DreamWorks Animation, fabbrica dei sogni
di Matteo Mazza e Simone Soranna
Estratto dal volume: Matteo Mazza, Simone Soranna, DreamWorks Animation. Il lato chiaro della luna, Ed. Bietti, 2020
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Fondata nel 1994 da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen, DreamWorks prova a imporsi sul mercato come la principale antagonista del monopolio Disney avvalendosi di una produzione vasta ed eterogenea (circa 40 titoli in poco più di vent’anni) che è riuscita a coinvolgere una larga parte di pubblico in tutto il mondo. La sua strategia di marketing e sperimentazione tecnologica raggiunge l’apice del successo nel 2001 con Shrek di Andrew Adamson e Vicky Jenson.
Il boom del cinema d’animazione
Assumendo dimensioni inaspettate negli ultimi trent’anni, il mercato del cinema d’animazione si è molto evoluto indirizzandosi esclusivamente, o almeno principalmente, ai bambini. Tuttavia, grazie allo sfruttamento di importanti novità come la messa in atto di alcuni complessi meccanismi narrativi, l’ingresso di certe innovative strategie di marketing, la configurazione di contorni sempre meno definiti e l’incidenza prorompente della forza tecnologica, tale fenomeno ha intrapreso una direzione che anno dopo anno lo ha riportato alle origini, riuscendo a coinvolgere il mondo degli adulti capovolgendo l’ordine delle cose.
Già, perché forse non tutti sanno che persino il mitico Topolino creato da Walt Disney è finito per essere storicamente equivocato rimanendo
“il simpatico Topolino che suscita simpatia e genera amabili gag, ma si è perso il contatto con la sua origine legata al cinema muto, allo slap-stick e alla società rooseveltiana” (T. Ceruso, Tra Disney e Pixar, Sovera Edizioni).
Non sondare con cura questo profondo e ricco terreno tenendo presente il particolare punto di vista e la storia di un grande colosso dell’animazione come DreamWorks, quindi, ci pare fuorviante e anacronistico. Anche perché, dallo straordinario successo di Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), pietra angolare della storia del cinema e film rivelatore dello stretto legame tra cinema animato e mondo della fiaba, fino ad arrivare a un’opera recente come Il piccolo yeti (Abominable, 2019), le trasformazioni dei mondi e dei modi disegnati suggeriscono una chiara inversione di rotta dell’industria e il sorgere di uno sguardo nuovo testimone di una controcultura capace di misurarsi su più fronti, certamente in grado di camminare a testa alta a fianco della mastodontica Disney.
Ascesa e declino della Disney
In un certo senso, il sorgere delle fortune di DreamWorks coincide con il “Rinascimento Disney”, il periodo più controverso nella storia della casa di Topolino, vissuto durante la gestione del giovane CEO Michael Esner. Si tratta del decennio compreso tra l’uscita di La sirenetta (The Little Mermaid, 1989) di Ron Clemnets e John Musker e Tarzan (Id., 1999) di Chris Buck e Kevin Lima, costellato da grandi investimenti e titoli importanti frutto di sforzi maturati dalla lunga crisi iniziata con la morte del fondatore nel 1966 e caratterizzata da risultati altalenanti causati dall’esaurirsi della vena artistica del regista Wolfgang Reitherman dopo i popolarissimi La spada nella roccia (The Sword in the Stone, 1963), Il libro della giungla (The Jungle Book, 1967), Gli Aristogatti (The Aristocats, 1970), Robin Hood (Id., 1973).
Arriva Jeffrey Katzenberg
Gli affari Disney tornano ai massimi splendori nella decade rinascimentale grazie a un personaggio chiave per il nostro discorso: Jeffrey Katzenberg.
Alla fine degli Anni ’80, nella veste di responsabile della Touchstone Pictures (marchio Disney destinato alla produzione di film rivolti non propriamente a un pubblico di bambini) Katzenberg si mette in mostra soprattutto per il successo ottenuto con Pretty Woman (Id., Garry Marshall, 1990) e collaborando a importanti progetti come La sirenetta, La bella e la bestia (Beauty and the Beast, 1991) e Il re leone (The Lion King, 1994).
