Giovanni Calvino, la istituzione della religione cristiana
Lettera di dedica a Francesco I (1538)
Con ogni probabilità Calvino iniziò ad Angoulème, nel 1534, la composizione della Christianae Religionis Institutio, la cui prima edizione, in 5 libri, apparve a Basilea nel marzo 1536. Una seconda edizione, molto ampliata, uscì, sembra, a Strasburgo nel 1539; e questa Calvino prese a base della celebre traduzione francese, mirabile per la chiarezza e la forza dello stile, che apparve nel 1541. Altre edizioni latine si susseguirono fino a quella definitiva di Ginevra, del 1539; mentre l’ultima edizione francese, del 1560, non poté essere curata interamente da Calvino.
La Institutio costituisce, accanto ai Loci communes rerum theologicarum seu hypotyposes theologicae (1521) del Melantone, la più importante trattazione ed esposizione sistematica della teologia protestante. Calvino non ebbe la profonda originalità teologica di Lutero, né a lui si deve, come al riformatore di Wittenberg, la scoperta di un nuovo mondo spirituale. Ma egli svolse con inflessibile lucidità e coerenza tutte le conseguenze della dottrina riformata, a cominciare da quella, fondamentale, della giustificazione per la sola fede, alla quale si riallaccia la celebre dottrina calvinista della predestinazione.
In particolare, a Calvino si deve la dottrina della doppia predestinazione: degli eletti alla gloria eterna, e dei reprobi alla dannazione. Ma costoro, dice Calvino, «non erano indegni di essere predestinati a tale fine», poiché Dio stesso vuole che i reprobi facciano il male: la loro predestinazione è dunque giusta, perché, secondo il riformatore, «la volontà di Dio è talmente la regola suprema e sovrana di giustizia, che tutto ciò che egli vuole bisogna ritenerlo giusto, in quanto egli lo vuole». Insomma, chiarisce lucidamente il Ritter, La formazione dell’Europa moderna, trad. it. Bari, Laterza, 1964, pp. 323-24:
Dio può sovranamente stabilire con suo atto inappellabile la salute o la perdizione degli uomini. Il dannato è dannato ab aeterno, né ha ragione di dolersene, più che una bestia abbia a dolersi di non esser nata uomo. La sua responsabilità non è affatto diminuita per il fatto che è dannato. Calvino non ammette contraddizioni fra onnipotenza di Dio e responsabilità umana. Dio non agisce per cieco arbitrio, ma manifesta la sua gloria in uguale misura condannando severamente il reprobo e usando misericordia all’eletto. Benché gli uomini non possano conoscere i motivi del suo agire, a loro non è lecito dubitare che questi ubbidiscano ad una nascosta suprema giustizia. Proprio per questo la dottrina della doppia predestinazione agisce non come remora, ma come potentissimo stimolo all’attività morale. Per la stessa natura della pre-elezione, il giusto deve tendere con ogni energia alla santificazione della propria vita, e accrescere con ogni sua azione la gloria di Dio suo sovrano. Nella fede e nella santificazione della vita, che da essa procede, il prescelto si rende conto con timore e tremore della sua salute eterna (concetto che nel tardo calvinismo ripristinò in certo modo quello di meritorietà delle opere), non però attraverso gli esercizi di penitenza prescritti dalla Chiesa, ma applicandosi intensamente al compimento dei doveri della vita quotidiana.
La Institutio occupa i primi 4 volumi, delle Joannis Calvini opera quae supersunt omnia, ed. a cura di G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, voll. 59, Brunswick, 1863-1900, in Corpus Reformatorum, voll. XIX-XXXVIII. Per la traduzione francese è da vedere l’edizione a cura di A. Lefranc, H. Chatelaine, J. Pannier, Paris, 1911, in «Bibliothèque de l’École des Hautes Etudes», fasc. 176–177. Una traduzione italiana completa fu pubblicata da G. C. Paschali a Ginevra nel 1557. Qui di seguito si danno alcuni passi della celebre Lettera di dedica a Francesco I, tratti dalla scelta tradotta da G. Alberigo, La riforma protestante, Milano, Garzanti, 1959, pp. 189-206. Sulla figura e l’opera di Calvino, oltre al cit. Ritter, pp. 318-335, cfr. N. Carew Hunt, Calvino, trad. ital. Bari, Laterza, 1939; A. Omodeo, Giovanni Calvino e la riforma in Ginevra, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1947.
