Diario linguistico

di Pier Paolo Pasolini

Mario Mancini
21 min readApr 7, 2022

Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”

Il fondo delle mie pagine sulle «Nuove questioni linguistiche», non era linguistico ma politico.

L’indagine linguistica assicurava una oggettività di diagnosi, che a molti è parsa imparzialità priva di prospettive: mentre era chiaro, mi sembra — soprattutto e conclusioni addirittura un po’ enfatiche — che non era che una prefazione a delle possibili ipotesi sul lavoro di domani (dalla «sommità delle nostre esperienze storico-culturali — dicevo — anche se magari rivissute come delusione», o comunque, aggiungo, rielaborate nella nuova impresa o impegno di «rinnovamento del marxismo»).

Reso esplicito e tenuto implicito, accettato o rimosso, il fondo politico di quelle mie pagine ha agito profondamente sugli interventi, rendendoli, magari involontariamente, pretestuali. Ognuno difendeva le sue posizioni nella presunzione che fossero attaccate. I borghesi non volevano accettare il fatto che l’evoluzione del mondo capitalistico portasse alle mostruosità di una «comunicazione» di alienati sul piano linguistico; inoltre, appartenendo a delle élites variamente utenti di linguaggi tradizionali, si sentivano offesi dalla «bruttezza» impoetica della stratificazione tecnologica.

Perciò essi non si sono nemmeno chiesti se le mie tesi fossero o non fossero attendibili: in nome del buon gusto offeso, essi non hanno fatto altro che difendere «le magnifiche sorti e progressive» della borghesia futura.

Ma anche i comunisti hanno sentito minacciata la loro posizione di «forza tendenzialmente egemonica» (egemonica quindi anche culturalmente e linguisticamente): senza tener conto che è proprio in nome delle possibilità future reali di tale forza egemonica che io parlavo. Ma al di fuori di ogni interesse diretto, di ogni dirigismo possibile, di ogni tattica, di ogni onore di partito. Sarei stato un cattivo diagnostico, se mi fossi posto a osservare il corpo malato non obiettivamente, e con la terapia già pronta. La malattia, infatti è nuova, e la cura va modificata.

La questione linguistica pone il PCI di fronte alla necessità di verificare la reale potenzialità e i reali obiettivi della sua lotta per l’egemonia. Questo è il discorso vero che il PCI deve affrontare: e per affrontarlo realmente, deve concedere — senza timore di offendere il proprio onore o di ammettere insieme qualche propria insufficienza nel passato o nel presente — che c’è la possibilità, o il pericolo, che la «nuova stratificazione tecnologica» appartenga in effetti alla classe egemonica (in potenza) della nuova borghesia.

Il fatto che ognuno di noi, ossia l’intera nazione, può essere «utente» di quel linguaggio tecnologico — inteso, insisto, come nuova spiritualità o cultura — non esclude che il reale possesso di quel linguaggio sia di coloro che attraverso esso esprimono la loro reale esistenza.

Per noi — e genericamente inteso, quasi in modo antropomorfico, per il PCI — il linguaggio tecnologico è uno dei tanti elementi espressivi, qualsiasi sia la sua tendenza, mentre per la borghesia tecnocratica- neocapitalistica è un tutto.

In senso quasi metafisico o universalistico, il linguaggio tecnologico può essere inteso come il linguaggio dell’eternità industriale (secondo la definizione di Moravia). Infatti, ipoteticamente, sarebbe del tutto concepibile un mondo interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo che avesse come lingua la sola lingua tecnologica: tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come «superflue» (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione).

Perché, in un mondo come schematicamente possiamo immaginarlo al limite dello sviluppo tecnocratico, ci dovrebbero essere delle altre lingue, o dei momenti linguistici diversi, oltre a quella della produzione e del consumo? Si, ripeto, sono concepibili: ma come «lingue del tempo libero», come «hobbies familiari».

Già, ma sempre al limite, noi concepiamo quel tempo libero come occupato dall’uomo che noi conosciamo; e presupponiamo la presenza di una famiglia che noi abbiamo sperimentato. Mentre, nella visione ultima e apocalittica dell’eternità industriale come riproduzione del determinismo della natura, l’uomo sarà un’altra cosa: e la sua «comunicazione» linguistica sarà in funzione non più umana…

Scherzo, naturalmente. Ma ammettendo che ci sia una parte di verità in questa semplificazione, ne deriva che: il linguaggio tecnologico come linguaggio tipico e necessario del capitalismo tecnocratico contiene in-sé un futuro non umanistico, inespressivo. Invece il linguaggio tecnologico come «parte» specializzata ed elittica del marxismo contiene in sé evidentemente, un futuro umanistico e espressivo.

