Dialettica dell’illuminismo
di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [luglio 2021]
Vai all‘indice del libro di T. Adorno “Parole chiave”
Vai agli altri saggi della serie “Think | Tank”
L’illuminismo prova un orrore mitico per il mito. Di cui avverte la presenza non solo in concetti e termini non chiariti, come crede la critica semantica del linguaggio, ma in ogni espressione umana, in quanto non abbia un posto nel quadro teleologico dell’autoconservazione. La proposizione spinoziana «Conatus sese conservandi primum et unicum virtutis est fundamentum»[1], contiene la vera massima di ogni civiltà occidentale, in cui si placano le divergenze religiose e filosofiche della borghesia.
Il Sé, che dopo la metodica estinzione di ogni traccia naturale, concepita come mitica, non doveva più essere corpo, né sangue, né anima, e nemmeno Io naturale, costituì — sublimato a soggetto trascendentale o logico — il punto di riferimento della ragione, dell’istanza legiferante dell’agire.
Secondo il giudizio dell’illuminismo come del protestantesimo, chi si affida immediatamente alla vita, senza un rapporto razionale con l’autoconservazione, ricade allo stadio preistorico. L’impulso è in sé mitico, come la superstizione; servire un dio che non è postulato dal Sé, assurdo come l’ubriachezza.
Il progresso ha riservato a entrambi la medesima sorte: all’adorazione e alla caduta nell’essere immediatamente naturale; ha colpito di maledizione l’immemore di sé, nel pensiero come nel piacere.
Nell’economia borghese il lavoro sociale di ogni singolo è mediato tramite il principio del Sé; deve restituire, agli uni, il capitale accresciuto, agli altri la forza per il pluslavoro.
Ma quanto più il processo dell’autoconservazione si realizza tramite la divisione borghese del lavoro, tanto più esso esige l’autoalienazione degli individui che devono modellarsi, anima e corpo, secondo le esigenze dell’apparato tecnico.
Di ciò tiene conto, a sua volta, il pensiero illuminato: e infine anche il soggetto trascendentale della conoscenza viene apparentemente liquidato, come ultimo ricordo della soggettività, e sostituito dal lavoro tanto più liscio dei meccanismi regolatori automatici. La soggettività si è volatilizzata nella logica di regole del gioco che si vorrebbero arbitrarie, solo per poter governare in modo tanto più sfrenato.
Il positivismo, infine, che non si è fermato neppure davanti alla cosa letteralmente più cervellotica che si possa immaginare — il pensiero — ha accantonato anche l’ultima istanza che si frapponeva tra l’azione individuale e la norma sociale.
Il processo tecnico, in cui il soggetto si è reificato dopo essere stato cancellato dalla coscienza, è immune dall’ambiguità del pensiero mitico come da ogni significato in generale, perché la ragione stessa è divenuta un semplice accessorio dell’apparato economico che tutto include.
Funge da utensile universale per la fabbricazione di tutti gli altri utensili, rigidamente funzionale allo scopo, funesta come l’operare esattamente calcolato nella produzione materiale, il cui risultato per gli uomini si sottrae a ogni calcolo.
Finalmente ha realizzato la sua vecchia ambizione, di essere il puro organo degli scopi. L’esclusività delle leggi logiche deriva da questa univocità della funzione, in ultima istanza dal carattere coattivo dell’autoconservazione. Che mette capo sempre di nuovo alla scelta fra sopravvivenza e rovina, riflessa ancora nel principio che di due proposizioni contraddittorie solo una può essere vera e una falsa.
Il formalismo di questo principio e di tutta la logica, in cui esso si realizza, deriva dall’opacità e dal garbuglio degli interessi in una società dove il mantenimento delle forme e quello dei singoli coincidono solo casualmente.
L’espulsione del pensiero dalla logica ratifica, nell’aula universitaria, la reificazione dell’uomo nella fabbrica e nell’ufficio. Il tabu investe così anche il potere che lo formula, l’illuminismo lo spirito che esso è.
Ma in tal modo la natura, che è la vera autoconservazione, viene scatenata dal processo che si era impegnato a scacciarla, nell’individuo come nel destino collettivo di crisi e di guerra. Se alla teoria, quale unica norma, resta l’ideale della scienza unificata, la prassi deve necessariamente soccombere all’irresistibile routine della storia universale.