Lo storico del cinema Giannalberto Bendazzi descrive Katzenberg come
“un lavoratore infaticabile, ambizioso e leale a Eisner, che amava interferire e innervosire la gente nella convinzione che questo atteggiamento li avrebbe galvanizzati”.
Anche lo sceneggiatore Terry Rossio, che ha firmato alcuni dei maggiori successi hollywoodiani degli ultimi anni, tra cui Men in Black, Shrek e la serie Pirati dei Caraibi, nel libro di Armando Fumagalli Creatività al potere (Ed. Lindau) conferma la totale devozione professionale di Katzenberg ai progetti a cui prende parte:
“Jeffrey è il dirigente perfetto. È sempre al posto giusto al momento giusto — che sia un evento di beneficenza, la prima di un film o una riunione sulla storia di un film d’animazione. Troverei più facile credere che lui sia un’incarnazione di una serie di tre se stessi che non credere che, giorno dopo giorno, riesce a fare tutte le cose che fa. […] Parte di ciò che fa di Jeffrey un leader così grande — e che fa sì che le persone dedichino anni della loro vita a collaborare per i suoi obiettivi — è la sua determinazione a lavorare. Quando la persona che lavora più di tutti ti chiede di fare qualcosa, è duro rispondere di no. […] L’unica piccola tecnica che posso offrire avendola appresa frequentando un po’ Katzenberg: un modo con cui riesce a fare così tante cose è che ha eliminato il ramp time (il tempo degli intermezzi, del “riscaldamento”, del “prepararsi a una cosa”) dalla sua vita. Entra in una riunione al telefono, finisce la chiamata ed è pronto. Non ha bisogno di “riscaldarsi”, o di prepararsi mentalmente alla riunione. E quando è finita, si alza dalla sedia e va al prossimo impegno — non sembra aver bisogno di un momento di relax, di staccare dopo”.
L’uscita da Disney
La carriera in Disney di Katzenberg comincia nel migliore dei modi e sembra proseguire a gonfie vele: entra a far parte dell’azienda nel 1984 e il conseguente successo di critica e pubblico dei film di cui è supervisore porta il suo nome sulla bocca dei massimi dirigenti della società. Ma non tutte le ciambelle escono con il buco.
Infatti, quando il numero due della Disney, Frank Wells, muore in un incidente alimentando vanamente le aspirazioni di Katzenberg a ricoprire il posto di vice, l’idilliaco sodalizio mostra la corda e da quel momento inizia una “guerra” con Eisner che lo porta a lasciare la Disney con una buonuscita garantita dal tribunale per 280 milioni di dollari.
Scosso dall’accaduto e profondamente deluso dal trattamento ricevuto, Katzenberg non si limita solamente a una rivincita sul piano economico ma decide di rivalersi sul piano artistico e professionale entrando in affari con Steven Spielberg e David Geffen, perseguendo l’idea di creare la casa di produzione che di lì a poco avrebbe messo a dura prova il monopolio del mercato del cinema d’intrattenimento consolidato dalla casa di Topolino. È così che, nel 1994, i tre danno vita alla DreamWorks.
Steven Spielberg
Sul conto di Katzenberg c’è poco altro da aggiungere. Al genio cinematografico di Steven Spielberg non servono premesse, anche se riteniamo valga la pena di ricordare gli sforzi produttivi nel campo dell’animazione a partire da progetti ambiziosi come Fievel sbarca in America (An American Tail, 1986), Alla ricerca della Valle Incantata (The Land Before Time, 1988) o Fievel conquista il West (An American Tail: Fievel Goes West, 1991), imperfetti ma precursori di un certo tipo di cinema perché già in linea con i temi forti che DreamWorks svilupperà: lo straniero, il viaggio verso una terra promessa, i bisogni dell’individuo in relazione a quelli di una comunità, l’avventura come genere prediletto e al contempo metafora della vita.
David Geffen
È invece interessante indagare più da vicino la carriera di Geffen. Di poco più anziano degli altri soci, prima di fondare la DreamWorks si afferma come produttore musicale di grido (fonda la casa discografica Geffen Records dedicandosi anche alla produzione di show teatrali come Dreamgirls e Cats).
