Desktop Publishing, una valanga di caratteri
La nascita dell’Adobe Type Library
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Il collo di bottiglia dei caratteri disponibili
Un ostacolo allo sviluppo del nuovo fenomeno del desktop publishing era la scarsità di caratteri. L’offerta di font per la LaserWriter impallidiva di fronte a quella de sistemi di fotocomposizione tradizionali. La capacità di costruire librerie di font a prescindere dal dispositivo PostScript di output è stata la chiave del successo Adobe.
Warnock e Geschke sapevano che per vendere la tecnologia PostScript, avevano bisogno di più caratteri. Così nel 1984, in concomitanza con lo sviluppo della LaserWriter, Adobe iniziò a costruire una libreria di caratteri, prima attraverso la licenza di terze parti, poi attraverso lo sviluppo di caratteri originali. Col tempo, la libreria di caratteri di Adobe divenne la più grande del suo genere.
L’accordo con Linotype per i primi font della LaserWriter pose le fondamenta dell’impegno di Adobe nel campo dei caratteri tipografici. Adobe chiamò a guidare questa impresa il designer di caratteri Sumner Stone. “Quando sono arrivato, John e Chuck avevano già un accordo con Linotype, il che mi ha impressionato”, racconta Stone. “Lino era un osso duro e deve essere rimasto molto impressionata da ciò che Adobe gli ha fatto vedere”.
Il Times e l’Helvetica erano già stati trasformati in Postscript, quando Stone mise piede negli uffici di Adobe a Palo Alto. “All’inizio John e Chuck pensavano di assumere le mogli degli amici per digitalizzare i caratteri”, ricorda Stone, sorridendo. “Pensavano che la digitalizzazione fosse un problema relativamente minore che poteva essere risolto da persone intelligenti prive di una formazione tipografica”. I primi risultati li dissuasero presto a questa intenzione.
L’accordo con ITC
Adobe entrò in trattativa con l’International Typeface Corporation (ITC), il principale fornitore di caratteri tipografici per le imprese pubblicitarie e mediatiche di New York. Secondo Allan Haley, all’epoca vicepresidente esecutivo dell’ITC, l’ITC era alla ricerca di un modo per entrare nel lucrativo mercato degli affari. Quando Adobe andò a bussare alla porta di ITC per cercare i font per la sua stampante laser, la ITC fu lieta di accoglierla.
All’epoca era un azzardo per ITC, poiché il 90% delle vendite dell’azienda erano destinate a sistemi di composizione proprietari come quelli di Linotype e Compugraphic. Un azzardo riuscito, però. Negli anni Novanta, il 99 per cento del fatturato di ITC proveniva dai font digitali.
“Era tutto molto incerto”, ricorda Haley a proposito delle trattative del 1984 tra Adobe e ITC. “Nessuno sapeva se si sarebbe andati a finire da qualche parte”.
Lo standard dei 35 caratteri
La seconda stampante laser della Apple, la LaserWriter Plus introdotta nel 1986, conteneva più font di Linotype e ITC, portando il numero di font PostScript preinstallate da 13 a 35, da allora lo standard per le stampanti PostScript.
La “LaserWriter 35”, come era talvolta noto il set di caratteri, aggiungeva 22 font ai 13 originali della prima LaserWriter. I nuovi caratteri tipografici includevano l’Avant Garde Gothic dell’ITC, il Bookman, lo Zapf Chancery e il Palatino di Linotype. Sia il Palatino che lo ITC Zapf Chancery erano stati progettati dal leggendario Hermann Zapf, il cui coinvolgimento nel progetto dette legittimità ai font PostScript nelle comunità tipografiche ed editoriali tradizionali.
Dato che i 35 font sono diventati un elemento importante nell’era dei caratteri PostScript, è interessante vedere come avvenne la loro scelta.
Si trattò di una scelta curiosa. Le decisioni furono prese in modo casuale e, diciamo, politico piuttosto che con un occhio di riguardo allo stato della tipografia di fine secolo. “Nessuno allora sapeva quanto sarebbe stata importante quella scelta”, dice Stone.
Secondo Haley e Stone, fu proprio Steve Jobs a scegliere alcuni dei caratteri sotto la guida di Aaron Burns dell’ITC, che era attratto in modo paterno dalla personalità del giovane Jobs.
A un certo punto Jobs voleva l’ITC Gorilla, un font serif arrotondato che assomigliava un po’ a l’ITC Souvenir, ma più audace e grezzo; un font molto popolare all’epoca. “Era come un gioco da ragazzi”, dice Stone. “Quando Jobs fu consultato, aveva le sue precise opinioni. Voleva includere Gorilla, ma invece ci ritrovammo con lo Zapf Chancery, che era considerato un carattere più “sbarazzino”. Il Bookman fu un compromesso politico, così come l’Avant Garde, entrambi sponsorizzati dall’ITC che voleva un altro serif e sans serif da affiancare al Times e all’Helvetica di Linotype”.