Totalmente afferrato dalla civiltà, il Sé si risolve in un elemento di quell’inumanità a cui la civiltà ha cercato fin dall’inizio di sottrarsi. Si realizza l’angoscia più antica, quella di perdere il proprio nome.
L’esistenza puramente naturale, animale e vegetativa, rappresentava per la civiltà il pericolo assoluto. Il comportamento mimetico, mitico e metafisico, apparvero uno dopo l’altro come epoche superate, ricadere al livello delle quali era associato al terrore che il Sé potesse riconvertirsi in quella natura da cui si era estraniato con sforzo indicibile, e che gli ispirava, proprio per questo, un indicibile orrore.
Il vivo ricordo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende.
Lo spirito illuminato ha sostituito il fuoco e la ruota col marchio impresso a ogni irrazionalità perché conduce alla rovina. L’edonismo era moderato, e gli estremi gli erano invisi non meno che ad Aristotele.
L’ideale borghese della naturalezza non intende la natura amorfa, ma la virtù del giusto mezzo. Promiscuità e ascesi, abbondanza e fame, sono, benché antitetiche, immediatamente identiche come forze dissolventi.
Attraverso la subordinazione di tutta la vita alle esigenze della sua conservazione, la minoranza che comanda garantisce, con la propria sicurezza, anche la sopravvivenza del tutto.
Da Omero fino alla modernità, lo spirito dominante cerca di passare tra la Scilla della ricaduta nella riproduzione semplice e la Cariddi della soddisfazione sfrenata; di ogni altra stella polare, che non sia quella del male minore, ha da sempre diffidato.
I neopagani tedeschi, contabili degli umori di guerra, vogliono lasciar libero il piacere. Ma avendo appreso a odiarsi sotto il peso del lavoro di millenni, nell’emancipazione totalitaria il piacere resta volgare e mutilato dal disprezzo di sé.
Asservito all’autoconservazione, a cui era stato educato in precedenza dalla ragione nel frattempo deposta. Nelle grandi svolte della civiltà occidentale, dall’avvento della religione olimpica fino al Rinascimento, alla Riforma e all’ateismo borghese, ogni volta che nuovi popoli e ceti rimossero con decisione il mito, il timore della natura incontrollata e minacciosa, conseguenza della sua stessa riduzione a oggetto e materia, fu abbassato a superstizione animistica, e il dominio della natura interna ed esterna fatto scopo assoluto della vita.
Da ultimo, automatizzata l’autoconservazione, la ragione viene abbandonata da coloro che ne hanno assunto l’eredità alla guida della produzione, e che ora la temono nei diseredati. L’essenza dell’illuminismo è l’alternativa, la cui ineluttabilità è quella del dominio.
Gli uomini avevano sempre dovuto scegliere tra la loro sottomissione alla natura e quella della natura al Sé. Con l’espansione dell’economia mercantile borghese, l’oscuro orizzonte del mito è rischiarato dal sole della ragione calcolante, ai cui gelidi raggi matura la messe della nuova barbarie. Sotto la coazione del dominio il lavoro umano si è sempre più allontanato dal mito, per ricadere, sotto il dominio, sempre di nuovo in sua balia.
In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, dominio e lavoro. Il dodicesimo canto dell’Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene. La tentazione che rappresentano è quella di perdersi nel passato.
Ma l’eroe a cui la tentazione si rivolge è diventato adulto nella sofferenza. Nella varietà dei pericoli mortali in cui ha dovuto tener duro, si è consolidata in lui l’unità della vita individuale, l’identità della persona. Come acqua, terra e aria, si scindono davanti a lui i regni del tempo.
L’onda di ciò che fu rifluisce dalla roccia del presente, e il futuro campeggia nuvoloso all’orizzonte. Quel che Odisseo si è lasciato alle spalle, entra nel mondo delle ombre: il Sé è ancora cosi vicino al mito primordiale, dal cui grembo si è strappato, che il suo stesso passato si trasforma in preistoria mitica.
A questo egli cerca di rimediare con un solido ordinamento del tempo. Lo schema tripartito deve liberare l’attimo presente dalla potenza del passato, ricacciando quest’ultimo dietro il confine assoluto dell’irrecuperabile, e mettendolo, come sapere utilizzabile, a disposizione dell’ora.
L’impulso di salvare il passato come qualcosa di vivente, anziché utilizzarlo come materiale del progresso, si placava solo nell’arte, a cui appartiene anche la storia come rappresentazione della vita passata. Finché l’arte rinuncia a farsi valere come conoscenza, escludendosi cosi dalla prassi, viene tollerata dalla prassi sociale quanto il piacere.
