Dora Maar, #MeToo
Artista, musa e soprattutto donna
Sindrome Picasso
In queste settimane Sky sta trasmettendo la seconda stagione di Genius, la serie televisiva prodotta da National Geographic che ripercorre la vita e le esperienze artistiche dei geni che hanno segnato la cultura, l’arte e la scienza del Novecento.
La prima stagione era dedicata alla vita di Albert Einstein con uno straordinario Geoffrey Rush nella parte del grande scienziato apolide. Nella seconda scorre sullo schermo la storia di Pablo Picasso, ritratto come artista e uomo. Il grande pittore andaluso è interpretato da un ispirato Antonio Banderas che non ha avuto remore a definire questa sua interpretazione il ruolo della sua vita, un ruolo che avrebbe voluto impersonare fino da bambino, come ha dichiarato al New York Times.
Un personaggio che nella fiction prodotta da Ron Howard scandisce una delle fasi più creative di Pablo, dal concepimento di Guernica alla joi de vivre, è Dora Maar (Henriette Theodora Markovitch, Parigi, 1907–1997), fotografa e pittrice, amante di Picasso interpretata da Samantha Colley (già nella prima stagione, dove era la moglie di Einstein).
La relazione con Picasso durò nove anni, quando nel 1943 l’artista spagnolo la lasciò per la più giovane Françoise Gilot da cui Picasso ebbe due figli Paloma e Claude. Dopo l’abbandono di Picasso, Dora cadde in una grande depressione che la condusse in un ospedale psichiatrico e successivamente fu presa in carico da Jacques Lacan che aveva in cura anche Pablo. Lacan riuscì a farle accettare la malattia.
Fu l’unica amante a sopravvivere a Picasso senza suicidarsi. Il suicidio delle persone vicine affettivamente a Picasso è uno dei motivi sui quali torna spesso la ricostruzione della vita dell’artista operata dagli sceneggiatori di Genius. Dora si spense in solitudine del 1997 a 90 anni. A chi gli domandava di lei, Pablo soleva rispondere: «Era pazza molto prima di diventare pazza!». E Dora non mancava di restituire il garbo a Picasso. Parlando del loro legame aveva detto: «Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone». E ancora: «Solo io so quello che lui è… è uno strumento di morte.. non è un uomo, è una malattia».
La bulimia erotica di Picasso
Che Picasso avesse un robusto appetito sessuale, anche a 70 anni, non è un mistero per nessuno, ma nel suo specifico caso c’è il sospetto che si sia sconfinati nel territorio della misoginia.
Marina Picasso, figlia di Paulo — nato dal matrimonio di Pablo con Olga Khokhlova — , ha deciso di liberarsi delle pesante eredità morale e personale del nonno ponendo il vendita le opere dell’artista (sono 10mila in suo possesso) e della villa di Cannes La Californie. Nel libro Mio nonno Picasso ha scritto:
Picasso ha sottomesso [le donne] alla sua sessualità animale, le ha domate, le ha ipnotizzate, le ha ingoiate e le ha spalmate sulla sua tela. Dopo aver passato molte notti a estrarre la loro essenza, una volta dissanguate se ne è sbarazzato.
Il patrimonio che Picasso ha lasciato agli eredi è immenso. Secondo un inventario steso dal figlio Claude si parla di 45.000 opere. Ci sono, tra l’altro, 1885 dipinti, 228 sculture, 7089 disegni, 30.000 stampe, 150 taccuini e 3222 ceramiche.
Pablo e le donne, le sue opere avranno un asterisco?
In alcune frange più radicali dell’opinione pubblica si va sempre più affermando un attivismo revisionistico che tende a rivisitare la storia e la storia delle espressioni artistiche alla luce dei comportamenti sociali e privati dei rispettivi protagonisti nei confronti di temi quali la parità di genere, il trattamento delle minoranze, il razzismo, lo specismo e altri di natura sensibile. Si tratta di una tendenza che potrebbe diventare mainstream, prima di quanto si possa credere.
Anche Picasso è finito sul banco degli imputati, in una buona compagnia verrebbe da dire, per il suo atteggiamento piuttosto disinvolto nei confronti delle donne.
Il New York Times riferisce che la National Gallery of Art di Washington, ha rinviato sine die una esposizione del pittore e fotografo iperrealista Chuck Close, a suo tempo chiamato da Obama a presiedere il Comitato Presidenziale per le Arti. La ragione è che nel 2017 Chuck Close è stato accusato da cinque ex-allieve di commenti inappropriati dopo averle invitate a posare nude nel suo studio. Close, pur dichiarandosi estraneo a quel tipo di accuse, si è scusato sul New York Times per aver procurato imbarazzo e disagio alle modelle. Ciò però non è stato sufficiente a far revocare la decisione del Museo.
Alcuni musei che espongono in modo permanente le opere di Close, come il Metropolitan, la Tate Modern, il Centre Pompidou e anche facoltosi collezionisti privati, stanno riconsiderando la ricollocazione delle opere alla luce di questi fatti. Molti curatori e direttori di musei nutrono però notevoli perplessità sulla necessità di assumere decisioni artistiche sulla base dei comportamenti personali degli artisti.
