Da Satori alla Silicon Valley
di Theodore Roszak
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [ottobre 2019]
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Il raduno delle tribù
In quest’epoca di nostalgia istantanea, gli eventi passano dal giornalismo al folclore prima che abbiano una buona occasione per entrare nella storia. Lo stesso vale sicuramente per il periodo che chiamiamo “gli anni ‘60”. La controcultura americana che si sviluppò in questa fase, tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’70, è già diventata oggetto di rappresentazione canonica, sia in televisione che nei libri di storia utilizzati oggi nelle scuole e nelle università di tutto Paese. Viene a galla negli ultimi capitoli, quando il racconto, dopo aver spazzato via il Vietnam e il Watergate come un mare in tempesta, inizia a defluire mestamente verso gli anni di Carter e di Reagan.
L’immagine tipica vede gruppi di ragazzi allegri, trasandati e rozzi, intenti a spassarsela all’aria aperta, magari in un parco, in un campo o in un bosco. I capelli arruffati ricadono sciolti sulle spalle o sono fermati con fascette indiane. I vestiti sono rattoppati, sfrangiati e decorati con perline, creando una commistione di arretratezza caotica e splendore barbarico. Spesso sono carichi di zaini, sacchi a pelo e provviste che li avvolgono in un’aura di transitorietà: gente in viaggio, lontana da casa, pronta a buttarsi ovunque per passare la notte: nei boschi, in un sottoscala, in un furgone. Mendicanti cittadini del mondo, in sosta per cantare o suonare sulla strada per Berkeley o Boulder, Cambridge o Katmandu, North Beach o i North Woods. A volte si fanno più seriosi e sventolano slogan come: “Fate l’amore, non fate la guerra”, “Fermate i bombardamenti subito”, “Date una possibilità alla pace”.
Ma sono davvero esistite queste persone? Sì e no. Ogni movimento sociale lascia dietro di sé ricordi al contempo rivelatori e fuorvianti, senza i quali lo studio della storia sarebbe perduto. Stereotipi come quello dell’Abolizionista, del Robber Baron, del Progressista Riformista o del New Dealer sono ottimi punti di partenza per iniziare a comprendere il passato, ma ognuna di queste immagini lasciateci in eredità necessita di una puntualizzazione critica. Inoltre, bisogna tenere presente che gli stereotipi, per loro natura, la dicono lunga sulle speranze, le fantasie e le paure sociali, ognuna delle quali ha la sua storia.
Da ormai diversi anni, più o meno dalla metà degli anni ’70, percepisco un opprimente senso di riluttanza e di imbarazzo quando si tratta di ricordare il ruolo sociale di quelli che i media chiamavano beatnik, hippy o figli dei fiori. Quando si parla del loro periodo storico, molte di queste persone si affrettano a rinnegare il passato con sdegno, prendendone le distanze con fare assennato. Si torna a scavare in mezzo ad anni di informazione mutevole, di insicurezza nazionale e di rifiuto sociale, chiedendosi se il dissenso politico degli anni ’60 non sia stato l’ennesima invenzione mediatica.
Di certo, negli ultimi anni, le uniche prove viventi in cui mi sia imbattuto sono le vittime, sopravvissute a stento alla controcultura, che infestano tuttora il centro di Berkeley elemosinando briciole di cambiamento e il cui triste squallore non prova niente di più audace e stimolante dell’essere scoraggiati e ormai vecchi.
Eppure, con un piccolo sforzo e un certo candore, riesco ancora a ricordare gli originali felici di queste caricature sbiadite, quando animavano le strade di Haight-Ashbury (il centro del movimento hippie negli anni sessanta)e di Telegraph Avenue (la strada di 7 km che collega il centro di Oakland al campus dell’Università di Berkeley; la strada è diventata il simbolo della controcultura).
A quei tempi, la loro immagine sbrindellata e indipendente (o la sua imitazione) era l’emblema fiero e manifesto della disaffiliazione culturale che stava sbocciando nelle strade di ogni grande città e nei campus di ogni piccolo college o scuola superiore. Rappresentava una rottura irrevocabile con la cultura urbana e industriale che dominava il mondo e che lo domina oggi ancora di più. Il loro stile voleva essere “naturale”, “ecologico”, rifiutando per principio le consuetudini perbeniste, asettiche e arriviste della borghesia in favore di un ritorno alle origini popolari e alle tradizioni perdute.
Un po’ ribelli bohémien e un po’ nobili selvaggi, quelli che adottavano in toto l’identità anticonformista del tempo si autodefinivano “freak” e formavano “tribù” improvvisate ed effimere in cui la vita semplice ed eccentrica era la regola. Gli abitanti del Morning Star Ranch, nella contea di Marin [in California], ad esempio, definivano il loro stile di vita “primitivismo volontario”, un progetto che trascendeva tanto la ricchezza eccessiva quanto la minima igiene.
La ricerca di un’alternativa postindustriale condusse alcuni fuori dalle città, verso nuove comuni rurali, poche delle quali erano destinate a sopravvivere. Tuttavia, anche in città si potevano trovare “collettivi” i cui membri vivevano come cavernicoli urbani, accampati al chiuso. A Berkeley, verso la fine degli anni ’60, quando io e mia moglie eravamo in cerca di una casa in affitto, avemmo modo di passare in rassegna diversi esperimenti domestici di questo tipo (o ciò che ne restava dopo che la tribù di turno aveva levato le tende senza pagare l’affitto).
Case maleodoranti in stato di degrado avanzato, i cui ultimi inquilini avevano montato tende in salotto o passato la notte in sacchi a pelo. In cucina, le dispense erano piene di riso integrale stantio e animaletti infestanti; nei frigoriferi capitava di trovare cibo e torte di germogli di soia rimasti lì per mesi. Si percepiva distintamente come in questi posti il cibo biologico fosse una sorta di talismano, la cui stessa presenza era abbastanza potente da sfatare la teoria microbica delle malattie.
Inoltre vi erano segni della presenza di molti animali che erano stati o erano ancora in quelle case liberi, incontrollati e denutriti. Nel quartiere di Haight-Ashbury e nella East Bay c’era il culto del “cane naturale”: più grande, meno pulito e meno addomesticato era, meglio era. Per un periodo, ci furono interi quartieri di Berkeley e San Francisco che assunsero l’aspetto e l’odore di fattorie o riserve di caccia.
Le persone che hanno vissuto questi momenti, un tempo in guerra contro la generazione genitoriale dell’epoca, sono diventate esse stesse i genitori di quelli che oggi sono i miei studenti. Non sono svanite in una nuvola di fumo, ma hanno continuato a vivere assieme agli ottanta milioni di baby boomer che hanno trovato lavoro e messo su famiglia, che hanno deciso di entrare in politica e di giocare in borsa.
Alcuni di loro, soprattutto donne, si presentano alle mie lezioni come “studenti adulti”, spesso per riprendere gli studi che hanno abbandonato vent’anni fa. Superati i quaranta o i cinquant’anni, avendo ancora perlomeno una trentina d’anni davanti a sé, capita che questi baby boomer vengano nel mio ufficio a lamentarsi di quanto sia difficile crescere figli nell’epoca del crack e dell’AIDS.
Avrebbero il coraggio di essere permissivi quanto lo erano i loro genitori, ai tempi in cui le teorie educative del Dottor Benjamin Spock erano tanto in voga? Guardandosi indietro, come me, restano pieni di interrogativi, non per ultimo quello del come si sia passati dall’idealismo inebriante della controcultura al reaganismo e alla maggioranza morale, ai Nine Inch Nails e alla frenesia delle dot-com.
Non ne sono certo, ma questa è l’idea che mi sono fatto sulla linea di discendenza che ha portato dal Satori alla Silicon Valley.
Commonwealth naturale e anarchia buddista
L’apice di questo sforzo simbolico per rendere più rustica la civiltà occidentale è stato forse il breve e burrascoso episodio del “People’s Park” di Berkeley. Quello che lo Human Be-In di San Francisco (1967) era stato per un giorno, quello che Woodstock (1969), nello stato di New York, era stato per un fine settimana, il People’s Park voleva esserlo per sempre.
L’evento poteva essere inteso come il culmine della filosofia sociale basata sull’azione diretta teorizzata dai Diggers di Haight-Ashbury. Verso la fine del 1966, dopo aver distribuito una serie di volantini che inneggiavano a un ordine sociale basato sull’anarchia urbana, i Diggers avevano iniziato a promuovere quotidianamente un progetto dedicato al cibo, usando lo slogan “è gratis perché è tuo”. Il cibo era rubato o racimolato a gratis nei negozi della città (quasi sempre vecchio di giorni e invendibile, se commestibile) e veniva distribuito a una popolazione in aumento di giovani malnutriti che vivevano per strada.
I primi Digger della storia, invece, quelli che vissero in Inghilterra del XVII secolo, non erano accattoni, anzi, aspiravano ad essere rivoluzionari. Erano agricoltori e artigiani espropriati che avevano occupato i terreni proclamandoli “tesoro comune” della gente e avevano iniziato a dissodarli. In realtà la terra era ben poca, perché i Digger erano appena una dozzina, e l’occupazione non durò a lungo, solo pochi mesi, prima che fossero scacciati e condannati in quanto pazzi, più che criminali.
Il People’s
Park di Berkeley, nel 1969, fece rivivere il sogno originario dei Digger. Un gruppo di squatter capelloni (e i loro cani) prese un’area verde della città e la rese libera da Reagan e dai rettori universitari. Subito si sparse la voce e le tribù iniziarono a piantare tende, coltivare orti, scaldarsi le ossa intorno ai falò e creare un Commonwealth naturale. Gli aborigeni del People’s Park (le cui origini risalivano a qualche giorno prima, a farla grande) si autodefinirono “fratelli di zolla” e iniziarono a coltivare campi che non diedero mai frutto (d’altronde pochi sarebbero rimasti fino all’epoca del raccolto).
In ogni caso, il governo e i dirigenti universitari repressero l’esperimento prima ancora che potesse fallire, trasformandolo nell’ennesimo gesto emblematico, infatti la storia di quel periodo è essenzialmente una collezione di esperienze simboliche come questa, tanto evocative quanto effimere.
Tuttavia, ci fu chi prese la raccolta dell’asparago selvatico molto più seriamente, mettendo una notevole inventiva, nonché una grande energia, nelle tecniche di sopravvivenza postindustriale. Per esempio nacque il Portola Institute di Menlo Park, nel 1966, che diede origine a molti progetti ingegnosi della Bay Area e il cui obiettivo era di ridimensionare, democratizzare e umanizzare la nostra società ipertrofica e tecnologica. Fra questi vi furono il Briarpatch Network, il Farallones Institute, l’Integral Urban House e il Simple Living Project.
Sulla scena nazionale, l’iniziativa di maggior risalto fu lo Whole Earth Catalog del 1968, pietra miliare di quel periodo storico. Il catalogo offriva un vasto compendio di possibilità e risorse per una vita lenta, ma autosufficiente: stufe a legna, rimedi casalinghi, mocassini su ordinazione, attrezzi durevoli. Ricordo che partecipai a un incontro a San Francisco in cui fu distribuita, con una rilegatura piuttosto misera, la prima edizione del catalogo, appena stampata in sole mille copie.