Ma il canto delle Sirene non ha ancora perso il suo potere volgendosi in arte. Esse sanno «tutto quello che accade sulla terra ferace»[2] e, in particolare, le vicende a cui anche Odisseo prese parte, «le pene che nella Troade vasta / soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei»[3].
Evocando direttamente un passato recentissimo, con l’irresistibile promessa di piacere che accompagna l’ascolto del loro canto, minacciano l’ordine patriarcale che restituisce a ciascuno la vita solo contro il corrispettivo della sua intera durata temporale. Chi cede al loro gioco d’illusioni è perduto, mentre solo una costante presenza di spirito strappa l’esistenza alla natura.
Se le Sirene sanno di tutto ciò che accadde, esse chiedono in cambio il futuro, e la promessa del lieto ritorno è l’inganno con cui il passato cattura il nostalgico. Odisseo è messo in guardia da Circe, la divinità che ritrasforma gli uomini in animali: ha saputo resisterle, e lei, in compenso, lo mette in grado di resistere ad altre forze di dissoluzione.
Ma la tentazione delle Sirene resta invincibile. Nessuno ascoltando il loro canto può sottrarvisi. L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, efficiente, virile, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.
Lo sforzo di tenere insieme l’Io appartiene all’Io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo.
L’ebbrezza narcotica, che fa espiare l’euforia in cui il Sé resta come sospeso in un sonno simile alla morte, è una delle più antiche istituzioni sociali che mediano fra l’autoconservazione e l’autoannientamento, un tentativo del Sé di sopravvivere a se stesso. L’angoscia di perdere il Sé, e di annullare, insieme, il confine tra se stessi e l’altra vita, la paura della morte e della distruzione, è strettamente congiunta a una promessa di felicità da cui la civiltà è stata minacciata in ogni istante.
La sua via fu quella dell’obbedienza e del lavoro, su cui la soddisfazione brilla eternamente come mera parvenza, come bellezza spogliata del suo potere. Il pensiero di Odisseo, egualmente ostile alla propria morte e alla propria felicità, sa di tutto ciò.
E conosce due sole possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni di viaggio. Tappa loro le orecchie con la cera, e ordina di remare a tutta forza. Chi vuol continuare a esistere non deve prestare ascolto al richiamo dell’irrevocabile, ed è in grado di farlo solo perché non è in grado di ascoltare.
È ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare avanti, e trascurare tutto quel che è a lato. L’impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato con rabbiosa amarezza in sforzo ulteriore. Così diventano pratici.
L’altra possibilità è quella scelta da Odisseo, il signore terriero che fa lavorare gli altri per sé. Egli ascolta, ma impotente, legato all’albero della nave, e più la tentazione si fa forte, più strettamente si fa legare, così come più tardi anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più, crescendo la loro potenza, l’avranno a portata di mano.
Ciò che ha udito resta per lui senza seguito, non può che accennare col capo di slegarlo, ma ormai è troppo tardi: i compagni, che nulla odono, sanno solo del pericolo del canto, non della sua bellezza, e lo lasciano stretto all’albero, per salvarlo e salvare se stessi.
Con la propria, riproducono la vita dell’oppressore che non è più in grado di uscire dal suo ruolo sociale. Le catene con cui si è irrevocabilmente legato alla prassi, ne tengono le Sirene lontano: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte.
L’incatenato assiste a un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso. Così il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all’uscita dalla preistoria.
L’epos contiene già la giusta teoria. Il patrimonio culturale sta in precisa correlazione col lavoro comandato, e l’uno e l’altro hanno il loro fondamento nell’obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura.
Misure come quelle prese sulla nave di Odisseo al passaggio davanti alle Sirene sono l’allegoria presaga della dialettica dell’illuminismo. Come la sostituibilità è la misura del dominio e il più potente è quello che può farsi rappresentare nel maggior numero di operazioni, cosi la sostituibilità è lo strumento del progresso e nello stesso tempo della regressione.
Nelle condizioni date, l’esclusione dal lavoro significa anche mutilazione, e non solo tra i disoccupati, ma anche al polo sociale opposto. I superiori sperimentano l’esistenza, con cui non hanno più direttamente a che fare, solo come substrato, e s’irrigidiscono interamente nel Sé che comanda.