Spielberg lo descrive come una sorta di “padre” per lui e Katzenberg e non casualmente sembra che sia stato proprio Geffen a svolgere, come indica sempre Fumagalli:
“Il ruolo di responsabile finanziario, a occuparsi degli accordi di finanziamento e di distribuzione con le varie compagnie con cui la DreamWorks era entrata in partnership, oltre che — probabilmente — a mettere la maggior parte del capitale iniziale”.
Nel mercato dell’intrattenimento a 360°
Il connubio artistico e la storia professionale dei tre suonano come garanzia di qualità e come annuncio di quanto la nuova casa di produzione fosse motivata da un innato spirito multiforme ed eterogeneo, finalizzato a raggiungere un ruolo di spicco nel mercato dell’intrattenimento a 360 gradi. Per molti, fin dagli inizi, si tratta infatti di una compagnia eclettica per la produzione di film, show televisivi, dischi e videogiochi a prezzi molto minori rispetto alla maggior parte dei concorrenti.
In effetti, per quanto riguarda lo specifico dei prodotti animati, l’esperienza poco felice di Katzenberg in Disney inciderà moltissimo sulla forma e i contenuti dei film DreamWorks, ma soprattutto risulterà fondamentale al raggiungimento dello scopo per cui l’azienda viene avviata: diventare una major all’interno del mercato cinematografico mondiale, sdoganare il monopolio della Disney e affermarsi come una reale alternativa qualitativamente all’altezza dei lavori del “Rinascimento” di cui sopra.
Il ruolo della tecnologia
La competizione tra le due società è talmente spiccata nei DNA di entrambe che il confronto non si combatterà soltanto da un punto di vista narrativo o tematico ma troverà sfogo anche, anzi principalmente, nel campo della tecnologia, vero nervo costitutivo dell’animazione degli ultimi venticinque anni: Disney appoggiandosi a Pixar, DreamWorks acquistando la PDI (Pacific Data Images).
Non si tratta semplicemente di concorrenza professionale ma di una contrapposizione tra mondi. Come suggeriscono Anna Antonini e Chiara Tognolotti in Mondi possibili. Un viaggio nel cinema d’animazione (Ed. Il principe costante):
“In questa rivalità si potrebbe vedere la versione animata dello scontro tra due modi opposti e inconciliabili di pensare e utilizzare il computer, perché se dietro alla Pixar c’è Apple, dietro alla PDI c’è Microsoft, dal momento che alla fondazione di DreamWorks SKG ha contribuito in modo consistente Paul Allen, cofondatore del colosso informatico presieduto da Bill Gates”.
Nei primi anni della sua storia DreamWorks si muove in punta di piedi: osserva, studia, pianifica, progetta. Non senza passi falsi la casa di Glendale si guadagna il suo spazio, il suo pubblico e, soprattutto, il rispetto in un settore in forte espansione, grazie a un’offerta originale e riconoscibile.
Nel solco di Disney
I progetti DreamWorks fanno leva sul talento e sulla lungimiranza di Katzenberg, forte dei risultati ottenuti nell’esperienza professionale precedentemente coltivata: nessuno meglio di lui conosceva il diretto concorrente e sapeva come fronteggiarlo. E non casualmente i primi due lavori prodotti dalla neonata società ricalcano o sfiorano i tratti delle operazioni Disney: da una parte un film realizzato con tecnica tradizionale come Il principe d’Egitto (The Prince of Egypt, 1998) di Brenda Chapman, Steve Hickner e Simon Wells, che prende spunto dai racconti biblici ma rielabora una parabola morale già vista; dall’altra Z la formica (Antz, 1998) di Eric Darnell e Tim Johnson, un progetto realizzato in CGI dalle grandi mire e meno convenzionale ma accusato di plagio poiché basato sulle avventure di una piccola formica come il coetaneo A Bug’s Life. Megaminimondo (A Bug’s Life, John Lasseter, 1998), titolo di punta di Pixar.
