Germania e Italia procedono per la loro strada
di Karl Polany
Il nuovo schieramento dei paesi europei: fascismo e democrazia
Dal momento in cui Hitler diventò cancelliere del Reich tedesco, la politica europea ha risentito quasi giorno per giorno l’aumento della pressione proveniente dalla Germania.
L’incalzare degli eventi
Hitler prende il potere nel gennaio 1933. Il 27 febbraio viene incendiato il Reichstag. I comunisti vengono accusati del fatto e messi fuori legge. Il 14 ottobre la Germania abbandona la Società delle Nazioni. Nel gennaio 1934 viene concordata una tregua decennale con la Polonia. La Germania ora si sente libera di allungare le mani sull’Austria e di organizzare l’Europa centrale e danubiana contro l’Urss.
Il 30 giugno avviene la purga nel Partito nazista ad opera del Fiihrer stesso. Vengono uccisi a centinaia i dirigenti di secondo piano che premevano perché nel paese si realizzassero riforme economiche e sociali. Hitler, l’esercito e l’industria pesante prendono il comando esclusivo.
Il 25 luglio i nazisti assassinano il cancelliere austriaco Dollfuss, ma la loro insurrezione armata fallisce. Il 16 marzo 1935 la Germania dichiara l’intenzione di riarmarsi su larga scala.
Hitler, ora divenuto capo dello stato al posto del maresciallo von Hindenburg, annuncia a sir John Simon e a Eden in visita a Berlino l’irriducibile inimicizia del Terzo Reich verso l’Urss.
Un anno dopo la Germania straccia il trattato di Locarno e fa avanzare le proprie truppe nella Renania.
Con lentezza e gradualità, ma ineluttabilmente, queste mosse provocano in Europa una contromossa. Nel maggio 1934 l’Urss decide che la revisione è solo un altro nome per una nuova guerra mondiale.
Nel luglio 1934 la Francia offre un patto a Russia, Germania, Polonia Cecoslovacchia e Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania). Dopo il rifiuto della Germania, la Francia decide di stipulare un patto di assistenza reciproca con l’Urss, lasciando aperta la possibilità per la Germania ai entrarvi sulla base di una totale reciprocità.
L’Urss chiede l’ammissione alla Società delle Nazioni. Il 3 febbraio 1935 Gran Bretagna e Francia si accordano a Londra su un memorandum in cui offrono la parità di status alla Germania, a condizione che essa sia disposta a concludere un patto di sicurezza.
Il 2 maggio Laval firma un accordo quinquennale con Litvinov; Stalin annuncia che da quel momento in poi i comunisti francesi sosterranno la politica di riarmo del governo. In agosto il VII Congresso dell’Internazionale comunista rovescia la tattica tradizionale e si dichiara a favore di un Fronte popolare di forze antifasciste in tutti i paesi.
Il 16 maggio l’Urss firma con il governo cecoslovacco un trattato sulla falsariga di quello francorusso. In giugno vengono pubblicati i risultati del voto sulla pace in Gran Bretagna. I voti di sostegno alla Società delle Nazioni sono più di undici milioni, e alcuni milioni di votanti si dichiarano favorevoli a sanzioni militari attraverso di essa.
Il 14 novembre l’elettorato britannico aderisce quasi unanimemente al principio della sicurezza collettiva. Nel maggio 1936 il Parlamento francese ratifica il trattato francorusso.
Oltre che dell’atteggiamento francorusso e in seguito di quello inglese, la politica tedesca deve tener conto di un certo numero di fattori, quali: la linea indipendente seguita dall’Italia; la politica del Vaticano; la Piccola Intesa; gli stati vicini minori.
L’Italia, protettrice dell’Austria
In questo periodo la contesa sull’Austria divide Germania e Italia. L’Italia rimane revisionista e avversa alla Società delle Nazioni, ma segue una sua propria linea indipendente.
Il trattato stipulato con essa nel gennaio 1935 consente alla Francia di spostare circa 200 000 militari dalla frontiera italiana alla linea Maginot lungo il confine tedesco. Quando, due mesi dopo, la Germania denuncia le disposizioni di Versailles sul disarmo, l’Italia si unisce a Stresa con la Gran Bretagna e la Francia in una dimostrazione di solidarietà contro coloro che rompono i trattati.
Nei Protocolli di Roma del marzo 1934, promossi dall’Italia, vengono stipulati accordi di cooperazione e consultazione con l’Austria e l’Ungheria, principalmente per costituire un contrappeso all’influenza tedesca sul Danubio.