Tutti esaminarono il “Catalog”
attentamente con un misto di meraviglia e autentica gioia, perché sì, quelli erano gli strumenti e i metodi della tecnologia tribale alternativa, di un’economia futura basata sul ritorno alle origini, pronti per essere ordinati e adoperati. Quando le città fossero crollate (come sarebbe successo inevitabilmente) e le linee di distribuzione fossero rimaste bloccate (il che potrebbe succedere tuttora da un momento all’altro), questi sarebbero stati i mezzi per una sopravvivenza ingegnosa. Lì, alla portata di tutti, c’erano le istruzioni per costruire una tenda, ad esempio, e per una modica cifra si poteva persino avere un libro che spiegava come partorire in una capanna di tronchi.
Quanti fra coloro che lessero il catalogo ne hanno poi ordinato i prodotti o applicato i consigli? Mi sorge il dubbio che per molti fosse più una bandiera che il reale strumento che avrebbe dovuto essere. Tuttavia, pur volendo minimizzare la maggior parte di questi gesti in quanto stravaganze impraticabili, essi rimangono, di fatto, testimonianze provocatorie di uno scontento giustificato che ha trovato un appiglio, per quanto malfermo, nei valori naturali che la cultura industriale si è lasciata alle spalle.
Questa fenomeno, a mio parere, ha rappresentato una fra le migliori espressioni della breve parentesi controculturale americana. Da qualche parte, nella ricerca nostalgica di una vita più semplice, risiedeva quella sensibilità salvifica che forse avrebbe potuto disciplinare il nostro industrialismo frenetico e dargli un volto umano. Quel che è certo è che la nostra fame di alternative socioeconomiche e i nostri dibattiti sui problemi di fondo del sistema industriale non hanno trovato eguali al di fuori di questo periodo breve, ma intenso. Come dovrebbe essere un sistema di produzione e consumo sano? Qual è la vera ricchezza delle nazioni? Che significato hanno il lavoro, il tempo libero, la comunità, il maschile e il femminile, la libertà e la realizzazione personale? Che rapporto c’è fra l’economia e l’ambiente? Come possiamo creare un’economia della permanenza? Quali sono i valori della cultura planetaria? Non ricordo più l’ultima volta che ho sentito parlare di questi grandi temi con quell’energia che nasce dal senso della possibilità.
Che il paradigma visionario che accendeva il dibattito su questi grandi temi fosse una sorta di neoprimitivismo idealizzato ha poca importanza, sul piano intellettuale, rispetto alla qualità delle idee che ben presto si diffusero presso un pubblico improbabile di giovani borghesi dissenzienti e anticonvenzionali. Fra queste vi erano l’economia a misura d’uomo (a volte definita in modo alquanto pittoresco “economia buddhista”) di E. F. Schumacher, la filosofia comunitaria di Paul Goodman e di Murray Bookchin, le teorie sociali conviviali di Ivan Illich, la poetica ecologista di Gary Snyder, ma anche le lotte dei movimenti femministi e le variegate intuizioni della psicologia umanistica e del potenziale umano. Come molti altri immissari, queste correnti sono confluite nell’ambientalismo dei primi anni ’70, tuttora presente, che è stato il germoglio più longevo della protesta controculturale.
Tutti questi temi erano permeati da una particolare interpretazione del misticismo naturale zen e taoista, nata nella la west coast e caratterizzata da un ritrovato senso di fedeltà alla Terra e ai suoi ritmi, tendenza che si concentrò soprattutto nella Bay Area dopo la guerra. Il lato positivo della disaffiliazione giovanile degli anni ’60, infatti, fu proprio la scoperta di un nuovo modello postindustriale di ricchezza e benessere largamente ispirato alla filosofia orientale.
Tuttavia, ho conosciuto studiosi convinti che perfino Alan Watts, che si prodigò ampiamente per diffondere lo zen, non avesse compreso appieno il significato autentico del satori. Sarebbe dunque azzardato provare a dire in quanti, fra i membri meno preparati della controcultura, abbiano maturato una conoscenza ragionata di questa elusiva tradizione. Tuttavia, grazie a tali fonti esotiche, molti hanno quantomeno preso coscienza di alcuni valori che generalmente non venivano rispettati, nella nostra sfrenata economia industriale, ossia la fiducia nell’organismo e nei modelli naturali spontanei, il sostentamento equilibrato, l’interesse per quei piaceri dei sensi e quelle meraviglie della mente che i soldi non possono comprare e che le macchine non possono produrre.
Forse il grado d’istruzione era carente, ma la volontà c’era, e a volte un’intuizione al momento giusto sopperisce a ciò che l’erudizione non può dare. Se l’eterogenea gioventù degli anni ’60 aveva le sue stelle polari, penso che queste fossero i santi vagabondi taoisti e gli umili maestri zen, i primi filosofi anarchici e i folli saggi che insegnavano l’arte di vivere con leggerezza sulla Terra. Sebbene la controcultura fosse giovane e grezza, alcuni suoi militanti si rendevano perfettamente conto dell’importanza di questi insegnamenti in una società che stava colando a picco sotto i loro occhi, lottando ossessivamente per sottomettere la natura allo scopo di cancellare ogni saggezza tradizionale nel nome del “progresso” e di trasformare l’intero pianeta in un prodotto industriale. Percepivano la portata suicida e distruttiva di una tale smania prometeica e per questo proposero un’alternativa più umanizzante.
Una delle prime e più energiche affermazioni di questo ideale fu il manifesto conciso e lineare di Gary Snyder Anarchia buddista, uscito sul Journal for the Protection of All Beings, altro importante punto di riferimento dell’epoca, pubblicato dalla City Lights Books di Lawrence Ferlinghetti nel 1961.
L’America moderna è arrivata a dipendere, sul piano economico, da un sistema illusorio che incalza un’avidità insaziabile e un odio che non trova sfogo, se non contro se stessi o le persone che si dovrebbe amare. Le condizioni della guerra fredda hanno trasformato tutte le società moderne, inclusa quella sovietica, in futili setacci per la mente, creando popolazioni di preta (spiriti affamati), dall’appetito smisurato e dalla gola sottile come un ago. La terra, le foreste e tutti gli animali vengono distrutti per alimentare questo meccanismo canceroso.
La disaffiliazione e l’accettazione della povertà da parte dei buddisti praticanti diventa dunque una forza positiva, inoltre la tradizionale nonviolenza e il rifiuto di togliere la vita in qualsiasi sua forma presenta implicazioni di portata nazionale. La pratica della meditazione, per la quale è sufficiente avere “la terra sotto i piedi”, spazza via tonnellate di immondizia con cui il cervello viene imbottito dalla “comunicazione” e dalle università-supermercato. La fiducia in una serena e generosa soddisfazione dei desideri naturali distrugge una serie di convenzioni arbitrarie frustranti e indica la via verso un tipo di comunità che sorprenderebbe i moralisti ed eliminerebbe eserciti di uomini che combattono perché non sanno amarsi.
Il gusto per la luce e la magia industriale
Ma ora, se dovessimo focalizzarci su questo aspetto specifico della controcultura, ossia le sue tendenze mistiche e la sua eccentricità di principio, non renderemmo giustizia alla profonda dualità del movimento. Così facendo, finiremmo per tralasciare la fedeltà che ha preservato, nonostante un vigoroso dissenso, verso una certa irreprimibile ingegnosità yankee, un fascino tutto americano per il costruire e il fare.
Stiamo parlando del medesimo importante lignaggio, infatti è proprio in questa categoria di ribelli e spiantati che troviamo alcuni fra gli inventori e gli imprenditori che hanno gettato le basi dell’industria informatica californiana. È interessante delineare e approfondire le relazioni fra questi due aspetti apparentemente contraddittori della controcultura, soprattutto perché entrambe le sue anime si sono espresse molto più qui, nella Bay Area di San Francisco, che in qualunque altro luogo.
È qui che l’impulso zen-taoista è nato e ha raggiunto (ad esempio nel Centro Zen di San Francisco) la sua espressione americana più metodica; è qui che lo stile di vita povero e comunitario, sia urbano che rurale, ha dato i suoi esempi pubblici più significativi; è qui che, per la prima volta, la nuova sensibilità ecologica si è manifestata e ha organizzato le sue energie politiche; infine, è proprio qui che si sono concentrati in massimo numero gli hacker giovani e geniali che avrebbero rivoluzionato la Silicon Valley.
In realtà, scendendo leggermente sotto la superficie, al di là dell’immagine bucolica degli hippy, si scopre un’incredibile infatuazione per le tecnologie più audaci che risale già a i primi anni ’60. Me ne resi conto per la prima volta quando mi accorsi che gli studenti che conoscevo all’epoca leggevano esclusivamente libri di fantascienza, in modo quasi ossessivo, e ne leggevano più di quanti l’editoria riuscisse a dargliene.
Oltre all’interesse per la musica folk e la vita rustica, l’artigianato e l’agricoltura biologica, regnava un entusiasmo quasi infantile per le astronavi e tutti quei meccanismi strabilianti che avrebbero trasformato 2001: Odissea nello spazio e Star Trek in veri e propri cult e che più tardi avrebbero affascinato il pubblico adulto e i produttori di Star Wars, alla fine degli anni ’70 e poi negli anni ’80. Gli stessi occhi che scrutavano il passato tribale in cerca di meraviglie erano pronti a catturare i prodigi di quella che un giorno George Lucas avrebbe chiamato “luce e magia industriale”.
In effetti, se ripensiamo allo Whole Earth Catalog, troviamo lo stesso gusto ibrido. Accanto ai metodi e agli strumenti rurali, si scoprono tecniche e mezzi industriali: stereo, macchine fotografiche, articoli per il cinema e naturalmente i computer. Su una pagina c’era il manifesto del “Fronte di liberazione del contadino pazzo” di Wendell Berry, che invita a un’agricoltura biologica su scala familiare, e su quella dopo c’era la cibernetica di Norbert Wiener.
Ricordo che l’accostamento mi parve stridente, a prima vista, ma poi ci ripensai e mi sforzai di frenare il mio scetticismo. Dopotutto c’era qualcosa di affascinante in quell’eclettismo spensierato. Sì, un catalogo è per sua natura un insieme di elementi diversi, ma quest’opera aveva il chiaro obiettivo di proiettare una visione d’insieme coerente. Sembrava affermare che l’ingegno umano merita di essere celebrato, dalle asce in pietra e dalla medicina degli indiani d’America all’elettronica dei modem.
Ovviamente, così facendo, il catalogo si schierava con tutti coloro che abbracciavano questo modo di pensare, o meglio, andava in cerca delle persone che erano in grado di realizzare tutto questo. Fra le voci che il Catalog
fece emergere, la più importante fu sicuramente quella di Buckminster Fuller, l’uomo grazie al quale un’intera generazione capì di essere già a bordo di un’astronave chiamata Pianeta Terra, di cui Fuller scrisse una sorta di “manuale operativo”.
Negli anni ’60, Buckminster Fuller aveva già una lunga carriera alle spalle. Se la generazione dei baby boomer ha avuto il merito di fare spazio ai giovani all’interno dei media, c’è da dire che la controcultura ha sempre dato ampio risalto a personalità più sagge, che fossero voci del passato come Black Elk e Henry David Thoreau o maestri di vita come Herbert Marcuse e Paul Goodman. La casa prefabbricata Dymaxion, progettata da Fuller negli anni ’20 (detta anche “la macchina vivente quadridimensionale”), risale al tempo dei nonni di chi ha fatto la controcultura.