Lettera di Giovanni Calvino in dedica a Francesco I
Al Cristianìssimo Re di Francia Francesco I suo principe potentissimo e illustrissimo monarca, Giovanni Calvino augura in Cristo salute e pace.
Quando misi mano a questa opera niente era da me più lontano. Sire, che il pensiero di scrivere cose che sarebbero state poi presentate alla tua Maestà. Lo scopo era soltanto di insegnare alcuni principi elementari mediante i quali fossero guidati ad una vera pietà quelli che sentono qualche esigenza religiosa. E, principalmente, mi affaticavo in questo lavoro per i nostri Francesi, molti dei quali vedevo aver fame e sete di Cristo; e pochissimi invece, mi accorgevo, ne avevano ricevuta una giusta conoscenza. Che tale fosse il mio proposito il libro stesso lo dice, scritto per servire alla più semplice forma d’insegnamento. Ma vedendo fino a che punto il furore di alcuni iniqui va crescendo nel tuo regno così da non lasciare posto alla sana dottrina, mi è parso che valesse la pena di usare questo libro come mezzo di istruzione per quelli (di cui ho detto sopra) e come occasione per una confessione di fede presso di te, affinché tu conosca qual è la dottrina contro la quale con sì grande ira si scagliano quei furiosi che col ferro e col fuoco turbano oggi il tuo regno.
Né infatti mi vergogno di confessare che qui ho raccolto l’insieme di quella stessa dottrina che essi protestano debba esser punita colla prigione, con l’esilio, colla proscrizione e col fuoco e debba esser sterminata sulla terra e sul mare. So bene con quali orribili delazioni ti hanno riempito le orecchie e l’animo per renderti grandemente odiosa la nostra causa: ma devi pur pensare, nella tua clemenza, che nessuno sarebbe innocente né nelle parole, né nelle azioni, se fosse sufficiente l’accusa. Certo, se qualcuno cercando di provocare malanimo, uscisse a dire che questa dottrina, della quale tento di renderti ragione, è già stata condannata dalla comune opinione di tutti gli ordini dei cittadini e che ha avuto, in giudizio, molte sentenze contrarie, non direbbe altro se non che in parte essa è stata violentemente abbattuta dalla potenza degli avversari e in parte insidiosamente oppressa con le menzogne, le frodi e le calunnie. La violenza consiste nel fatto che sono state pronunziate contro di lei crudeli sentenze prima che fosse sentita la difesa; la frode invece nell’essere, senza ragione, accusata di sedizione e malefìcio…
Sarà ora compito tuo, serenissimo Re, non allontanare né le tue orecchie né il tuo animo da una così giusta difesa soprattutto trattandosi di cosa tanto importante: vale a dire in qual modo la gloria di Dio rimarrà intatta sulla terra, in qual modo la verità di Dio conserverà la sua dignità, e infine in qual modo il regno di Cristo resterà integro e ordinato. Questa è materia degna della tua attenzione, del tuo esame, del tuo giudizio. E invero se un re riconosce se stesso come ministro di Dio nell’amministrazione del regno, questo pensiero lo rende un vero re. E colui che non regna per servire alla gloria di Dio, non amministra un regno ma un’impresa brigantesca. Si inganna invero chi aspetta la lunga prosperità di quel regno che non è governato dallo scettro di Dio, cioè dalla sua santa parola: poiché non può mentire il celeste vaticinio, con il quale è stato annunziato che andrà disperso il popolo quando mancherà la profezia (Prov. 29, 18).