L’Ungheria, in effetti, tende naturalmente a far causa comune con la Germania, la cui marcia trionfale verso la costruzione di una grande forza militare infiamma nuove speranze ungheresi di riconquistare le vecchie frontiere.
L’Austria viene mantenuta nell’orbita italiana con la promessa di un aiuto militare contro un’eventuale invasione tedesca. Inoltre, la Chiesa cattolica e l’aristocrazia austriache si attendono dall’Italia un sostegno per il progetto di riportare sul trono gli Asburgo.
La loro speranza è che con la monarchia sarebbe più facile mantenere indipendente l’Austria. Sia in Abissinia sia, in seguito, in Spagna l’Italia va avanti per suo conto, limitandosi a contare sulla buona disposizione della Germania verso le imprese fasciste di conquista.
L’Italia, comunque, non scende a patti con il Terzo Reich riguardo all’Austria prima di essere spinta a questo passo dai rovesci militari subiti in Spagna dai «volontari» italiani. Viene quindi nel 1937 l’Asse Berlino-Roma, come nuovo sviluppo nella politica continentale.
Il Vaticano nell’Europa centrale
Il Vaticano si è dimostrato un forte alleato dell’Italia in Austria. Di fronte al conflitto del Terzo Reich sia con la Chiesa protestante che con quella cattolica, la Santa Sede non era propensa a incoraggiare l’unione della cattolica Austria con la Germania.
Sin dal 1931 il Vaticano caldeggiava una varietà cattolica di stato corporativo. L’enciclica papale del 1931 [Quadragesimo anno] servì come traccia della nuova costituzione, dopo che il colpo di stato della Heimwehr, ordinato da Mussolini, aveva messo fine alla repubblica democratica.
Benché l’enciclica affermi che un vero cattolico non può essere anche un vero socialista, collocando così la Chiesa dalla parte dei cosiddetti movimenti antimarxisti, la Chiesa non fu totalmente subordinata né al fascismo italiano né al nazionalsocialismo.
La Santa Sede si unì alla presa di posizione di questi ultimi contro il comunismo e contro l’Urss; favorì le invasioni militari di Mussolini, tanto in Africa quanto in Spagna: ma respinse la paganizzazione della Chiesa tedesca. La Santa Sede sostenne i protestanti tedeschi nella loro coraggiosa resistenza all’introduzione più o meno velata del «principio del capo» e delle discriminazioni razziali nella Chiesa confessionale.
La Piccola Intesa
Dei tre stati della Piccola Intesa, solo la Cecoslovacchia si oppose coerentemente ai piani tedeschi di penetrazione nel bacino danubiano.
Gli altri due membri, Romania e Jugoslavia, mentre si opponevano insieme con la Cecoslovacchia alle pretese revisionistiche dell’Ungheria, non reagirono con la stessa forza all’idea dell’unificazione dell’Austria con la Germania.
Di quei due paesi, almeno la Jugoslavia sembrava preferire l’«Anschluss», cioè l’unificazione, come male minore rispetto alla restaurazione della monarchia asburgica. Inoltre, la Germania era per la Cecoslovacchia il paese più temuto, mentre per la Romania e la Jugoslavia erano rispettivamente tali l’Urss e l’Italia.
La Cecoslovacchia ospitava in prossimità del proprio confine occidentale circa tre milioni di tedeschi, che l’ascesa dei nazisti dall’altra parte della frontiera aveva reso sempre più inquieti.
La Romania si era impossessata della Bessarabia durante le guerre civili in Russia, e si sentiva inquieta per la riluttanza sovietica a riconoscere come definitiva la perdita di quel territorio.
La Jugoslavia doveva far fronte all’espansione italiana nell’Adriatico, visto in particolare il caso dell’Albania, un piccolo stato quasi medioevale sulla sponda orientale dell’Adriatico, che nel corso degli anni venti era divenuto in pratica un territorio dipendente dall’Italia. E come i loro potenziali nemici, anche i loro amici potenziali fra le grandi potenze erano diversi.
La Cecoslovacchia si orientò dapprima verso la Francia e dopo il 1933 anche verso la Russia sovietica. La Romania si affidava, per la sicurezza della sua frontiera orientale in caso di guerra, a un’alleanza militare con la Polonia e solo secondariamente con la Francia.
La Jugoslavia contava soprattutto sulla Francia, ma rifiutava di accettare aiuto dall’Urss. Sicché solo la Cecoslovacchia rimaneva fermamente fedele al suo legame con la Francia.