Pur senza brillare di originalità, giocando piuttosto sulla classicità, i rimandi e le confluenze, a DreamWorks bastò poco per intuire quanto il mercato dell’animazione stesse per salpare verso nuovi orizzonti che repentinamente avrebbero portato i film animati ad avvicinarsi costantemente ai progetti live action e a far perdere al pubblico il confine in grado di tenere distinte le due sfere.
La commistione tra cinema del vero e cinema d’animazione
Infatti, se il cinema di animazione è stato sempre considerato come un particolare genere di spettacolo cinematografico da trattare separatamente, è altrettanto vero che la tendenza commerciale e artistica del mercato di questo settore ha preso pieghe decisamente diverse con l’introduzione del digitale.
Secondo Giaime Alonge e Alessando Amaducci (Passo uno. L’immagine animata dal cinema al digitale, Ed. Lindau):
“Quando, nel corso degli Anni ’90, altre case iniziano a realizzare film d’animazione, in larga misura grazie alla novità rappresentata dal digitale, la lunga egemonia Disney ha ormai imposto un paradigma incentrato sull’imitazione dei canoni del live action […]. Insomma, la recente rinascita dell’animazione americana, almeno a prima vista, sembra stia avvenendo in buona parte su un terreno molto diverso da quello su cui il cartoon era vissuto per cinquant’anni”.
Tutto questo ha guidato l’industria verso una sorta di fusione tra cinema dal vivo e cinema di animazione, in cui la distinzione tra i due è inevitabilmente scomparsa. Spie evidenti di questa tendenza si possono riscontrare sia da un punto di vista estetico, perché, come evidenzia T. Ceruso:
“Sempre più frequentemente sequenze intere di film dal vero contengono frammenti realizzati al computer che appaiono difficilmente identificabili”. “L’esperienza poco felice di Katzenberg in Disney inciderà moltissimo sulla forma e i contenuti dei film DreamWorks, ma soprattutto risulterà fondamentale al raggiungimento dello scopo per cui l’azienda viene avviata: diventare una major all’interno del mercato cinematografico mondiale, sdoganare il monopolio della Disney”
L’imitazione dei progetti live action
Questo mutamento riguarda però anche le dinamiche distributive e mediatiche. In tal senso l’esempio di Shrek (Id., 2001) risulta fondamentale: primo film di animazione ad aggiudicarsi il premio Oscar nella neonata categoria è stato presentato anche in concorso alla 54ª edizione del Festival di Cannes (caso più unico che raro ancora oggi).
La commistione tra le due sfere è riscontrabile nell’ossessione che il cinema di animazione nutre nei confronti del cinema dal vero o viceversa.
I nuovi film tendono a imitare completamente i progetti live action non solo prendendo a prestito i nomi dei grandi attori per prestare le loro voci ai personaggi, ma arrivando a riprodurne anche gli errori come i finti backstage sui titoli di coda di A Bug’s Life o Monsters & Co. (Monsters, Inc., 2001) oppure “la simulazione di un riflesso luminoso sulla lente dell’obiettivo in un paio di inquadrature di Shrek”. Inoltre, i confini vengono sempre più assottigliati anche dalla volontà di alcuni celebri registi di mischiare le carte e sposare la causa dell’animazione mettendosi in gioco in questo settore.
Una slavina di film
Basti pensare, ad esempio, all’esperienza di Tim Burton, padre di Nightmare Before Christmas (The Nightmare Before Christmas, 1993) o di La sposa cadavere (Corpse Bride, 2005), realizzati in collaborazione con Henry Selick il primo e con Mike Johnson il secondo, ma anche autore di Alice in Wonderland (Id., 2010) e Frankenweenie (Id., 2012); a Wes Anderson, capace di trasferire l’anima del suo cinema fatto di “carne e ossa” in un universo di plastilina non meno credibile e non meno “umano”, come accaduto con Fantastic Mr. Fox (Id., 2009) e L’isola dei cani (Isle of Dogs, 2018); all’esperimento diretto da Steven Spielberg in collaborazione con Peter Jackson, Le avventure di Tintin. Il segreto dell’unicorno (The Adventures of Tintin, 2011); a quello di Richard Linklater con Waking Life (Id., 2001) e A Scanner Darkly (Id., 2006), entrambi realizzati in rotoscope; ma pure al grande lavoro di Robert Zemeckis sulla motion capture in Polar Express (The Polar Express, 2004) o in A Christmas Carol (Id., 2009); alla supervisione di Guillermo del Toro a progetti quali Il gatto con gli stivali (Puss in Boots, Chris Miller, 2011) o le serie televisive Trollhunters (2016–2018) e 3 in mezzo a noi. I racconti di Arcadia (2018–2019); senza dimenticare i risultati straordinari ottenuti in tempi non sospetti da Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit, Robert Zemeckis, 1988).