Né da questa fatica ti deve allontanare il disprezzo per la nostra miseria. Certo anche da noi stessi riconosciamo di essere dei poveretti e degli abbietti omiciattoli: vale a dire dei miserabili peccatori davanti a Dio, spregevolissimi al cospetto degli uomini; e anche, se vuoi, spazzatura e immondizia del mondo, o qualsiasi altra cosa se c’è qualcosa che si possa dire di più vile: cosicché nulla ci resta che hanno scavato pozzi inservibili che non servono a contenere l’acqua (Ger., 2, 13). Ancora: cosa vi è di più conveniente alla fede che rappresentarsi Dio come padre benevolo, dato che Cristo è riconosciuto come fratello propiziatore? che aspettare fiduciosi ogni bene ed ogni prosperità da lui, il cui indicibile amore verso di noi è giunto al punto da non risparmiare di dare il proprio figliolo per noi? che riposare in una sicura attesa della salvezza e della vita eterna, quando si pensi che ci è stato dato dal padre Cristo, nel quale sono nascosti tali tesori? Qui ci mettono le mani addosso e gridano che una tale certa fiducia non manca di arroganza e presunzione.
Ma, nella misura in cui non dobbiamo presumere nulla di noi, dobbiamo presumere tutto di Dio. E per nessuna altra ragione ci spogliamo della vanagloria, se non per imparare a gloriarci in Dio. Che dire di più? Esamina, fortissimo Re, ogni parte della nostra causa e giudicaci più perversi degli uomini perversi, se non ti apparirà chiaro che ci affatichiamo in questo e ci troviamo ridotti in condizioni obbrobriose perché riponiamo speranza nel Dio vivo (1, Tim., 4, io); poiché questa crediamo essere la vita eterna, conoscere il solo vero Dio e colui ch’egli ha mandato, Gesù Cristo (Giov., 17, 3). A causa di questa speranza alcuni di noi sono chiusi nelle prigioni, altri battuti con le verghe, altri condotti al ludibrio, altri banditi, altri crudelmente seviziati, altri sfuggono con la fuga; tutti siamo oppressi dalle tribolazioni, maledetti con terribili esecrazioni, dilaniati come reprobi, trattati inumanamente.
Contempla ora i nostri avversari (parlo dell’ordine dei preti secondo il cui volere ed arbitrio gli altri ci avversano) e vedi un poco con me da quale desiderio sono spinti. Essi consentono facilmente a sé ed agli altri di ignorare, trascurare e disprezzare la vera religione che ci è tramandata dalle scritture, che dovrebbe star salda in mezzo a tutti e giudicano non eccessivamente importante sapere che cosa ognuno creda o non creda di Dio e di Cristo purché per fede (dicono loro) implicita, sottometta il suo pensiero al giudizio della Chiesa. Non si impressionano gran che se accade che la gloria di Dio sia insozzata da chiarissime bestemmie, purché nessuno alzi il dito contro il primato della sede apostolica e l’autorità di santa madre Chiesa. Perché combattono con tanta rigidezza e crudeltà a favore della messa, del purgatorio, dei pellegrinaggi e di simili sciocchezze a tanto da negare, come essi dicono,
che senza una esplicita fede in queste cose si salvi la pietà, pur non riuscendo a provare che qualcosa di questo venga dalla parola di Dio? Perché? Se non per il fatto che il loro dio è il ventre e la gozzoviglia la religione; tolte le quali cose non solo non pensano di poter essere cristiani, ma neanche uomini. Infatti quantunque gli uni si mantengono splendidamente e gli altri vivacchino con povere croste, intingono tutti nella stessa pentola, che senza quegli aiuti non solo si fredderebbe ma addirittura gelerebbe. Perciò tanto uno è grandemente preoccupato della propria pancia altrettanto è riconosciuto acerrimo combattente per la sua fede. Alla fine tendono tutti allo stesso scopo, o di conservare incolume il potere o la pancia piena: nessuno dà un segno sia pur piccolissimo di vero zelo.
E non tralasciano certo di scagliarsi contro la nostra dottrina, di incriminarla e incriminarla con quante accuse possono trovare per renderla odiosa e sospetta. Nuova, la chiamano e appena nata, cercano cavilli per dire che è dubbia e incerta; domandano da che miracoli è confermata; indagano se è giusto che si sostenga contro il consenso di tanti antichi Padri ed una sì lunga consuetudine; premono affinché la confessiamo scismatica, dal momento che fa guerra alla Chiesa; o che ammettiamo che la Chiesa è rimasta come morta per i molti secoli nei quali non si ascoltò niente del genere. Finalmente dicono che occorrono molti argomenti: quale essa sia si può giudicare dai frutti, cioè a dire dalla gran moltitudine di sette, torbidi e viziose licenze che essa genera.