Lo stesso Stone fece pressioni per il Palatino, che considerava più moderno delle altre proposte. L’Helvetica Narrow, come il Courier, era un costrutto software piuttosto che un carattere tipografico vero e proprio, fatto per salvare preziosa memoria.
La conversione dei caratteri
Il modo più veloce per costruire una libreria di caratteri, naturalmente, era quello di prendere i caratteri esistenti e convertirli. Adobe approfondì la partnership con Linotype e ITC. Le aziende inviarono ad Adobe le specifiche in formato digitale, e Adobe li convertì in formato PostScript.
I font PostScript erano composti da due parti: una rappresentazione bitmap per la visualizzazione sullo schermo e una versione vettoriale per la stampa.
Bill Paxton di Adobe sviluppò uno strumento per convertire i sorgenti in PostScript e per applicare gli attributi tecnici esclusivi del PostScript, come l’hinting, che riproduce bene i caratteri tipografici a piccole dimensioni e a risoluzioni basse.
Le specifiche di alcune fonderie di font non erano precise, quindi lo staff di Adobe ebbe il peculiare ruolo di “interprete tra gli sviluppatori e i progettisti di caratteri. All’inizio c’era un sacco di lavoro manuale”, dice Stone.
Stone, al momento della firma con Adobe, come direttore della tipografia, aveva chiarito che era lì per realizzare un progetto originale. “Sia Chuck che John davano grande valore all’innovazione e alla creatività, quindi a loro questo stava bene”, dice Stone. Per segnalare al resto dell’azienda che lo sviluppo dei caratteri tipografici era più arte che codice, installò un tavolo da disegno nel suo ufficio.
La “Stone age”
Quasi Stone subito iniziò a lavorare all’omonimo Stone, il primo carattere commerciale creato da zero in PostScript. Pubblicato nel 1987, il carattere Stone consisteva di tre stili , Serif, Sans serif e Informal . Successivamente fu concesso in licenza alla ITC.
Un tratto distintivo dell’ITC Stone, fu quello di essere progettato per sfruttare appieno l’indipendenza dei dispositivi PostScript, così da apparire bene a basse risoluzioni e a piccole dimensioni. Soprattutto, era un siluro per le fonderie di tipo old-school.
“Era un nuovo carattere tipografico per il mondo dei computer, progettato per un nuovo ambiente, non era solo la digitalizzazione di un font esistente”, dice Stone. Fu anche uno dei primi caratteri di Adobe a essere venduto non come parte di una stampante o di un sistema operativo, ma come un pacchetto a sé stante (gli altri font nel pacchetto erano i 22 aggiunti alla LaserWriter Plus).
Da solo, la famiglia di caratteri Stone, con sei stili incorporati, era venduta per 275 dollari. Rispetto alla composizione tipografica tradizionale, in cui un singolo stile di font costava 180 dollari, il PostScript era un affare. Ma per i desktop publisher abituati ad avere i loro font preinstallati su un computer o una stampante, l’acquisto di un carattere tipografico a sé stante era una nuova esperienza.
“Sapevamo di dovere educare alla nuova tecnologia dei caratteri. Dovevamo promuovere l’idea che si trattava di un vero e proprio mestiere e che l’artigianato era importante in questo mestiere”, dice Stone.
Adobe produsse poster e opuscoli sui caratteri, pubblicò un catalogo trimestrale chiamato Font & Function e diffuse libri nei quali erano descritte in dettaglio le caratteristiche del font. Le campagne funzionarono. “Rimanemmo sorpresi dalla rapidità con i quali i font erano venduti. Li vendevano come il pane”, ricorsa Stone.
Caratteri nuovi e freschi
Spinto da questo successo, Stone mise insieme un team di designer e tecnici per sviluppare caratteri originali. Tra loro c’erano Robert Slimbach, con il quale aveva lavorato in Autologic, e Carol Twombly, che si era laureata nel corso di Charles Bigelow a Stanford.
Slimbach e Twombly iniziarono come progettisti freelance rispettivamente nel 1987 e nel 1988 e crearono, sotto la guida di Fred Brady alcuni dei più popolari caratteri tipografici del programma Adobe Originals.
Adobe commissionò anche a designer esterni la creazione di Adobe Originals. Uno di loro, David Siegel, progettò il popolare Tekton, basandosi sul lettering de progetti architettonici.
“Avevamo l’idea dei font non come qualcosa di derivato da ciò che era stato prima, ma come qualcosa di fresco e nuovo, qualcosa di progettato proprio per questa tecnologia”, dice Twombly, i cui progetti includono Adobe Caslon, Trajan, Lithos, Chapparal, e (con Slimbach) Myriad, l’ultimo dei quali è ora uno dei caratteri tipografici aziendali di Adobe.
“Il nostro obiettivo era quello di dare credibilità al design dei caratteri digitali presso i tipografi professionisti”, dice Slimbach, che ha progettato Adobe Garamond, Utopia, Minion, Jenson e altri. “All’epoca c’erano dei tipografi puristi che impostavano i caratteri a mano. Molti avevano un atteggiamento attendista”.