In connessione con l’avvicinamento della Polonia alla Germania, la lealtà della Romania verso la Francia–già compromessa dall’amicizia della Francia con l’Urss–prese a ondeggiare.
Quando la Francia firmò un patto con l’Italia, la Jugoslavia si allontanò dalla Francia e fu perfino disposta a porgere ascolto agli approcci tedeschi.
Non c’è da stupirsi che le sottigliezze del puzzle danubiano tendano a disorientare gli stranieri. Il ravvivarsi del revisionismo ungherese, comunque, può concedere un nuovo periodo di vita anche alla Piccola Intesa.
Finché durava la contesa sull’Austria fra Germania e Italia, queste due potenze restavano rivali fra loro e con la Francia riguardo all’influenza sui paesi danubiani. In caso di accordo fra Germania e Italia sulla suddivisione delle zone di influenza in quest’area, la posizione della Francia si sarebbe inevitabilmente indebolita.
Gli stati più piccoli
Danimarca, Olanda, Belgio e Svizzera funzionano come una cintura di stati cuscinetto fra il Terzo Reich e il resto degli stati europei a nord, ad ovest e a sud.
Austria e Cecoslovacchia si trovano immediatamente sulla linea di attacco tedesca in direzione sudest, e lo stesso vale per la Lituania verso nordest. La posizione degli stati cuscinetto non è affatto rassicurante. La loro delicata situazione li porta ad aderire quasi con passione all’idea della sicurezza collettiva e alla Società delle Nazioni.
Ma la loro posizione è talmente pericolosa, che non possono correre il minimo rischio oltre il necessario. La sorte della Cina e dell’Abissinia è servita a metterli in guardia dal riporre troppa fiducia nella Società delle Nazioni, nel caso che questa annoveri gli aggressori tra i propri membri.
La Danimarca rifiutò di votare a Ginevra a favore di una censura formulata in termini duri contro la rottura del trattato da parte della Germania.
La Svizzera non partecipò alle sanzioni contro l’Italia, e accettò volentieri le assicurazioni riguardo alla sua integrità territoriale, offertele senza contropartita dalla Germania.
Il Belgio recentemente è stato esonerato dagli impegni previsti dal trattato di Locarno, secondo i quali esso era legato alla Gran Bretagna e alla Francia dal dovere di assistenza reciproca in caso di attacco non provocato della Germania.
I paesi più piccoli hanno una naturale tendenza a formare gruppi come quello, principalmente economico, che comprende Belgio, Olanda e Danimarca, e anche Norvegia, Svezia e Finlandia.
Una tendenza parallela compare nella zona baltica, dove Estonia, Lettonia e Lituania nel settembre 1934 hanno formato un gruppo che intende essere neutrale.
Nei Balcani, infine, esiste dal febbraio 1934 un patto che comprende Jugoslavia, Romania, Grecia e Turchia. Anche la Bulgaria sta ora per entrarvi.
La corsa degli armamenti non lascia fuori i piccoli stati; anch’essi concorrono al gran premio della morte.
Il metodo tedesco
Fulmini a ciel sereno. La Germania muove truppe, denuncia un trattato o punta al potere in qualche paese confinante.
E simultaneamente lancia una «offensiva di pace». Vengono offerte spontaneamente eccezionali garanzie, e proclamati ai quattro venti impegni solenni: è l’ultima volta che la Germania ricorre a un’azione unilaterale; non ci saranno più sorprese; nessuna contesa fra essa e qualche altro paese, mettiamo la Francia, è concepibile in futuro; la Germania è pronta ad accettare un patto di sicurezza generale; a impegnarsi a rispettare l’integrità territoriale del Belgio e dell’Olanda, se appena questi paesi lo desiderino; a salvaguardare la Svizzera; a ritornare nella Società delle Nazioni.
Popoli uniti da trattati, paesi messi in pericolo dalla mossa tedesca, governi impegnati a mantenere patti solenni: nessuno, lì per lì, reagisce.
I loro pareri sono diversi. Alcuni tendono ad essere convinti che le assicurazioni della Germania siano sincere; altri s’inducono a compromessi sui propri principi in nome di vantaggi egoistici; altri ancora temono di restare isolati, se mostrano di essere disposti a impugnare le armi. Viene così lasciato passare il momento psicologicamente buono per agire.