Naturalmente è facile per loro insultare una causa abbandonata di fronte a un volgo credulo e ignorante. Ma se avessimo a nostra volta diritto di parlare, diminuirebbe certo questa asprezza della quale hanno piena la bocca contro di noi, con tanta sfrenatezza altrettanta impunità.
In primo luogo nel chiamarla nuova fanno grande ingiuria Dio, la cui sacra parola non merita di esser tacciata di novità. Non dubito minimamente che essa non sia nuova per quelli i quali trovano nuovi anche Cristo e il Vangelo. Ma chi riconosce per antica questa parola di Paolo, Gesù è morto pei nostri peccati e e risuscitato per la nostra giustificazione, non troverà nulla di nuovo tra noi (Rom., 4, 25). Che poi sia rimasta a lungo nascosta e ignorata questo è un crimine dell’umana empietà; ora, quando per la bontà di Dio ci è restituita, essa doveva almeno essere reintegrata nell’antica autorità. Per la stessa radice di ignoranza la stimano dubbia e incerta. Questo in verità è dò che il Signore lamenta per mezzo del suo profeta (Is., I, 3), il bove ha conosciuto il suo possessore e l’asino la stalla dei suoi padroni; ma il Signore non è riconosciuto dal suo popolo. Ma, dal momento che deridono l’incertezza di quella, se dovessero suggellare la propria col sangue e col sacrificio della vita sarebbe lecito stare a vedere quanto l’apprezzano.
Inoltre ci oppongono ingiustamente i padri (voglio dire gli scrittori antichi e del periodo migliore) come se fossero sostenitori della loro empietà. Se la contesa dovesse essere decisa dalla loro autorità, la vittoria (e parlo in maniera modesta) inclinerebbe verso di noi. Ma avendo quei padri scritto molte cose sapientemente e in modo molto chiaro, anche loro tuttavia errarono in qualche punto, come suole accadere a tutti gli uomini, questi pii figlioli naturalmente per quella accortezza di spirito, di giudizio e di volontà che li caratterizza, adorano solo i loro falli ed errori; le cose invece che sono state scritte bene o non le osservano o le dissimulano o le deformano così da poter dire che loro principale cura sia il raccogliere del letame in mezzo all’oro.
Poi ci perseguitano con gran clamore, come spregiatori e nemici dei padri. Ma noi non li disprezziamo, perché se ciò rientrasse nel presente lavoro, mi sarebbe facile, senza alcuna fatica, comprovare con le loro testimonianze una gran parte di quel che sosteniamo oggi. Ma con tale atteggiamento noi ci rivolgiamo ai loro scritti in modo da ricordarci sempre che tutte le cose sono nostre perché ce ne serviamo, non perché ne siamo dominati, e che apparteniamo ad un solo Cristo al quale in tutte le cose, senza eccezione, è dovuta obbedienza (1, Cor., 3, 21). Chi non si attiene a questa scelta, non potrà essere stabilmente radicato nella fede. Poiché quei santi uomini hanno ignorato molte cose; sono spesso tra loro in contrasto e talvolta perfino si combattono a vicenda. Non senza ragione, dicono, Salomone ci ammonisce di non varcare i confini posti dai nostri padri (Prov. 22, 28). Ma non uguale è la regola per porre i confini ai campi e l’obbedienza alla fede: la quale deve essere così regolata da far dimenticare il proprio popolo e la casa del proprio padre (Salmi, 43, n). Di più, poiché amano tanto le allegorie, perché non interpretano gli Apostoli in luogo di ogni altro padre, poiché i confini da loro stabiliti non è lecito sradicarli? Così infatti interpretò Girolamo, di cui hanno riferito le parole nei loro canoni.
E se vogliono che i limiti dei padri rimangano stabili, perché essi stessi, ogni qual volta che fa loro comodo, li oltrepassano con tanta audacia? Era pure del numero dei padri colui che disse che Dio non beve né mangia e quindi non sa che farsene dei calici e dei piatti; e l’altro che disse che i sacramenti non cercano danaro e non piacciono punto a Dio per l’oro dato e che non sono comprabili con l’oro.