Capire e distinguere perché tale fenomeno avvenga, in che termini avvenga ecc. ecc. è uno degli atti fondamentali del «rinnovamento del marxismo». Se tale rinnovamento, soprattutto per il PCI — che è considerato ed è all’avanguardia in tale operazione — è dovuto all’apparizione di nuovi strati di realtà, allo sviluppo imprevisto di certe situazioni sociali, al di là del limite delle previsioni di Marx e di Lenin.

Questo ormai lo sanno tutti. E il rinnovamento, però, non deve avvenire attraverso una riscoperta di Marx, un ritorno alle fonti (come tendono a fare i «puri», del PSIUP o di certi movimenti disinteressati, per esempio il gruppo di “Quaderni Piacentini”): in tal caso un rinnovamento del marxismo si presenterebbe come uno dei tanti ritorni al Vangelo nella storia della Chiesa: e si sa che tutti tali ritorni sono «rientrati», a gloria della Chiesa.

Bisogna certo rileggere Marx e Lenin, ma non come si rilegge il Vangelo. Il «nuovo spirito tecnologico» è un fatto senza precedenti e senza equivalenti nel passato: e non era prevedibile, perché non erano prevedibili le concrete realizzazioni scientifiche, e quindi la qualità della loro sempre più immensa quantità.

Certo — come hanno rilevato molti intervenuti nel dibattito — lo «spirito scientifico» è già una tradizione nell’uomo e nella sua lingua: ma ciò che è nuovo è lo «spirito tecnologico», ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane.

Insomma, sul piano linguistico, si riproduce, in modo meno drammatico, e più facilmente osservabile, ciò che avviene sul piano sociopolitico: come la totale industrializzazione è tipica sia del neocapitalismo che del marxismo, così anche la «lingua della totale industrializzazione» è tipica di ambedue queste forme organizzative e ideologiche dell’uomo. In che cosa consiste la distinzione?

Ancora una cosa, prima di passare agli esami particolari dei vari interventi: Citati sul Giorno osservava che, con tutti i denti fuori, un «compagno di viaggio» (dai lunghi periodi latineggianti-burocratici sconvolti da un nuovo spirito contraddittorio: la ricerca della rapidità e della precisione comunicativa) tendeva a sostituire il vecchio, caro, insostituibile «sì» («il Bel Paese dove il sì suona»), con un orrendo «esatto».

Questo «esatto» non è direttamente tecnologico: ma è prodotto del «principio» tecnologico della chiarezza, dell’esattezza comunicativa, della scientificità meccanica, dell’efficienza, che diventa mostruoso nella sua iniziale fase di contatto con il substrato tradizionale umanistico e espressivo. L‘influenza tecnologica è indiretta: è il suo principio in qualche modo trascendente quello che conta.

La televisione è uno dei modi di concrezione e di irradiazione di tale principio. La parola «esatto» era l’urlo di trionfo ufficiale con cui Mike Bongiorno accoglieva la soluzione buona del quiz. E evidentemente questa la strada del prestigio della parola «esatto»: il modello linguistico profondo è nel nuovo spirito tecnologico dell’Italia del Nord industrializzata fino al possibile inizio dell’era tecnocratica, ma il modello immediato passa attraverso una mediazione infrastrutturale che lo deforma e lo deformerà, attraverso una infinità di fasi linguistiche.

È concepibile paradossalmente la ipotesi che piano piano «esatto» sostituisca «sì». E che quindi l’Italia diventi piano piano il «Bel Paese dove l’esatto suona». Che cosa avrebbe a che fare il PCI con tale effetto tecnologico? e che provvedimenti intende prendere perché il suo uso della terminologia tecnologica non implichi la responsabilità di simili risultati?

Difendersi dalle novità scomode, facendole passare per vecchie, difendersi dai problemi considerandoli già risolti in natura, è operazione tipica del buon senso. Non c’è bisogno che mi riferisca a Kant, a proposito del buon senso, come a tutto ciò che è contrario alla ragione, cioè alla copertura delle asserzioni dogmatiche.

Il buon senso («ma in fondo la lingua italiana c’è, è lì, un napoletano s’intende con un milanese ecc. ecc.») maschera dunque i dogmi scaduti alla normale consumazione, divenuti cioè ontologie sociali. Non per niente Dallamano si richiama a Stalin, per dare due manate sulle spalle del lettore, strizzargli l’occhio, e dirgli: «Io e te, vecchi utenti della koinè, c’intendiamo: andiamo a farci un bicchiere di vino («ombra» in veneto, «fojetta» in romanesco, ecc. ecc.) e non pensiamoci più!».