Da quel momento in poi, la vita dell’inventore ebbe diversi alti e bassi, ma fu sicuramente negli anni ’60, quando Fuller aveva più di settant’anni, che raggiunse il suo apice. Non solo finì sulla copertina del Time nel 1964, ma divenne una delle voci profetiche della controcultura americana, a cominciare da una lunga permanenza nel campus del San José State College, che lo portò nella Bay Area all’inizio del 1966.
Grazie alla visibilità e al conseguente rilievo che Stewart Brand gli riservò all’interno dello Whole Earth Catalog, Fuller fu catapultato nella fase finale e più spettacolare della sua carriera. La prima pagina del Catalog
riportava l’intero corpus delle sue opere, presentate benevolmente sotto la scritta: “Le intuizioni di Buckminster Fuller hanno dato vita a questo catalogo”. Da quel momento, Fuller divenne una presenza immancabile in tutte le conferenze, nei simposi e nei seminari New Age, quasi fosse una sorta di stregone che girava il mondo e incatenava alla sedia un pubblico rapito per quattro o cinque ore di fila snocciolando la storia dell’universo.
Cosa rese questa strana figura tanto influente negli ambienti della controcultura? Forse, in parte, un aspetto da nonno che piaceva molto ai giovani, i quali andavano a caccia di vecchi saggi e ne trovavano ben pochi. Magari anche per via della sua immagine dissidente, quella del genio emarginato, rifiutato dalle scuole e dai professionisti, divenuto quindi un anticonformista, padre morale dei giovani anticonformisti e capace di comunicare con loro.
Tuttavia, è doveroso aggiungere a questi fattori il suo talento unico nel farsi pubblicità, la sua capacità, forte di un’offuscante magniloquenza, di trarre il massimo da piccole idee e piccole invenzioni, ammantandole di pretese cosmiche con sensazionale maestria. Fuller valeva la metà di Tom Swift e di P. T. Barnum, ma così come quest’ultimo trasformava un nano qualunque o un vecchio elefante in una meraviglia del mondo, Fuller riusciva a presentare i modesti risultati di un’ingegneria eccentrica come conquiste di presunto genio epocale (almeno agli occhi del pubblico che alimentava il mercato dei prodigi tecnologici).
Fu soprattutto la sua visione del mondo a cogliere pienamente lo spirito del tempo e della controcultura. Malgrado il suo tono malizioso e dissenziente, infatti, aveva un’anima positiva: era fiducioso, energico, ispiratore ai limiti dell’euforia. Fuller era ciò che un biografo ha definito un “ottimista furioso”. Tuttavia, devo ammettere che, sebbene io sia stato più volte sul palco insieme a lui e mi sia sforzato di apprezzare i suoi libri, non gli ho mai sentito dire niente che fosse allo stesso tempo originale, vero, significativo e comprensibile.
La cosa peggiore era che non riuscivo mai a capire se fosse ottimista o semplicemente egocentrico e non mi sarei sorpreso di sentirgli annunciare che aveva inventato l’albero migliore di sempre. Eppure il pubblico se ne andava sempre raggiante di speranza e pieno di buoni propositi. Questa particolare magia rese Fuller e i suoi discepoli della Bay Area i principali portavoce di una filosofia di vita postindustriale che ha contribuito notevolmente a plasmare lo stile e le aspettative dell’industria del computer, soprattutto negli ultimi dieci anni, quando quest’ultima ha iniziato a espandersi nella Silicon Valley.
I Reversionisti e i Tecnofili
È opportuno precisare in che modo è impiegato, in questa sede, il termine “postindustriale”, ovvero con un’accezione che ci porrebbe definitivamente al di là dell’instabilità cronica fatta di crescita e tracollo, al di là dello spreco di risorse e di vita, al di là dell’ingiustizia e della brutalità. In una fase postindustriale di questo tipo, non solo la nostra società sarebbe più matura, ma sarebbe andata oltre, raggiungendo un punto tale per cui il nostro genio tecnologico ci avrebbe finalmente liberati dall’ossessione di arraffare e spendere, dalla produttività compulsiva e dal consumo frenetico, dalla manipolazione di massa e dalla necessità militare, così che forse vivremmo una vita pienamente umana. Il termine “postindustriale” indica, pertanto, un livello di crescita morale, piuttosto che economica.
Sebbene questo obiettivo utopistico ci accompagni fin dalla nascita degli “oscuri mulini satanici”, il mondo occidentale ha polarizzato la sua idea di futuro postindustriale dividendosi in due fazioni, quella dei Reversionisti e quella dei Tecnofili.
Per i primi, a cominciare da John Ruskin, William Morris, Prince Kropotkin e gli artisti romantici in genere, l’industrialismo è il culmine estremo di una malattia culturale che deve essere curata prima che uccida il genere umano. Si tratta di una condizione di sovrasviluppo patologico, nella storia dell’economia, di cui bisognerà salvare la tecnologia sana (considerata generalmente una forma di artigianato comunitario) una volta che il sistema industriale avrà raggiunto lo stadio terminale della sua disumanità.
I Reversionisti sono ciò che Paul Goodman avrebbe definito “conservatori neolitici”, sono quelli che attendono con ansia il giorno in cui le fabbriche e i macchinari pesanti saranno lasciati ad arrugginire e si potrà finalmente tornare a un mondo di villaggi, agricoltura, caccia e tribù. Ne risulterebbe una vita vicina alla terra e agli elementi naturali, in cui bastano piaceri semplici e condivisi per sentirsi appagati. Questa è la via che Stephen Gaskin, ad esempio, scelse per se stesso e per i suoi seguaci, quando lasciarono l’Experimental College della San Francisco State University nel 1971.
Fra la metà e la fine degli anni ’60, Gaskin, ex assistente del Professor S. I. Hayakawa, aveva tenuto il “Corso del lunedì sera” presso un college sperimentale autofinanziato e gestito dagli studenti. Quando il corso iniziò ad attirare diverse centinaia di persone, la sede degli incontri fu spostata per un breve periodo alla Glide Memorial Church, nel centro di San Francisco, dove l’iniziativa si autoidentificò in quanto “religione” con Gaskin come guru.
Poi, alla fine del 1971, quest’ultimo organizzò un esodo di massa con un corteo di pulmini, facendo rotta verso una tenuta di 1700 acri nel Tennessee, dove nacque un insediamento la cui filosofia era basata sulla vita semplice e sul “karma positivo garantito”. Alcuni hanno definito i seguaci di Gaskin, costruttori di una nuova vita urbana, “contadini per scelta”. Lui, invece, spiega il progetto in questi termini:
La nostra missione è vivere in modo pulito e io credo che l’agricoltura sia il più pulito dei modi per vivere. Ci siete solo tu, la terra e Dio. E la terra. Non puoi farti amico un acro di terra e cavartela con un bel voto come al college. Se decidi di essergli amico, dovrai lavorarci e lui ti restituirà quello che gli hai dato. Ti darà a mangiare, lo farà eccome. Ma non puoi cercare di fregarlo o roba del genere… lui sarà sincero con te. (Resurgence, n° 59, Nov.-Dic., 1976, Londra, p. 12.)
L’applicazione concreta della filosofia di Gaskin risultò in uno dei pochi esperimenti comunitari duraturi degli anni ’60. A forza di duro lavoro, condivisione fraterna e consumi ridotti al minimo, “The Farm” continua a prosperare anche negli anni ’80, avendo instaurato un regime fondato sulla soia e sul parto naturale.
In opposizione a questo stratagemma incentrato sul ritiro e sulla reversione radicale, esiste una visione tecnofila del destino industriale, secondo una corrente di pensiero moderna che trova le sue radici in Saint-Simon, Robert Owen e H.G. Wells. Secondo questi industrialisti utopisti, così come per Buckminster Fuller dopo di loro, la cura dei nostri mali non si troverebbe nel passato, bensì nella Vita Futura, che troveremo una volta raggiunto l’apice del processo industriale. Quello che ci vuole, dunque, non è una reversione selettiva, ma una coraggiosa perseveranza.
Dobbiamo adattarci all’industrialismo in modo intraprendente, affrontandolo come una fase necessaria dell’evoluzione sociale, monitorando il processo in modo abbastanza furbo da individuare al suo interno le risorse che possono salvarci la vita. Dal momento che ci stiamo avvicinando sempre più a una crisi potenzialmente disastrosa, è nostro dovere cogliere queste opportunità ogni volta che si presentano e utilizzarle per redimere il sistema dall’interno. La soluzione del nostro dilemma sta nell’attraversare il tunnel senza paura, finché non vedremo la luce del giorno.
Salta subito all’occhio il familiare modello marxista che sottende a questa visione della storia. Al contrario dei visionari utopisti che rifuggivano la società industriale, Marx insisteva che la logica della storia debba essere affrontata in tutte le sue fasi: dal feudalesimo al capitalismo, dal capitalismo al socialismo, dal socialismo al comunismo. Tuttavia, nella versione ridotta che Fuller propone di questa filosofia, abbiamo a che fare con la prospettiva di un tecnico e non di un esperto di economia politica. In netto contrasto con Marx, Fuller era un analfabeta sociologico, infatti il suo pensiero è semplicemente privo di qualsiasi contesto politico.
Per contro, laddove Marx parla di lotta di classe e di potere politico, quello che Fuller ci offre sono le invenzioni. Ecco il prodotto del sistema industriale. Le invenzioni devono solo essere prese da abili ingegneri, come lo stesso Fuller, e utilizzate per salvare il genere umano. Le invenzioni rendono possibili cose che i padroni del capitalismo non possono nemmeno immaginare. Ciò nonostante, gli anticonformisti come Fuller, pur pretendendo di stare fuori dal sistema, riconoscono queste possibilità e si affrettano a trarne vantaggio. Come ha affermato lui stesso:
L’individuo può prendere l’iniziativa senza il permesso di nessuno. Solo i singoli individui possono estrapolare dall’esperienza quei principi che forse sono sfuggiti agli altri, troppo impegnati a farsi belli col capo o a escogitare modi per arricchirsi. Solo il singolo individuo potrebbe pensare in modo cosmicamente adeguato. (Robert Snyder, Buckminster Fuller, An Autobiographical Monologue/Scenario, New York, St. Martin’s Press, 1970, p. 38).
Di conseguenza, questi “individui” finiscono per superare i grandi e i potenti, i quali, non resta che concludere, si arrendono alla loro visione superiore.
Un esempio di questa ingegnosa trovata? Beh, se pensiamo a Fuller pensiamo innanzitutto a una precisa invenzione, quella a cui si appellava immancabilmente, a cui ricorreva per dimostrare qualsiasi cosa: la cupola geodetica (della quale deteneva il brevetto). Non erano forse state l’ingegneria avanzata e la tecnologia industriale a rendere possibile questa stupenda invenzione? E non era forse vero che l’intera storia del mondo sarebbe stata trasformata dalla cupola? C.v.d.
