soltanto ad una teoria del partito e dello Stato, ad una nuova concezione del partito e dello Stato, non consiste soltanto in un’opera di educazione politica, ma ingloba la nuova e più ampia concezione della società civile considerata nelle sue diverse articolazioni, e considerata, giusta il senso enucleato nei paragrafi precedenti, come momento sovrastrutturale primario.

Con ciò viene riconosciuto ancora una volta il posto centrale che il momento della società civile assume nel sistema gramsciano: la funzione risolutiva che Gramsci attribuisce all’egemonia rispetto al mero dominio rivela con tutta la sua forza la posizione preminente della società civile, cioè del momento mediatore tra la struttura e il momento sovrastrutturale secondario. L’egemonia è il momento di saldatura tra determinate condizioni oggettive e il dominio di fatto di un determinato gruppo dirigente: questo momento di saldatura avviene nella società civile. Allo stesso modo che solo in Gramsci e non in Marx, come abbiamo visto precedentemente, a questo momento di saldatura viene riconosciuto uno spazio autonomo nel sistema, quello appunto della società civile, così solo in Gramsci e non in Lenin, il momento dell’egemonia, grazie al fatto che si allarga sino ad occupare lo spazio autonomo della società civile, acquista una nuova dimensione e un più ampio contenuto.[53]

7. Società civile e fine dello Stato

L’ultimo tema gramsciano in cui il concetto di società civile svolge un ruolo primario è quello della fine dello Stato. L’estinzione dello Stato nella società senza classi è una tesi costante negli scritti di Lenin durante la rivoluzione, e un ideale limite del marxismo ortodosso. Nei Quaderni, scritti quando il nuovo Stato è ormai saldamente costituito, il tema è presente ma in forma marginale. Nella maggior parte dei pochi passi che vi accennano la fine dello Stato è concepita come un “riassorbimento della società politica nella società civile”.[54]

La società senza Stato, che Gramsci chiama “società regolata”, risulta dunque dall’allargamento della società civile, e quindi del momento dell’egemonia, sino ad eliminare tutto lo spazio occupato dalla società politica. Gli Stati sinora esistiti sono un’unità dialettica di società civile e società politica, di egemonia e di dominio. La classe sociale che sarà riuscita a rendere tanto universale la propria egemonia da rendere superfluo il momento della coercizione avrà posto le premesse per il passaggio alla società regolata.

In un passo “società regolata” è considerata addirittura come sinonimo di società civile (e anche di stato etico)[55]: cioè, s’intende, di società civile liberata dalla società politica. Anche se si tratta di accentuazione diversa e non di contrasto, si potrebbe dire che nella teoria marx-engelsiana, accolta e divulgata da Lenin, il movimento che porta alla estinzione dello Stato è fondamentalmente strutturale (superamento degli antagonismi delle classi sino alla loro soppressione), in Gramsci è principalmente sovrastrutturale (allargamento della società civile sino alla sua universalizzazione).

Là i due termini dell’antitesi sono: società con classi-società senza classi, qua società civile con società politica-società civile senza società politica. Il fatto (su cui ho ripetutamente richiamato l’attenzione) che la società civile sia un termine di mediazione fra la struttura e il momento negativo della sovrastruttura importa una conseguenza rilevante rispetto allo stesso movimento dialettico che conduce alla estinzione dello Stato: dove i termini sono due, società civile-Stato, il momento finale, cioè la società senza classi, è il terzo termine del movimento dialettico, cioè la negazione della negazione; dove i termini sono già tre, il momento finale è raggiunto attraverso il potenziamento del termine medio. È significativo che Gramsci parli non di superamento (o soppressione) ma di riassorbimento.

All’inizio del secolo XIX, come ho già detto, le prime riflessioni sulla rivoluzione industriale ebbero per conseguenza una inversione di rotta rispetto al rapporto società-Stato. È un luogo comune che negli scritti giusnaturalistici la teoria dello Stato è direttamente influenzata dalla concezione pessimistica o ottimistica dello stato di natura; chi considera lo stato di natura malvagio concepisce lo Stato come un’innovazione; chi considera lo stato di natura come tendenzialmente buono tende a vedere nello Stato piuttosto una restaurazione.