Seguono negoziati. Si cercano rassicurazioni sulla buona fede delle profferte tedesche. Ma le domande ricevono risposte evasive, ammesso che ne ricevano. I tentativi di chiarificazione vengono marchiati come insulti oppure impaniati in vaghe generalità. Dopo un po’ le trattative finiscono nel nulla. Rimane un silenzio inquieto.
Un’apparenza di pace torna a calare sul mondo, fino a quando esso non sarà rudemente scosso da un nuovo fulmine più disastroso ancora del precedente: e si ricomincia, con gli stessi metodi, con le stesse procedure.
Gli argomenti tedeschi
Vediamo ora quali sono gli argomenti principali addotti dalla Germania.
La Germania è stata spinta a tali estremi dal trattato di Versailles. Ora si sta solo prendendo quel che le appartiene. Responsabili della sua azione unilaterale sono i paesi vincitori, che non sono riusciti in tempo utile a rivedere il trattato.
Questo argomento contiene un forte elemento di verità se riferito al disarmo unilaterale o anche alla smilitarizzazione della Renania. In assenza di un disarmo generale, queste restrizioni andavano abolite; se la Germania ha dovuto infrangere il trattato affinché fossero abolite, la responsabilità è sua solo in parte.
Eppure quest’argomento è fuorviarne. I vicini della Germania–Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Svizzera, Austria, Cecoslovacchia, Lituania e, probabilmente, perfino la Polonia–vogliono essere rassicurati non tanto riguardo alle pretese revisionistiche della Germania, quanto sulla propria sicurezza.
Abbiamo discusso le questioni territoriali nella prima parte. Ad ovest esse sono quasi senza interesse per la Germania; ad est, la Germania stessa ne ha negato l’importanza e l’attualità. Il patto di non aggressione con la Polonia rimane inalterato.
Olanda, Svizzera e Austria non si sono annesse nemmeno un acro di territorio tedesco. La Cecoslovacchia ha sì ottenuto una piccola porzione di territorio, ma in Germania non se ne fa quasi più menzione. L’argomento della revisione, insomma, non può essere addotto a giustificazione dei metodi della Germania, cioè dell’uso della forza, poiché è ovvio che lo scopo delle sue imprese non è la revisione, ma qualcosa di completamente diverso.
È la Germania stessa a definire tali scopi con sufficiente chiarezza: essa ha bisogno di terra nell’Europa orientale, per insediarvisi da colonizzatrice. Essa non può e non vuole considerare accettato e stabile alcun assetto territoriale nella misura in cui vi sia implicata l’Urss. Inoltre, essa non intende abbandonare la sua pretesa, fondata su basi naturali ed etniche, di riunire sotto un unico dominio tutti gli insediamenti tedeschi dell’Europa centrale.
La realizzazione di questo duplice obiettivo significherebbe la distruzione di una serie di stati fra il Baltico al nord e l’Italia al sud, fra il canale della Manica ad ovest e il mar Nero a sudest. È molto improbabile che un tale sconvolgimento lascerebbe intatta l’Asia. L’intervento del Giappone in una guerra contro l’Urss sarebbe quasi ovvio. Ecco che allora si troverebbero coinvolti praticamente tutti gli stati che si trovano fra l’Atlantico e il Pacifico.
Un processo di questo genere–a prescindere da come lo si valuti–non ha comunque più nulla a che fare con la revisione del trattato di Versailles. Ciò che le nazioni europee paventano non è una rettifica delle frontiere tedesche. È che l’Europa venga inghiottita dal Reich tedesco.
Ma qui viene affacciato un altro argomento: la Germania è pronta a garantire che perseguirà l’unificazione di tutti i tedeschi solo con mezzi pacifici.
Sorprende, di primo acchito, una tale dichiarazione. Con quale altro mezzo, se non con la guerra, possono venire abolite le frontiere e unificate le nazioni che le frontiere dividono?
Ma non c’è ragione di meravigliarsi, se si è fatta attenzione ai metodi seguiti dalla Germania in Austria, a Danzica, a Memel, in Belgio, in Danimarca, in Svizzera, e perfino in posti fuori mano come in Ungheria e Romania. La crescita del nazismo austriaco ha avuto il sostegno morale, materiale e politico del Reich. A Danzica, il commissario della Società delle Nazioni e gli oppositori politici dei nazisti sono stati messi da parte con il plauso esplicito di Berlino.
In Cecoslovacchia il Partito dei Sudetendeutschen guidato da Konrad Henlein ha lo stesso ruolo del Partito nazista in Austria.