Trasgrediscono dunque i limiti quando, nelle cerimonie sacre, si compiacciono tanto dell’oro e dell’argento, dell’avorio, del marmo, delle pietre preziose e delle sete, e pensano che Dio non possa essere rettamente onorato se tutte le cose non sono impregnate di squisito splendore e ancor peggio di insano lusso. Era pure un padre colui che disse che mangiava liberamente la carne nei giorni in cui gli altri se ne astenevano, appunto perché cristiano. Perciò calpestano i limiti quando colpiscono con maledizioni l’anima di chi in quaresima abbia gustato la carne. Erano ancora padri coloro di cui uno disse che il monaco, il quale non lavora colle sue mani, deve essere giudicato uguale a un brigante; e l’altro che sostenne non essere lecito ai frati vivere dei beni altrui, quand’anche fossero assidui nelle contemplazioni, nelle preghiere e nello studio. E hanno trasgredito anche questo limite quando collocarono i ventri oziosi di monaci nei bordelli per impinguarsi delle altrui sostanze.
Era un padre quello che ha definito orribile abominazione vedere un’immagine di Cristo o di qualche santo nelle Chiese dei Cristiani. Né questo è stato dalla voce di un sol uomo, ma è stato decretato anche da un concilio ecclesiastico, che non si debba dipingere sulle pareti ciò che si venera. Son ben lontani dal rispettare questi limiti, quando non lasciano neppure un cantuccio senza immagini. Un altro padre ha consigliato che, dopo aver con la sepoltura esercitato ufficio di umanità verso i morti, si lasciassero riposare. Questi limiti li rompono quando infondono una perpetua sollecitudine per i morti. Era nel numero dei padri quegli che sosteneva che nell’eucaristia rimane la sostanza del pane e del vino come rimane in Cristo Signore la sostanza della umana natura, congiunta con quella divina.
Dunque vanno ben oltre coloro che pretendono che la sostanza del pane e del vino scompaia con la recita delle parole del Signore, perché sia transustanziata nel corpo e nel sangue. Erano dei padri coloro che come offrivano un’unica eucaristia a tutta la comunità cristiana e come allontanavano i vergognosi e gli scellerati, così gravemente condannavano tutti coloro che, presenti all’assemblea, non si comunicavano. Quanto si allontanarono da questi insegnamenti coloro che riempiono delle loro messe non solo le chiese ma anche le proprie private abitazioni, ammettono qualsivoglia persona ad assistervi e ciascuno conta quanto più gente può, anche impura e scellerata; non invitano nessuno alla fede in Cristo e alla comunione dei sacramenti: dato che mettono in mostra la loro opera piuttosto che la grazia e e i meriti di Cristo.
Era uno dei padri quello che ordinò che fossero esclusi dalla partecipazione alla sacra cena di Cristo coloro che prendendo una delle due specie, si astenevano dall’altra; e un altro ancora si batté grandemente per sostenere che non si doveva negare al popolo cristiano il sangue del suo Signore, al quale deve rendere testimonianza anche spargendo il proprio sangue. Questi limiti li hanno tolti, quando con leggi inviolabili comandarono quella stessa cosa che il primo (di questi padri) puniva con scomunica ed il secondo riprovava con solide argomentazioni.
Era un padre anche quello che riteneva temerario definire un argomento particolarmente oscuro, senza testimonianze chiare ed esplicite della scrittura. Hanno dimenticato questo limite quando hanno stabilito tante costituzioni, canoni e tante definizioni magisteriali senza alcuna parola di Dio. Era un padre quello che rimproverava a Montano[1], tra le altre eresie, di avere per il primo imposto la legge del digiuno. Anche questi limiti hanno di gran lunga sorpassato, quando ordinarono con rigidissime leggi il digiuno. Era un padre quello che ha sostenuto non doversi vietare il matrimonio ai ministri della chiesa; e definì castità giacere con la sposa legittima. Ed erano dei padri anche quelli che assentirono alla sua autorità.