Il primitivo sentiva la cosa naturale solo come oggetto sfuggente del desiderio, «ma il signore, che ha inserito il servo tra la cosa e sé, si congiunge solo con la dipendenza della cosa e la gode semplicemente; e abbandona il lato dell’indipendenza al servo che la lavora»[4].
Odisseo è sostituito nel lavoro. Come non può cedere alla tentazione della rinuncia di sé, cosi, in quanto proprietario, manca anche della partecipazione al lavoro, e infine anche della sua direzione; mentre i compagni di viaggio, per quanto vicini alle cose, non possono godere il lavoro perché si compie sotto la costrizione, senza speranza, coi sensi violentemente tappati.
Lo schiavo resta soggiogato nel corpo e nell’anima, il signore regredisce. Nessuna forma di dominio ha saputo ancora evitare tale prezzo, e la circolarità della storia nel suo progresso trova spiegazione in questo indebolimento, che è l’equivalente del potere.
Mentre attitudini e conoscenze dell’umanità vanno differenziandosi con la divisione del lavoro, essa è risospinta verso fasi antropologicamente più primitive; poiché la durata del dominio comporta, con l’alleviamento tecnico dell’esistenza, la fissazione degli istinti a opera di una repressione più forte.
La fantasia si atrofizza. La sciagura non consiste nel ritardo degli individui sulla società o sulla produzione materiale. Dove l’evoluzione della macchina si è già rovesciata in quella del meccanismo di dominio, e la tendenza tecnica e sociale, strettamente connesse da sempre, convergono nella presa di possesso totale dell’uomo, chi resta indietro non rappresenta solo la falsità.
Viceversa, l’adattamento al potere del progresso — o al progresso del potere — implica sempre di nuovo quelle formazioni regressive che persuadono il progresso — e non solo quello fallito, ma anche e proprio il progresso riuscito — del suo contrario. La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione,
Questa regressione non si limita all’esperienza del mondo sensibile, che è legata alla vicinanza al corpo in carne e ossa, ma tocca anche l’intelletto padrone di sé, che si separa dall’esperienza sensibile per sottometterla.
L’unificazione della funzione intellettuale, onde si realizza il dominio sui sensi, la rassegnazione del pensiero alla produzione di uniformità, implica l’impoverimento del pensiero come dell’esperienza; la separazione dei due campi li lascia entrambi alle spalle lesi e diminuiti.
Nella limitazione del pensiero ai compiti organizzativi e amministrativi praticata dai superiori, dallo scaltro Odisseo fino agli ingenui direttori generali, è già implicita la limitatezza che colpisce i grandi quando non è più solo questione di manipolare i piccoli.
Lo spirito si trasforma di fatto in quell’apparato di dominio e auto-dominio in cui la filosofia borghese lo ha da sempre frainteso. Le orecchie sorde, rimaste ai docili proletari fin dai tempi del mito, non rappresentano alcun vantaggio rispetto all’immobilità del padrone.
Dell’immaturità dei dominati vive l’eccessiva maturazione della società. Quanto più complicato e sottile l’apparato sociale, economico e scientifico a cui il sistema produttivo ha adattato da tempo il corpo che lo serve, e tanto più povere le esperienze di cui questo corpo è capace.
L’eliminazione delle qualità, la loro traduzione in funzioni, passa dalla scienza, tramite la razionalizzazione dei metodi di lavoro, al mondo d’esperienza dei popoli, e lo assimila di nuovo, tendenzialmente, a quello degli anfibi.
La regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato: la nuova forma di accecamento che sostituisce ogni vinta forma di accecamento mitico.
Tramite la mediazione della società totale, che investe ogni impulso e relazione, gli uomini vengono nuovamente ridotti a ciò contro cui si era volta la legge di sviluppo della società, il principio del Sé: a semplici esseri generici [Gattungswesen], uguali fra loro per via dell’isolamento nella collettività diretta coattivamente.
I rematori che non possono parlare fra loro sono tutti quanti aggiogati allo stesso ritmo, come l’operaio moderno nella fabbrica, al cinema e nel collettivo. Sono le concrete condizioni di lavoro nella società a produrre il conformismo, e non influssi consapevoli che interverrebbero in seguito a istupidire gli uomini oppressi e a sviarli dal vero.
L’impotenza dei lavoratori non è solo un alibi dei padroni, ma la logica conseguenza della società industriale in cui, nello sforzo di sottrarvisi, si è infine trasformato l’antico fato.