Questi sono solo alcuni esempi della «penetrazione pacifica», la quale procede con il metodo di fomentare moti nazionalistici nei paesi presi di mira. In altri casi una funzione simile è affidata al conflitto sociale.
Non le popolazioni etnicamente non tedesche sono allora il nemico, bensì il marxismo. Il Partito rexista di Degrelle in Belgio; il complotto nazista contro il primo ministro Darànyi in Ungheria; le attività della Guardia di Ferro contro Titulescu e in seguito contro lo stesso re Carol di Romania; l’insurrezione di Franco in Spagna: questi e vari altri movimenti reazionari sono stati sostenuti, apertamente o segretamente, dal Terzo Reich. Nessun accordo di non aggressione sarebbe in grado di proteggere un paese contro metodi di questa fatta.
Al profano può sembrare che un trattato bilaterale di non aggressione debba necessariamente far aumentare la sicurezza generale, sia pure in un primo momento limitatamente alle due parti in causa.
Dopo tutto, un trattato bilaterale sembra sia meglio che nessun trattato. Ma questo è un errore.
Il trattato bilaterale ha l’effetto di sollevare i firmatari dagli obblighi previsti nel patto della Società delle Nazioni, a meno che questi siano espressamente salvaguardati. Ciò riguarda almeno il paese che stipula il trattato con la Germania, poiché essa non è membro della Società delle Nazioni.
Quel paese in pratica si obbliga a non correre in aiuto di qualsiasi stato entri in guerra con la Germania, sia che la Germania venga aggredita sia che aggredisca. Gli accordi bilaterali di non aggressione, dunque, allontanano dalla sicurezza collettiva, a meno che venga stipulata una clausola in cui si dichiari il contrario.
Viene usata in questo senso, ad esempio, la frase «nel quadro della Società delle Nazioni». Fra l’altro, sta proprio qui la differenza tra gli impegni presi a Locarno da Gran Bretagna e Francia, oppure quelli previsti nel trattato francorusso, e, dall’altra parte, i trattati conclusi dalla Germania.
I primi non possono esimere i firmatari dall’obbligo di partecipare a sanzioni militari contro l’altro firmatario, nel caso che quest’ultimo compia un atto di aggressione contro un terzo paese.
Invece, i trattati bilaterali che si collocano fuori dal quadro della Società delle Nazioni (o di qualsiasi altro sistema di sicurezza collettiva) sono un atto di preparazione legale di future aggressioni, poiché mirano a impedire che la controparte intervenga in aiuto delle vittime.
Ancora più significativa è la questione della restituzione delle colonie della Germania. La popolazione tedesca non ha mai creduto nella sincerità degli argomenti con i quali le potenze vittoriose hanno giustificato il fatto che la Germania fosse stata privata dei suoi possedimenti d’oltremare.
Essa non è il solo paese negli annali del quale resti la macchia di casi di cattiva amministrazione coloniale o perlomeno di amministrazione palesemente egoista, condotta nell’interesse esclusivo della madrepatria. Inoltre, l’accusa rivolta contro la Germania imperiale di essere una potenza coloniale incapace non risultava troppo convincente, considerando l’ovvia parzialità dei giudici che la proferivano.
Per la Germania stessa, d’altra parte, le colonie avevano un valore economico relativamente modesto. Oltre alla concessione di Chiaochou, i territori tedeschi d’oltremare comprendevano il Tanganica, il Camerun, il Togo, l’Africa sudoccidentale e alcune isole del Pacifico.
I tedeschi che vi abitavano raggiungevano a malapena le 20 000 persone; il valore delle esportazioni verso la madrepatria non era più di due milioni di sterline, rispetto ai 270 milioni che costituivano il valore totale delle materie prime importate dalla Germania.
Non c’è da stupirsi che, di tutte le richieste di revisione territoriale, la restituzione delle colonie sia quella sulla quale gli statisti tedeschi hanno insistito meno vivamente.
Hitler stesso ha sostenuto con forza che i possedimenti coloniali siano stati fonte di sprechi e di perdite nell’amministrazione della Germania anteguerra; il suo intento politico è sempre stato, piuttosto, l’acquisizione di territori da colonizzare a ridosso dei confini orientali della Germania.
Non c’è ragione di ritenere che Hitler abbia cambiato parere su questo punto dopo la presa del potere. Le pretese riguardo alle colonie avanzate recentemente dalla Germania sembrano più una posta messa in gioco per avvantaggiarsi nella contrattazione complessiva, che un obiettivo vero e proprio. I tedeschi probabilmente insistono su questo punto principalmente al fine di persuadere la Gran Bretagna a non contrastare le loro mire espansionistiche in altre direzioni.