Così l’italiano è ridotto in osteria al livello storico-culturale dello swaili (una lingua franca manipolata e diffusa dai missionari in Africa Orientale, partendo da uno dei dialetti, e ora compresa nel Kenia, nel Tanganika, in Somalia, da Kikuya, Ghiriama, Masai ecc. ecc.); o peggio: ecco l’italiano ridotto a una lingua mimetica, per cui un napoletano, stringendo i polpastrelli delle dita nel suo gesto tipico, ma dirigendoli a più riprese verso la bocca semiaperta, con aria afflitta e interrogativa, fa comprendere a un tartaro che ha fame.

Non parlo di Arbasino, ch’è il «Corriere della Sera del buon senso», ma per colpa del suo carattere, e del vasto alone ideologico che questo implica, anche Calvino, nella seconda parte del suo intervento (che la prima è buonissima: dove dice che l’italiano va osservato e diagnosticato con spirito internazionalistico e comparativo: e del resto io stesso sono partito dal Bally, cioè da un esame comparativo franco-tedesco, e non ho mai cessato di confrontare, fin dove è stato possibile alle mie conoscenze e alla sede del mio discorso, le situazioni italiane con quelle delle altre lingue), nella seconda parte del suo intervento, egli alza le spalle e fa l’aria chiotta di chi non ne vuol sapere; ché le cose son vecchie.

Ma intanto là dove parla dei codici (in Italia usiamo dei codici o gerghi critici che all’estero non son capiti ecc., e viceversa; in Italia c’è la confusione dei codici ecc. ecc.), non tien conto di un fatto estremamente tipico e nuovo del mondo alle cui soglie ci troviamo insieme: ossia la rapidità dei consumi.

Nei tempi «classici» (ormai possiamo chiamarli globalmente così!) un «codice» poteva bastare per tutta una vita, perché la consumazione delle idee era lenta (come i vestiti che usavano allora, spesso lasciati in eredità dal padre al figlio); ora la produzione immensamente aumentata di idee (la quantità di persone che producono idee è cresciuta di milioni di volte) e la rapidità della circolazione, le bruciano rapidamente: e con esse bruciano i loro codici.

Vent’anni fa bastava al critico italiano un codice crociano o un codice positivistico, due anni fa bastava un codice stilcritico, ora occorre almeno un codice strutturalistico. Ma non sono certo le normatività moralistiche, che possono provvedere alle eliminazioni tempiste e sistematiche dei codici sopravviventi: un momento di contemporaneità dei codici non potrà mai essere eliminato.

Non vedo perché si dovrebbe dimenticare Spitzer su due piedi per Barthes; e perché non si dovrebbe tentare invece di usarli contemporaneamente, almeno fino alla naturale estinzione della pregnanza del vecchio. Insomma la nostra testa, deve adattarsi ad essere un mercato, oltre che di forme grammaticali, anche di codici concorrenti.

Ora, la espressività di Calvino è nella sua folle ricerca di comunicazione, nella invenzione di un italiano finalmente chiaro, limpido, ironico, scattante, piano: ma non presenti questa come una regola letteraria! La lotta, ora, è per l’espressività, costi quello che costi. E non creda, Calvino, e con lui tutta l’ala francesizzante-razionalistica, largamente superata dalla mostruosa presenza internazionale, appunto, del «franglais», ossia del francese e dell’inglese tecnologici, ormai parzialmente al di là della ragione dell’uomo, di poter accantonare, per esempio, i dialetti. I dialetti sono scaduti come problema di rapporto dialetto-lingua, perché è scaduto — superato dalla realtà — il periodo culturale in cui si credeva che l’italianizzazione dell’Italia avvenisse sotto il segno dell’equilibrio e degli apporti paritetici dei vari sublinguaggi popolari (impegno e neorealismo): non sono scaduti però in un altro senso: ossia come «substrato» della lingua unificata dal principio tecnologico della comunicazione.

Essi saranno realmente presenti nei vari momenti, o fasi, o situazioni linguistiche attraverso cui l’italiano si accinge a passare dal momento in cui si pone come lingua nazionale. La salute che Calvino ironicamente dice presupposta nei dialetti è comunque una moneta che non ha mai avuto corso se non nelle accademie vernacole legate alle varie autonomie regionali (né nell’espressionismo di Gadda, né nel mio naturalismo espressionistico, i dialetti son mai stati concepiti con una siffatta e ridicola aureola igienica).

