Giolitti e le classi lavoratrici

(1900–1901)

Mario Mancini
16 min readMar 24, 2020

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1901, Museo del Novecento, Milano

Il brano delle Memorie della mia vita (che per primo qui si riporta) illustra con chiarezza quale fosse la posizione dell’uomo politico di Dronero di fronte ai gravi problemi sociali che si presentavano alla classe dirigente italiana ai primissimi del ’900. Nei confronti delle associazioni di lavoratori che rapidamente andavano moltiplicandosi in tutta Italia quale atteggiamento doveva tenere il governo, e, in genere, l’intera classe dirigente liberale? Di opposizione, sciogliendole con la forza e impedendo che si ricostituissero?

Ovvero riconoscerne la legittimità, considerandole alla stregua di qualsiasi altra associazione di cittadini?

Giolitti era decisamente per questa seconda soluzione, e non per vaghi motivi umanitari o per una sorta di consapevole e confessata debolezza dello Stato di fronte alle richieste delle organizzazioni operaie e contadine.

Lo Stato, a suo avviso, aveva tutto l’interesse a che la protesta operaia cessasse di battere le vie eversive e rivoluzionarie per incanalarsi in quelle costituzionali: si sarebbe accorta allora che nello Stato liberale e parlamentare vi erano tutte le condizioni per il miglioramento delle sue condizioni di vita e anche per l’assunzione graduale di precise responsabilità politiche. Avversare il moto dei lavoratori, invece, avrebbe avuto il solo risultato di rendere questi ultimi definitivamente ostili alle istituzioni con grave nocumento della solidità di queste ultime.

Di fronte alle controversie tra datori di lavoro e lavoratori lo Stato non avrebbe dovuto intervenire a sostegno né dei primi né dei secondi, ma limitarsi ad assicurare da un lato la libertà di sciopero e dall’altro la libertà di lavoro (per quelli che non intendevano scioperare). Lo Stato, che non interveniva quando i salari erano bassi o bassissimi, non doveva intervenire neanche quando, con lo sciopero, i lavoratori tendevano ad ottenere degli aumenti nelle retribuzioni.

Il secondo documento che si riporta è il rapporto del reggente la prefettura di Mantova sulle organizzazioni contadine di quella provincia. Esso fornisce dati di notevole interesse sulle condizioni di vita dei lavoratori agricoli, sulle retribuzioni, in natura e in danaro, sul numero delle giornate lavorative, sulle richieste di miglioramenti.

Il documento è del 1901, anno in cui si costituì la Federazione nazionale dei lavoratori della terra che ebbe una grande funzione nell’organizzazione

delle masse contadine: tra il 1900 e il 1901 gli scioperi agricoli passarono da 27 (con 12.517 partecipanti) a 629 (con 222.985 partecipanti). La provincia di Mantova, poi, è particolarmente significativa perché la popolazione attiva agricola vi costituiva, nei 1901, il 59,1%; a differenza di zone anche vicine, nel Mantovano il contadino era a diretto contatto con il proprietario, anziché con l’affittuario, il che costituiva per lui un indubbio vantaggio.

I due documenti che seguono sono tratti, rispettivamente, da G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 2 voll., 1922 (1, pp. 164–69) e da Quarantanni di politica italiana (Dalle carte di Giovanni Giolitti), Milano, Feltrinelli, 3 voll., 1962 (vol. II, a cura di G. Carocci, pp. 30–36).

Su Giolitti cfr. oltre la classica Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di B. Croce (Bari, 1928), L. Valiani, L’Italia dal 1876 al 1915 nella più volte citata Storia d’Italia coordinata da N. Valeri, n ediz., IV, pp. 457–651; G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Torino, Einaudi, 1961. Il dibattito storiografico più recente su Giolitti è in N. Valeri, G. Giolitti nella storiografia del secondo dopoguerra in Questioni di storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia, Milano, Marzorati, 1951, pp. 1009–1022.

Sull’organizzazione contadina in Italia cfr. il volume a cura di R. Zangheri. Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra (1900–1926), Milano, Feltrinelli, 1960.

Dalle Memorie della mia vita

Il Ministero Saracco poco fece, del resto, in qualunque campo, causa anche la sua breve durata; e cadde per avere/prima sciolto la Camera del Lavoro di Genova, col quale provvedimento si attirò l’opposizione della parte liberale e della Estrema; poi, per aver permesso, allarmato di quella opposizione, che fosse ricostituita, il che gli tirò addosso i conservatori. Nella naia opinione, come io pensavo che l’esperimento liberale dovesse compiersi sino in fondo e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e toccava, come osservai in un discorso pronunciato durante la grande discussione che seguì a quell’avvenimento, le più alte questioni di diritto e di politica interna, soprattutto nel rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il Governo nei conflitti fra capitale e lavoro; a mio parere la pace sociale dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti.

Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati, persisteva àncora nel Governo ed in molti del suoi rappresentanti nelle provincie, la tendenza a considerare come pericolose tutte le associazioni di lavoratori; tendenza che era l’effetto di scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo, si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili, e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà.

Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché benevolo da parte del Governo, il cui compito invece avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini.

Un Governo, che non interveniva mai, e non doveva di fatto intervenire, quando i salari erano bassissimi, non aveva alcuna ragione di intervenire, come qualche volta faceva, quando la misura del salario, per la legge economica della domanda e dell’offerta, avesse pure raggiunto una cifra che ai proprietari paresse eccessiva. Questa non era funzione legittima del Governo.

La ragione principale per cui si osteggiavano le Camere del Lavoro, era appunto questa: che l’opera loro tendeva a fare aumentare i salari. Ma se tenere i salari bassi poteva essere un interesse degli industriali, nessun interesse poteva avervi lo Stato.

Ciò a prescindere dal fatto che è un errore ed un pregiudizio credere che il basso salario giovi ai’ progressi dell’industria; salari bassi significano cattiva nutrizione e l’operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, ed i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale. Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri contadini: anche quella lode è un pregiudizio; chi non consuma non produce. Ad ogni modo, però, a mio avviso, quando il Governo, come allora usava, — interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una ingiustizia, — e più àncora un errore economico e un errore politico.

Una ingiustizia perché mancava al suo dovere di assoluta imparzialità tra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe in favore: di un’altra. Un errore economico, perché turbava il funzionamento della legge economica della domanda e dell’offerta, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Ed infine un errore politico, perché rendeva nemiche dello Stato quelle classi che. costituiscono la grande maggioranza del paese.

Il solo ufficio equo ed utile dello Stato: in queste lotte tra capitale è lavoro è di esercitare un’azione pacificatrice, e talora anche conciliatrice; ed in caso di sciopero esso ha il dovere di intervenire in un solo caso: a tutela cioè della libertà di lavoro, non meno sacra della libertà di sciopero, quando gli scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare.

Ora a me pareva che a questi concetti liberali la condotta del Governo venisse meno osteggiando l’azione delle Camere del lavoro. Le Camere del lavoro non avevano per se stesse nulla di illegittimo; esse erano le rappresentanti degli interessi delle classi operaie, con la legittima funzione di cercare il miglioramento di quelle classi, sia nella limitazione ragionevole delle ore di lavoro, sia nell’aumento dei salari, sia nell’insegnamento che giovasse ad accrescere sempre più il valore della loro opera; ed io consideravo che se bene adoperate dal Governo, esse avrebbero potuto essere intermediarie utilissime fra capitale e lavoro.

E come c’erano le Camere di commercio regolate per legge, io non vedevo alcuna ragione perché lo Stato non potesse, anzi non dovesse disciplinare legislativamente le Camere del lavoro, mettendo così allo stesso livello, di fronte alla legge, tanto il capitalista che il lavoratore, ognuna delle due parti con la sua legittima rappresentanza, riconosciuta dallo Stato. Si era per molto tempo tentato di impedire le organizzazioni dei lavoratori, temendone l’azione e l’influenza. Per conto mio io credevo assai meno temibili le forze organizzate che non quelle inorganiche, perché sulle prime l’azione del Governo si può esercitare efficacemente ed utilmente, mentre con i moti disorganici non vi può essere che l’uso della forza.

Ma ormai, a chi conosceva le condizioni del nostro paese, come pure le tendenze generali del mondo civile, era evidente che ostacolare l’organizzazione dei lavoratori era un compito inane. L’unico effetto di una resistenza inconsulta da parte dello Stato sarebbe stato quello di dare sempre più un fine politico a quelle organizzazioni le quali non dovrebbero avere che un fine economico nell’interesse delle classi lavoratrici. Per il caso speciale di Genova, i conservatori portavano appunto avanti, come uno scandalo, il fatto che esso avesse assunto anche carattere politico.

E questo era una ingenuità, perché chi conosceva il movimento operaio, quale si era andato svolgendo in quegli anni specialmente nell’Alta Italia, sapeva perfettamente che gli operai avevano compreso il nesso intimo, indissolubile, che esiste fra le questioni economiche e le questioni politiche; ed a farlo loro comprendere, più che la propaganda dei loro organizzatori, aveva giovato l’azione dei Governi reazionari, dimostratasi costantemente alleata agli interessi delle classi capitaliste contro quelli delle classi popolari, sia nelle lotte tra capitale e lavoro, sia nella legislazione tributaria.

Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all’inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo. Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano con le quali il Governo doveva fare i conti. I

l moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era moto invincibile, perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi della eguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi e persuaderle non colle chiacchiere, ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali.

Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari, si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.

Il reggente la prefettura di Mantova, Carmine Adami Rossi, a Giolitti

Mantova, 2 aprile 1901

Oggetto: Agitazione agraria nel Mantovano.

Ho l’onore di inviare a V. E. il rapporto chiestomi col telegramma di ieri n. 8355, intorno alla genesi ed organizzazione in questa provincia delle leghe di miglioramento fra i lavoratori della campagna, alla misura delle mercedi che essi percepiscono e alle tariffe che le leghe stesse vogliono imporre ai proprietari e conduttori dei fondi.

L’agitazione che ora si manifesta nella classe degli operai della terra del Mantovano e sulla quale sono giustamente rivolti gli sguardi di tutta Italia non è cosa del tutto nuova. Già negli anni 1884 e 1885 i contadini riuniti in vaste associazioni di mutuo soccorso tentarono con un’azione collettiva imporre ai proprietari tariffe e condizioni più favorevoli alla mano d’opera; se non che avendo il movimento assunto carattere minaccioso e violento e tendenze pericolose per la tranquillità pubblica, dovette intervenire l’autorità e furono sciolti i sodalizi, operati arresti e iniziati procedimenti penali.

Vi fu un periodo di quiete, durante il quale si fecero strada le idee socialiste alla cui diffusione fu rivolta a cominciare dal 1889 una fervente ed attiva propaganda. Essa trovò nel Mantovano e specialmente nelle fila dei contadini, il cui stato era in quell’epoca molto infelice, un terreno oltremodo ferace e si riuscì in breve a conseguire le numerose note vittorie nel campo elettorale sì politico che amministrativo.

Più si ingagliardì e prosperò il partito socialista dal 1898 in qua, tanto che i dirigenti dopo i trionfi riportati nelle ultime elezioni politiche, nell’intento di tener serrate le file dei seguaci, riputarono giunto il momento di tradurre in atto uno dei punti capitali del programma col riunire tutte le forze operaie della campagna e muovere con un’azione collettiva e solidale alla conquista di un miglioramento delle loro condizioni.

Sorsero così nell’ottobre dello scorso anno le prime leghe di miglioramento che con rapidità, può dirsi, fulminea, si propagarono dappertutto nella Provincia ed invasero anche quelle limitrofe.

Lo scopo delle leghe, come si rileva dai loro statuti è quello di far rispettare i patti agricoli — sostenere i soci nelle liti contro i padroni — procurare impiego ai disoccupati — promuovere giudizi arbitrali per le questioni fra proprietari ed operai — migliorare le condizioni morali ed intellettuali di questi con conferenze e con la diffusione di opuscoli e di giornali.

Le leghe attualmente esistenti nella Provincia, secondo notizie recenti ascendono al numero di 222 come dall’elenco che si unisce. La massima parte di esse sono composte di lavoratori agricoli — il numero degli iscritti non può calcolarsi a meno di 20.000. Ogni giorno però se ne formano di nuove ed in tutte va di continuo aumentando il numero degli iscritti, di guisa che non tarderà a raggiungersi il desideratum del partito socialista, quello di veder uniti in lega tutti i 50.000 contadini dell’Agro Mantovano.

Tanto le leghe di questa, quanto le altre costituitesi nelle limitrofe provincie, sono alla lor volta unite in una federazione che si intitola Federazione Provinciale Mantovana delle leghe, che ha sede in questa città e che è retta da un comitato di tre ferventi socialisti.

E qui per incidenza è bene accennare che oltre lo scopò immediato e tutto economico è facile vedere come l’organizzazione di siffatte leghe miri anche ad altre finalità, di carattere sociale e politico.

Lo scopo della Federazione Provinciale è, secondo apparisce dallo Statuto, coordinare il movimento di organizzazione delle leghe ed ottenere coi metodi legali della associazione e della resistenza un equo elevamento dei salari ed il miglioramento materiale e morale della classe lavoratrice.

Come siasi esplicata finora l’azione delle leghe risulta nei diversi rapporti diretti a codesto On. Ministero in questi ultimi mesi. Riassumerò.