Essi propongono, in realtà, un baratto: la rinuncia alle loro pretese coloniali per avere in cambio mano libera contro l’Urss. Non c’è dubbio che pochissime delle materie prime di cui le industrie tedesche possono aver bisogno si trovano nelle antiche colonie, e precisamente solo tre–sisal, un po’ di fosfati e vanadio–delle trentacinque principali.
La restituzione delle colonie non influirebbe apprezzabilmente, dunque, sulla situazione economica della Germania. Essa continuerebbe a dipendere largamente o interamente dal mercato mondiale per molte materie prime, fra cui ferro, rame, piombo, zinco, manganese, nichel, petrolio, gomma, cotone, lana.
La lunghezza e l’importanza di questa lista non suggeriscono forse di per sé che la Germania appartiene, con Italia e Giappone, al gruppo degli stati scarsamente dotati di risorse, il cui presunto conflitto economico con gli stati ben dotati sta alla radice dell’attuale tensione nel mondo?
Questa questione non può essere risolta alla svelta, sebbene essa sembri comunque sfuggire a un’analisi rigorosa e dettagliata. Non c’è dubbio che nel secolo scorso i possedimenti coloniali abbiano costituito un notevole beneficio per le loro rispettive medrepatrie.
Questo vantaggio è tendenzialmente svanito nel primo quarto del nostro secolo; paesi come la Danimarca, gli stati scandinavi o la Svizzera si inserirono tra i più prosperi; la Germania divenne ricca e potente, nonostante la scarsa consistenza delle sue colonie. La situazione è un po’ cambiata, tuttavia, da quando è crollato il sistema internazionale del gold standard. La moneta nazionale diventa sempre più importante. Gli stati, oggi, possono considerare un vantaggio acquistare materie prime direttamente con la propria moneta.
Il valore delle colonie aumenta, inoltre, in conseguenza dell’importanza strategica dei rifornimenti di materie prime in caso di conflitto con la Società delle Nazioni. Un paese contro il quale siano state decise da quest’ultima sanzioni economiche potrebbe essere in grado di sostenere una guerra malgrado il boicottaggio, a condizione di disporre di materie prime nei territori coloniali.
Ma anche se tale condizione non si verifica, l’importanza strategica delle colonie non viene meno. Infatti i paesi che possiedono colonie possono essere restii a separarsene, nonostante gli scarsi vantaggi economici che ne ricavano, nel timore che esse, una volta abbandonate, vengano usate per fini strategici, come basi aeree o navali.
Ciò costringerebbe i paesi ex coloniali a prendere costose contromisure, come ad esempio un sostanzioso incremento dei loro armamenti navali. Disgraziatamente, nella situazione in cui ci troviamo, l’uso militare delle colonie, anche per reclutarvi truppe di colore, non può essere bandito. Questa è una ragione in più per affermare che solo una soluzione internazionale costruttiva del problema coloniale, nel quadro di un accordo generale di pace, consentirebbe di far fronte alle esigenze del momento attuale.
È stata messa a frutto la disponibilità della Germania ad acconsentire a limitazioni degli armamenti navali; a partecipare alla convenzione sulla limitazione della guerra sottomarina; a sottoscrivere un accordo con l’Austria. Le riduzioni dei programmi di costruzioni navali, tuttavia, spesso non sono altro che una questione di convenienza finanziaria; la convenzione sull’impiego dei sottomarini non implica alcuna misura di controllo internazionale; l’accordo con l’Austria dell’ll luglio 1936, infine, non sembra abbia costituito quell’inequivocabile garanzia di una soluzione pacifica di qualsiasi contesa fra Austria e Germania, che si sosteneva dovesse costituire quando fu concluso.
Resta il fatto che la Germania è decisa e coerente nel rifiutarsi di firmare un accordo di mutua assistenza tale da salvaguardare tutti i paesi Europei da suoi attacchi non provocati. Due dei suoi vicini, Lituania e Cecoslovacchia, spesso vengono del tutto esclusi dalle sue proposte di pace. Eppure lo smembramento della Lituania da parte della Germania e della Polonia, e quello della Cecoslovacchia da parte della Germania e dell’Ungheria, scatenerebbe inevitabilmente un conflitto con gli altri confinanti dell’Ungheria, e con gli stati baltici e con l’Urss–l’inizio di una nuova guerra mondiale.