Pixar e DreamWorks guidano il cambiamento
Approfittando di questo magma creativo, insieme a Pixar, DreamWorks è stata una delle forze trainanti del settore, come sottolineano Antonini e Tognolotti:
“Pur con stili e finalità artistiche e comunicative diversi, si tratta di due realtà che consolidano e confermano una trasformazione irreversibile nel cinema animato d’intrattenimento: quella che sembrava una remota possibilità espressiva, un’eccentricità destinata alla sperimentazione tecnologica e forse anche creativa, è ormai una consuetudine capace di giocare, nel bene e nel male, un ruolo simile a quello della Disney degli anni d’oro”.
Nonostante il cinema d’animazione le abbia regalato soddisfazioni e successi, proprio come Disney pure DreamWorks lavora su più fronti assumendosi il ruolo di major studio, anche se il mancato successo commerciale di alcuni film pur ben fatti e interessanti come gli spielberghiani The Terminal (Id., 2004) e Munich (Id. 2005), Island (Id., 2005) di Michael Bay e Memorie di una geisha (Memoirs of a Geisha, 2005) di Rob Marshall, ha reso impossibile sopravvivere in modo totalmente indipendente.
Katzenberg, dunque, cercando di inserirsi in maniera decisiva all’interno del mercato dell’intrattenimento animato e volendo sfruttare le spinte industriali per un approdo al digitale, persegue due strade opposte e parallele: da un lato cerca di imitare la Disney provando ad anticipare il pubblico con soggetti originali, dall’altro riesce a discostarsi da tale immaginario per cercare di definire la propria identità autoriale e proporre qualcosa di innovativo e strabiliante.
Adotta così un prodotto decisamente più adulto dal punto di vista estetico, confidando sulla collaborazione esclusiva di attori dal grande richiamo in veste di doppiatori. L’idea è semplice ma efficace e si basa sullo sfruttamento del loro nome e dei loro caratteri fisionomici più evidenti, sui quali vengono modellati i disegni dei personaggi che doppiano:
“Su questa [la voce, nda] non solo verrà costruito il movimento labiale, ma anche l’intera gamma del movimento delle espressioni corporee, e dunque la scelta di appoggiarsi a doppiatori noti ha progressivamente portato a costruire i personaggi su un modello in carne e ossa che deve essere riconoscibile anche quando assume l’aspetto di un orco o di un animale”. (Antonini, Tognolotti, op. cit.)
L’indole sperimentale di DreamWorks
Per rendersi distinguibile e desiderabile, e per scuotere emotivamente un pubblico genericamente più maturo ed esigente, DreamWorks distribuisce all’interno dei suoi film una vasta gamma di hit musicali destinate a segnare intere generazioni, che diventano il suo interlocutore prediletto: un soggetto amante della cultura pop, con una certa dose di esperienza targata Anni ’80 e Anni ’90, desideroso di ricevere provocazioni stuzzicanti, come il continuo richiamo alla classicità citazionista e parodistica.
A cominciare dall’estetica, inoltre, l’evidente distanza dai lavori Disney è accentuata dall’uso della tecnologia, teso ad assecondare film destinati al grande pubblico e a svelare gli effetti stessi della tecnica come accade nel tradigital, giustapponendo elementi digitali e tridimensionali.
In tal modo, evolvendosi progressivamente grazie all’incessante ricerca tecnologica della PDI, il processo di animazione ha raggiunto in breve tempo risultati sorprendenti che, se da un lato hanno rivelato le ambizioni più commerciali dello studio, dall’altro ne hanno mostrato l’indole più sperimentale, portando allo sviluppo di programmi informatici rivoluzionari come Shapers, un software ampiamente utilizzato durante la lavorazione di Shrek in grado di consentire movimenti sofisticati al volto e al corpo, dotando il personaggio di una struttura muscolare digitale.