Jock Reynolds, direttore della Yale University Art Gallery, ha dichiarato al quotidiano di New York:
Quanto avanti ci dobbiamo spingere nell’applicare la cartina di tornasole del loro comportamento agli artisti? Pablo Picasso è stato uno dei peggiori trasgressori del XX secolo in termini di rapporti con le donne. Vogliamo rimuovere le sue opere dai musei?
Per ora Picasso è salvo perché la direzione dei grandi musei resta convinta che la qualità dell’opera d’arte deve essere tenuta separata dal comportamento dell’artista. Ma in epoca di #MeToo pervasivo viene da chiedersi per quanto tempo possa essere tenibile questa posizione. Nel frattempo potrebbe succedere che alle opere di Picasso sia applicato un asterisco in cui, con una nota sulla targhetta, si informa l’astante che nella vita dell’artista si sono verificati dei comportamenti inappropriati negli affari di genere. “Les Demoiselles d’Avignon”, consevate al Met, ne hanno già avuto uno fisico (vedi figura sopra).
Ma tornaimo a Dora Maar. Su questa donna di eccezionale talento e fragilità abbiamo chiesto un contributo Valentina Sonzogno, storica dell’architettura e dell’arte e archivista presso Il Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea. Buona lettura e grazie Valentina.
Il faut etre léger comme l’oiseau et non comme la plume
Paul Valéry
Donne e cittadine del mondo
Come Leonora Carrington, Nusch Eluard, Jacqueline Lamba e non poche altre artiste della sua generazione, Dora Maar ha racchiuso in sé e nella sua opera l’esser donna, musa e artista. Donne lo erano, consapevoli e fiere di esserlo. La loro bellezza misteriosa, selvaggia e moderna — come solo in quegli anni si poteva essere — ritorna fino a noi dalle foto in bianco e nero che le ritraggono con vestiti di sartoria a Parigi e lunghi caffettani in Marocco o camicie di pizzo in Francia e dettagli etnici in Messico. Sempre in viaggio sulla scia delle loro passioni, queste donne erano cittadine del mondo per seguire la loro ispirazione artistica e, spesso, i loro compagni e mariti.
I loro compagni, appunto: Max Ernst, Paul Èluard, André Breton e Pablo Picasso, giganti assoluti della tela e della penna, pensatori irrequieti della generazione che, attraverso il sogno, aveva trovato l’unico modo di accesso possibile alla realtà tra le due guerre, in cui il domani non era affatto una certezza.
Muse, quindi, felici e allenate ad esserlo grazie al loro spirito di rivolta contro le convenzioni (che le fece essere molto spesso amanti, poi mogli, poi amanti contemporaneamente ad altre mogli, e via dicendo), con i loro corpi spremuti dalla vita e dall’arte, muse schiacciate spesso da quegli uomini moderni nella penna e antichi nella testa.
Artiste
Artiste, infine, straordinarie. La generazione di donne e il gruppo di artiste alle quali la Maar fu vicina è senza dubbio uno dei bacini fertili dell’immaginario del Novecento, tra fotografia, arte e performance della quale personaggi come la Baronessa Elsa e Leonor Fini, ad esempio, furono precorritrici e maestre.
Artiste che hanno saputo interpretare ciascuna a suo modo il Surrealismo e la femminilità, persino le meno conosciute come la cecoslovacca Toyen o la straordinaria Ithell Colquhoun (1906–1988), pittrice inglese, considerata la più interessante e prolifica artista esoterica del XX secolo.
Nel 2014 a Palazzo Fortuny a Venezia è stata allestita una mostra, Dora Maar. Nonostante Picasso (Catalogo Skira) che ha accolto l’opera di Dora Maar, che è stata è ordinata in ricche sezioni a partire dai numerosi ritratti per i quali Maar posò come soggetto; per continuare con le fotografie di strada attraverso le quali ella documentò, soprattutto negli anni ’30 le condizioni dei lavoratori e dei poveri di Parigi e nelle strade spagnole; per finire con le immagini del suo periodo a contatto con l’avanguardia surrealista e la sua vita con Picasso, l’innominabile, mai dimenticato.
Il percorso ha raccontato anche questa storia d’amore con lo scopo di portare alla luce il talento di Maar, senza indulgere né nel feticismo che si riserva ai grandi artisti, né nel voyeurismo che gli stessi provocano in noi, anche a distanza di anni, con le loro vite eccitanti e disordinate.
Dopo Picasso c’è solo Dio
A 29 anni, Dora Maar, figlia di un architetto croato e di madre francese, aveva già vissuto in Argentina, dove suo padre seguiva degli importanti cantieri e aveva già partecipato, accanto al Groupe Octobre e a Georges Bataille, a innescare la miccia che avrebbe dato fuoco all’avanguardia europea.
