L’ultimo hurrah di Biden: la riforma della Corte Suprema

I tentativi di riformare l’istituzione dalla sua fondazione

Mario Mancini
7 min readAug 4, 2024

di Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova

Vai agli altri articoli della serie “Tendenze attuali”

Il presidente Joe Biden ha dichiarato che non resterà con le mani in mano negli ultimi sei mesi della sua amministrazione e che uno dei suoi principali obiettivi sarà la riforma della Corte Suprema attraverso l’introduzione di un limite temporale di quindici o perfino dieci anni al mandato dei membri.

La motivazione di questo cambiamento risiederebbe nella necessità di contrastare la deriva conservatrice del massimo tribunale federale grazie alle nomine effettuate da Donald Trump tra il 2017 e il 2020.

L’esempio più recente dell’involuzione della giurisprudenza che Biden intende combattere sarebbe la concessione al presidente dell’immunità per quanto compiuto nell’esercizio delle proprie funzioni, vista come la premessa di un non luogo a procedere contro Trump per l’accusa di aver fomentato l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Il mandato a vita: salvaguardia dell’indipendenza della magistratura o privilegio dei giudici?

La Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che, dopo la nomina da parte del presidente e la conferma del Senato, i membri della Corte Suprema, al pari tutti i giudici dei tribunali federali di grado inferiore, restino in carica a vita.

Sembrerebbe il retaggio di una tradizione monarchica che, invece, il Paese non ha mai conosciuto dopo la conquista dell’indipendenza dall’Inghilterra nel 1783. In realtà, la norma intende salvaguardare l’autonomia dei giudici, liberandoli da qualsiasi forma di condizionamento che potrebbe derivare dalla necessità materiale di conservare il seggio e lo stipendio a esso legato.

Quando la Costituzione fu redatta nel 1787 la garanzia muoveva dal presupposto che i giudici avrebbero svolto la loro funzione come figure super partes e non sarebbero stati espressione di orientamenti partitici ben definiti. La Costituzione non prevedeva neppure l’esistenza dei partiti stessi.

Tuttavia, con la nascita dei partiti già alla fine del Settecento, anche le cariche giudiziarie finirono per andare incontro a un processo di politicizzazione. Questo esito ha causato frequenti tensioni tra la Casa Bianca e la Corte Suprema quando la maggioranza dei suoi membri risultava nominata da presidenti di un partito diverso da quello del chief executive in carica.

I precedenti di John Adams, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln

I problemi iniziarono quasi subito. Dopo aver perduto le elezioni del 1800, il presidente federalista John Adams, negli ultimi giorni del suo mandato, indusse il Congresso a varare una legge che ridusse il numero dei giudici della Corte Suprema da sei, quanti erano al tempo, a cinque.

In tal modo, quando uno dei membri allora in carica fosse morto o si fosse dimesso, il suo successore alla presidenza, il repubblicano-democratico Thomas Jefferson che lo aveva appena sconfitto, non avrebbe avuto la possibilità di sostituirlo con uno del proprio orientamento politico perché non si sarebbe verificata una vacanza nel massimo tribunale federale a causa del fatto che gli scranni erano nel frattempo scesi a cinque. Tuttavia, appena entrato in carica nel 1801, Jefferson fece abrogare la legge voluta da Adams.

Tre anni più tardi fu Jefferson a cercare di modificare la composizione della Corte Suprema a proprio vantaggio. Nel 1804 accusò il giudice Samuel Chase di avere concorso a emettere sentenze faziose perché favorevoli al partito federalista. Per tentare di sbarazzarsi di Chase, Jefferson spinse la Camera a metterlo in stato di accusa.

Però, la procedura di impeachment, che avrebbe portato alla rimozione di Chase, non ebbe la conclusione auspicata da Jefferson, dal momento che il presidente non fu capace di aggregare al Senato la maggioranza qualificata dei due terzi dei voti necessaria per destituire il giudice.

Nel 1863 il repubblicano Abraham Lincoln chiese al Congresso e ottenne di aumentare da nove, quanti erano diventati per fare fronte a un incremento della mole di lavoro per l’espansione continentale degli Stati Uniti, a dieci il numero dei componenti della Corte Suprema.

Avrebbe così avuto l’opportunità di nominare un altro membro, consolidando le posizioni abolizioniste ed evitando che i giudici scelti dai suoi predecessori democratici potessero invalidare il proclama di emancipazione degli schiavi una volta conclusa la guerra civile.

Il provvedimento fu revocato dal Congresso nel 1866 e il numero dei giudici fu addirittura fatto scendere a sette. In seguito all’assassinio di Lincoln nel 1865 era subentrato alla Casa Bianca l’ex democratico del Tennessee Andrew Johnson, voluto da Lincoln come proprio vice nelle elezioni del 1864 per dimostrare, attraverso la scelta di un esponente politico del Sud, che non era sua intenzione imporre una pace punitiva agli Stati meridionali secessionisti ormai a un passo dalla sconfitta militare.

Il Congresso, dominato dai repubblicani, non volle dare a Johnson, sospettato di simpatie sudiste e filo-schiaviste, la possibilità di nominare giudici con questo orientamento, interferendo con l’integrazione degli afroamericani.

Quando nel 1869 divenne presidente il repubblicano Ulysses S. Grant, già capo di stato maggiore dell’esercito nordista nell’ultimo periodo della guerra civile, il rischio paventato con Johnson fu scongiurato e i giudici tornarono a essere nove con una legge del Congresso che è ancora in vigore oggi.

Lo stratagemma di Franklin D. Roosevelt

A cambiare la misura del 1869 provò il democratico Franklin D. Roosevelt. Nel 1937 ricorse a un espediente basato nuovamente sulla modifica del numero dei giudici nel tentativo di aver ragione di una Corte Suprema che stava boicottando il New Deal.

Entrato in carica nel 1933 dopo dodici anni di controllo repubblicano sulla Casa Bianca, Roosevelt si trovò di fronte una maggioranza di giudici conservatori, in quanto nominati dai suoi predecessori, che decretarono l’incostituzionalità di alcune leggi varati per la ripresa economica del Paese dalla crisi che si stava trascinando dal 1929.

Durante il suo primo mandato alla Casa Bianca, Roosevelt non ebbe l’occasione di nominare alcun giudice, in maniera da trasformare la giurisprudenza della Corte Suprema. Pertanto, interpretando la sua rielezione a larga maggioranza nel 1936 come la volontà popolare di procedere in tempi rapidi alla piena attuazione del New Deal, il presidente cercò di cambiare in altro modo la composizione della Corte Suprema.

Col pretesto un presunto rallentamento dei lavori a causa dell’età avanzata dei suoi componenti, Roosevelt fece presentare al Congresso un disegno di legge che gli avrebbe consentito di nominare un giudice supplementare per ogni membro che, una volta compiuti i 70 anni, non si fosse dimesso, lasciando il posto a qualcuno più giovane e presumibilmente più dinamico.

La proposta suscitò un vespaio di polemiche. La Corte Suprema era considerata dall’opinione pubblica il garante della democrazia statunitense in un contesto internazionale segnato dall’avvento di regimi totalitari (il fascismo in Italia, lo stalinismo in Unione Sovietica e il nazismo in Germania).

Il piano di Roosevelt fu interpretato come un attentato all’indipendenza della magistratura e come la volontà di asservire il massimo tribunale federale alla politica del presidente, giusta o sbagliata che fosse.

Così — grazie anche al fatto che il presidente della Corte Suprema, Charles Evans Hughes, dimostrò che non si erano verificati ritardi significativi nella gestione delle cause — il disegno di legge non ebbe quel sostegno popolare che Roosevelt si aspettava e fu lasciato decadere.

La lezione del passato e la velleitaria proposta di Biden

Sia pure con alterne fortune nel raggiungere l’obiettivo che si erano prefissati, Adams, Lincoln, il Congresso nella seconda metà degli anni Sessanta dell’Ottocento e Roosevelt identificarono soluzioni per trasformare la Corte Suprema che erano meno velleitarie di quella delineata da Biden.

La Costituzione non stabilisce quanti debbano essere i giudici della Corte Suprema. In passato, il loro numero è stato determinato da leggi ordinarie che sono state approvate a maggioranza semplice della Camera e del Senato.

Invece, per cancellare il mandato a vita è necessario modificare la Costituzione attraverso una procedura che richiede una maggioranza qualificata di due terzi dei voti sia alla Camera sia al Senato nonché la ratifica da parte dei tre quarti dei cinquanta Stati dell’Unione.

Al momento il partito democratico è in minoranza alla Camera e può disporre di non più di 51 voti su 100 al Senato, ipotizzando che i 4 indipendenti si uniscano ai 47 democratici. Dal varo della riforma sanitaria di Barack Obama nel marzo del 2010, i membri del Congresso tendono a votare sui provvedimenti più significativi, come sarebbe un emendamento costituzionale, secondo la propria appartenenza di partito.

Non vi sono, pertanto, i numeri per iniziare l’iter della riforma indicata da Biden meno che mai per attuarla. Inoltre, il precedente dell’inapplicabilità del XXII emendamento, che limita a due i mandati alla Casa Bianca, al presidente in carica al momento della ratifica, Harry S. Truman, farebbe presagire che alla modifica presentata da Biden potrebbero non essere soggetti gli attuali giudici della Corte Suprema, tra cui i tre nominati da Trump contro i quali si sono indirizzati da tempo gli strali dell’attuale titolare dello Studio Ovale.

La proposta di Biden appare, quindi, poco più di una trovata propagandistica per cercare di aumentare i seggi del partito democratico al Congresso, nelle elezioni che si terranno in coincidenza con le presidenziali, attraendo i votanti tramite la prospettiva di raggiungere la maggioranza qualificata alla Camera e al Senato per emendare la Costituzione con il limite al mandato dei giudici della Corte Suprema.

Il rischio, però, è quello di un effetto boomerang, perché gli elettori più moderati potrebbero vedere nella mossa di Biden un tentativo di politicizzare a sua volta la composizione del tribunale di più alto grado del Paese, come aveva già provato a fare, senza successo, Roosevelt nel 1937.

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.