Il lavoro sui contenuti
In merito a temi e strutture, la produzione DreamWorks lavora in controtendenza rispetto a Disney, abituata a dominare il mercato tramite l’imposizione di un immaginario fondato sulla narrazione fiabesca. Katzenberg & co. virano radicalmente dirigendosi verso nuove rotte e costituendo un paradigma talmente efficiente da ribaltare completamente i canoni classici e definire così una nuova forma di cinema.
Come già in parte evidenziato, a cominciare dall’individuazione di un pubblico cresciuto con le coordinate delle fiabe classiche e in grado di rifletterci con un certo distacco, ma anche simpatizzante tanto della commistione tra cinema di animazione e cinema dal vero quanto della continua tensione artistica che ha portato molti grandi cineasti a confrontarsi con questa particolare forma filmica, DreamWorks punta a colmare il vuoto generato da un mercato in cui l’offerta è sempre più omologata e priva di nerbo.
Stanco di principi, re, trasformazioni magiche e bisognoso di spezzare il suo rapporto con la fiaba, il pubblico cerca uno spettacolo drammaturgicamente più articolato, capace di spiazzare mediante continue sorprese e innovazioni, meno manicheo sul fronte morale.
L’idea è sovrana
Per far funzionare questo enorme ingranaggio tutte le energie si concentrano sulla storia raccontata: già durante gli anni della sua carriera in Disney, Katzenberg era convinto che l’essenza di un film non fossero le star né gli effetti speciali ma “una bella storia ben raccontata”. Il suo mantra era the idea is king (l’idea è sovrana).
Al contempo però, lo stesso ricordava che a essere cruciale era “il lavoro di sviluppo che trasforma l’idea in una storia appassionante”. Il culmine di questa fase viene raggiunto nel 2001 con l’uscita di Shrek, “il lungometraggio che più di tutti testimonia quanto la tensione al superamento della fiaba, […] sia nella sua fase più dinamica”.
Il film con l’orco verde dal cuore d’oro si rivelerà un incredibile successo di critica e pubblico, tanto da spingere DreamWorks a proseguire verso questa direzione, collocandosi come punto di riferimento nell’universo dell’antifiaba.
Il cinema d’animazione fuori dal canone della fiaba
Tale decisione viene peraltro esplicitata anche da film successivi quali Shrek 2 (2004), Shark Tale (2004), Madagascar (2005), Kung Fu Panda (2008) fino al Il gatto con gli stivali (2011). In continua evoluzione, forte di un dinamismo creativo che abilmente si differenzia dal resto dell’offerta, il progetto DreamWorks, giovane e fondamentalmente hipster, instaura con il pubblico una relazione speciale fondata sull’accettazione di prodotti variegati e non omologati.
Una di queste proposte alternative scardina la convinzione che i film di animazione possano guadagnare solamente durante le festività di fine anno ribadendo come la creazione di Katzenberg, per usare le parole di Bendazzi:
“fu non solo una breccia nel monopolio di Disney, ma confermò che c’erano tanti spettatori per i lungometraggi d’animazione, anche lontano dal periodo natalizio”.
Tratto da “Sentieri Selvaggi”, n. 7, settembre-novembre 2020, pagg. 83–89
Matteo Mazza, classe 1981, laureato in Scienze dei beni culturali e in Scienze religiose, è docente di liceo. Collabora con la Cooperativa Fuorischermo presso il Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni e con ACEC alla realizzazione di progetti di cultura cinematografica e di educazione al linguaggio audiovisivo.
Simone Soranna, classe 1991, laureato in Lettere moderne. È caporedattore del portale LongTake.it, scrive per la rivista Cineforum, lavora come corrispondente dai maggiori festival internazionali (Cannes, Venezia, Berlino) per Fred Film Radio e ha collaborato come anchorman per SkyCinema. Oggi gestisce la sala di prima visione della Cineteca di Milano.