La conquista dell’Abissinia
Verso la fine del 1934 la Francia, sentendosi sempre più preoccupata per il nuovo atteggiamento della Germania, cominciò a prendere in considerazione l’Urss e l’Italia come possibili alleati. Mentre, tuttavia, l’adesione dell’Urss alla Società delle Nazioni tendeva a rafforzare il sistema della sicurezza collettiva in Europa, l’intesa francoitaliana finì per assestargli un duro colpo.
Non c’è dubbio che il patto di Laval con Mussolini del 7 gennaio 1935 sia risultato una della più disastrose cantonate della politica francese del dopoguerra; indebolendo la Società delle Nazioni, esso fece il gioco della Germania.
Mussolini, che era preoccupato per la minaccia della conquista nazista dell’Austria, assicurò Laval che l’Italia non pensava di attaccare la Francia, consentendo così a quest’ultima di ritirare le proprie truppe dalla frontiera italiana. Laval, in cambio, fece sapere che la Francia non aveva interessi economici in Abissinia–indicazione, questa, dalla quale Mussolini non ha mancato di trarre il massimo vantaggio.
Nel corso della barbara guerra di aggressione italiana in Abissinia, Laval, vincolato dalle sue promesse, rese possibile l’ignominioso fallimento del tentativo più serio mai compiuto di affermare l’autorità internazionale della Società delle Nazioni.
Il danno inferto al prestigio di questa istituzione è stato permanente, mentre il vantaggio immaginario della Francia si dissipò quasi immediatamente, quando Mussolini tornò a rivolgere le proprie simpatie alla Germania.
La decisione praticamente unanime, presa nell’assemblea della Società delle Nazioni del 9 ottobre 1935, di applicare sanzioni economiche e finanziarie all’Italia per impedirle di continuare la guerra di aggressione in Abissinia, fu una grande sorpresa per il mondo.
La Società delle Nazioni poteva dunque agire, se aveva una guida! E che la Gran Bretagna, non la Francia, fosse il paese che in questo momento aveva indicato la direzione da prendere, è stata un’altra sorpresa.
In effetti, l’inatteso scambio di ruoli di questi due paesi riguardo alla Società delle Nazioni ha indotto molti francesi a dubitare della sincerità delle intenzioni della Gran Bretagna.
Comunque, se Laval non avesse sconsideratamente voluto salvare Mussolini (un desiderio fortemente condiviso da non pochi die-hards britannici) e se la Gran Bretagna si fosse sentita più libera di cooperare con la Russia nella Società delle Nazioni e per gli scopi della Società delle Nazioni, l’esito avrebbe potuto essere molto diverso.
Quel che è avvenuto è che i governi francese e inglese hanno cercato in tutti i modi di addossare agli Usa la colpa del fatto che la Società delle Nazioni non sia riuscita a imporre l’embargo sul petrolio.
Ma questa scusa non regge, poiché Roosevelt e Hull erano riusciti, in realtà, a far sì che le esportazioni americane di petrolio non superassero il livello normale.
È ben vero che il Congresso rifiutò di approvare una legge sulla neutralità, che avrebbe autorizzato Roosevelt e Hull a mantenere la loro linea. Ciò, tuttavia, avvenne dopo la diffusione della notizia dell’infausto piano di pace di Hoare e Laval del dicembre 1935; esso apparve come una sensazionale conferma dell’insincerità di cui era accusato il governo Baldwin da parte della non esigua schiera di coloro i quali erano riluttanti a credere che i conservatori fossero divenuti da un giorno all’altro sinceri e appassionati sostenitori della Società delle Nazioni.
Il piano venne rapidamente ritirato; ma alla ferita inferta al prestigio della Società delle Nazioni non c’era rimedio, poiché un governo britannico che aveva acconsentito a quel piano, nei termini in cui era formulato, difficilmente avrebbe poi potuto premere per l’estensione delle sanzioni economiche.
Sicché, un membro della Società delle Nazioni, l’Abissinia, fu inondata di gas e cessò di esistere ad opera dell’Italia, e le sanzioni dovettero infine essere abolite.
È piuttosto curioso che si sia asserito che questo esito abbia dimostrato il fallimento del sistema della Società delle Nazioni, e non quello del governo britannico. È stata la mancanza di decisione e di chiarezza di propositi delle grandi potenze democratiche a consentire che l’Italia l’avesse vinta contro la Società delle Nazioni.