Questo schema interpretativo può essere applicato agli scrittori politici dell’800 che invertono la rotta del rapporto società-Stato, identificando, concretamente, nella società industriale (borghese) la società prestatuale: vi sono alcuni, come Saint-Simon, che partono da una concezione ottimistica della società industriale (borghese), altri, come Marx, da una concezione pessimistica. Per i primi l’estinzione dello Stato sarà una conseguenza naturale e pacifica dello sviluppo della società dei produttori, per i secondi, occorrerà un rovesciamento assoluto, e la società senza Stato sarà l’effetto di un vero e proprio salto qualitativo. Lo schema evolutivo che parte da Saint-Simon prevede il passaggio dalla società militare alla società industriale, quello marxiano, invece, il passaggio dalla società (industriale) capitalistica alla società (industriale) socialistica.

Lo schema gramsciano è indubbiamente il secondo, ma l’introduzione della società civile come terzo termine in seguito alla sua identificazione non più con lo stato di natura o con la società industriale, più genericamente con la società prestatuale, ma con il momento dell’egemonia, cioè con uno dei due momenti della sovrastruttura (il momento del consenso contrapposto a quello della forza), sembra avvicinarlo al primo, in quanto nel primo schema lo Stato scompare in seguito all’estinzione della società civile, cioè per un procedimento che è piuttosto di riassorbimento che di superamento.

Senonché, il diverso e nuovo significato che Gramsci attribuisce alla società civile ci mette in guardia verso un’interpretazione troppo semplice: contro la tradizione che nell’antitesi società civile-Stato ha tradotto l’antica antitesi stato di natura-stato civile Gramsci traduce nell’antitesi società civile-società politica un’altra grande antitesi storica, quella tra Chiesa (in senso lato, la Chiesa moderna è il partito) e Stato. Perciò, quando parla di assorbimento della società politica nella società civile, egli intende riferirsi non al movimento storico globale ma solo a quello che avviene nell’interno della sovrastruttura, il quale è condizionato a sua volta e in ultima istanza dal mutamento della struttura: dunque assorbimento della società politica nella società civile, ma insieme trasformazione della struttura economica dialetticamente connessa alla trasformazione della società civile.

Anche in questo caso dunque la chiave di volta per un’interpretazione articolata del sistema concettuale gramsciano è il riconoscimento che “società civile” è uno dei due termini non di una sola antitesi, ma di due diverse antitesi, intrecciate fra loro e solo in parte sovrapposte. Se si guarda alla società civile come termine dell’antitesi struttura-sovrastruttura, la fine dello Stato è il superamento del momento sovrastrutturale in cui società civile e società politica sono in equilibrio tra loro; se si guarda alla società civile come momento della sovrastruttura, la fine dello Stato è un riassorbimento della società politica nella società civile.

L’apparente ambiguità dipende dalla reale complessità del blocco storico, così come Gramsci lo ha teorizzato, cioè dal fatto che la società civile e momento costitutivo di due movimenti diversi, del movimento che procede dalla struttura alla sovrastruttura, e di quello che ha luogo nella stessa sovrastruttura, di due movimenti che procedono interdipendenti ma senza sovrapporsi: il nuovo blocco storico sarà quello in cui anche questa ambiguità sarà risolta, per l’eliminazione del dualismo sul piano sovrastrutturale, eliminazione in cui consiste, appunto, nel pensiero di Gramsci, la fine dello Stato.

Note

[1] Per maggiori particolari cfr. il mio saggio, Hegel e il giusnaturalismo, in Rivista di filosofia, VII, 1966, p. 397.

[2] K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto, in Opere filosofiche giovanili, tr. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 77.

[3] Cfr. ad esempio Saint-Simon, L’organisateur, in Oeuvres, vol. IV, p. 30.

[4] K. Marx. Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1964.1966, vol. I, p. 814.

[5] Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 297.

[6] F. Engels, Per la storia della lega dei comunisti, in Il partito e l’Internazionale, Edizioni Rinascita, Roma 1948, p. 17.

[7] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 4.

[8] Ed. Vorländer, p. 10. Nella Metaphysik der Sitten, bürgerliche Gesellschaft sta per status civilis, cioè per Stato nel senso tradizionale della parola, il, 1, §§ 43 e 44.

[9] Metaphysik der Sitten, che cito da I. Kant, Scritti politici, Utet., Torino 1956, p. 422.

[10] A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Methuen, London 1920, p. 249.