La cupola geodetica era oggetto di vero e proprio culto, negli anni ’60. Tutto era iniziato con i famosi libri dell’architetto Lloyd Kahn, di San Francisco, che Fuller aveva convertito alla sua fede una volta arrivato nella Bay Area. Grazie ai libri di Kahn e allo Whole Earth Catalog, nacque la speranza che da un giorno all’altro spuntassero comunità di cupole alle porte delle grandi città, a mo’ di accampamenti barbarici che incarnassero la nuova cultura postindustriale.
Per quanto ne so io, l’esperimento più riuscito fu quello di Drop City, vicino a Trinidad, in Colorado, una “comune dell’erba” le cui tante bizzarre strutture furono costruite con materiali di recupero provenienti dalla discarica più vicina. Ben presto la cupola si trasformò in qualcosa di più di una semplice stravaganza architettonica; divenne il simbolo di uno stile abitativo nuovo e universale, che combinava i valori della semplicità, della parsimonia, della durabilità e del comunalismo e le cui unità tetraedriche (insisteva Fuller) combaciavano con la geometria profonda del cosmo.
Ben presto i seguaci di Fuller iniziarono a seguire alla lettera i suoi insegnamenti. Come disse uno dei fondatori di Drop City:
Vivere in una cupola, dal punto di vista psicologico, significa entrare più in armonia con la struttura naturale. Vengono ricreati sia il macrocosmo che il microcosmo, sia la sfera celeste che le forme molecolari e cristalline, mentre gli edifici cubici sono strutturalmente deboli e antieconomici. Gli angoli rappresentano un limite per la mente, mentre le cupole sconfinano in nuove dimensioni, aiutano ad ampliare la percezione umana e a espandere l’approccio creativo. La dicotomia fra l’utile e il bello, fra l’artista e il profano viene a cadere completamente. (Bill Voyd, “Drop City,” in Theodore Roszak, ed. Sources, New York, Harper & Row, 1972, p. 276)
Un altro missionario del nuovo credo annunciò:
Presto le città di cupole si diffonderanno in tutto il mondo, ovunque la terra costi poco: nel deserto, nelle paludi, sulle montagne, nella tundra, sulle calotte polari. Le tribù si stanno muovendo, stanno costruendo villaggi completamente gratuiti e aperti, ognuno con un suo ambiente accogliente, piacevole e consapevole. Stiamo vincendo. (Hugh Gardner, Children of Prosperity, New York, St. Martin’s Press, 1978, p.37)
In realtà le cupole davano un sacco di problemi. La maggior parte di esse, anche quelle costruite nel deserto, nelle paludi e sulle montagne, aveva bisogno di elementi portanti e di raccordi, ma anche di compensato e fibra di vetro, che venivano importati da lontane metropoli industriali. Inoltre non erano più economiche né facili da costruire di un capanno Quonset o di un granaio. Quasi sempre pioveva dentro, a meno che non ci fosse un rivestimento in plastica, tanto ampio quanto fragile, anch’esso importato da qualche grande città.
Isolarle era praticamente impossibile, a meno che non si usassero spray e rivestimenti chimici industriali. Per di più non ce ne fu una che riuscisse a mantenere una continuità stilistica o strutturale con il luogo che occupava. Al contrario, la cupola era stata progettata dal suo inventore proprio allo scopo di non avere un habitat, infatti l’obiettivo era di poterla scaricare ovunque, dall’Artide ai tropici, affermando il predominio globale dell’industria. Eppure niente di tutto questo sembrava turbare i cultori della nuova struttura, che, in virtù della retorica inebriante e dell’ottimismo inesauribile di Fuller, era vista come un’icona della salvezza sociale.
Fuller non fu il solo a sviluppare una visione tecnofila della storia postindustriale. Ce ne furono altri, ognuno dei quali divenne, a un certo punto, un beniamino della controcultura. Per esempio Marshall McLuhan, secondo il quale i mezzi di comunicazione elettronici sarebbero stati la chiave per costruire un nuovo “villaggio globale” accogliente, partecipativo, ma anche sofisticato dal punto di vista tecnologico.
C’era poi Paolo Soleri, convinto che la soluzione alla crisi ecologica del mondo moderno fossero megastrutture chiamate “arcologie” (città-alveare in cui stipare miliardi di persone dentro ambienti totalmente artificiali). Gerard O’Neill, invece, girò gli Stati Uniti accendendo l’entusiasmo per uno dei progetti più folli in assoluto: lanciare colonie autosufficienti nello spazio e spedirci milioni di persone. Per diversi anni le idee di O’Neill esercitarono un grande fascino su Stewart Brand e il suo Whole Earth Catalog (in seguito The Co-Evolution Quarterly).
In ciascuno di questi esempi, i presupposti sono sempre gli stessi: il processo industriale, portato all’estremo, produce il miglior rimedio per se stesso. Dalla ricerca avanzata nel campo dell’elettronica, dell’industria plastica, chimica e aerospaziale emergono le soluzioni a tutti i nostri problemi politici e ambientali.
Macchine d’amorevole grazia
L’industrialismo è redento, la tecnologia trionfa: questo il familiare scenario dell’utopia tecnofila. Ma a questo punto ci imbattiamo in qualcosa di nuovo e sorprendente. Tra le fila della controcultura, infatti, c’era chi apportava personali variazioni sul tema futuristico. Secondo alcuni, si potevano avere entrambe le cose: il meglio dell’alta tecnologia e il meglio dello stile Haight-Ashbury… insieme. Il percorso tecnofilo avrebbe dunque condotto a un futuro reversionista.
Quando H. G. Wells immaginò “la vita futura”, vide un mondo urbano sterile, nella sua lucentezza, dominato da una benevola élite tecnocratica. Per molti esponenti della controcultura, invece, il risultato della tecnologia industriale sarebbe stato più simile a una democrazia tribale in cui la gente si sarebbe comunque vestita di pelli e sarebbe andata a raccogliere bacche nei boschi: l’ambiente artificiale, reso ancora più artificiale, sarebbe diventato, in un certo senso, più naturale. Di conseguenza, il singolare mix di sapienza agreste e tecnologia avanzata disegnato fra le pagine dello Whole Earth Catalog non era frutto di confusione, bensì di sintesi. Il motto di questa filosofia poteva benissimo essere “Avanti… fino al Neolitico!”.
A volte, però, tale sintesi pareva frutto di metafore alquanto traballanti. La concezione di McLuhan, ad esempio, prevede una forma di comunicazione che, spinta alle estreme conseguenze, trasformerebbe il mondo in un “villaggio”.
Per O’Neill, invece, il razzo e il satellite, sviluppati su scala gargantuesca, ci riporterebbero a una “frontiera” più alta, molto vicina (come sembravano pensare i suoi sostenitori) a un mondo di capanne e stufe a legna. I fan di O’Neill che fondarono la L-5 Society per promuovere le sue idee si crogiolavano nell’immagine di colonie e orti biologici a perdita d’occhio contenuti dentro barattoli d’acciaio orbitanti, in cui non mancherebbero un’infinità di giochi e divertimenti in assenza di gravità, con tanto di paracadutismo e windsurf.
Persino i formicai umani di Soleri erano visti come un espediente per preservare la natura selvaggia nella sua condizione originaria (anche se vengono i brividi al pensiero che decine di migliaia di persone facciano la fila davanti ad ogni ascensore dell’arcologia per salire all’area picnic).
Posso portare un ottimo esempio personale di quest’amalgama bizzarro di valori Reversionisti e Tecnofili, nella sua applicazione concreta. Intorno alla metà degli anni ’70, uno dei tanti gruppi religiosi New Age dell’epoca, per la precisione la 3HO di Yogi Bhajan (ossia gli indiani Sikh della “Holy, Healthy, Happy Organization”), mi invitò a un “simposio planetario” che avrebbe avuto luogo simultaneamente in tre grandi città (naturalmente Buckminster Fuller avrebbe tenuto il discorso di apertura). I temi dell’evento sarebbero stati i valori base della controcultura, come la semplicità economica (“piccolo è bello”), il buonsenso ecologico, la realizzazione spirituale e la democrazia partecipativa.
In pratica doveva essere una sorta di Woodstock su scala mondiale, ma come sarebbe stato possibile realizzare tutto questo? La risposta alla mia domanda fu: con una teletrasmissione satellitare continua, proiettando l’evento giorno e notte su maxi schermi sparsi in ogni città. Il villaggio globale sarebbe stato finalmente realizzato. Cedendo ai miei soliti istinti luddisti, suggerii che tali mezzi rischiavano di entrare in conflitto con le finalità dell’iniziativa. I miei dubbi si scontrarono con una totale mancanza di comprensione e crebbero ulteriormente quando l’intera gestione fu delegata a una società del gruppo Walt Disney. Alla fine, i costi della tecnologia soverchiarono il modesto budget disponibile, riducendo il simposio a un fiasco e mandando gli organizzatori in bancarotta.
Lo stesso personal computer può essere considerato un prodotto dell’alleanza fra Reversionismo e Tecnofilia, poiché racchiude lo stesso mix di semplicità e alta tecnologia. Dopotutto, all’inizio, l’invenzione e la produzione degli home computer somigliava a una sorta di industria artigianale primitiva. Si lavorava in soffitta e in garage con mezzi ridotti e un sacco di testa. I pionieri del settore erano anticonformisti proprio come Bucky Fuller, gente che abbandonava gli studi e andava per la sua strada, distaccando clamorosamente i colossi industriali e bruciandoli sul tempo per creare un computer del popolo.
A dirla tutta, già prima che il personal computer maturasse fino a diventare un bene commerciabile c’erano hacker giovani e idealisti intenzionati a salvarlo dalle grandi aziende per farne un uso politico estremistico. Il primo esempio statunitense fu quello della Resource One, un gruppo di informatici di Berkeley che si erano riuniti all’epoca della crisi cambogiana, durante la primavera del 1970.
Contrariati dal monopolio di fatto che il governo e i colossi produttivi detenevano sul potere informatico, questi professionisti misero insieme una piccola banda e iniziarono a sviluppare un servizio di informazione destinato alla gente comune. Già nel 1971 erano riusciti ad acquisire un vecchio XDS-940 in multiproprietà dalla Transamerica Corporation e si erano trasferiti nella sede della Project One in Howard Street, a sud di Market Street, a San Francisco, dove speravano che il computer sarebbe stato usato dagli attivisti politici per creare mailing list, coordinare sondaggi elettorali e creare un database socioeconomico multiuso.
Tuttavia, la Resource One non riuscì mai a sfondare, forse anche perché molti hacker radicali si erano già focalizzati sulla nuova generazione di computer desktop, compatti e più economici, che sembravano un modo più pratico di democratizzare l’accesso all’informazione (come se l’informazione fosse ciò di cui il cambiamento sociale radicale ha più bisogno…).
Prima di sparire del tutto, però, la Resource One si era tramutata in un gruppo di attivismo informatico di strada con il progetto Community Memory, il cui obiettivo era di installare terminali accessibili a tutti nei luoghi pubblici (come la biblioteca di Mission a San Francisco o il Leopold music store di Berkeley), dove sarebbero stati usati come bacheche elettroniche totalmente aperte e libere da censura.
Il progetto fu lanciato da una società madre chiamata Loving Grace Cybernetics [cibernetica d’amorevole grazia], il cui nome era ispirato a una poesia di Richard Brautigan che fotografa perfettamente la preziosissima sintesi fra i valori Reversionisti e quelli Tecnofili.