La democrazia spagnola e i suoi nemici
La cancellazione delle sanzioni imposte all’Italia entrò in vigore il 16 luglio 1936. Più o meno lo stesso giorno alcuni piloti militari italiani furono segretamente arruolati, per essere impegnati in un’avventura che consentì all’Italia e alla Germania di mostrare al mondo un campione della nuova politica de ventesimo sociale.
Il 18 luglio una sollevazione militare scoppiò nel Marocco spagnolo e si diffuse rapidamente in Spagna. Alcuni stormi di aerei italiani, tenuti preventivamente pronti, volarono in aiuto dei ribelli, costringendo infine la flotta lealista a ritirarsi.
Truppe mercenarie e moresche furono trasbordate dall’Africa alla madrepatria. Questi furono gli inizi di una guerra civile, il cui esito, dopo un anno, resta incerto.
L’amicizia francoitaliana, che aveva impedito alla Francia di seguire la politica indicata dalla Gran Bretagna a Ginevra, finì di colpo nel maggio 1936, quando l’elettorato francese portò la sinistra al governo. Il gabinetto del Fronte Popolare aveva un primo ministro socialista ed era sostenuto dal Partito comunista. Mussolini voltò le spalle alla Francia.
I ribelli spagnoli–che rappresentavano un’alleanza di grandi proprietari, militari e gerarchia ecclesiastica, tipica dei paesi cattolici arretrati–accusarono il governo democratico e repubblicano di essere «bolscevico».
L’Italia, così, aveva un pretesto. I suoi veri obiettivi erano puramente imperialistici–il suo intervento mirava ad acquisire vantaggi politici e territoriali nel Mediterraneo occidentale. Essa camuffò tali obiettivi con la pretesa di non essere impegnata in null’altro che in una crociata contro i «rossi».
Ciò fece istantaneamente effetto. Una ribellione militare contro un governo legittimo si trasfigurò dalla sera alla mattina, divenendo agli occhi del mondo una guerra civile tra fascisti e comunisti. L’intervento italiano e tedesco a fianco dei ribelli seguì come cosa ovvia.
E alla fine ebbe successo la pressione nei confronti delle grandi potenze democratiche, affinché lasciassero da parte le norme del diritto internazionale e promovessero contro il governo spagnolo un embargo delle armi. Franco, la cui situazione militare pareva dapprima senza speranza, divenne così estremamente temibile. Senza il drammatico intervento della Brigata Internazionale, Madrid sarebbe caduta il 7 novembre.
Quest’azione di solidarietà da parte della classe operaia internazionale era il risultato del contro-intervento democratico, socialista e comunista.
Esuli italiani e tedeschi, antifascisti liberali, membri dello Schutzbund austriaco, socialisti e comunisti di tutti i paesi hanno salvato Madrid.
Il governo francese e quello sovietico erano favorevoli a un controintervento: i francesi in base a ragioni sia nazionali che sociali, i russi in considerazione del pericolo rappresentato dal rafforzamento del fascismo in Europa in caso di vittoria di Franco. L’aiuto sovietico al governo spagnolo, benché consistesse soprattutto nel fornire istruttori e modelli di aeroplani, fu accolto dalle potenze fasciste come gradito pretesto per mandare in aiuto di Franco formazioni dell’esercito regolare, chiamate poi «volontarie».
Con la spedizione in Spagna, la Germania tentava ad aggirare la Francia; l’Italia puntava alla conquista di basi navali che le consentissero di minacciare le rotte navali britanniche nel Mediterraneo. Ambedue i paesi, insomma, erano spinti originariamente da motivi meramente nazionalistici. Ma la solidarietà fascista divenne alla fine una forza reale.
Germania e Italia formarono un blocco contro i «rossi», autoassegnandosi la missione di salvare il mondo dal bolscevismo. Capitò poi regolarmente che i loro atti di abnegazione non fossero affatto in contrasto con i loro interessi nazionali e imperialistici.
L’Asse Berlino-Roma, annunciato nel gennaio 1937, era l’esito manifesto della nuova linea. Il cosiddetto Comitato di non-intervento di Londra, che le diplomazie inglese e francese avevano cercato di usare per frenare l’intervento fascista in Spagna, era inadeguato a far fronte alle forze dell’anarchia internazionale, una volta che era stato consentito loro di umiliare la Società delle Nazioni. Non era possibile riacquisire a Londra ciò cui si era rinunziato a Ginevra.
L’Europa, oggi, è dilaniata da conflitti nazionali e sociali. Unica speranza rimane un sistema di sicurezza collettiva, istituito dai paesi democratici e socialisti nel quadro della Società delle Nazioni.