Ogni lega ha formato la sua tariffa e le condizioni del lavoro e le ha comunicate ai proprietari. Quando questi le respinsero si rispose dagli operai colla astensione dal lavoro, ma quasi sempre si finì per trovare accomodamenti che permisero l’esecuzione dei lavori più necessari. E se nella maggior parte dei casi furono i proprietari a dover capitolare, ciò avvenne non tanto per la resistenza di cui ha dato prova la organizzazione degli operai, quanto perché il momento scelto per avanzare le loro pretese non poteva essere più propizio in quanto che coloro che abbandonano i lavori agricoli possono trovare facile e ben rimunerato impiego in questa stessa Provincia nella bonifica Mantovana-Reggiana.

È bene anche aggiungere che i proprietari e conduttori di fondi, i primi più degli altri sono persuasi in gran parte che per quanto riguarda l’aumento del salario e la riduzione delle ore del lavoro, le domande dei lavoratori non sono del tutto ingiustificate ed esagerate, e quelli più arrendevoli si mostrano disposti ad accordarsi sui detti punti e molti si sono effettivamente accordati.

Nessuno può negare infatti che l’aumentato prodotto della terra in seguito alla intensificazione della coltura e la diminuzione delle imposte per effetto del nuovo catasto, abbiano reso migliore la condizione dei proprietari e giustizia vuole che ad un tale miglioramento debbano essere ammessi a partecipare gli operai. Vi è però un punto nel quale l’accordo incontra difficoltà serie e forse insuperabili, ed è la condizione che i proprietari debbano trattare sempre ed esclusivamente con la lega ed accettare gli operai che questa ad essi assegna.

Non può disconoscersi che il movimento operaio nel Mantovano si è finora svolto senza recare offesa alle leggi ed all’ordine pubblico, non potendo valere a dimostrare il contrario qualche attentato alla libertà del lavoro senza importanza e qualche lieve danneggiamento alla proprietà. Ma vi è da temere che non sempre si riesca, malgrado gli sforzi, che da qualche tempo fanno a tale scopo i capi delle leghe, a contenere nell’alveo della legalità e della temperanza l’agitazione di tante migliaia di persone, e v’è chi nutre serie apprensioni che le cose si possono aggravare specialmente all’epoca della mietitura con conseguenze dannose per gli interessi agricoli e per la pubblica tranquillità.

È da augurarsi che tali timori non si realizzino e che prevalgano invece consigli di prudenza e di conciliazione e che la calma ritorni a regnare in queste ubertose campagne.

Mi accingo dopo quanto ho detto, a trattare la seconda parte, la più ardua del mio compito, quella di indicare la misura delle mercedi per lavoratori agricoli nelle diverse stagioni. La Prefettura col suo rapporto del 13 aprile, n. 224, Gabinetto, fece già conoscere a V.E. come non esistendo in questo Ufficio elementi sufficienti, fosse necessario per corrispondere agli ordini di V.E. assumere notizie, cosa che richiedeva tempo ed un lavoro non scevro da difficoltà.

Alla circolare diramata a questo scopo ai signori Sin- daci, molti non hanno dato ancora risposta — degli altri non tutti han fornito notizie esatte e tali da non ingenerare confusione. Per adempire pertanto nel modo migliore e nel termine assegnatomi alla richiesta di V.E. ho dovuto raccogliere notizie anche da persone competenti in materia, altre ricavarne da pubblicazioni statistiche, e ho potuto mettermi così in grado di dare informazioni che credo corrispondano al vero.

I lavoratori della terra si dividono nel Mantovano in tre categorie: obbligati o spesati — braccianti di corte — avventizi. I primi son vincolati con contratto annuale a servizio del fondo. Hanno alloggio nella fattoria e ricevono la mercede (che si chiama spesa d’onde spesati) parte in denaro, parte in derrate. Essi hanno di solito a loro disposizione un orticello — allevano uno o due maiali — ed una piccola estensione da coltivare a granturco di cui dividono il prodotto col proprietario in proporzione alla fertilità del suolo.

Hanno diritto alla legna necessaria per la famiglia ed alla spigolatura d’una determinata superficie di terra. A questa categoria appartengono i bifolchi e boari, i quali hanno una partecipazione sul prodotto del latte (L. 0,25 per ogni quintale) e sull’allevamento dei vitelli (L. 0,50 per ognuno).

Spesso parecchi membri di una stessa famiglia sono spesati, i più validi hanno una spesa intiera, gli altri ne hanno metà, i bambini un terzo.

Fra i braccianti di corte e gli avventizi vi ha una sola differenza essenziale; che i primi cioè abitano nelle case della fattoria (corte) pagando il fitto. Essi, poi, per consuetudine sono preferiti nei lavori del fondo e per tale preferenza e per avere il lavoro assicurato ricevono un salario inferiore a quello degli operai avventizi che vengono assunti saltuariamente secondo il bisogno.

braccianti di corte partecipano spesso all’allevamento dei bachi da seta ed alla coltivazione in compartecipazione del granturco, ed hanno pur essi di solito maiale e pollame.