[11] G.W.F. Hegel, Philosophie des Rechts, § 185.

[12] “Lo Stato politico completo è, secondo la propria essenza, la vita dell’uomo nella specie in contrapposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a restare al di fuori della sfera statale nella società borghese, ma come qualità della società borghese” (K. Marx, Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1950, pp. 365–366). Cfr. anche K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, cit.: “la società — quale appare all’economista — è la società civile” (p. 246).

[13] F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 68.

[14] “L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale” (ed. cit., pp. 10–11).

[15] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 26 e 65–66.

[16] Per indicazioni più precise rinvio al mio articolo Sulla nozione di società civile, in De homine, 1968, n. 24–25, pp. 19–36.

[17] Particolarmente, a mia conoscenza, G. Tamburrano, Antonio Gramsci, Lacaita, Manduria 1963, pp. 220, 223–224.

[18] Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1949, p. 9. Vi sono addirittura anche passi in cui, com’è noto, la società civile è considerata come un momento dello Stato in senso ampio: cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1947, p. 481; Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino 1949, p. 130; Passato e presente, Einaudi, Torino 1951, p. 72.

[19] Machiavelli, cit., p. 121.

[20] Passato e presente, cit., p. 164.

[21] Machiavelli, cit., p. 128.

[22] Ibid.

[23] Per un’interpretazione distorta di Hegel, già rilevata da Sichirollo, si veda il passo sull’importanza degli intellettuali nella filosofia di Hegel (Intellettuali, cit., pp. 46–47).

[24] G.w.f. Hegel, Philosophie des Rechts, §§ 308 sgg.

[25] Passato e presente, cit. , p. 164.

[26] G.w.f. Hegel, Philosophie des Rechts, § 255.

[27] Ibid., § 265.

[28] Ibid., § 256, in cui si dice che attraverso la corporazione “la sfera della società civile trapassa nello Stato”.

[29] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 5.

[30] Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1958, pp. 280–281.

[31] Ibid., p. 281.

[32] Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949, p. 40.

[33] “È passato reale la struttura appunto, perché essa è la testimonianza, il documento incontrovertibile di ciò che è stato fatto e continua a sussistere come condizione del presente e dell’avvenire” (ibid., p. 222).

[34] Ibid., p. 40.

[35] Per una interpretazione e una critica del fatalismo, Passato e presente, cit., p. 203.

[36] Tamburrano mi ha fatto osservare che più che di un’antitesi, nel caso del rapporto tra società civile e Stato, si tratta di una distinzione. L’osservazione è acuta. Ma sarei tentato di rispondere che caratteristica del pensiero dialettico è quella di risolvere le distinzioni in antitesi per poi procedere al loro superamento.

[37] Machiavelli, cit., p. 121.

[38] Lettere dal carcere, cit., p. 481.

[39] “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”. Subito dopo fa l’esempio della dottrina della divisione dei poteri come riflesso ideologico di una società in cui il potere è realmente, cioè nella realtà, diviso (K. Marx, L’ideologia tedesca, cit., p. 43).

[40] A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 136–137.

[41] Passato e presente, cit., p. 38.

[42] Machiavelli, cit., pp. 150–151.

[43] Passato e presente, cit., p. 165.

[44] Materialismo storico, cit., pp. 32, 39, 75, 189, 201; Lettere dal carcere, cit., p. 616.

[45] “Come unica classe rivoluzionaria sino in fondo della società contemporanea esso [il proletariato] deve essere il dirigente [rukovoditelem], l’egemone [gegemonom] nella lotta di tutto il popolo per un completo rivolgimento democratico, nella lotta di tutti i lavoratori e gli sfruttati contro gli oppressori e gli sfruttatori. Il proletariato in tanto è rivoluzionario in quanto ha coscienza e mette in pratica questa idea dell’egemonia” (XI, 349). Devo questa e le altre notizie linguistiche del paragrafo alla cortese premura di Vittorio Strada. Nell’unico passo di Lenin sinora citato, a mia conoscenza, dagli studiosi di Gramsci, in cui apparirebbe il termine “egemone” (Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 319; cfr. la prefazione di G. Ferrara a Duemila pagine di Gramsci, Il Saggiatore, Milano 1964, vol. I, p. 96), il termine usato in realtà da Lenin non è “egemone”, ma “dirigente” (rukovoditel). Per il linguaggio staliniano cfr. Dal colloquio con la prima delegazione operaia americana, in cui enumerando le questioni in cui Lenin avrebbe sviluppato la dottrina di Marx, Stalin dice tra l’altro: “In quarto luogo, la questione dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione, ecc.” (Lenin, Opere scelte, Mosca 1947, vol. I, p. 35).