Il disaccordo che Calvino dichiara col mio giudizio sul linguaggio giornalistico, mi offre il pretesto per un chiarimento di carattere generale. Io parlavo di uno pseudo razionalismo del linguaggio giornalistico, di una sua normatività gergale basata sull’illazione pseudo-statistica della richiesta del pubblico. Giudizio, mi pare, assolutamente negativo.

Calvino, non so per quale ragione, lo trova positivo: di qui il suo disaccordo con me. Sono stato scuro? Forse. Calvino ha letto distrattamente? Forse. Comunque questo è un fatto. Io sono giunto all’affermazione apodittica e imparziale che «è nato l’italiano come lingua nazionale», così come un diagnostico è imparziale nell’annunciare la presenza di un male. E questo mi par chiaro proprio dal fatto che io sono giunto a tale affermazione, dopo una serie di analisi tutte negative, e anche spietatamente negative (così come un diagnostico si accorge del male da una serie di aberrazioni o di disfunzioni).

La presenza del «principio tecnologico», come principio omologatore e modificatore, e quindi nazionalizzatore dell’italiano, mi si è rivelata attraverso la sua azione — iniziale, ma già aberrante e patologica — sui vari tipi di linguaggio: che appunto, mi sono apparsi tutti «negativi»: il linguaggio del giornalismo, della televisione, della pubblicità, della politica, del parlar comune del Nord, ecc.

L’enunciazione finale è dunque solo apparentemente imparziale e oggettiva: il cammino che no fatto per giungervi, dimostra chiaramente, a chi non legga con distrazione o «accademico risentimento», che la mia opzione e il mio gusto, sono quelli di un medico che ama la salute, e che considera salute quella goduta dal paziente nella sua vita normale, precedente al male, o ai sintomi del male.

Sul Giorno del 3–1–65, Calvino torna sul problema: e pur di non darmi ragione (testone come un tenentino azzurro che occupa una posizione e non vuol mollarla al nemico), prima dice che non è vero che l’italiano nazionale sta nascendo, ma che se mai sta morendo; che quella di oggi è un’«antilingua» (così chiamata da lui perché, ai suoi orecchi di tenentino azzurro, esteticamente brutta) (voleva dire, insomma, che è brutta la lingua reale di oggi, quella che i bollettini linguologici non segnalano — ma che ha segnalato Citati, per es., aguzzando le orecchie in treno; e che ha avvertito benissimo lo stesso Calvino, entrando in un commissariato durante la stesura di un verbale) ma poi giunge anch’egli alla conclusione, suggeritagli dall’interregionalità effettiva del lessico automobilistico (i pezzi di ricambio), che «sarà sempre più questa lingua operativa (ossia, come egli dice, interlingua scientifico-tecnico-industriale) a decidere le sorti generali della lingua».

È esattamente quello che dicevo io! Ma per ammetterlo, Calvino ha voluto formulare la questione a modo suo. Ora non gli resta che fare uno sforzo di linguista, o sociolinguista, anziché di letterato ombroso come un cavallo di razza: e chiedersi da dove mai piova quella «iperlingua» tecnico-comunicativa (l’aggettivo esatto sarebbe «segnaletica»), e con quali mezzi e con quale forza possa diventare la lingua pilota dell’italiano.

Anche Calvino, insomma, non accetta la sostanziale politicità del discorso. Anche Calvino!

Il fatto è che ognuno di noi letterati, si crede se non un padre, almeno uno zio, un cognato, un fratello maggiore, un cugino prete, una mamma, una nurse, un compare, una comare dell’italiano: sull’esempio di Dante, archetipo, che è il «padre». Ma sia ben chiaro che Dante, se proprio vogliamo continuare a offenderlo, è stato «il padre della lingua letteraria», non della «lingua»: e che tra gli utenti di segni vocali e gli utenti di segni grafici c’è un abisso.

Così ognuno di noi tende a pietiner sur place, a tornare accanitamente alla letteratura: come se la letteratura fosse il principio e il fine di ogni lingua. È come se le divisioni che la letteratura fa tra parole belle e brutte, fossero in qualche modo normative! Ingenuo Calvino! Mai nessuno di noi letterati avrà il potere diretto di togliere dalla testa di un brigadiere dei carabinieri la sua particolare selettività linguistica, né l’ingenua idea di «elezione» che vi presiede!