Hanno abbandonato queste posizioni quando hanno ordinato severamente il celibato a tutti i preti. Era un padre quello che espresse l’avviso che si debba ascoltare un solo Cristo del quale è stato detto: ascoltatelo, e che non si debba aver riguardo a quello che han detto o fatto gli altri prima di noi, ma solo a quello che avrà comandato Cristo, che è il primo fra tutti. Né essi stessi hanno rispettato questo limite né ad altri hanno permesso di rispettarlo dato che hanno costituito, tanto sopra sé medesimi quanto sugli altri, maestri diversi da Cristo. E vi fu pure un padre che sostenne che la chiesa non si doveva anteporre a Cristo, perché egli è un giudice sempre verace, mentre i giudici ecclesiastici, come la maggior parte degli uomini, sbagliano. Rotto quest’argine non dubitano di affermare che tutta l’autorità della scrittura dipende dall’arbitrio della chiesa.
Tutti i padri, collo stesso coraggio, hanno riprovato e detestato ad una sola voce che la santa parola di Dio fosse contaminata dalle sottigliezze dei sofisti e fosse pure implicata nelle dispute dei dialettici. Hanno forse rispettato tali confini, se in tutta la loro vita non fanno altro che seppellire e oscurare la semplicità della scrittura per mezzo di infinite contese e di questioni più che sofistiche? Tanto che se i padri risuscitassero e udissero questa arte dialettica, che codesti chiamano teologia speculativa, tutto penserebbero fuor che tali dispute vengano da Dio. Ma il nostro discorso continuerebbe oltre i limiti del giusto se volessi enumerare con quanta petulanza codesti rigettano il giogo dei padri, di cui vogliono parere figli obbedienti. Certo passerebbero dei mesi e degli anni. E nondimeno sono persino di ima così sfrontata e deprecabile impudenza, che osano castigarci perché non abbiamo incertezze ad uscire dagli antichi limiti.
Quando ci richiamano alla tradizione poi, non vengono a capo di niente: sarebbe una grande ingiustizia nei nostri confronti se fossimo costretti a cedere alla tradizione. Veramente se i giudizi degli uomini fossero giusti, la tradizione si dovrebbe prendere dai buoni. Ma spesso è accaduto altrimenti. Infatti quello che si è visto fare da molti è divenuto tradizione. E le vicende degli uomini non furono mai tali per cui le cose migliori piacessero alla maggioranza. Dai vizi personali di molti uomini, il più delle volte è derivato un pubblico errore, o meglio un comune consenso ai vizi che ora questi dabben-uomini vogliono erigere a legge…
E ora dunque i nostri avversari ci oppongano i secoli trascorsi e gli esempi presenti, come vogliono, se noi avremo santificato il Signore degli eserciti non ci spaventano gran che. Se infatti molte generazioni avessero aderito ad una stessa empietà, è forte colui che procede alla vendetta fino alla terza ed alla quarta generazione; e anche se tutto il mondo cospirasse in una stessa malvagità, egli ci ha insegnato, con l’esperienza, qual è la fine di coloro che peccano colla moltitudine quando distrusse tutta la stirpe degli uomini col diluvio, avendo salvato solo Noè colla sua famigliuola, perché questo per la sua sola fede aveva condannato tutto il mondo (Ebr., n, 7).
Insomma una tradizione perversa non è altro che una pubblica pestilenza, nella quale coloro che si sottomettono alla moltitudine non per questo si salvano. Era utile per spiegare questo ciò che dice in qualche punto Cipriano, cioè che coloro i quali peccano per ignoranza, anche se non possono scagionarsi di ogni colpa, tuttavia sembrano in qualche modo scusabili; coloro che invece con pertinacia respingono la verità che è offerta per grazia di Dio, non hanno nessuna scusante da addurre.
Non ci stringano con i loro aut-aut cosicché arrivino a farci confessare o che la chiesa sia rimasta morta durante qualche tempo o che ora noi siamo in rotta con lei. Visse in verità la chiesa di Cristo, e vivrà finché Cristo regnerà alla destra del padre dalla mano del quale è sorretta, dalla difesa del quale è conservata, dalla cui virtù deriva la sua incolumità. Poiché non v’è dubbio che egli compirà quello che ha una volta promesso, cioè di rimanere con i suoi fino alla consumazione dei secoli (Matt., 28, 20). Contro questa chiesa noi non abbiamo nessuna posizione di lotta, se invero veneriamo e adoriamo, in una con tutto il popolo dei credenti, un Dio solo e Cristo, unico Signore, come è stato sempre adorato da tutti gli uomini di pietà.
Ma essi sono ben lungi dalla verità quando non riconoscono per chiesa se non quella che vedono presentemente cogli occhi e la vogliono rinchiudere entro certi confini nei quali non è punto compresa. Su questi punti base verte il nostro disaccordo: in primo luogo perché essi pretendono che la forma esterna della chiesa sia sempre visibile e mirabile, in secondo luogo perché essi identificano questa forma nella sede della chiesa romana e nell’ordine dei suoi sacerdoti.
Noi, al contrario, affermiamo che la chiesa può sussistere senza una forma visibile, e la forma non è rappresentata da quella magnificenza esterna che essi stoltamente ammirano, ma da un altro segno; cioè dalla pura predicazione della parola di Dio e dall’amministrazione legittima dei sacramenti. Fremono se la chiesa non può sempre mostrarsi a dito. Ma quante volte nel popolo ebraico fu costretta a tali trasformazioni da non avanzare apparenza? Qual forma di chiesa pensiamo risplendesse quando Elia si lamentava di essere stato lasciato solo (1, Re, 19, 11)? Quante volte dalla venuta di Cristo, non si è nascosta sfigurata? Quante volte è stata talmente oppressa dalle guerre, dalle sedizioni, dalle eresie, sicché non risplendeva in alcuna parte? Se costoro fossero vissuti in quei tempi non avrebbero creduto che esistesse una chiesa?
Ma Elia seppe che settemila uomini erano salvi perché non avevano piegato le ginocchia davanti a Baal. Né per noi può essere dubbio che Cristo ha sempre regnato sulla terra da quando è salito al cielo. E se allora i fedeli avessero cercato con gli occhi qualche reale apparenza, non si sarebbero persi d’animo? E infatti Ilario[2] riteneva un grandissimo vizio del suo tempo, il fatto che gli uomini accecati da una stolta ammirazione per la dignità episcopale, non considerassero affatto le esiziali mostruosità nascoste sotto quelle maschere. Così infatti egli si esprime: «vi ammonisco anzitutto a guardarvi dall’anticristo; disgraziatamente l’amore delle costruzioni vi prese: erroneamente venerate la chiesa di Dio nella bellezza degli edifici; invano introducete la parola pace sotto quelle volte: è forse dubbio che l’anticristo vi si assiderà?
Le montagne, i boschi, i laghi, le prigioni e i deserti sono, a mio avviso, più sicuri; in quelli infatti i profeti vaticinarono dopo essersi riparati. Che cosa oggi il mondo venera di più nei suoi vescovi cornuti, dato che stima santi presuli della religione coloro che vede a capo nelle grandi città?». Leviamo dunque via un così folle apprezzamento. E permettiamo invece al Signore, dal momento che egli solo conosce chi sono i suoi (2, Titn., 2, 19), di cancellare qualche volta dalla vista degli uomini l’apparenza esteriore della sua chiesa. È questa, lo confesso, un’orrenda vendetta di Dio sulla terra, ma se l’empietà degli uomini la merita, perché tentiamo di resistere al divino castigo? In tal modo il Signore nei tempi passati ha punito l’ingratitudine degli uomini. Poiché non avevano voluto ubbidire alla sua verità ed avevano spento la sua luce, egli ha permesso che, privi della capacità di vedere, fossero tratti in inganno da goffe menzogne e sprofondati in profonde tenebre così da non apparire ombra di vera chiesa. Nondimeno egli ha preservato i suoi dalla perdizione, in mezzo a questi errori ed a queste tenebre, quantunque fossero dispersi e nascosti. Né vi è motivo di meravigliarsi, perché egli seppe preservarli e nella confusione di Babilonia e nelle fiamme della fornace ardente.
Note
[1] Eresiarca frigio del II secolo. Sacerdote di Cibele, passò al cristianesimo e fondò la setta dei montanisti, che si riallacciava al profetismo e al millenarismo del primo cristianesimo (R.T.).
[2] Santo e padre della Chiesa (303-363).Vescovo di Poitiers e autore di un trattato in 12 libri sulla Trinità. Da non confondere con S. Ilario papa (m. 468), successore di S. Leone Magno.
Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.