[46] Duemila pagine, cit., vol. I, p. 799 e pp. 824–825.

[47] Ferrara ricorda peraltro l’articolo La Russia potenza mondiale (14 agosto 1920), in cui appare l’espressione “capitalismo egemonico”. Ragionieri mi fece notare al convegno che il termine “egemonia” ricorre anche in uno scritto gramsciano del ’24.

[48] “È il principio e la pratica dell’egemonia del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo” (Duemila pagine, cit., vol. I, p. 824); “Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi, ecc.” (Ibid., vol. I, p. 799).

[49] Lettere dal carcere, cit., p. 616: “Il momento dell’egemonia o della direzione culturale”. Anche “direzione intellettuale e morale”, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1945, p. 70.

[50] Machiavelli, cit., pp. 6–8.

[51] Ci si riferisce ai noti passi in cui Gramsci spiega il successo della politica dei moderati nel Risorgimento (Risorgimento, cit., pp. 70–72). Per Lenin è importante il passo del Rapporto politico all’XICongresso del partito (1922), in cui lamenta la inferiorità della cultura comunista di fronte a quella degli avversari: “Se il popolo conquistatore ha un livello culturale superiore a quello del popolo vinto, impone a quest’ultimo la propria cultura; se è il contrario, avviene che il popolo vinto impone la propria cultura al vincitore” (Lenin, Opere complete, cit., vol. 33, 1967, p. 262).

[52] Lettere dal carcere, cit., p. 481, ove si parla di “egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni cosidette private, come la Chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.”

[53] Di questa nuova dimensione e di questo più ampio contenuto si potrebbero trarre due prove decisive dal modo con cui Gramsci tratta il problema dei soggetti attivi dell’egemonia (gli intellettuali) e intende il contenuto della nuova egemonia (il tema del “nazionale-popolare”). Ma poiché si tratta di due temi enormi, che saranno del resto oggetto di altre relazioni, mi limito a queste due osservazioni: a) per quel che riguarda il problema degli intellettuali, il discorso di Gramsci, che nella riflessione sul compito dell’intellettuale nuovo che s’identifica col dirigente del partito, s’ispira certamente a Lenin, non può essere compreso se non lo si mette in relazione con la discussione intorno alla funzione degli intellettuali aperta con una drammaticità senza precedenti intorno al ’30, negli anni della grande crisi politica ed economica (Benda, 1927; Mannheim, 1929; Ortega, 1930). anche se l’interlocutore costante di Gramsci è soltanto Benedetto Croce; b) con la riflessione sul “nazionale-popolare”, tema caratteristico della storiografia d’opposizione dell’antistoria d’Italia, Gramsci innesta il problema della rivoluzione sociale in quello della rivoluzione italiana : il problema della riforma intellettuale e morale accompagna le riflessioni sulla storia d’Italia, dal Rinascimento al Risorgimento, e ha come interlocutore, rispetto al primo, soprattutto Machiavelli, rispetto al secondo, soprattutto Gioberti (del quale, se non sbaglio, soltanto Asor Rosa ha sinora sottolineata l’importanza nella ricerca delle fonti gramsciane).

[54] Machiavelli, cit., p. 94. Cfr. anche p. 130 (128). In Materialismo storico, cit., 75, si parla soltanto di “sparizione della società politica” e di “avvento della società regolata”. Diversamente in Lettere dal carcere, cit., p. 160, il partito viene descritto come “lo strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla ‘società regolata’, in quanto assorbe in sé ambedue per superarle”.

[55] Machiavelli, cit., p. 132.

Questo saggio è apparso in Studi gramsciani. Atti del convegno tenuto a Roma nei giorni 11–13 gennaio 1958, Editori Riuniti, Roma 1958, pp. 73–86, e anche in “Società,” XIV, 1958, pp. 21-34. Successivamente ripubblicato nel volumetto Norberto Bobbo, Gramsci e la concezione della società civile, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 17–43

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.