Egli non sceglie, no, la morte al posto della vita quando dice «ho effettuato» anziché dire «ho fatto», come mamma gli ha insegnato: egli compie un atto di elezione linguistica: lo stesso che compie Bassani quando dice «mi recai» anziché «andai», o «attesi» anziché «aspettai» (o meglio «sono andato» o «ho aspettato»): solo che il modello che ha in testa il sig. brigadiere è uno e bino: il primo, archetipo, è quello del latinorum, il secondo, più vicino, incombente (dalla parete del suo nudo ufficio), è lo Stato, nella sua specie specificamente statale: la burocrazia.

A questi due modelli, se ne sta aggiungendo un terzo, che li mette per ora a soqquadro, ma che ha la possibilità di modificarli profondamente: è il modello dell’iperlingua della meccanica: quella che ha le sue sedi nelle aziende del Nord, a Milano, a Torino. Ed è sempre la sua idillica e scontrosa idea preminente di sé come letterato che fa cadere Calvino nel più inaspettato errore (nel momento in cui, scherzosamente ci «prova» a fare il profeta): l’errore di vedere l’italiano futuro polarizzato in due lingue, una lingua squisitamente tecnica, e una lingua squisitamente espressiva.

Questo elegante manicheismo, è, come prospettiva, una pura follia: è una divisione razzistica delle funzioni dell’uomo! Invece, la lingua interregionale e internazionale «segnaletica» del futuro sarà la lingua di un mondo unificato dall’industria e dalla tecnocrazia (se il marxismo, s’intende, avrà perduto le vie della rivoluzione…) e i letterati, essendo uomini come gli altri, subiranno la mutazione di tutti: se tuttavia, in qualche area marginale (Don Milani ha scritto una splendida lettera ai missionari che sopravvivranno in Cina dopo la fine della Chiesa in Occidente), dei letterati cosi come li concepiamo oggi, nel nostro idillio umanistico, continueranno a esserci, il loro «italiano espressivo» sarà totalmente privo di destinatari (pressappoco come oggi il latino cacciato dalle chiese).

Del resto, è irrefrenabile l’abitudine del letterato italiano a identificare il segno vocale al segno grafico: di non concepire lingua altrove che nella letteratura. Caso clinico di attaccamento al proprio ruolo — e, in qualche modo, commovente sintomo di timidezza professionale.

Anche Sereni non sa concepire possibilità di discorso linguistico al di fuori dalla propria esperienza letteraria: quasicché — implicitamente — la letteratura fosse realmente la lingua-guida di una nazione. Questo equivoco è strettamente connesso ad un altro: il disinteresse per il problema linguistico anche sotto la specie letteraria.

Disinteresse sottilmente millantatorio. Implicante cioè — come ogni provocazione — un’ideologia ontologica, basata sulla sostanziale presunzione d’inanità di quel problema. Agnosticismo religioso, e, anche sottilmente, ricattatorio (cfr. anche Bassani e la Morante): per cui viene considerato colpevole o impuro considerare la lingua per quello che è, cioè uno «strumento»: e se nel suo aspetto di langue viene così accettata come un «dono» mitico o mistico, nel suo aspetto di parole essa viene interamente identificata con l’io inventante — a un livello spiritualistico che ha, mi si permetta di dirlo, qualcosa di troppo innocente.

Non capisco come mai Sereni non trovi dei nessi tra il fatto che egli non sa porsi oggettivamente il «problema della lingua» e il fatto che gli riesca difficile se non impossibile, scrivere in prosa: non sono che due aspetti di una ideologia non realistica e non critica, ossia un prodotto sopravvivente dell’inibizione ermetica.

Nel momento in cui egli valicherà il limite che da tanti anni è sul punto di valicare, con fortuna-sfortuna della sua poesia, e si libererà, fin dove è possibile liberarsi — cioè nella coscienza — della sua giovinezza follemente elegiaca (ed egli lo sa), si libereranno dentro di lui le possibilità concomitanti di oggettivare il problema linguistico e di scrivere in prosa.

Tuttavia non lo esorto a questo. Non son mica un moralista. Tanto più che la «lingua della poesia» ha un suo corso per definizione diacronico. (Ed è solo in questa diacronia che si può parlare della sua, apparente, metastoricità).

Ancne Vittorini, nel suo intervento (come vedremo più avanti), mi porrà di fronte alla presenza di una lingua italiana come lingua della protesta operaia, nella sua specie letteraria. Egli, cioè, non riesce a vedere che la metaforizzazione letteraria di tale lingua della lotta (che di per sé, si presenterebbe come un moncone, pateticamente oratorio, della tipica oratoria italiana «espressiva»).