Un giorno Picasso la scorge nel parigino Café des deux Magots mentre, giocando con un coltello tra le dita si ferisce e, impassibile, continua a spostare, ipnotizzata, la lama nello spazio minimo tra le dita, indifferente al sangue che macchia i guanti.
Leggenda narra che Picasso chiese a Dora quei guanti per custodirli gelosamente tra i suoi ricordi. Leggenda, perché la relazione evolverà in maniera diversa da quel mitizzato incontro, e li condurrà entrambi ad accelerare il loro rapporto fino all’inevitabile baratro: Picasso in un altro letto, Dora a dichiarare “Dopo Picasso c’è solo Dio”.
Dora fotografa
Il reportage di foto (nella collezione del Museo Nacional Centro De Arte Reina Sofia) scattate dalla Maar a Picasso mentre dipinge Guernica nei mesi di maggio-giugno 1937, sono una testimonianza eccezionale di un’opera che è ormai considerata simbolo e patrimonio di tutti i popoli e di tutte le guerre.
Picasso è in cravatta e stringe la sigaretta e gli arnesi da lavoro in mano, mentre concentrato ma con una certa nonchalance ritocca il quadro, forse prima di uscire per cenare a Le Sélect o al Dôme.
Poi il quadro è fotografato nuovamente, questa volta senza l’artista e senza il colore e rivela, improvvisamente, anche a chi l’ha guardato un milione di volte, una segreta plasticità, una vocazione profondamente scultorea, l’anelito tridimensionale delle figure che sembrano urlare ancora più forte allo spettatore che le guarda attonito.
Eppure in mano a Dora Maar la macchina fotografica non è solo un occhio attento e perspicace, ma un mezzo da piegare con l’immaginazione, per viaggiare da un luogo all’altro e tra un corpo e l’altro.
Nascono così foto straordinarie come Pére Ubu del 1936 in cui la foto di un cucciolo di armadillo, verticalizzata e collocata di fronte allo spettatore come se anche l’animale fosse in piedi, diviene magicamente una creatura onirica e mostruosa, memore delle immagini spiazzanti di Bataille, del quale la Maar era stata la compagna, respirando a pieni polmoni il clima, surreal-entnografico della rivista Documents.
Oppure nel collage fotografico in mostra, Aveugles à Versailles, in cui riunisce, sullo sfondo della reggia francese, un gruppo di non vedenti che solo in quella foto assurda può incontrarsi, poiché che si trattava di singole persone fotografate in luoghi diversi e distanti tra loro. Sembrano guardare, con i loro occhi bianchi, la meraviglia delle volte dipinte e sorridere, come in una foto scattata in posa.
La separazione da Picasso e la malattia
Il manifesto e il latente sono due degli aspetti delle opere della Maar, che rispecchiano altrettanti lati della sua personalità e alcuni sviluppi della sua tortuosa esistenza. Nel 1943, dopo sette anni di passione, si separa da Picasso che aveva appena conosciuto Françoise Gilot. Due anni dopo manifesta una preoccupante depressione e viene ricoverata in una clinica in Francia.
L’amico Èluard e Picasso riescono a farla curare personalmente da Jacques Lacan che, assecondando una sua tendenza mistica, riesce a strapparla alla follia, non riuscendo però a riportarla in quel mondo che era forse troppo legato alla sua vita con Picasso.
Nei tanti anni prima della sua morte, sopravvenuta nel 1997 all’età di novant’anni, ella visse infatti una vita ai limiti della reclusione, scambiando contatti quasi esclusivamente con religiosi e con qualche vecchio amico del mondo dell’arte. Una persona in particolare, però, ebbe il privilegio di dialogare con lei: Victoria Combalìa curatrice di molte tra le sue retrospettive e anche di quella di Venezia.
Tra le due si sviluppò un curioso rapporto telefonico poiché la Maar non voleva più incontrare nessuno, condito di lunghi dialoghi e confidenze che sono servite come base per la biografia scritta dalla stessa Combalìa, Más allá de Picasso (Circe Ediciones, Barcellona 2013).
Gradiva
Dora Maar fu l’incarnazione, a suo modo e suo malgrado, della Gradiva, di “colei che risplende nel camminare”, la misteriosa donna-musa narrata dallo scrittore tedesco Wilhelm Jensen nella novella Gradiva.
Una fantasia pompeiana, (in seguito analizzata in un lungo saggio da Sigmund Freud), figura amata dai Surrealisti e ritratta da André Masson in un quadro pieno di simboli e rimandi.
Un’eroina tragica e splendente che continua a incantare con le sue opere straordinarie narrando sogni, ossessioni, passioni di un momento fondamentale nel percorso artistico del Novecento.
Valentina Sonzogni, storica dell’architettura e dell’arte, ha ottenuto il PhD presso l’Universität für Angewandte Kunst (Vienna) in Storia e teoria dell’architettura. Ha lavorato presso numerose istituzioni, tra le quali Kiesler Foundation (Vienna) e The Guggenheim Foundation (New York), ha scritto su riviste e cataloghi di architettura e ha tenuto conferenze presso università italiane ed estere. Dal 2008 collabora con il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli-Torino).