Ma questa necessità logica non è definitiva. Rimane legata al dominio, come suo riflesso e strumento. Per cui la sua verità non è meno problematica di quanto la sua evidenza sia ineluttabile. Certo il pensiero è sempre di nuovo riuscito a determinare concretamente la sua stessa problematicità.
E il servo a cui il signore non può imporre a piacere di fermarsi. Dacché l’umanità è divenuta stanziale, il dominio, reificato in legge e organizzazione nell’economia mercantile, ha dovuto limitarsi.
Lo strumento acquista autonomia: l’istanza mediatrice dello spirito attenua, indipendentemente dalla volontà dei capi, l’immediatezza dell’ingiustizia economica. Gli strumenti del dominio, che devono afferrare tutti — linguaggio, armi, e infine le macchine — devono lasciarsi afferrare da tutti.
Cosi, nel dominio, il momento della razionalità si afferma come insieme diverso da esso. Il carattere oggettivo dello strumento, che lo rende universalmente disponibile, la sua «oggettività» per tutti, implica già la critica del dominio al cui servizio il pensiero si è sviluppato.
Lungo la via dalla mitologia alla logistica il pensiero ha perduto l’elemento della riflessione su se stesso, e oggi il macchinario mutila gli uomini, anche se fornisce loro nutrimento.
Ma nella forma delle macchine la ratio estraniata si muove in direzione di una società che concilia il pensiero, cristallizzato in apparato materiale e intellettuale, con l’essere vivente liberato, e lo riferisce alla società stessa come al suo soggetto reale.
L’origine particolare del pensiero e la sua prospettiva universale furono da sempre inseparabili. Oggi, con la metamorfosi del mondo in industria, la prospettiva dell’universale, la realizzazione sociale del pensiero, è talmente vicina e accessibile, che proprio a causa di questa prospettiva il pensiero è rinnegato, dai padroni stessi, come mera ideologia.
E non fa che rivelare la cattiva coscienza delle cricche in cui s’incarna, alla fine, la necessità economica, il fatto che le sue rivelazioni, dalle intuizioni del Führer alla «visione dinamica del mondo», in risoluto contrasto con la precedente apologetica borghese, non riconoscano più le proprie malefatte come conseguenze necessarie di leggi oggettive.
Le menzogne mitiche di missione e destino, che subentrano al loro posto, non dicono neppure tutto il falso: non sono nemmeno più le leggi oggettive del mercato, che si affermavano nelle azioni degli imprenditori e portavano alla catastrofe.
Ma è la decisione consapevole dei direttori generali, come risultante che non ha nulla da invidiare, in fatto di necessità, ai più ciechi meccanismi dei prezzi, ad attuare il destino del capitalismo.
I dominatori stessi non credono a nessuna necessità oggettiva, anche se danno talvolta questo nome alle loro macchinazioni. Si presentano come ingegneri della storia universale. Solo i dominati prendono come necessaria e intoccabile l’evoluzione che, a ogni aumento decretato del tenore di vita, li rende di un grado più impotenti.
Da quando i mezzi di sussistenza di coloro che sono ancora necessari per la manovra delle macchine si possono riprodurre con una parte minimale del tempo di lavoro a disposizione dei padroni della società, il residuo superfluo, e cioè l’enorme maggioranza della popolazione, è addestrata come guardia supplementare del sistema, destinata a fungere, ora e in futuro, da materiale dei suoi piani grandiosi.
Sono foraggiati come esercito di disoccupati. La loro riduzione a puri oggetti di amministrazione, che preforma ogni settore della vita moderna fin nel linguaggio e nella percezione, proietta davanti a loro una necessità oggettiva di fronte alla quale si credono impotenti.
La miseria come contrasto di potenza e impotenza cresce all’infinito insieme alla capacità di sopprimere durevolmente ogni miseria. Impenetrabile a ogni singolo è la selva di cricche e istituzioni che, dai supremi posti di comando dell’economia agli ultimi racket professionali, provvede al perdurare indefinito dello status quo.
Agli occhi del bonzo sindacale, posto che attiri mai la sua attenzione, per non dire a quelli del manager, un proletario è già niente di più che un esemplare in soprannumero, mentre il bonzo, da parte sua, non può fare a meno di tremare di fronte alla prospettiva della propria liquidazione.