In tale «mimesis metaforica» del discorso dell’operaio in quanto giudice — nel momento idealmente vittorioso della sua lotta — l’italiano secondo Vittorini, prenderebbe il posto del dialetto (che ragionevolmente dovrebbe continuare a presentarsi come l’unico strumento linguistico dell’operaio). E sarebbe un italiano appunto, in qualche modo, metaforicamente, nazionale, o almeno nazional-popolare.

Io nego che tale operazione sia: a) l’unica possibile, b) nazionale. Non è l’unica possibile perché lo stesso discorso di «condanna» o di «vittoria», del lavoratore-giudice, potrebbe essere redatto attraverso una operazione antitetica, cioè attraverso una mimesis dialettale: in tal caso la struttura interna del suo discorso — non humilis, non quotidiano, non naturalistico — darebbe al dialetto la dignità di lingua. Non è nazionale perché nego che un’opera letteraria abbia la possibilità di contenere una lingua che oggettivamente non c’è: tutt’al più, ripeto, si può trovare in essa una tendenza «nazionalpopolare»: cioè nazionale sul piano estetico, non su quello linguistico.

E ancora, spostando l’obiezione di Vittorini dalla sede specificamente letteraria a quella più vasta della lotta politica, sì, certo, si può parlare di un forte contributo che la lingua — nata dall’interpretazione politica dell’esigenza operaia e del suo intervento dal basso della vita nazionale — ha dato all’italianizzazione dell’Italia. Ma è un contributo alla costruzione di una base unitaria possibile, ai fondamenti dell’unità: non all’unità.

Ecco cosa voglio dire: dopo il ’70 la borghesia italiana venuta al potere (al rimorchio, come osserva Gramsci, delle grandi borghesie europee), assumendo a propria lingua l’italiano letterario, ossia l’italiano delle corti, ne contesta alcuni elementi tipici, e li mette fuori gioco. Fa scadere di prestigio, e espunge dall’uso (come notava il prof. Ignazio Baldelli, in un suo intervento orale al dibattito) parole come «speme» o «vorria». Contesta e mette fuori gioco il «classicismo agrari (D’Annunzio e tutta l’elezione linguistica fascista). S

i tratta effettivamente di una spinta dal basso, corrispondente all’allargamento democratico, al diritto di voto per tutti ecc. : subito receduta. L’imborghesimento del modello latino attraverso la spiritualità burocratica, e il culto dello Stato borghese si sono mantenuti paternalistici finché la borghesia non ha avuto solidamente in mano la nazione: alla prima ondata dell’industrializzazione, si sono fatti autoritari, e i Travet hanno scoperto il mondo classico.

Ora, con la Resistenza, si è avuta una nuova «spinta dal basso», realmente democratica, e popolare, questa volta. E dal punto di vista linguistico, qual è stata la sua prima operazione? Quella di contestare e mettere fuori gioco il «classicismo piccolo-borghese» del fascismo. Dopo «speme» e «vorria», sono crollate parole come «auspicare» o «radioso».

Questa spinta dal basso, fatta di puro contenuto, ha avuto due tipi di interpretazione linguistica: una letteraria e una politica. L’interpretazione letteraria è consistita in una scoperta dell’Italia reale e periferica, popolare e dialettale. Su questo si è realizzato concretamente l’impegno del dopoguerra — come ho più volte ripetuto: esso, dal punto di vista linguistico, è praticamente consistito in una serie di inserti nelle opere letterarie di «discorsi diretti» (tutto il neorealismo, con le sue «registrazioni»), e in una serie di «discorsi liberi indiretti» (tutto il naturalismo espressionistico): per cui l’autore finiva sempre per parlare, completamente o in parte, attraverso la lingua del suo protagonista popolare e dialettale.

Era l’unica strada concreta e possibile — sotto la specie dell’epicità, che l’oggettività implicita nella ideologia marxista, garantiva — di applicare alla letteratura la nozione gramsciana di nazional-popolare: la concomitanza di due punti di vista nel guardare il mondo, quello dell’intellettuale marxista e quello dell’uomo semplice, uniti in una «contaminatio» di «stile sublime» e di «stile umile».

Anche il politico, nei suoi discorsi, nei suoi comizi, nei suoi articoli, compiva la stessa operazione: egli entrava nell’animo dell’operaio o del contadino, ne coglieva i contenuti di contestazione, di protesta, e di rivoluzione, e li esprimeva traducendoli in una lingua che se non era fisicamente popolare non era nemmeno classicistica. Era scientifica. Perché l’ideologia marxista garantisce un fondamentale spirito scientifico nella lingua. (In tal senso non ha ragione di essere in Italia, dove la cultura che conta è fondamentalmente marxista, la «divisione» delle culture tipica dei paesi occidentali, individuata e volgarizzata dallo Snow).