Mi piace pensare
(prima sarà, meglio è)
a un pascolo cibernetico
in cui mammiferi e computer
vivono insieme in una mutua
armonia di programmazione,
come acqua pura che tocca un cielo terso
Mi piace pensare
(ora, vi prego!)
a una foresta cibernetica
colma di pini e materiali elettronici,
dove i cervi passeggiano in pace
tra computer,
come fiori
appena sbocciati.
Mi piace pensare
(sarà così)
a un’ecologia cibernetica
in cui ciascuno di noi è libero dal lavoro
e torna alla natura,
ritorna ai nostri
fratelli e sorelle mammiferi,
e tutti saremo sorvegliati
da macchine d’amorevole grazia.[2]
Verso la fine degli anni ’70, molti di coloro che sarebbero poi diventati gli inventori e gli imprenditori dell’industria emergente dei personal computer iniziarono a incontrarsi a San Francisco per una serie di riunioni piuttosto inconsuete, in cui i problemi tecnici più complessi e le relative soluzioni venivano scambiati come i saperi popolari fra la gente di campagna.
I primi gruppi di discussione avevano nomi simpatici e informali, come la Itty Bitty Machine Company (invece di IBM), la Kentucky Fried Computers o lo Homebrew Computer Club. Stephen Wozniak era un habitué dello Homebrew e quando giunse il momento di trovare un nome per la sua personale creazione, se ne uscì con un’identità assolutamente originale, essenziale e naturale, che cambiò radicalmente l’immagine spigolosa dell’alta tecnologia: la Mela [“Apple”].
Secondo alcuni, il nome fu scelto in realtà da Steve Jobs, in onore della dieta fruttariana che aveva portato con sé dal suo viaggio nel mistico oriente. In più questo nome ricordava i Beatles e fu così che, nella speranza di mantenere in vita il loro spirito, la Apple compì l’ultimo eroico tentativo di organizzare un grande raduno rock all’aperto: lo US Festival del 1982 e del 1983, per il quale Wozniak spese 20 milioni di tasca propria.
Secondo gli ultimi sopravvissuti della controcultura, alla fine degli anni ’70, sarebbero state dunque le tecnologie digitali a portarci alla terra promessa postindustriale e non le cupole, le arcologie o le colonie spaziali. Il personal computer avrebbe dato a milioni di persone la possibilità di accedere alle banche dati di tutto il mondo, il che (secondo le argomentazioni dell’epoca) era ciò di cui avevano bisogno per diventare cittadini indipendenti.
L’home computer divenne quindi il punto di forza di una sorta di populismo elettronico. Le reti e le bacheche computerizzate avrebbero tenuto le tribù in contatto fra loro, diffondendo le informazioni vitali che l’élite al potere gli stava celando, e i migliori hacker sarebbero entrati nei database che contenevano i segreti aziendali e i misteri di stato. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie ai videoterminali della IBM, alle linee telefoniche della AT&T, ai lanci spaziali del Pentagono e ai satelliti della Westinghouse sarebbe sorta una comunità sovversiva di ribelli informatici armati di informazione e pronti a ribaltare i centri di potere tecnocratici.
Forse sarebbero addirittura sopravvissuti al collasso totale di quella stessa grande industria che aveva inventato le loro tecnologie. A questo proposito, una delle espressioni più bizzarre della guerriglia hacker fu sicuramente quella di Lee Felsenstein, fondatore dell’Homebrew Computer Club e della Community Memory, poi progettista del computer portatile Osborne. Il suo stile tecnologico, incentrato sull’essenzialità e sul riciclaggio intelligente, nasceva da una visione del futuro industriale che sembrava uscita da Un cantico per Leibowitz.
Il presupposto era che “l’infrastruttura industriale potrebbe sparire in qualsiasi momento e per questo le persone dovrebbero essere in grado di rovistare fra le macerie della società in cerca di pezzi con cui far funzionare le macchine; idealmente, queste ultime dovrebbero essere progettate in modo che gli utenti possano capire dove mettere i vari pezzi”. In parole povere, spiegò: “Io devo fare un progetto che tu possa realizzare con delle lattine usate”.
Senza dubbio è doveroso apprezzare l’idealismo politico che stava alla base dello home computer ai suoi albori e riconoscerne il legame con tendenze che avevano fatto parte della controcultura fin dall’inizio. Tuttavia, è altrettanto importante ammettere che la sintesi fra Reversionismo e Tecnofilia, simboleggiata dal computer, appare tanto ingenua quanto idealistica, al punto che si sente il bisogno di scavare sempre più a fondo per scoprire il segreto della sua incredibile forza di persuasione. Perché come si fa a credere qualcosa di tanto inverosimile?
La scorciatoia per il Satori
Se facciamo un passo indietro, fino alle origini della controcultura e cioè tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, troviamo quello che forse è il collegamento più significativo fra l’ala reversionista e quella tecnofila. Fin dall’inizio c’è stata la musica, da sempre il motore principale del movimento: prima folk, poi rock and roll e infine rock in tutte le sue varianti. La musica suonata ai concerti e nei nuovi locali dell’epoca veniva riprodotta in modo molto particolare, infatti la sua potenza nasceva dall’amplificazione elettronica e dall’uso di impianti.
Il pubblico poteva anche essere super fricchettone, ma esigeva una musica che fosse amplificata in maniera esplosiva e modulata abilmente, voleva sentire il ritmo battere attraverso i pori. La semplice acustica non era sufficiente, perciò la musica aveva bisogno delle macchine. Così com’era, senza nessuna aggiunta, il rock poteva dare risultati strabilianti. “Di per sé” affermò Chester Anderson, filosofo psichedelico di San Francisco:
Senza ricorrere a luci stroboscopiche, vernici fosforescenti e altre trovate fantasiose, il rock coinvolge l’intero apparato sensoriale, allettando l’intelligenza senza le interferenze dell’intelletto… Il rock è un fenomeno tribale e costituisce quella che potremmo definire una forma di magia del ventesimo secolo… Il rock sta plasmando i rituali sociali del futuro. (San Francisco Oracle, №6, 1967).
Ben presto, però, il pubblico iniziò a chiedere di più. Voleva l’estasi tanto per l’occhio quanto per l’orecchio e fu così che a San Francisco nacquero i primi spettacoli di luci, che verso la metà degli anni ’60 si diffusero rapidamente in tutto il Paese quali parte integrante dei concerti rock.
I primi spettacoli in America furono sviluppati nel contesto delle arti figurative dallo State College di San Francisco nei primi anni ’50. Nel 1952, il Professor Seymour Locks mise in piedi un’ambiziosa performance con tre proiettori e musica dal vivo per inaugurare un nuovo edificio dedicato alle arti creative, destinato a ospitare una conferenza nazionale di educatori artistici. In seguito, assieme ad altri membri del San Francisco State Art Department, alla fine degli anni ’50, Locks si fece pioniere di un ampio repertorio di tecniche per le “proiezioni liquide” e le luci colorate e, all’inizio del decennio successivo, questa nuova forma d’arte venne rielaborata passando di mano in mano, ma mai più audacemente che nei rock club di San Francisco.
Qui, gli spettacoli amplificati dalle luci stroboscopiche e dai colori fosforescenti erano più di un semplice strumento estetico, infatti erano stati colti come un’opportunità per riprodurre e/o indurre esperienze psichedeliche: erano la firma visiva delle droghe. Persino la sostanza stupefacente sovrana dell’epoca, l’LSD, era una tecnologia: un prodotto di laboratorio, frutto della ricerca avanzata della casa farmaceutica svizzera Sandoz and Company.
Nell’immediato dopoguerra, l’LSD e altri allucinogeni sintetizzati in laboratorio erano appannaggio di un’élite ristretta, composta principalmente da ricchi psichiatri e dai loro clienti dell’alta società. All’epoca, prima che l’LSD venisse circondato da un alone di criminosità e fosse dichiarato illegale, giornali popolari come il Time e Life erano pronti a pubblicizzarne i numerosi vantaggi terapeutici.
All’inizio degli anni ’60, però, gli allucinogeni trovarono un pubblico meno rispettabile. Venivano smerciati fra i poeti della beat generation e gli studenti rinunciatari per le strade di Haight-Ashbury e del Greenwich Village come rimedi salvifici per una cultura travagliata. Presto Timothy Leary iniziò a fare proselitismo a favore dell’LSD in tutta l’America e nel 1966, nella Bay Area, Ken Kesey e i suoi Merry Pranksters somministravano allegramente il misterioso elisir a intere folle (o promettevano di farlo) durante gli Acid Tests e il Trips Festival.
Il presupposto di questa distribuzione di massa era chiaro e semplice: la droga salverà la vostra anima. Come un sacramento cattolico, la droga fa effetto ex opere operato, all’atto stesso del suo ministero. Quando questa promessa venne a intrecciarsi con il crescente interesse nei confronti del misticismo orientale, la psichedelia divenne una vera e propria forza culturale.
Sembrava chiaro che i laboratori di ricerca occidentali, compresi quelli dei colossi farmaceutici, avessero consegnato al mondo un sostituto delle antichissime discipline spirituali tramandate in oriente. Invece di passare una vita in diligente contemplazione, sarebbe bastato assumere poche gocce di un acido fatto in casa e messo in una pillola di vitamine per ottenere il medesimo risultato. Era la scorciatoia per il Satori.
“Cose migliori per una vita migliore grazie alla chimica” recitava lo slogan della DuPont e migliaia di consumatori erano pronti a sostenerlo. Avevano sentito la musica, avevano visto le luci colorate, avevano provato la droga. Niente spinse la controcultura verso un’ingenua Tecnofilia più di questa seducente triade di piaceri. Se l’alta tecnologia occidentale poteva offrire un tesoro spirituale così grande, allora perché non spingersi oltre?
Sospetto che sia questo il motivo per cui Buckminster Fuller, Marshall McLuhan e altri utopisti Tecnofili furono accolti con tanto entusiasmo dai giovani della controcultura. Gli acidi e il rock avevano preparato il pubblico al loro messaggio e lo avevano fatto in un modo particolarmente persuasivo, che scalzava la dimensione cerebrale, perché la psichedelia è un’esperienza potente, quasi sconvolgente. Combinandosi con la musica e con le luci, in un totale assalto ai sensi, può far sembrare possibile qualsiasi cosa.
Dà un senso di grandezza e un’euforia che possono far passare le peggiori situazioni politiche per tigri di carta. Allo stesso tempo, questo tipo di esperienza stabilisce una connessione (o almeno così hanno sempre sostenuto i suoi predicatori) con quei poteri mistici e primordiali della mente di cui tuttora si servono o potrebbero servirsi, in alcune regioni esotiche del globo, i guaritori nativi e i popoli tradizionali, come nel caso del leggendario Don Juan di Carlos Castaneda. In questo modo, la droga, resa merce dai laboratori della nostra cultura industriale, rende i suoi discepoli alleati dell’antico, del primitivo, del tribale. Il suo uso più appropriato viene fatto in gruppi di amici rannicchiati in religioso silenzio in un parco o in un campo, in una spiaggia, nella natura o nell’oscurità avvolgente di un covo urbano.