Molteplici sono le differenze fra comuni e comuni e spesso fra frazione e frazione nello stabilire la somma in denaro, in somministrazioni ed in interessenza etc. che costituiscono la spesa di un obbligato e bisogna assolutamente contentarsi di determinarla con una indicazione media approssimativa.

Senatore D’Arco in due sue pubblicazioni La pellagra e gli agricoltori nel Mantovano (Mantova, Tipografia Mondovì, 1899) e sulla Agitazione Agraria della Provincia di Mantova (Nuova Antologia, 1901) ragguaglia la cosiddetta spesa di un obbligato a L. 500. Molti però — né credo senza ragione — trovano esagerata la cifra. Invero il Medico Provinciale Cav. Dott. Bonservizi nella inchiesta sulla pellagra (Mantova, 1899) la stabilisce in media a meno di L. 400. D’altra parte le notizie raccolte nella statistica della Camera di Commercio del 1899 fanno risultare la media della valutazione in denaro della spesa stessa in L. 450 e finalmente secondo la media ricavata dalle notizie fornite alla Prefettura da 41 Comuni in questi giorni sarebbe di Lire 458. Si può pertanto affermare senza tema di allontanarsi molto dal vero che la mercede d’un bracciante obbligato non è superiore generalmente in questa Provincia a L. 460 cioè a L. 1,25 al giorno.

Questa è anche l’opinione di persone competentissime nella materia e aventi pratica conoscenza delle condizioni dell’agricoltura e delle classi agricole di questa regione.

Aggiungerò per maggiore chiarezza due conti di spesa, l’uno desunto dalle informazioni date dal Sindaco di S. Giorgio e riguardante il profitto medio di un obbligato in quel Comune, ed il secondo dai contratti stipulati fra il Barone Raimondo Franchetti (il principale proprietario fondiario della Provincia) ed i suoi boari obbligati.

Queste cifre confrontate con altre statistiche e informazioni rispondono con molta approssimazione alla verità.

Il numero delle giornate effettive di lavoro che un bracciante può compiere in un anno oscilla da un minimo di 220 ad un massimo di 240, e calcolando in media, senza distinzione fra lavoratore e lavoratore, la mercede giornaliera a L. 1,40 si viene a conchiudere che essi ricevono un medio profitto all’anno dai lavori campestri di L. 322. Questa somma non basterebbe certo ai bisogni primi della vita per quanto si vogliono contenere nei limiti della maggior parsimonia e sobrietà — ma gli operai agricoli in questa Provincia trovano anche lavoro nelle opere pubbliche e specialmente di difesa idraulica e di bonifica che si eseguiscono in questa Provincia e nelle limitrofe — altri poi quando manca qui il lavoro ne vanno a cercare all’estero.

È comune opinione in questa Provincia, lo ripeto, che il desiderio di un miglioramento nelle loro condizioni non sia per gli operai agrari una pretesa destituita di qualsiasi ragione — le cifre che sono andato esponendo, se dimostrano che vi sono in Italia altre regioni ove il lavoratore dei campi si trova in peggiori condizioni, non escludono che in proporzione al prodotto di queste terre il profitto della mano d’opera debba esser maggiore.

Gli operai concretarono i loro desideri nelle tariffe compilate da ogni singola lega (di molte tariffe mando un esemplare) molti, i più anzi di questi desideri possono dirsi esagerati, altri invece devono riconoscersi, specie per quanto riguarda il salario e l’orario, abbastanza temperati. I contadini e chi sostiene la loro causa persistono a dire che l’aumento chiesto sia sempre inferiore al 20%. Alcuni dei proprietari lo fanno ascendere anche al 60%.

Avrei voluto fare uno studio di confronto complessivo ma mi son dovuto limitare a pochi Comuni che trovansi nell’unito prospetto. Si rileva da esso che le tariffe delle leghe per quei Comuni portano un aumento che oscilla fra il 6,30 e il 30 % sulle mercedi attuali.

Comunque sia credo che il rifiuto dei proprietari determinerà volta per volta gli operai a sfrondare le loro domande di tutto quel che può esservi di esagerato e di ingiusto e per vie di adattamenti e di transazioni reciproche si potrà riuscire a raggiungere quell’accordo che sarebbe tanto desiderabile nell’interesse di tutti.

E qui finisco spiacente che la strettezza del tempo non m’abbia consentito di corrispondere meglio alla richiesta di V.E.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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