L’assurdità della condizione in cui il potere del sistema sugli uomini cresce a ogni passo che li sottrae al potere della natura, denuncia come obsoleta la ragione della società razionale. La sua necessità è illusoria, non meno della libertà degli imprenditori, che finisce per rivelare la sua natura coattiva nelle loro inevitabili lotte e accomodamenti.
Questa illusione, in cui l’umanità illuminata senza residui si perde, non può essere dissolta dal pensiero che, come organo del dominio, deve scegliere fra comando e obbedienza. Se non può sottrarsi all’incantesimo a cui rimane avvinto nella preistoria, arriva tuttavia a ravvisare nella logica dell’aut/aut, coerenza e antinomia, con cui si è radicalmente emancipato dalla natura, questa stessa natura, inconciliata ed estraniata a se stessa.
Il pensiero, nel cui meccanismo coattivo la natura si riflette e si perpetua, riflette, proprio in virtù della sua irresistibile coerenza, anche se stesso come natura immemore di sé, come meccanismo coattivo. Certo la facoltà rappresentativa è solo uno strumento.
Gli uomini si distanziano con il pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla. Come la cosa, come lo strumento materiale che si mantiene identico in situazioni diverse, e può cosi separare il mondo — caotico, multiforme e disparato — da ciò che è noto, uno e identico, anche il concetto è lo strumento ideale che si adatta a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare.
Il pensiero diventa illusorio, appena vuole rinnegare la funzione separante di distacco e oggettivazione. Ogni unione mistica rimane un inganno, la traccia interiore e impotente della rivoluzione mercanteggiata.
Ma se l’illuminismo ha ragione contro ogni ipostasi dell’utopia e proclama impassibile il dominio come scissione, la frattura tra soggetto e oggetto, che esso vieta di colmare, diventa l’indice della falsità propria e della verità.
La condanna della superstizione ha significato sempre, insieme al progresso del dominio, anche lo smascheramento del medesimo. L’illuminismo è più che illuminismo, natura che diviene percepibile nella sua estraniazione.
Nella coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se stessa, come nella preistoria, ma non più direttamente col suo nome presunto, che significa onnipotenza, come mana, bensì come qualcosa di mutilo e cieco. La condanna naturale consiste nel dominio della natura, senza il quale lo spirito non esisterebbe.
Nell’umiltà con cui esso si confessa dominio e si ritratta in natura, si scioglie la sua pretesa di dominio che è proprio quella che lo rende schiavo della natura. Benché l’umanità non possa fermarsi nella fuga davanti alla necessità, nella civiltà e nel progresso, senza rinunciare alla conoscenza, almeno non trasfigura più in garanzie di libertà futura gli argini che erige contro la necessità — le istituzioni, le pratiche di dominio che dall’asservimento della natura si sono sempre ripercosse sulla società.
Ogni progresso della civiltà ha rinnovato, col dominio, anche la prospettiva di placarlo. Ma mentre la storia reale è intessuta di sofferenze reali, che non diminuiscono affatto in proporzione all’aumento dei mezzi per abolirle, per realizzarsi la prospettiva può contare solo sul concetto.
Perché esso non si limita a distanziare, come fa la scienza, gli uomini dalla natura, ma come presa di coscienza di quello stesso pensiero che — nella forma della scienza — rimane legato alla cieca tendenza economica, permette di misurare la distanza che rende eterna l’ingiustizia.
Attraverso questa rammemorazione della natura nel soggetto, nel cui compimento è racchiusa la verità misconosciuta di ogni cultura, l’illuminismo è, in linea di principio, opposto al dominio, e l’invito a fermare l’illuminismo echeggiò, anche ai tempi di Vanini, meno per timore della scienza esatta che in odio al pensiero indisciplinato che si libera dall’incantesimo della natura, in quanto si riconosce come il suo stesso tremare davanti a se stessa.
I preti hanno sempre vendicato il mana sull’illuminista che lo conciliava provando orrore dell’orrore che recava quel nome, e gli àuguri dell’illuminismo furono solidali nella hybrid coi preti. L’illuminismo borghese si era già smarrito nel suo momento positivistico molto tempo prima di Turgot e D’Alembert.
Fu sempre esposto alla tentazione di scambiare la libertà con l’esercizio dell’autoconservazione. La sospensione del concetto, che avesse luogo in nome del progresso o della cultura, che si erano già segretamente accordati da tempo contro la verità, ha lasciato campo libero alla menzogna.
Che — in un mondo che si limita a verificare enunciati protocollari e a custodire pensieri, degradandoli a contributo di grandi pensatori, come se fossero degli slogan invecchiati — non si lasciava più distinguere dalla verità neutralizzata a patrimonio culturale.
Ma riconoscere il dominio fin dentro al pensiero, come natura inconciliata, potrebbe smuovere quella necessità, di cui lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l’eternità in omaggio al common sense reazionario.
Elevando la necessità a base per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito — alla buona maniera idealistica — a vetta suprema, esso ha afferrato in modo troppo spasmodico l’eredità della filosofia borghese.
Il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe cosi meramente quantitativo, meccanico; e la natura, posta come affatto estranea, al pari della prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme col socialismo.
Rinunciando al pensiero, che nella sua forma reificata — matematica, macchina, organizzazione — si vendica dell’uomo dimentico di sé, l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione.
Disciplinando ogni singolo elemento, ha lasciato alla totalità sfrenata la libertà — come dominio sulle cose — di ritorcersi sull’essere e sulla coscienza degli uomini.
Ma la prassi veramente rivoluzionaria dipende dall’intransigenza della teoria verso l’incoscienza con cui la società lascia che il pensiero s’indurisca. A rendere difficile la realizzazione non sono i suoi presupposti materiali, bensì la tecnica scatenata come tale.
Questo affermano i sociologi, che cercano ora un nuovo antidoto, magari di stampo collettivistico, per venire a capo dell’antidoto[5]. Responsabile è un contesto sociale di accecamento.
Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi pur sempre producono finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto positivo, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in docile fiducia nella tendenza oggettiva della storia.
Come organo di questo adattamento, come pura costruzione di mezzi, l’illuminismo è così distruttivo come affermano i suoi nemici romantici. Perviene a se stesso solo rinunciando all’ultima intesa con loro e osando abolire il falso assoluto, il principio del cieco dominio.
Lo spirito di questa teoria intransigente potrebbe invertire, proprio alla sua meta, quello inesorabile del progresso. Il cui araldo, Bacone, ha sognato delle mille cose «che i re con tutte le loro ricchezze non possono comprare, né con tutta la loro forza comandare; delle quali le loro spie e le loro vedette non possono dare alcuna notizia»[6].
Come egli si augurava, queste cose sono toccate ai borghesi, agli eredi illuminati dei re. Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che per amministrarle non c’è più bisogno dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di nessuno.
Dal potere delle cose, essi apprendono a fare infine a meno del potere. L’illuminismo si compie e si toglie, quando gli scopi pratici più prossimi si rivelano come la lontananza raggiunta, e le terre «delle quali le loro spie e le loro vedette non possono dare alcuna notizia», cioè la natura misconosciuta dalla scienza padronale, sono ricordate come quelle dell’origine.
Oggi che l’utopia di Bacone — «comandare la natura nell’azione» — si è realizzata su scala tellurica, diventa palese l’essenza della costrizione che egli imputava alla natura non dominata.
Era il dominio stesso. Nella cui dissoluzione può quindi trapassare il sapere, in cui indubbiamente consisteva, secondo Bacone, la «superiorità dell’uomo».
Ma di fronte a questa possibilità l’illuminismo al servizio del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse.
Note
[1] B. Spinoza, Ethica, pars IV, propositio XXII, corollarium [trad. it. in Etica e trattato teologico-politico, Utet, Torino 1990, p. 285].
[2] Omero, Odissea, XII.191.
[3] Ibid., XII. 189-90.
[4] G. w. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [trad. it. Fenomenologìa dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1987, vol. I, p. 160].
[5] R. B. Fosdick, A Review for 1943, The Rockefeller Foundation, New York 1944, pp. 33 sgg.: «The supreme question which confronts our generation today — the question to which all other problems are merely corollaries — is whether technology can be brought under control… Nobody can be sure of the formula by which this end can be achieved … We must draw on all the resources to which access can be had».
[6] F. Bacone, Discourse in Praise of Knowledge [trad. it. Discorso in elogio della conoscenza, in id., Uomo e natura. Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 6]. [N.d. C.].
Da: M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Querido Verlag, Amsterdam 1947, pp. 42–57; ora in M. Horkheimer, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, vol. V, pp. 52–66, e in Th. W. Adorno, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, vol. III, pp. 46–60 [trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pp. 36–50. Traduzione di R. Solmi].
Fonte: La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, a cura di Enrico Donaggio, Torino, Einaudi, 2005, pp.210–223