Ritroviamo dunque la stessa incredibile unione fra il sofisticato-scientifico e il naturale-comune che Buckminster Fuller attribuiva alla geometria della cupola geodetica e che gli hacker della Silicon Valley avrebbero poi attribuito al personal computer. “Questa generazione ha ingollato i computer come ha fatto con le pasticche”, ha affermato Stewart Brand in un’intervista del 1985 al San Francisco Focus Magazine, una metafora in cui, forse, c’era più verità di quanto lui non credesse.
La luce che ha fallito?
Col senno di poi, è facile notare il pathos insito nella sintesi tecnofilo-reversionista, che mi sembra ancora piuttosto diffuso fra gli appassionati di computer. La scelte reversioniste e tecnofile che la società pone di fronte a noi non combaciano in modo così immediato, al contrario, credo che vi sia un’insormontabile ostilità fra la tecnologia su larga scala, quella dei computer, e i valori tradizionali che la controcultura si riproponeva di salvare.
Il complesso militare-industriale, ad esempio, prospera grazie al gigantismo della tecnologia avanzata, ma non è certo un alleato dei valori comunitari e naturali, né i vertici dell’industria si lasciano sorpassare tanto facilmente come i Tecnofili fulleriani volevano credere. Le élite danarose se la cavano bene quando si tratta di difendere i loro interessi. Possono spendere molto più dei loro oppositori, possono aspettare più a lungo dei loro nemici e giocare d’astuzia, comprando le menti di cui hanno bisogno e la forza bruta del potere.
È estremamente triste pensare che, com’è ormai risaputo, ancora prima che Ken Kesey e Timothy Leary iniziassero a diffondere il vangelo dell’LSD per le strade, la CIA stava già sperimentando approfonditamente l’uso degli allucinogeni, servendosi di cavie umane, per esplorare le possibilità del controllo della mente. Allo stesso modo, è ormai evidente che molto prima che il personal computer abbia la possibilità di ristabilire i valori della democrazia le grandi aziende e le agenzie di sicurezza di tutto il mondo avranno già sfruttato la tecnologia per dare inizio a una nuova era di sorveglianza e controllo avanzati. Quanto ai razzi e ai satelliti, possiamo stare certi che il giorno in cui la L-5 Society avrà messo insieme i fondi per la sua prima colonietta l’esercito sarà già accampato sulle frontiere spaziali con armi da genocidio mai viste prima.
Era una speranza allettante che l’alta tecnologia della nostra società potesse essere strappata dalle grinfie della chiusura mentale e messa a frutto per riportarci a uno stato naturale idilliaco. E per un breve momento, mentre la musica rimbombava e le luci splendevano e la droga lanciava il suo incantesimo, sembrava che quella fosse la strada per la felicità. Ma alla fine, in pochissimo tempo, la sintesi si è sgretolata e i valori Tecnofili hanno trionfato. Dopotutto, stiamo parlando di valori che appartengono ai poteri dominanti, forze che si sono dimostrate ben più tenaci di quanto il popolo della controcultura potesse immaginare.
Questo vuol dire che l’ala reversionista del movimento è stata solo una “luce che si spense”? In un certo senso sì, ovviamente. Il dominio urbano-industriale è agganciato al pianeta più saldamente che mai e la ricerca di valide alternative sta subendo una profonda eclissi. Tuttavia, una luce che si spegne è comunque meglio di un’oscurità incontrastata, perché non conta solo vincere, ma anche essere nel giusto. In fin dei conti, su un altro livello, dove l’orologio della storia scandisce i millenni anziché i minuti, i Reversionisti potrebbero essere visti come profeti che, sebbene inascoltati, hanno messo il potere di fronte alla verità.
Non tutte le loro convinzioni nascevano da un’ingenua infatuazione per la semplicità e per i popoli indigeni: oltre ad avere un debole per il passato, guardavano anche al futuro. Un po’ come diceva Allen Ginsberg quando ha descritto i “beat poets” come i radar del mondo, anche se il futuro da lui presagito rendeva il neo-primitivismo degli anni ’60 più una questione di sopravvivenza animale disperata che un affascinante ritorno al passato: la morte, lenta o improvvisa, per fuoco o per decadenza, di una civiltà sviluppatasi in maniera tragicamente distante dalla Terra madre, città imperiali regredite allo stato selvaggio, crollate sotto il peso della loro stessa arroganza, il potere altero delle macchine ormai in declino, la natura che rivendica la sua supremazia planetaria non necessariamente con garbo, finale infausto di un patto faustiano firmato il giorno in cui fu eretta la prima piramide.
Una visione di luce ed ombra
Il poeta di San Francisco Lew Welch ha colto il lato oscuro della visione Reversionista nel suo manifesto Final City/Tap City.
Cupola d’aria nauseante piena di radio strillanti e di segnali televisivi, sporcizia che rifluisce nelle stesse acque che l’hanno creata.
Al suo interno, milioni di Esseri terrorizzati si muovono freneticamente per assurdi labirinti di gallerie e di strade. Il rumore è insopportabile. Ogni senso ne è insultato. Tutti a rincorrere una commissione incomprensibile che qualcuno li ha obbligati a portare a termine sotto pena di morte
[…] Progettata per proteggere tutti quelli che sono dentro da tutto quello che c’è fuori, […] gradualmente è scomparso il “fuori”. Tanto pericolo, dentro.
Queste cose, le Città, hanno continuato a diventare sempre più grandi e sempre più veloci, le persone sono diventate sempre più folli.
[…] Porta alla Città Finale, Tap City, ognuna delle tante strade. […] Non serve nemmeno pensare alla Bomba Atomica.
La città è talmente Umana. Che sia un nostro tragico errore, vedere la Città come l’Evoluzione Insensata di noi stessi, irreversibile, un modo in cui l’Uomo cambia, ma non Biologicamente?
Ci troviamo di fronte a grandi genocidi, terribili catastrofi, tutte le città americane bruciate dall’interno e dall’esterno.
Per fortuna il poeta addolcisce la sua prospettiva prima di spingersi oltre, fiducioso che la Terra sappia perdonare e ricostruire. C’è ancora speranza.
Ma il nostro bel Pianeta germoglierà. Sotto la pelle sottile della Città il verde tornerà a crepare i marciapiedi. Alla fine l’aria fetida se ne andrà, le baie rifluiranno di acqua pulita […]. Nel frattempo, tenetevi in forma, ci sono centinaia di miglia da percorrere e lavorare. Abbiate cura della vostra mente, ne avremo bisogno […]. Imparate a conoscere le bacche, la frutta secca, quella fresca, i piccoli animali e le piante. Imparate a conoscere l’acqua.
Perché ci vogliono uomini e donne buoni sulle montagne e sulle spiagge, in tutti i posti belli e trascurati, che un giorno torneremo alle città spettrali e le metteremo a posto, finalmente […]. In mezzo alle macerie, pensate che bei ninnoli possiamo far ondeggiare sopra di noi mentre danziamo! (San Francisco Oracle, №12, 1967).
Confesso di rimanere allibito quando sento dire che questo tema, negli aspetti oscuri quanto in quelli luminosi, non è più una priorità politica.
Nerd, zombie e la fuga dalla mortalità
All’inizio ho interpretato la Tecnofilia come un’ennesima variante della visione à la Tom Swift o H.G. Wells che dominava il brainstorming futuristico nel XIX secolo. In realtà, l’amore del mondo occidentale per le macchine risale al Rinascimento, ai tempi dell’orologio di Strasburgo. Dalla sua costruzione in poi, infatti, si può tracciare una linea ininterrotta di artigiani e riparatori che scorgevano un destino sempre più promettente per gli ingegnosi meccanismi a molla, lontani precursori dei computer.
Durante l’Illuminismo, poi, brillanti ingegneri convertirono grandi intellettuali rivoluzionari come Voltaire e Benjamin Franklin al loro credo. Dio stesso iniziò a essere visto come un grande orologiaio cosmico. Assieme all’energia idroelettrica ed elettrica, i macchinari avrebbero portato alla salvezza e la città celeste sarebbe stata una metropoli tecnologica scintillante, piena di fabbriche, trasporti rapidi e comunicazioni istantanee.
Tuttavia, questa proiezione non tiene conto dello strano rapporto che è venuto a crearsi, ai giorni nostri, fra biologia e tecnologia. Forse il contributo più determinante fornito dal computer è stato proprio il modello che ha offerto, negli anni ’50, per il DNA. Una volta che la base genetica della vita iniziò a essere considerata una sorta di biocomputer, si sviluppò un’alleanza culturale, fra la nuova biologia e l’informatica, che consentiva di speculare in entrambe le direzioni.
Dopotutto, il DNA è una forma di elaborazione di dati, mentre il computer, che è anch’esso, essenzialmente, uno strumento per l’elaborazione di dati, può essere visto come una nuova forma di vita, se non addirittura un organismo in evoluzione (possibilità che secondo alcuni è già a portata di mano, grazie ai nuovi progetti di chip a DNA o RNA). Da qui la nostra abitudine di catalogare i computer suddividendoli in “generazioni”, come se a legarli fosse una progressione vivente, genealogica. Ammettiamo questo e saremo a un passo dal vedere il computer come un compagno o magari una specie rivale dell’uomo nella storia della vita sulla Terra.
Robesrt Jastrow, della NASA, è stato fra i primi a predire l’avvento dell’intelligenza incorporea e attende con impazienza il giorno in cui diventeremo una “razza di immortali” fondata sull’intelligenza computerizzata. Un giorno, dice:
Uno scienziato coraggioso riuscirà a prendere i contenuti presenti nella sua mente e trasferirli nel reticolo metallico di un computer. Dato che la mente è l’essenza dell’essere, si può dire che questo scienziato sia entrato nel computer e vi abiti. Finalmente, il cervello umano, ben protetto all’interno di un computer, viene liberato dalla debolezza della carne mortale… È padrone del proprio destino. La macchina è il suo corpo e lui stesso è la mente della macchina… Secondo me dev’essere questa la forma matura della vita intelligente nell’universo. Custodita in un reticolato di silicone indistruttibile, senza il limite del passare degli anni, del ciclo di vita e di morte degli organismi biologici, questo tipo di vita potrebbe durare per sempre. (Robert Jastrow, The Enchanted Loom: Mind in the Universe, New York, Simon and Schuster, 1984, pp. 166–67).
La predizione di Jastrow rivela una sorta di manicheismo tecnologico che ha costituito a lungo un tema fondante della scienza moderna, ossia la speranza di liberare il puro intelletto dalla realtà fisica della vita (e magari anche dalla caotica intimità corporale data dal sesso). Partiamo dal presupposto che “la mente è l’essenza dell’essere”: eliminiamo il corpo e l’identità rimane intatta.
Agli albori della filosofia occidentale moderna, Pitagora e Platone individuarono nella matematica l’espressione più pura dell’essere immortale. Duemila anni dopo, all’inizio dell’era moderna, Cartesio riaffermò lo stesso desiderio di elevarsi al di sopra della carne separando la mente calcolatrice dalla materia corruttibile e fece della matematica il linguaggio ufficiale della scienza.
In quanto macchina essenzialmente computazionale, il computer ha ereditato la fuga dalla mortalità come obiettivo subliminale, che continua a incantare molte fra le menti più brillanti dell’alta tecnologia. Nel pensiero di Jastrow, ad esempio, la formula cartesiana “Cogito, ergo sum” è spinta alle conseguenze logiche più estreme e letterali, in cui l’Io diventa né più né meno che il cervello pensante. Se, allora, lo stesso cervello potesse essere riprodotto con il silicone, l’Io sopravvivrebbe.