Per rafforzare la posizione di Adobe come fonderia di caratteri seria, Stone costituì un comitato consultivo per i caratteri che comprendeva il designer editoriale Roger Black, il presidente della Yale University Design School, Alvin Eisenman, il letterer Stephen Harvard, e lo stampatore Jack Stauffacher. Al comitato si univano spesso designer internazionali come Gerard Unger ed Erik Spiekermann. Adobe produsse pacchetti di caratteri per diversi usi, pacchetti scelti da Black, Haley, Spiekermann e altri.
Barbari alle porte
Con il decollo dei font PostScript, Adobe si affrettò a immettere sul mercato sempre più caratteri tipografici, concedendo la licenza di uso degli strumenti per la loro creazione ai fornitori di font in modo che potessero digitalizzare e convertire in PostScript i propri font sotto l’occhio vigile di Adobe.
Le fonderie di caratteri del vecchio mondo, che avevano respinto PostScript, si resero conto di doversi adattare. Ben presto aziende come Agfa, Monotype e Berthold accettarono di convertire le loro formidabili librerie in PostScript.
“Il PostScript era visto come i barbari alle porte”, dice David Lemon, che è entrato in Adobe nel 1986 e che ha lavorato a lungo come responsabile dello sviluppo dei caratteri di Adobe. “Era la fine del mercato esclusivo dei caratteri. Dovevano entrarci o uscire dal mercato”.
Non solo arrivarono le fonderie tipografiche affermate, ma nacque anche un nuovo tipo di piccole case tipografiche indipendenti. Il rilascio di un prodotto di terze parti chiamato Altsys Fontographer (poi acquisito da Macromedia e quindi da Adobe) permise anche ai non addetti ai lavori di progettare font PostScript.Ne seguì un boom globale nella progettazione e nello sviluppo di caratteri PostScript.
Non c’era stato nella storia un periodo così prolifico di sviluppo di font e l’era del font digitale rapidamente superò anche in termini quantitativi l’era delle fonderie metalliche. La sola biblioteca di Adobe conteneva più di 3.000 caratteri tipografici alla fine degli anni novanta.
Si chiude il cerchio
La posizione dominante di Adobe fu presto scalzata perché i designer emergenti produssero font più grezzi ma a più buon mercato e perché apparvero una serie di font contraffatti che spinsero i prezzi al ribasso. Piccole aziende digitalizzarono intere librerie di font vendendo i singoli caratteri per pochi centesimi di dollaro.
Adobe fu in grado di garantire la protezione dei font PostScript, al pari degli altri programmi software, con una causa del 1999. Ma i prezzi si erosero ulteriormente quando Apple e Microsoft inondarono il mercato con il formato di font rivale al PostScript, il TrueType.
Mentre la domanda di font digitali non era mai stata così alta, la sostenibilità del business delle font andava diminuendo.
Nel 1992 Adobe, continuando a cercare modi per promuovere i font PostScript, sviluppò un formato innovativo chiamato Multiple Master. I Multiple Master davano agli utenti un maggiore controllo sull’aspetto dei caratteri tipografici e portavano all’interno del formato digitale tecniche come la scalatura ottica del carattere.
Ma “Multiple Master non ebbe mai un buon supporto nelle applicazioni” ammette David Lemon, che contribuì a scrivere le specifiche del formato. “Doveva essere regolato manualmente. Sembrava una faccenda troppo complicata per gli utenti”.
Nel 1996 Adobe si unì a Microsoft per sviluppare una tecnologia di font di nuova generazione. Chiamato OpenType, il nuovo formato combinava aspetti del PostScript e del TrueType per creare font da poter essere usati nella stampa e sul Web.
Inoltre il formato OpenType era in grado di supportare set di caratteri estesi come quelli degli alfabeti non latini. Adobe convertì la sua intera libreria nel formato OpenType e tutte le applicazioni Adobe iniziarono a supportarlo.
Il formato OpenType
“Chiudemmo il cerchio”, dice Lemon, che guidò il team della la conversione in OpenType. “All’inizio lo sviluppo dei caratteri in Adobe era un modo per spiegare il valore del PostScript. Ora l’attenzione si concentrava su come il carattere potesse aggiungere valore al prodotto. Proprio come i font mostrarono ciò che PostScript poteva fare, oggi sono un modo per mostrare ciò che le applicazioni possono fare”.
È difficile sopravalutare l’impatto dei font PostScript sull’editoria moderna e sul successo di Adobe. Per tutto il periodo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la strategia si concentrò sulle vendite delle stampanti PostScript ai consumatori finali.
Ma Adobe puntava a un obiettivo più grande: i produttori di stampanti. Il team di vendita di Adobe si attivò per convincere quei produttori a prendere in licenza il PostScript e a montarlo sui loro dispositivi di output.
Ma questa è un’altra storia.