Ecco perché, parlando della lingua dei politici — che il nuovo spirito tecnologico sospinge verso la comunicazione, strappandola alla fasulla espressività dell’italiano latineggiarne — ho citato Moro, e non Togliatti o Pajetta. Questi ultimi due avevano già compiuto il salto di qualità che stanno compiendo oggi i democristiani avanzati.

È vero che la tradizione socialistica è borghese, e che molti strati del linguaggio burocratico ovattano la prosa degli oratori e degli articolisti comunisti, è vero anche che molte reviviscenze scolastico-latineggianti esplodono nei momenti di commozione e di perorazione: tuttavia l’insieme del discorso di un comunista, in quanto espressione di una profonda e vasta spinta dal basso, e in quanto improntato da uno spirito fondamentalmente scientifico, tende a una sintesi dell’italiano, e si pone come fondamentalmente comunicativo.

L’insieme dei fenomeni linguistici o sociolinguistici, che ha caratterizzato l’Italia del Dopoguerra (la spinta dei contenuti dal basso, e la loro interpretazione nazionalpopolare o impegnata in letteratura, scientifica, in politica), ha contribuito a creare una vasta base unitaria, pronta ad accogliere l’italianizzazione completa dell’Italia attraverso l’allargamento democratico garantito dalla presenza dei grandi partiti operai. Era questa la strada che a tutti noi pareva la buona e l’unica: e su essa splendeva la stella del sogno egemonico comunista.

I fatti ci hanno condotto brutalmente alla realtà. Quella strada democratica e popolare dell’italianizzazione ha subito una violenta deviazione: un fenomeno nuovo, la nascente tecnocrazia, ancora senza la coscienza e forse senza la volontà della egemonia, sta prendendola di fatto.

Essa non contesta più i vari possibili classicismi: li fa brutalmente cadere senza ideologizzarne la caduta. Vi sostituisce la sua efficienza comunicativa e basta. In realtà quello che essa tende a contestare e a mettere fuori gioco, è tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo.

C’è qualcosa di fondamentale, nella sua presenza: quindi praticamente, se noi marxisti rivendichiamo il nostro contributo all’unificazione di base dell’Italia attraverso la liberazione espressiva e politica delle classi popolari, dobbiamo ammettere anche di avere lavorato per il nemico. La nascente egemonia, ciecamente pragmatica, priva di volontà e di coscienza, come una forza della natura, trova il terreno già livellato (in parte: ché i dislivelli sono ancora molti, l’Italia è ancora piena di Dei), per diffondere il suo spirito antiumanistico nella sua lingua «segnaletica».

Il fiero ottimismo di Vittorini è una tentazione. E così le sue cautele ironiche. Egli parla di improbabilità di quell’italiano unitario (nazionale) da me tenuto a battesimo, in quanto i «rapporti di lavoro» non ne garantirebbero ancora l’unità.

Ma intanto va tenuto presente un errore in cui molti miei amici sono caduti intervenendo in questo dibattito: il dare cioè per presente e adulto un italiano che invece io dò neonato e potenziale. E perciò che essi, poi, non lo riconoscono.

Ceno, i «rapporti di lavoro» nel Sud, non garantiscono l’unitarietà dell’italiano, in quanto, nel Sud, i dialetti restano nell’ambito di una «lingua contadina»: appartengono cioè al mondo classico (agricolo, artigianale, prima feudale poi borghese) cui appartengono anche le capitali di quel mondo contadino, Palermo, Napoli, Roma.

Ma come si pone questo mondo «contadino» (o meglio come comincia a porsi, o come si pone potenzialmente), nel mondo unitario italiano? Come una «cultura sopravvivente». Esattamente così come si come ogni mondo contadino classico in un’epoca in cui l’agricoltura sta per essere industrializzata.

Se io vedevo vent’anni fa un contadino del Sud — nella mia ignoranza di italiano classicheggiante e privo dell’esperienza critica del mondo capitalistico — potevo pensare la sua condizione come «eterna». Se lo vedo oggi, capisco che è un animale che sta per scomparire. A Ragusa (ENI), a Taranto (acciaieria) è proprio sul punto di scomparire, dopo una violentissima crisi dovuta allo scontro, in una stessa anima, tra analfabetismo e specializzazione, tra anarchia borbonica e iscrizione alla CGIL.