Allo stesso modo, Paul Slouka sottintende la medesima alleanza fra l’ascetico e il matematico quando definisce l’alta tecnologia “un attacco alla realtà per come gli esseri umani l’hanno sempre conosciuta”. Il cyberspazio, secondo la sua opinione, si fa sempre più fitto di scenari in cui la coscienza viene caricata all’interno di reti elettroniche. Dietro a queste fantasie tecnologiche, infatti, Slouka intravede “paura e rifiuto del mondo naturale, dell’esperienza fisica nella sua interezza”. (Mark Slouka, War of the Worlds: Cyberspace and the High-Tech Assault on Reality, New York, Basic Books, 1995)
L’astrofisico Frank Tipler, invece, si è spinto ancora più in là. Nel suo libro La fisica dell’immortalità, si ripropone di inventare l’equivalente scientifico della resurrezione cristiana. “I morti”, afferma, “risorgeranno quando la capacità informatica dell’universo sarà così ampia che lo spazio necessario per contenere tutte le speculazioni umane possibili non diventerà che una frazione infinitesimale della capacità complessiva”.
Rifacendosi al filosofo cattolico evoluzionista Pierre Teilhard de Chardin, Tipler definisce quello attuale “il Punto Omega”, ossia l’apice del grande climax della storia cosmica. L’umanità sarebbe dunque destinata a dominare l’intero universo e a progredire “dalla Terra-utero allo spazio” (Frank Tipler, The Physics of Immortality: Modern Cosmology and the Resurrection of the Dead, New York, Doubleday, 1994).
In oltre, Tipler è certo che, molto prima di raggiungere questo lontano orizzonte, riusciremo a riprodurre il corpo in tutti i suoi dettagli più sofisticati, arrivando persino a migliorarlo. Sarebbe dunque superfluo preservare l’originale, che verrebbe messo da parte in favore del suo equivalente robotico. Questa “persona emulata”, sostiene Tipler, “vedrebbe se stessa come reale, con un corpo solido quanto quello che ognuno di noi può vedere”. Il corpo simulato avrebbe però una qualità molto speciale: sarebbe immortale. Per Tipler tutto questo offre gli stessi enormi vantaggi che troverebbe Jastrow nel mettere il cervello in una scatola.
Assumendo questa forma, le menti incorporee del futuro potrebbero essere caricate su un’astronave e lanciate nello spazio per esplorare galassie lontanissime (senza nessun bisogno di aria, cibo, acqua o movimento durante il viaggio). Nemmeno la noia sarebbe un problema: a un’intelligenza disincarnata basta entrare in uno stato di coma in cui passare le migliaia di anni potenzialmente necessarie per arrivare a destinazione, ad anni luce di distanza.
Fra le pagine di “Wired”, l’immortalità in silicone è uno dei temi costanti dell’intellighenzia cyberpunk emergente. Forse è questo il vero non detto emozionale che si cela dietro le pretese avanguardiste dell’intelligenza artificiale. In un’intervista a “Wired”, Chris Langton, uno dei fondatori della ricerca sulla vita artificiale, si è espresso nei seguenti termini: “Ci sono altre forme di vita, quelle artificiali, che vogliono venire al mondo e stanno usando me come mezzo di riproduzione e di implementazione”.
Vernor Vinge, guardando ancora più lontano nel tempo, dice “è facile immaginare che, se mai riusciremo a creare macchine intelligenti quanto gli umani, poco dopo costruiremo (o provocheremo l’esistenza) di macchine più intelligenti di qualsiasi essere umano. A quel punto il gioco è fatto. È la fine della razza umana nel regno animale” (Wired June 1995, p. 161).
Jaron Lanier, creatore di realtà virtuali e membro dissidente della comunità informatica, è convinto che queste fantasie costituiscano alcune fra le maggiori attrattive del cyberspazio. Molti hacker, dice, “alimentano la speranza di riuscire a vivere per sempre salvando una copia di se stessi su un nastro magnetico”. Lanier ha definito tali ambizioni come l’inizio di una nuova “cultura di zombie” dominata da ex-umani “pronti a lasciarsi tutto alle spalle e a vivere in un dischetto per interagire solo con altre menti ed elementi ambientali che esistono, anch’essi, solo in versione software”.
La nanotecnologia — immagina Lanier — potrebbe essere sfruttata per creare un supercomputer che capirà velocemente come produrre nanomacchine che possano riparare il corpo umano e rendere la vecchiaia un lontano ricordo… o forse sarebbe più intelligente che i contenuti presenti nel nostro cervello fossero letti attraverso computer durevoli, così che la nostra mente continuerebbe a funzionare dopo che il corpo avrà smesso di farlo”. (Jaron Lanier, “Agents of Alienation,” Journal of Consciousness Studies, volume 2, no. 1, 1995, pp. 76–81).
Questa atavica sete di conoscenza riuscirà mai a trascendere la carne? Forse sì, è questo il sottinteso emozionale che scatena l’euforia, altrimenti inspiegabile, con cui oggi vengono accolti ogni nuovo dispositivo e ogni stupido sito web. Quando sento gente sveglia andare in estasi per “l’accesso all’informazione” (che poi si riduce a un nuovo modo per ordinare la pizza, seguire i risultati del baseball o partecipare a un’asta, come se la vita non fosse degna di essere vissuta anche prima delle dot-com), mi riesce difficile credere che basti davvero così poco per conquistarli.
Di certo queste persone sanno bene che il 99,99% della cultura umana è stata creata senza l’aiuto di un mouse. Devono pur essere consapevoli che se c’è una cosa che accomuna tutti i volti noti usati per la campagna “Think Different” di Apple è proprio il fatto che non hanno mai usato un computer in vita loro. Ci sarebbe dunque un motivo più recondito alla base di queste ossessioni, apparentemente sciocche, per tutto ciò che è in rete? Magari un’antichissima ricerca della vita oltre i confini del corpo?
Secondo Lanier, tutto questo avrebbe dato origine alla nuova e curiosa categoria psicologica dei “nerd”. Dal punto di vista intellettuale, il nerd è una persona che tenta di digitalizzare tutte le distinzioni qualitative, i sentimenti e le emozioni; sul piano emotivo, invece, si abbandona a una piattezza aliena che lo protegge dall’intimità e dalla fisicità umane. Perché mai qualcuno dovrebbe avere un desiderio così pressante di cancellare la barriera fra l’umano e il meccanico, persino nella sua stessa personalità? Perché nel momento in cui crediamo di aver superato quella barriera, abbiamo superato la morte. Le macchine non muoiono.
Giù in mezzo ai cyberpunk
Adesso dormiva negli alberghi più economici, quelli vicini al porto, alla luce dei riflettori alogeni che rischiaravano i moli tutta la notte come fossero enormi palcoscenici, là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure il torreggiante ologramma della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra masse di bianco polistirolo espanso alla deriva. Dietro al porto iniziava la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle multinazionali. […] Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa sotto il velenoso cielo argento. (da Neuromante, di William Gibson)[3]
Ormai sembra evidente che né i Tecnofili né i Reversionisti avranno la meglio nella loro disputa culturale. Una terza forza, priva di qualsiasi dimensione idealistica, di qualsiasi visione negativa o positiva, ha prevalso. Le grandi aziende, per le quali il computer non è che una merce da vendere per trarne profitto, sono andate per la loro strada. E che genere di mondo stanno costruendo per noi? Il paesaggio cyberpunk indagato da William Gibson nei suoi romanzi, quello che ha prodotto l’angosciosa cultura punk rock degli anni ’80.
So bene che alcuni cyberpunk vanno in bestia quando si sentono associare al Punk Rock. “I cyberpunk non c’entrano niente con la Musica Punk”, insiste un importante collaboratore di alt.cyberpunk.movement, “I cyberpunk vogliono libertà di informazione perché l’informazione è potere e, per Dio, potere al popolo”. Di fatto, però, le sensibilità dei due gruppi tendono a convergere sotto diversi aspetti.
Il termine comune “punk” descrive in entrambi i movimenti un’identità nata dalla vittimizzazione. Sia il Punk Rock che il cyberpunk, infatti, sono mossi da uno spirito di resistenza, uniscono persone che si considerano ribelli ai margini di una cultura sbagliata. Il cyberpunk si ispira alla letteratura di fantascienza, anziché a un genere musicale, ma risulta comunque cupo e angosciante quanto il Rock.
Come le grida iperamplificate di rabbia e disperazione lanciate dal palco di un concerto Death Metal, il cyberpunk ci ricorda che, al di là dei Tecnofili superpositivi di “Wired”, che vedono spiegarsi davanti a sé un orizzonte di meraviglie tecnologiche infinite, ci sono tutti quelli a cui tocca la bassa manovalanza, gli insoddisfatti, la forza lavoro tecnologica e la sua piccola criminalità, il proletariato degli hacker, che lavora in stanzette grandi come bare e le cui telefonate e email sono monitorate costantemente per garantire la qualità del servizio. La loro visione del futuro è a dir poco allarmante, per non dire disperata. Senza di loro il quadro sarebbe incompleto.
L’aspra ruvidezza di William Gibson si adatta perfettamente alla dura realtà di questo mondo, delineando uno scenario fatto di aziende potentissime e istituzioni monolitiche, dove antieroi sotto attacco riescono a sopravvivere solo da fuorilegge, tramando astuti espedienti con cui sabotare un sistema che non possono possedere né controllare.
I cyber-cowboy di Gibson sono emarginati, gente che non conta niente, talmente sprofondati in fantasie narcotiche e mondi allucinatori da non avere alcun Principio di Realtà a cui aggrapparsi. Abitano una zona fittizia in cui nulla è certo e tutto è manipolabile, chiunque incontrino può essere un ologramma e neppure la loro stessa mente gli appartiene. Alla fine, ciò che hanno ottenuto dai poteri della moderna tecnologia è il disastro ecologico in un impero di città invivibili, dominate da grattacieli altissimi e dagli enormi loghi dell’élite industriale regnante.
Le città di Gibson sono proprietà privata di spietate multinazionali franco-tedesco-nippo-americane. Gli “Sprawls”, come lui definisce le brutture urbane del futuro (il B.A.M.A. si estende da Boston ad Atlanta), sono squallidi come le città industriali del XIX secolo, solo che traboccano di tecnologia avanzata. Non si può nemmeno respirare, né sognare, senza ricorrere a cerotti anestetici o impianti di stimolazione sensoriale.
Negli sprawl, miliardi di sottoproletari depressi lottano per sopravvivere in condizioni di degrado morale senza speranza. Per loro, i media sono diventati, nel migliore dei casi, forme di triste evasione allucinatoria oppure, nel peggiore, strumenti di controllo mentale. Le persone stesse sono state riprogrammate dal DNA in su e trasformate in cyborg dotati di processori e componenti microbiotici interni. È un mondo in cui niente è reale, niente è umano, niente è amabile, bello o nobile. L’unico amore concesso ai cowboy di Gibson si riduce a qualche ora sotto l’effetto di droghe, in compagnia di una puttana, in un albergo-bara da una notte.
Ecco le poche parole angoscianti che un ragazzo ha scritto su alt.cyberspace.rebels. Il suo contributo non sarà un esempio di eleganza letteraria, ma dà voce alla visione cyberpunk della vita futura:
Guardate noi e guardate là fuori che viviamo in un mondo dominato dalle macchine del marketing aziendale. Questi tizi divorano tutti gli avversari là fuori Niente è esistito oltre il mondo industriale. Questi tizi sono DIO. Questi tizi hanno la vera consapevolezza. Questi tizi si mangiano me e voi. Questi tizi prendono lentamente il controllo della nostra esistenza e del nostro corpo e della nostra mente. Non abbiamo il potere di combattere contro questi enormi mostri fascisti che ha creato la razza umana.
Esiste una vera e propria genealogia letteraria, dietro la narrativa cyberpunk, che risale alle prime distopie, come La macchina si ferma (1905) di E.M. Foster, il romanzo e film Metropolis (degli anni ’20) e Il mondo nuovo (1933) di Huxley. In tutte queste opere le rosee promesse della scienza e dell’industria vengono risucchiate da un’ingegneria sociale fanatica e da interessi affaristici. Allo stadio iniziale, il futuro rappresentato in questi libri, almeno in apparenza, è pulito ed elegante.
Il cyberpunk, invece, ha ridisegnato la distopia aggiungendo appena un giusto tocco di filisteismo aziendale e di degrado ecologico. I film Alien (1979) e Atmosfera Zero (1981) hanno contribuito a introdurre il noir futuristico nell’immaginario collettivo, rappresentando una realtà industriale controllata da società interstellari in cui si è tornati al sudiciume e alle fatiche della vecchia Manchester. Le stazioni spaziali, cavernose e sferraglianti, hanno perso il loro splendore. Sono spente, umide e gocciolanti.
Tutto viene costruito andando al risparmio ed è affetto da malfunzionamento cronico. I tecnici sottopagati non fanno che sgobbare, imprecare e lamentarsi. I tagliagole si aggirano per i cunicoli e le baie d’attracco in mezzo ai rifiuti. In virtù di queste caratteristiche, lo stile di Alien è stato definito “futuro usato”, ossia il futuro per come apparirà se il mondo sarà ancora dominato dalle stesse forze che ci sono adesso.
È una prospettiva nuova e contrastante, un inferno alternativo. Nelle prime distopie (Noi di Zamjatin o 1984 di Orwell) il presupposto universale era che solo lo stato centrale potesse essere abbastanza potente da dominare il mondo. In questo caso, il futuro deumanizzato sarebbe dunque il prodotto di una pianificazione collettiva, ma c’è un’altra possibilità. Se le élite industriali, con la loro insaziabile fame di profitto, segnassero il nostro destino tecnologico?
In tal caso avremmo l’irregimentazione, sì, ma senza che questi colossi egoisti e competitivi si prendano minimamente la briga di rimettere a posto il caos o preservare l’ordine. Sotto l’egemonia di trionfanti forze di mercato, i giardini del piacere dei ricchi potrebbero benissimo continuare a esistere, sotto stretta sorveglianza, mentre il resto del mondo diventerebbe una discarica. Anche Marge Piercy ha prefigurato questo tipo di realtà nel suo romanzo Sul filo del tempo, in cui tutte le donne sono prostitute e tutti gli uomini sono cyborg paramilitari.
È stato soprattutto il film Blade Runner del 1982 (diretto da Ridley Scott e tratto dal romanzo di Philip K. Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) a rappresentare in maniera efficace il lato decadente dell’alta tecnologia industriale. Da allora, sia il film che il romanzo sono entrati nel mito, su Internet, tanto che sono nati diversi siti web dedicati e molto attivi. Nel futuro di Blade Runner, i replicanti semi-umani (brevettati dalla Tyrell Corporation, uno dei colossi industriali che dominano il futuro) sono più umani dei “veri” esseri umani.
La storia, ambientata nelle strade sovraffollate e ricoperte di smog di una megacity decadente, analizza il potere industriale all’apice della sua criminalità. Il fatto che i giovani imparino queste verità dalla fantascienza piuttosto che dalla sociologia, c’è da aggiungere, non rende la lezione meno importante.
Ecco uno stralcio della canzone di un gruppo Death Metal i cui concerti finiscono solitamente a cazzotti sotto il palco.
Potenza, rabbia senza restrizioni
Poiché son stato pestato nelle strade
Sangue di cianuro riduce in cenere l’orizzonte
Odio è purezza
Infine il proiettile si collega
Risuoni la libertà con un colpo di fucile[4]
Parole scritte da ventenni per un pubblico di teenager. Non adolescenti che hanno sofferto le pene dell’olocausto o gli orrori della pulizia etnica o la guerra termonucleare, ma ragazzini di periferia che con ogni probabilità vivono della rendita del NASDAQ. La performance, con suoni iperamplificati e giochi di luci programmati, è altamente tecnologica, eppure gli spettatori indossano magliette con slogan del tipo “Alzati e uccidi” o “Ave, Satana”.
Non è facile prendere sul serio i giovani quando si lasciano trasportare da un nichilismo che non possono giustificare né comprendere appieno. Eppure, per quanto pretenzioso, il cyberpunk rimane, a mio parere, la manifestazione di un impulso vitale che è ancora lì, che sta ancora lottando per andare avanti. Se questo impulso non viene coltivato e non gli si danno adeguati mezzi di espressione creativi, andrà a finire dove è iniziato e cioè in un grido di rabbia indiscriminata che alimenta una deriva verso la follia e il suicidio, argomento su cui i giovani confabulano fin troppo. In caso contrario, diventerà un semplice business: una merce, tollerata solo perché non ha un target né una strategia.
La visione cyberpunk è così estrema che verrebbe da liquidarla e sperare che venga semplicemente superata, ma la prima cosa da ammettere è quanto vera essa sia. Ha molta più storia e cultura alle spalle di quanto i giovani possano capire e il fatto stesso di conoscerne le origini ha una funzione terapeutica, perché dona prospettiva. Per William Blake, le fabbriche fumanti della sua epoca erano scure e Sataniche.
Se lui fosse qui, oggi, molto probabilmente direbbe che l’alta tecnologia è lucente e Satanica, ma di sicuro riconoscerebbe la stessa inumanità e la stessa scelleratezza di un tempo nei traguardi più brillanti della Silicon Valley. Allo stesso tempo ne riconoscerebbe il genio, poiché Blake celebrava tanto l’inventore quanto l’artista: entrambi protesi verso la verità, appesi al filo di una devozione combattuta.
Personalmente, sospetto che la rabbia e l’amarezza riflesse nei messaggi che i giovani si scambiano in rete derivino in gran parte da un senso di isolamento che li fa sentire originali e che impregna le loro parole di un autocompiacimento piuttosto fastidioso. La scienza distorta, l’abuso di ricchezza e potere, la tecnologia nelle mani sbagliate… Sono questi i temi che rimandano alla controcultura degli anni ’60 e persino al Romanticismo.
Il cyberpunk non ha fatto altro che comprimere questi temi portandoli a nuovi e istrionici estremi, come per avvertirci che, come l’indistruttibile Alien hollywoodiano, quella cosa è ancora lì. William Blake chiamava quella cosa “Urizen, un’ombra di orrore”, mentre Allen Ginsberg la chiamava “Moloch”, un nome opportunamente antico che ci ricorda quanto antico sia l’orrore.
Che sfinge di cemento e alluminio sfondò loro il cranio divorandogli cervello e fantasia? […]
Moloch! […]
Moloch la cui mente è soltanto macchina! Moloch dal sangue che è denaro scorrente! Moloch le cui dita sono dieci eserciti! Moloch dal petto dinamo cannibale! Moloch il cui orecchio è una tomba fumante![5]
In generale, i giovani d’oggi sanno ben poco della vecchia controcultura, che aveva preso Ginsberg come uno dei suoi bardi, eppure alcuni di loro fanno brutti sogni su Moloch. Con una lucidità profetica che va oltre i loro anni, riconoscono quel mostro nell’alieno, nel cyborg, nell’androide, caricature dell’umanità che non sono in grado di amarci né comprenderci. Lo vedono come la Tyrell Corporation, come l’uomo che fuma di X-Files, come Darth Fener in tutte le sue varianti fantascientifiche.
Il primo passo verso un’educazione postindustriale efficace è fare fronte comune con la paura e il disgusto dei giovani, tenendo presente che la loro angoscia è dovuta anche alla loro immaturità. L’isteria nichilistica che pervade le loro canzoni e i loro libri ci fa capire semplicemente che non riescono a trovare la strada di casa, che hanno bisogno della competenza dei più grandi per uscire dall’incubo in cui tutti noi ci troviamo.
Abbandonati ai loro dispositivi, cadono preda di una tristezza stereotipata. Secondo Robert Bly, baciato dalla saggezza dei poeti, non ci saranno adulti in quella che lui chiama “la società dei fratelli”, a meno che i bambini non riescano a superare le macchine e le apparecchiature per tornare a un mondo naturale sostenibile e imparare dagli alberi, dalle stelle e dagli animali.
Lewis Mumford, l’insegnante da cui ho imparato più cose, al college, sull’uso buono e cattivo della tecnologia, dava a Moloch un altro nome, forse il migliore di tutti. Lo chiamava “Anti-Vita”, ossia quella distorsione psichica che si cela dietro la megatecnica, ossia dietro al tentativo di rimpiazzare ogni elemento naturale con un sostituto meccanico. Le invenzioni dell’Anti-Vita possono essere moderne quanto l’ultimo microchip della Intel, ma secondo Mumford risalgono alle antiche civiltà dei fiumi e in particolare ai re divini, dominati dal desiderio compulsivo di esercitare un potere imperioso sull’uomo e sulla natura.
La sua visione del nostro destino sotto la supremazia dell’Anti-Vita era oltremodo negativa ed era anche molto più approfondita di qualsiasi fantasia cyberpunk. Tuttavia, era consapevole che la vera misura della saggezza è la speranza e quest’ultima è ciò che la competenza dei vecchi regala ai dilemmi dei giovani.
Alle condizioni imposte dalla società tecnocratica, [osserva Mumford] non c’è speranza per il genere umano, se non “attenersi” ai suoi piani di progresso tecnologico accelerato a costo di cannibalizzare i suoi stessi organi vitali pur di prolungare l’esistenza insensata della megamacchina. Ma per quelli di noi che si sono scrollati di dosso il mito della macchina, la prossima mossa è nostra: perché i cancelli della prigione tecnocratica si aprono automaticamente, nonostante i loro vecchi cardini arrugginiti, non appena decidiamo di uscirne. (The Pentagon of Power, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1970, p. 435).
Note
[1] I tempi stanno cambiando. Probabile riferimento alla canzone “The Times They Are A-Changin’”, di Bob Dylan.
[2] Fonte della traduzione: http://teoremacinema.com/sorvegliati-da-macchine-damorevole-grazia/ (09/09/2019)
[3] Gibson W. (2003) Neuromante. Trad. di G. Cossato e S. Sandrelli, Milano, Mondadori (Oscar classici moderni).
[4] Fonte della traduzione: https://canzonimetal.altervista.org/davidian-traduzione-machine-head/ (02/09/2019)
[5] Fonte della traduzione: http://www.heliosmag.it/old/99/1/beat.html (02/09/2019)