Oggi tuttavia siamo in una fase di passaggio: il rapporto tra Nord e Sud, non è più colonialistico, ma neocolonialistico. Nel «rapporto di lavoro» tra un contadino meridionale e la terra (gli alberi, l’aratro) c’è un diaframma, la coscienza di un altro tipo di rapporti, che suo figlio emigrato a Milano o Torino, già realizza e vive. In questo diaframma, in questa leggera, messianica alterazione del rapporto di lavoro con la terra, è l’inizio dell’unità nazionale reale.

Del resto tutto il «Terzo Mondo», che è un mondo contadino classico e piccolo borghese, quindi, oggi (come dicevano sia Marx che Lenin), si presenta come un mondo del futuro, non del passato. Quel diaframma, quella alterazione sono aspetti della dinamica che spinge popolazioni ex schiave, sottoproletari agricoli, tribù, verso una sorta di sintesi, in un rapporto scandalosamente dialettico con la razionalità dei paesi industrializzati e col marxismo.

Ora, per un intervento realmente «razionale» sulla lingua, secondo il pensiero di Gramsci, bisognava avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il marxismo non sa, o sa male, come inserirsi in questo rapporto, «scandalosamente dialettico», tra irrazionalismo contadino piccolo-borghese del Terzo Mondo (ivi compreso il Sud italiano) e razionalismo capitalistico liberale.

Tale inserimento, è chiaro, implica anzitutto un recupero dell’internazionalismo e un superamento di certa tradizione recente delle «vie nazionali al socialismo». Ma tutto questo, tuttavia, non significa prescindere comodamente dai particolarismi concreti: per esempio, i dialetti e le piccole lingue nazionali (politicamente: il rapporto della Sicilia con l’asse Milano-Torino, in un contesto neocapitalistico con opposizione marxista; o il rapporto degli slovacchi con i Ceki o dei Transisvani con i Rumeni, in un contesto socialista) devono porsi come problemi nuovi, non come problemi vecchi.

Saremmo dei noiosi poststalinisti, d’altra parte, se non ci confessassimo che, se non interviene un violento rovesciamento della situazione, sia a livello ideologico e filosofico, che al livello della prassi politica, l’avvenire prossimo dell’Italia, sarà caratterizzato dall’industrializzazione tecnocratica, e in tale ambito la lotta si delinea, seppure ancora caoticamente, tra forze conservatrici (il liberalismo milanese, non più napoletano) e forze laburiste (il centrosinistra).

Il PCI e il PSI hanno potuto adottare la lingua media della borghesia (sul côté dantesco…) finché questa borghesia era una classe dominante e arcaica, cioè utente di una lingua italiana franco-letteraria, profondamente irrazionale, come «res communis omnium» : ma nel momento in cui tale classe «tende» a diventare egemonica (ancora fuori dalla sua coscienza e dalla sua volontà) il rapporto linguistico deve cambiare; e ognuno deve prendersi le sue responsabilità.

La lingua «internazionale» di cui parla Vittorini (con un certo ottimismo), è invece essa stessa la lingua delle nuove forme del capitalismo, ed è attraverso le nuove forme del capitalismo italiano che noi la percepiamo e cominciamo a adottarla.

Tale lingua internazionale non ha nulla a che fare con l’inglese così come siamo abituati a sentirlo, ma è quella che produce gli orrori (ai nostri occhi umanistici) di una nuova lingua in cui la comunicatività civile e filosofica e l’espressività umana e poetica, sono trascese dalla «comunicazione segnaletica» come dicevo, dell’eternità industriale: cioè da una comunicazione di uomini non più uomini. Mostruosamente espressiva, a suo modo!

E allora: l’immensità delle implicazioni del problema sociopolitico fanno forse sì che diventi astratto impostarlo sotto la specie di un intervento esplicitamente sociopolitico. Ma sul problema specifico della lingua (non è la frase «il Bel Paese dove l’esatto suona» che ci suona mostruosa e irriconoscibile, ma l’implicazione sociopolitica, lo «spirito» che la detta), il PCI potrebbe tentare una critica a se stesso e una verifica dei propri rapporti rivoluzionari con la realtà in evoluzione.

È un problema, quello linguistico, che non si trova nella zona «decisoria» (come direbbe Moro), almeno apparentemente: e tuttavia è lì che si possono delineare i principi del «rinserimento» del marxismo nella realtà italiana di oggi, che tende — in una brutale concezione del mondo che «si fa» pragmaticamente, quasi senza riflessione teorica se non pretestuale o mitologica — a sospingerlo ai margini, o a lasciarlo indietro. Questo è il problema reale. Nessuno sente il bisogno di una nuova querelle linguistica.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 88–104

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet