Così bella, così dolce di Robert Bresson nella critica del tempo

Mario Mancini
33 min readAug 18, 2021

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I film di Robert Bresson nella critica del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

Dominique Sanda nella scena del saponetta scivolata a lei, raccolta da lui e restituita a lei con un gioco di mani che si toccano. Una gamba di lei esce sensualmente dalla vasca. È l’erotismo di Bresson,

«Mi sembra tutto impossibile.»
Lei (Dominique Sanda)

«Io me ne infischio del denaro.»
Lei

«Apri i tuoi occhi per un secondo, solo per un secondo.»
Lui, il marito di Anna

«Avvicinare inabitualmente i corpi. Per catturare i movimenti più insensibili, più interiori.»
Robert Bresson

Una giovane donna si getta dal quinto piano di un palazzo, a Parigi. Il marito ricorda la loro vita a due, interrogandosi sui motivi di un gesto così estremo. Anna, l’anziana governante, è la silenziosa testimone di queste rimembranze.

L’uomo pensa al loro primo incontro: «Dimostrava sedici anni, ricordi?». Lei era entrata nel suo negozio, un banco dei pegni per oggetti preziosi, proponendogli di acquistare una vecchia macchina fotografica. Era poi ritornata, portando altre cose da vendere: un bocchino per le sigarette, un piccolo Cristo in avorio su una croce in oro, gli ultimi oggetti lasciatigli dai genitori.

Avevano cominciato a parlarsi. L’uomo, colpito dalla bellezza della ragazza, aveva deciso di sposarla. Dopo un breve corteggiamento e alcune esitazioni iniziali, Lei aveva accettato. Il ménage matrimoniale, dopo un inizio pieno di pudori ed emozioni, aveva presto evidenziato le profonde diversità tra i coniugi.

La ragazza mostrava indifferenza nei confronti della ricchezza materiale, mentre il marito pensava soprattutto a mettere da parte dei soldi. Anche sul piano culturale non c’era alcuna intesa: Lei era curiosa, sensibile, lui pigro e disinteressato.

Tra i due era cresciuto il silenzio. Il marito aveva cominciato ad essere geloso: spiava i colloqui della ragazza con i clienti del negozio, seguiva i suoi spostamenti. Malgrado avessero continuato a vivere insieme e facessero ancora l’amore, Lui e Lei erano ormai distanti.

Un giorno, durante uno dei suoi consueti pedinamenti, Lui l’aveva sorpresa in macchina in compagnia di uno sconosciuto. La rottura era diventata inevitabile, l’incertezza e la tensione si erano fatte insopportabili, e i nervi di Lei avevano ceduto. La ragazza si era ammalata gravemente, le cure del marito sembravano aver sanato non solo la sua salute ma anche la loro unione.

Lui le aveva proposto un viaggio, e anche una vita nuova. «Sarò una donna fedele, vi rispetterò», aveva detto la ragazza al marito. Mentre quest’ultimo si era recato in un’agenzia di viaggi per prendere due biglietti aerei, la giovane donna, rimasta sola nella stanza, aveva sorriso alla sua immagine nello specchio, aveva aperto la porta-finestra e si era gettata nel vuoto.

Ritorno al presente. Il cadavere della ragazza adesso è disteso nella bara. «Apri i tuoi occhi per un secondo, solo per un secondo», sussurra il marito. La bara viene sigillata.

Alberto Moravia

La mite è un racconto della maturità di Dostoevskij, nel quale è narrata la storia dei rapporti coniugali di un usuraio quarantenne con la moglie sedicenne. Il racconto è una specie di monologo interiore del marito di fronte al cadavere della moglie che or ora si è uccisa gettandosi dalla finestra.

In questo monologo Dostoevskij si tiene dentro i limiti psicologici e culturali del personaggio con un realismo al tempo stesso pietoso e ironico.

L’interesse di un simile monologo per il lettore consiste nel fatto che, attraverso una particolare mimesi stilistica, lo scrittore lo mette in condizione di vedere chiaramente i motivi della tragedia, motivi che invece sfuggono al protagonista nel momento stesso che, senza rendersene conto, li illumina.

Questi motivi possono ridursi in fondo a uno solo: l’orgoglio, molla segreta della psicologia di quasi tutti i personaggi dostoevskiani. Per orgoglio il protagonista ha rovinato la propria carriera; per orgoglio si è messo a fare l’usuraio; per orgoglio ha spinto al suicidio la moglie che amava.

A proposito di quest’ultimo disastro provocato dall’orgoglio, va notato che ambedue i personaggi sono egualmente orgogliosi. L’orgoglio impedisce al marito di dissipare il disprezzo della moglie con la franchezza umile e affettuosa propria dell’amore; egli non sa comunicare e preferisce umiliare e vincere la moglie in una specie di prova di forza piuttosto che persuaderla.

A sua volta, la moglie, una volta sconfitta, preferisce, per orgoglio, uccidersi piuttosto che piegarsi. Si dirà a questo punto: e l’amore, dov’è l’amore in questo duello all’ultimo sangue? Rispondiamo: l’amore c’è, così da una parte come dall’altra, e questo costituisce appunto l’originalità della vicenda.

Abbiamo raccontato la novella dostoevskiana perché il film che Robert Bresson ne ha ricavato, Une femme douce, lo ricalca con assoluta fedeltà. Tutto vi è ripreso: i due personaggi coi loro connotati sociali, la situazione, gli avvenimenti, i particolari oggettivi, tutto fuorché la psicologia. Bresson, a dire il vero, avrebbe voluto, al solito, fare a meno della psicologia, lasciar parlare gli “oggetti”. Ma non vi è riuscito. La psicologia trasuda dagli oggetti, si spande per il film come una nebbia. È la psicologia di Dostoevskij, non quella di Bresson che, come abbiamo detto, la rifiuta e non vuoi saperne.

I motivi per cui la psicologia si è ribellata a Bresson mentre invece, al solito, gli “oggetti” gli si sono sottomessi con docilità, sono in fondo due. Il primo è la “storicità” della psicologia. C’è una psicologia moderna e ce n’è una del Rinascimento e ce n’è una dell’antichità.

La grande scoperta di Dostoevskij è che la psicologia non è “eterna”. Essa è legata alla cultura, anzi “è” cultura; e dunque è storia. La psicologia del racconto di Dostoevskij è quella dell’Ottocento in un paese come la Russia zarista. La situazione storica e sociale della Russia di allora rendeva verosimile il suicidio della donna. Ma la stessa storia ambientata nella Francia di oggi, lo rende inverosimile.

Il secondo motivo è che Dostoevskij ha scritto La mite prima di Freud. Ai suoi tempi un simile personaggio era ancora un personaggio; oggi sembra un caso clinico. Quanto a dire che la psicanalisi ha messo a disposizione del nostro giudizio strumenti di conoscenza che prima non avevamo. Il modo di evitare il caso clinico oggi, con una simile storia, c’è, è il modo di Antonioni e consiste nell’alludere alle lontane determinazioni sociali della incomunicabilità coniugale, la quale, in tal modo, cessa di essere un caso individuale, come in Dostoevskij e diventa, sia pure con tutta l’ambiguità propria della poesia, un fenomeno sociale.

Ma Bresson è un cattolico che crede nell’esistenza del male e non si interessa che all’individuale. Col risultato di postulare una psicologia fuori del tempo che in realtà non può esistere. Il film tuttavia è ammirevole egualmente per la sobrietà e castità della rappresentazione, per la straordinaria capacità di rendere espressivi e dunque reali i particolari oggettivi.

Guy Franjin è eccellente nel ruolo di marito. La bravura di Dominique Sanda ci fa dimenticare la sua bellezza, inverosimile ed eccessiva per la parte che interpreta.

Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975

Giorgio Tinazzi

“Dite le vostre battute a fior di labbra, come ve le ho recitate io, se le urlate come fanno tanti nostri attori, preferirei affidare i miei testi al banditore… Nel torrente, nel vortice, nell’uragano delle passioni occorre sempre ottenere persino una certa dolcezza”; sono i consigli di Amleto agli attori nel brano della rappresentazione che si vede nel film. Questa recita “dentro il film” entra nella costruzione come contrappunto interno (per le implicanze che ha sui personaggi), ma è anche una sorta di sottolineatura formale, l’avversione al teatrale, al di fuori o all’esterno, all’uso recitato della parola. Mettete lucidità più che dolcezza e avrete — in parte — Bresson.

Le parole, appunto: Une femme douce si potrebbe definire un film della parola e della sua negazione; essa è soprattutto momento formale di rapporti. Innanzi tutto, con l’immagine, nei confronti della quale essa può avere funzione:

a) descrittiva, di reazioni (all’inizio, lei: «non mi aveva colpito in modo speciale») o di situazioni («suo padre e sua madre erano morti, viveva con dei parenti»);

b) duplicativa, secondo una tipica tendenza bressoniana, quando la parola descrive l’immagine o la scena che si sta vedendo;

c) di contrasto (“sai, Anna, cosa significa soffrire, quando si sta con una donna così bella, così dolce”, e la macchina da presa è sempre sul corpo inanimato della protagonista);

J) gnomica, quando aggiunge considerazioni (che possono anche essere stilisticamente di peso);

e) più spesso la parola non è collegata direttamente all’immagine, poiché è detta o su una immagine diversa, o su un fondo neutro, avendo perciò lo scopo di stemperare le “punte” (“gettai acqua fredda su quell’ebbrezza”, e la macchina da presa è sulla finestra del negozio che si apre). La parola infine si può configurare come fattore ritmico-formale, ponendosi in rapporto o con i vuoti, i silenzi, oppure più chiaramente col dialogo, che continuamente si alterna; in questo caso si ha una continuità tra parola diretta (il dialogo, appunto) e parola indiretta (il “narratage”). Per ultimo, come si è già visto nella parte generale, si viene anche a creare una dialettica con lo spettatore, tra partecipazione e distacco o tra momento soggettivo e oggettivo; anche la parola vi contribuisce.

Attraverso questi procedimenti, dunque, essa diventa sempre più un elemento della temporalizzazione cercata da Bresson; il film è in sostanza tutto un flashback, quasi una decantazione del perduto, attraverso il quale si articola il ricambio col presente.

Lo stesso Dostoevskij, nella breve introduzione alla novella da cui è tratto il film definisce “racconto fantastico” il suo, e aggiunge “precisamente nella forma”; è l’andamento narrativo cioè a dare questo carattere a un materiale “realistico al più alto grado”; il protagonista cerca di “concentrare i suoi pensieri in un punto”, e la forma confusa in cui questo avviene è registrata come “se uno stenografo potesse ascoltarlo di nascosto e notare tutto ciò che egli dice”.

Lo scrittore cerca quindi il filo psicologico dei pensieri, e di conseguenza un filo narrativo; nel regista prevale invece la dimensione temporale, il flusso complesso, la difficoltà delle intersezioni.

Il passato è reso da Bresson, si direbbe, quasi sensibile rispetto a Dostoevskij: il presente interferisce nei discorsi fatti ad Anna, nel monologo, nel commento fuori campo.

Per questo ovviamente è fondamentale l’uso bressoniano del montaggio, e occorre anche sottolineare come in questo film è usato quasi esclusivamente lo stacco (contro l’uso frequente della dissolvenza fatto in precedenza), come se si volesse avvalorare il contrasto o l’allusione, la totale semplificazione.

Quest’alternanza, e la ricerca che indica, non sono prive di pericoli; perché, ad esempio, vi è una continua depurazione dalle psicologie, ma poi vengono in parte reintrodotte, sì che l’aspetto temporale è tendenzialmente astratto, ma è anche denso di elementi soggettivi, e in questo senso “concretizzati” che lo inquinano.

Così la parola è liberata da una letterarietà che per altro verso compare chiaramente. È pur vero però che ciò crea una forma di contrasto, una voluta diversità di tono, tra la discorsività e la secchezza allusiva, tra il quotidiano e il sentenzioso; si arriva così a una duplicità di piani che facilita il salto dalla rappresentazione alla formalizzazione:

“Questa è la vera ragione di questo gusto di Bresson per le frasi molto letterarie (nel caso, si tratta di una presa a prestito da Dostoevskij): lo scritto dà una idea di questo intemporale che la macchina da presa è impotente a tradurre, e che non è d’altro canto nei propri compiti tradurre direttamente.”
C. Zimmer (in “Temps modernes”, ottobre 1969).

Mi pare sottolinei giustamente questo aspetto, anche se per lui poi si tratta di una prova della difficoltà del film, del modo dell’autore di agirvi dall’esterno.

Ma non è tanto su questo che è opportuno soffermarsi; se un dubbio c’è caso mai riguarda l’“economicità” nell’uso della parola, per alcuni caricamenti che si possono avvertire; ma a correggere (forse) la prima impressione sta anche la considerazione del fatto che il gioco dei contrasti esige anche i pieni, che possono essere anche una sovrabbondanza di parola.

L’osservazione veniva fuori perché a proposito del complesso del film è proprio il caso di parlare di economicità. Si può cominciare con l’analizzare lo spazio, non naturale ma costruito; la chiusura è data prima dalla casa e dal negozio, dopo dalla stanza da letto nella quale si svolge il monologo di lui ; nell’un caso e nell’altro i luoghi non sono mai fatti vedere per intero, analogamente ad altri film. Gli interni sono per la gran parte dei “percorsi” dei personaggi, scale (luogo tipico; infatti alcune inquadrature ricordano assai da vicino Pickpocket), porte, pareti, oggetti: l’iterazione crea ossessione, la ripetizione è chiusura, il movimento si rivela blocco inerziale.

Il contrappunto dato dagli esterni è quasi geometricamente scandito, creando anche alternanze di colore che trovano implicazione interne ai personaggi, tutte mediate. Si possono cogliere allora l’indifferenza della città, l’ostilità (i rumori, subito sotto i titoli di testa, ancora i colori), la possibilità negata di apertura dei rapporti (Jardin des plantes), gli slanci di lei (all’uscita dal cinema), i silenzi pesanti (il Bois).

Altre volte osserviamo comportamenti (il supposto tradimento, la gita in campagna, i fiori gettati a terra), raramente momenti riflessivi (lui, sul ponte della ferrovia: “non era pietà che provavo per lei, era un sentimento ben diverso, era come un entusiasmo indicibile”).

Le articolazioni dello spazio sono una riprova anche del processo di dilatazione e di rarefazione, e pur di corposità, che la struttura dell’opera viene a raggiungere. È un processo che parte più indietro, e riguarda prima di tutto la dilatazione dello schema portante, cioè la “storia” della novella di Dostoevskij.

Bresson riprende l’andamento del monologo, con tutte le sue “impossibilità” cinematografiche, e si serve del meccanismo interno che sta sotto al racconto (l’amore, la contraddittorietà, la gelosia, il rimpianto) per analizzarne le diramazioni. Eppure sono emarginate le implicazioni di carattere psicologistico, che potevano derivare direttamente dallo scritore, oppure dal tentativo di attualizzare il racconto: penso alla situazione (la “coppia in crisi”), alle determinazioni ambientali, all’analisi del milieu sociale.

L’interesse è invece in direzione diversa, tanto è vero che il regista tende a operare delle riduzioni; si limita a dare per esempio poche note di un fatto, come nei particolari iniziali (lo scialle è un ricordo di Mouchetteì), o nel matrimonio; oppure abbassa le punte drammatiche.

Il tono generale è quasi di una “tragedia trattenuta”. Anche per questo Bresson mira a distendere: sotto questo aspetto si pensi all’atonia delle voci (che si perde, al solito, nel doppiato italiano, nel quale compaiono anche — nei dialoghi — alcune “prouderies” censorie), al rapporto di distanziazione ottenuto attraverso l’apparente neutralità della recitazione o la fredda osservazione di comportamenti e gesti, opachi e significanti[1].

Questo andamento non porta però quasi mai allo schematismo, perché come sempre il processo è dialettico, l’antinaturalismo e l’antinarratività sono la tendenza, ma permangono a un tempo la presenza delle cose e la scansione dei fatti.

Ripercorrere quell’itinerario significa qualificare omogeneamente i vuoti di narrazione come i pieni; l’astrazione quasi emerge dalla messa in situazione dei personaggi e da certi comportamenti quotidiani, dalla loro dimensione concreta e qualificante. Una verità sensibile, si è detto opportunamente.

Questa dialettica riguarda soprattutto i personaggi, che non tendono al simbolo né sono semplici “indicazioni”, ma acquistano una loro particolare pluridimensionalità. Attrae Bresson il contrasto a due, con dietro Anna, una presenza del silenzio, ombra di peso e spettatrice; va notato tra l’altro che il personaggio di Luker’ ja, la cameriera, c’è nella novella, ma non come interlocutrice saltuaria delle parole di lui.

L’itinerario della coppia è tensione, contrasto e vuoto; quando sembra risolversi si constata l’impossibilità; la nascita del cambiamento — ecco il “mistero” — è anche la sanzione dello scacco (vale il richiamo a Pickpocket). Al fondo pertanto c’è il clima dostoevskiano che dimostra non poche assonanze con il regista; la situazione è quella di “umiliati”, all’interno della quale si muove la complementarietà di mitezza-offesa-rivolta presente soprattutto in lei, e che in Bresson è più sfumata, soprattutto nell’ultimo termine.

Il progetto, ogni progetto, trova la deviazione: è l’“ironia malvagia che muta le spinte, ed è in noi e fuori di noi, è il destino e sono le nostre ambigue contraddizioni che “collaborano”. Il rapporto è perciò dilacerato, è bisogno e “umiliazione” dell’altro: “l’idea di quella nostra ineguaglianza mi piaceva …”.

Bresson probabilmente ama il racconto breve dostoevskiano perché riduce, senza togliere in complessità, l’ambiguità dell’apertura all’altro, tra paura e ammirazione, tra “pietà” ed “entusiasmo”; cercare è sentirsi diverso, o superiore. Agli occhi di lui ella è “mite” e “tiranno”, amarla è contemporaneamente vederla in colpa.

La complessità riguarda soprattutto lei, uno dei personaggi femminili bressoniani più densi. Da lei partono la tensione e il suo rivolgimento, l’incontro e il fallimento, sua è la volontà; il suicidio, si è scritto, si iscrive nella logica della sua ostinazione. Il percorso è tra disponibilità e refrattarietà, tra apertura e predisposizione.

La recettività è spesso sottolineata: la visita al museo[2], la natura — il libro che legge — il teatro — è solo lei ripresa in primo piano durante la recita; ma essa si accompagna all’opacità.

La reattività c’è, e viene talora fuori sotto la crosta della neutralità: penso alla fisicità di certe reazioni, ai pochi sorrisi, il rientro a casa dopo il matrimonio, la prima notte, le “offerte”, l’abbraccio improvviso, tra i passanti, all’uscita dal cinema.

Per questo spesso i gesti sono scrutati, come nella ripresa (tutta allo specchio) di lei che si veste prima di andare a teatro; si osservi come il motivo dello specchio torni, iterazione normale e ossessiva, prima del suicidio.

Vi è in lei il timore del già vissuto, del codificato, “vorrei una cosa diversa”, dice; è lei la presa di coscienza, la “paura dell’amore”, cioè lo stupore o la riflessione di fronte al mutamento; Dostoevskij parla di “meraviglia severa”.

Certo, il rifiuto delle convenzioni è persino didascalico: “Il vincolo del matrimonio non mi piace / Ci pensi bene, ci sono migliaia, milioni di donne che lo desiderano / Può darsi, ci sono anche le scimmie”. La capacità riflessiva è dichiarata: “anche noi siamo una coppia fatta in serie”, e più avanti: “È possibile cambiare?”; anche il tono didascalico può salire sopra le righe: “La materia che compone gli esseri viventi è uguale per tutti, ma con un’architettura diversa” (al museo di scienze naturali).

Tra passività e provocazione, anch’essa — come altre creature bressoniane — è vittima e complice.

Conosce la frase di Mefistofele[3], è lei a finirla quando lui la comincia, in fondo è il primo e anche l’ultimo legame. Il destino di lui ambiguamente si interseca, bressonianamente complementare e pur casuale; passivo e corrosivo, mira a una mediocre “solidità”:

“Tu disprezzi il denaro / Me ne infischio / Vorrei infonderti una maggiore larghezza di vedute, per considerare la vita diversamente”, e la voce fuori campo: “Cercavo una felicità solida”[4].

Più avanti dice: “Io cercavo solo il possesso del suo corpo”. Il peso del rapporto con gli altri passa attraverso la sua attività: il suo rapporto con gli oggetti, e col denaro; il richiamo interno bressoniano è evidente.

Ma cerca anche il diverso, il mutamento e l’impossibilità si rivelano anche a lui, sia pure in modo mediato. Il monologo è suo, il perduto, il presente come negazione. Certo, non mancano anche connotazioni “spirituali” in questo monologo (“vorrei pregare, ma non ne sono capace”; “voglio essere legato a te dalla fede più profonda”) ma ciò non autorizza insistenze eccessive su questo motivo, sono quei residui mistici che permangono, non tanto “spuri”, quanto piuttosto ultimi segni rivelatori, quasi depositi che restano addosso in una visione sempre più lucida.

Ma non devono spingere a interpretazioni elementari, che eliminano comodamente l’ambiguità di cui abbiamo parlato.

La complessità — occorre ripeterlo? — si manifesta anche nel progressivo impoverimento stilistico, nel caricamento per spogliazione. Anche qui l’inventario può essere lungo. Le mani, al solito, sono il particolare emergente in talune sequenze, manifestando avidità o tenerezza, vicinanza o refrattarietà: il denaro, il matrimonio, a letto[5].

Troviamo poi gli aspetti parziali messi in rilievo: i piedi sul letto di morte, i gesti, il gioco fittissimo degli sguardi, apparentemente neutri, i visi; talora, ad esempio, alcune frasi di lui sono dette mentre la macchina da presa inquadra il viso di Anna, atono e presente.

La freddezza di registrazione si allarga ai comportamenti, spesso dilatati oltre il tempo “normale” (lui che fa le parole incrociate / lei che ascolta la musica), creando e poi negando la suspence (la pistola); il caricamento è in alcuni casi indiretto, essendo dovuto al già visto, come nel finale, tutto diluito, reso “insignificante”: siete felice? chiede Anna — Sì sono felice; seguono i movimenti di lei all’interno della casa, i particolari diventano allora tutti rilevanti, torna il motivo dello specchio, poi il gesto conclude.

Anche le “intrusioni” nell’interno, cioè nello spazio chiuso, hanno un peso; sono le trasmissioni televisive (una corsa automobilistica, un concorso ippico, scene di guerra), rappresentano il rumore, il movimento, l’aggressività, un mondo estraneo assonante e dissonante.

Anche le cose contribuiscono a questa alternanza; è anche un film di oggetti, sul loro linguaggio, presenza e allusività; sono neutri e pur ci significano, per il necessario rapporto che si stabilisce.

I residui “richiami”, che lo stesso Bresson ha messo in luce in una intervista, sono affidati a oggetti (il crocefisso).

L’economicità sta dunque nei mezzi. La musica è solo “interna” (cioè inerente all’azione, ascoltata dai personaggi: Purcell, Mozart, Jean Wiener); alle volte è solo una dissonanza di stile (le musiche del film Benjamin, o di accompagnamento alla recita dell’Amleto), in altre lega asincronicamente due sequenze (si vedono le mani che firmano il registro di matrimonio e già comincia la musica della sequenza seguente, al ristorante), oppure ha una diretta risonanza per i personaggi (“aveva la passione della musica”: dal viso di lei morta la macchina da presa passa all’interno della casa / lei che ascolta).

Si arriva a parlare degli inserti nel film, la scena di teatro (Amleto, atto 5°, scena 2a), la sequenza di Benjamin[6]. Si potrebbero definire, sbrigativamente ma non troppo, una sorta di dichiarazione a contrario di poetica da parte del regista, l’esterno, l’evidente, oppure l’“altro cinema”.

Ma — come già si disse — fanno anche da contrappunto alle vicende del film, e l’allusione diventa anche scoperta; il libertinaggio di Benjamin e la gelosia di lui, la morte sovratono nella recita — molto lunga — e l’ombra che domina il film. Anche in altri casi vi è infatti un rapporto tra l’itinerario della coppia e alcune “proiezioni” esterne: il museo di scienze naturali, e l’allusione alla morte, oppure il museo di arte moderna, l’astrazione (sono tele di Watteau) come contrasto-analogia con la corposità, il richiamo all’erotismo che corre lungo il film.

L’allusività, dunque, e lo scorcio. Il “gesto”, che inizia e conclude (e chiude), è assai significativo. Dà al monologo filmato il tono del rivissuto col segno negativo, di una impossibilità scontata; permette contrasti di montaggio assai pregnanti, dovuti alla presenza della morta[7].

Per questo stilisticamente il suicidio è reso evidente da alcune note tipiche: l’ellissi, che taglia eppure dà il peso fisico; citerei a questo proposito gli stracci sporchi di sangue (che ritroveremo in Lancillotto), che richiamano proprio quel “pugno di sangue” di cui parla Dostoevskij; e ancora i rumori, che rendono più dell’immagine, e il montaggio, che permette una decantazione del continuum temporale, del rapporto immediato tra presente e passato rivisto.

Il modo in cui è reso il fatto ci permette anche di aggiungere alcune osservazioni al rapporto con la novella. Lo stesso inizio, simmetrico alla chiusura, è significativo; nello scrittore infatti comincia subito il monologo, e la morte è quindi sottintesa, mentre Bresson preferisce incidere descrivendo per allissi; ma dopo questa alzata di tono, la struttura drammatica tende al livellamento, senza le emergenze o le affermazioni “perentorie” presenti nella pagina.

In generale comunque si può dire che il rapporto con lo scrittore va posto nei termini di una adesione ad uno “spirito”, prima di tutto; vi è anche una riproposta dello schema di eventi, ma in questo senso vi sono anche modifiche di cui è opportuno tener conto. Per esemplificare, in sintesi si può osservare che Bresson:

a) Aggiunge. Ad esempio, il dialogo al “Juardin des plantes”, la gita in campagna, gli inserti di cui abbiamo parlato (quindi anche la lettura dei brani da parte di lei).

b) Sfronda. Ad esempio non vi sono che cenni alla storia privata dei due personaggi. Nel racconto si dà spazio alla cacciata di lui dall’esercito per un duello non accettato, e si fa anche chiaro riferimento alla storia di lei, che il protagonista apprende da altri; come in altri casi, il regista o taglia o lascia solo qualche cenno, in questo caso l’estromissione di lui dalla banca è quanto rimane.
Ne esce quindi anche attenuato il gioco di umiliazione e compensazione “sociale”. Inoltre alcuni brani di dialogo, anche importanti, sono tolti o resi allusivi. Il regista abbassa il tono di alcune scene, come il supposto adulterio spiato da lui, riducendone sia la dimensione che il “colore”, che in Dostoevskij è quello di un “duello dell’innocenza con quella bestia”.
Bresson inoltre elimina quasi tutto il monologo finale attorno alla morte; lascia solo un interrogativo (“lei, perché?”) che inserisce però prima della descrizione del gesto; poi vi è il suicidio, sottolineato soprattutto dai rumori esterni, quindi una frase di lui, “apri gli occhi un attimo, un attimo soltanto”, ripresa appunto dalle ultime pagine (“Oh, qualsiasi cosa, purché aprisse gli occhi ancora una volta! per un sol attimo, per uno soltanto”). La spietata freddezza del particolare finale, il bullone che chiude la cassa, conclude il film.

c) In altri casi adatta, a parte i naturali aggiornamenti cronologici. L’aver solo accennato al passato contribuisce a smorzare le punte alte del carattere, e il senso di rivalsa.

Anche il carattere dei personaggi risulta smussato e modificato; Bresson rende meno evidente il tema della “superiorità” di lui, che in Dostoevskij è dichiarato sia come componente sociale (l’“averla tirata fuori dal fango”) sia come “diversità”. Rimane però, anche se depurato, il rapporto affermazione-umiliazione.

Il regista lavora forse di più a rinsaldare il personaggio femminile, soprattutto a far emergere il suo grado di consapevolezza; in compenso il “carattere violento e aggressivo” di cui a un certo momento si parla nel libro appare assai mediato, senza toni alti, sì che la “ribellione” è tutta trattenuta.

Queste — e altre — sono modifiche che fanno ancora una volta intendere come il luogo bressoniano non sia quello della psicologia: i personaggi hanno la complessità della poliedricità, ma sono nel contempo anche segni di una dimensione che sta prima di loro.

Per questo Une femme douce è prima che un film su personaggi, un monologo sul tempo, un film del dopo tutto al presente, un’opera sul tempo per negarne l’apertura.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 112–120

Adelio Ferrero e Nuccio Lodato

La presenza di Dostoevskij, sotterranea ma intensamente operante in Pickpocket e Balthazar, diventa esplicita in due film girati da Bresson dopo il 1968: Così bella, così dolce e Quattro notti di un sognatore, ispirati, rispettivamente, a La mite e Le notti bianche.

La mite apparve, la prima volta, nel fascicolo del novembre 1876 del Diario di uno scrittore: «racconto fantastico» lo definiva Dostoevskij chiarendo che l’aggettivo non si riferiva alla materia narrativa, realistica e drammatica (il suicidio di una giovanissima donna), ma alla «forma stessa del racconto»: il «monologo interiore» del marito che, cercando di fissare ragioni e responsabilità di quel che è accaduto, «parla con se stesso, narra il fatto, lo chiarisce a se stesso».

«Se avesse potuto ascoltarlo di nascosto uno stenografo — continuava la «premessa dell’autore» — e seguirlo annotando tutto, ne sarebbe venuta una cosa alquanto più scabra, meno finita di come la presento io, ma, per quanto mi sembra, l’ordine psicologico forse sarebbe rimasto il medesimo. Ecco, questa supposizione di uno stenografo che ha annotato ogni cosa (e del quale io avrei elaborato, dopo, lo scritto) è appunto ciò che in questo racconto chiamo fantastico».

E la “premessa” si chiudeva con l’osservazione, certo non inessenziale per Bresson, che «quasi lo stesso metodo» era stato introdotto da Victor Hugo in L’ultimo giorno di un condannato a morte (Fédor Dostoevskij, La mite, tr.it. Poliedro, in Racconti e romanzi brevi, III, Sansoni, 1962).

Il film che Bresson ne trae è anche, in superficie, un esempio ammirevole di “rispetto”, o meglio, di autentica “reviviscenza” di un testo letterario in sé conchiuso e perfetto: il regista segue rigorosamente lo sviluppo della vicenda, ne asseconda svolte e situazioni, riprende testualmente i dialoghi, traspone in discorso diretto alcune considerazioni e ricordi del protagonista.

Una collaboratrice domestica non giunge in tempo a impedire il suicidio della padrona, che si getta dal balcone. Ne veglia il cadavere accanto al marito, che ricorda.

L’aveva conosciuta poco più che adolescente, come cliente del suo banco dei pegni. Aveva cominciato a corteggiarla con discrezione e assiduità, cercando di secondare i suoi interessi culturali e facendole capire che la sua situazione economica sarebbe mutata. Alla fine lei aveva accettato.

Si era distinta, all’inizio della vita sessuale in comune, per uno slancio che il marito aveva ritenuto educativo ridimensionare. I suoi progetti di vita ordinata e dedita al risparmio per il futuro non avevano incontrato il consenso di lei.

La sua stessa attività non le piaceva: subentrata ad affiancarlo al banco, lavorava a vantaggio dei clienti anziché dell’usura coniugale. Ma anche il tempo libero, e persino l’assistere a un film o a uno spettacolo teatrale poteva divenire occasione per divergenti vedute. I gusti e le inclinazioni di raffinata cultura della consorte non riscuotevano l’interesse del marito; il gesto gentile di raccoglierle un mazzo di fiori in campagna, da parte di lui, culminava nel liberarsene infastidita di lei.

Che cominciò a uscire da sola, solleticando, forse a torto, la sua gelosia, e facendolo giungere al punto di disporre in bella evidenza nella casa una pistola, fino ad allora sempre celata in un cassetto. Un ulteriore litigio aveva determinato l’assenza notturna di lei: al rientro si erano tuttavia amati appassionatamente, e l’intesa sessuale, nonostante tutto, non era mai venuta meno tra di loro.

Successivamente, una sera, lui l’aveva sorpresa in auto col presunto amante. Al ritorno a casa, era stata lei a minacciarlo in silenzio, durante il riposo, con la pistola in bella vista. La reazione del marito era stata il passare a letti separati. Quella della moglie, ammalarsi gravemente per un mese e mezzo, fatta assistere e curare da lui senza badare a spese.

Avevano, alla guarigione, ripreso a frequentare insieme i musei, alternando frequenti diversità a momentanee convergenze di vedute. Gli interessi restavano diversi, ma in un momento di apertura lei gli aveva confidato di avere temuto il suo abbandono. Il consorte ne era stato spinto a ricercare momento di maggiore vicinanza e comprensione, incoraggiato anche dal medico, preoccupato per la sua depressione.

Giunse a prometterle di cambiare lavoro, chiudendo il banco di pegni. Ma un incauto accenno all’amante, pur se introdotto a fin di bene, aveva determinato una sua crisi di pianto senza fine.

Il giorno successivo, lui era uscito di casa dopo un abbraccio, proprio per dare corpo ai propositi di mutamento e organizzare un viaggio a due. Senza immaginare che per lei — domestica aveva sospettato — quello potesse essere l’ultimo giorno di vita.

E tuttavia il senso della rilettura bressoniana non potrebbe essere più “infedele”. Infedeltà che non dipende certo e soltanto dalla attualizzazione della vicenda (trasferita dalla Pietroburgo fine secolo in una rarefatta Francia odierna) ma dal metodo e dal procedimento che il regista si è assegnato.

Se infatti, come ha ben visto Moravia («L’Espresso», 30 novembre 1969), «l’orgoglio, molla segreta della psicologia di quasi tutti i personaggi dostoevskiani», può rendere ragione, almeno in parte, dell’interesse del regista per il racconto, è poi vero che «tutto vi è ripreso», nel film, «tutto fuorché la psicologia».

Esclusione che, sacrificando quella che per Moravia è, piuttosto riduttivamente, «la grande scoperta di Dostoevskij che la psicologia non è “eterna”», comporterebbe il «risultato di postulare una psicologia fuori del tempo che in realtà non può esistere», rendendo «inverosimile» il film di Bresson.

Ora, è senz’altro vero che il processo di svuotamento, da parte del regista, del retroterra sociale e psicologico dei personaggi, non potrebbe essere più radicale: il “prima” e i “donde” dei due protagonisti, così densi e complicati nel racconto, vengono nettamente svalutati a vantaggio dell’“adesso” e del “dove”.

Le due facce del marito — “uomo del sottosuolo” con una psicologia tortuosa, frustrata, introversa sino all’esasperazione, e “sognatore” arrendevole a estasi deliranti e a nevrotiche attese di un futuro appassionante quanto indistinto («A Boulogne, a Boulogne», vaneggia, precorrendo la Irina di Cechov) — subiscono, in apparenza, un appiattimento che, accentuando la meschinità dell’uomo, ne intristisce e rende squallido anche l’“orgoglio”.

Mentre lo spirito di “ribellione” e di “indipendenza” che la giovane moglie viene svelando dietro l’apparente mitezza si avverte fin delle prime immagini ma risulta, nello stesso tempo, meno “motivato”: un modo d’essere e di stare nel mondo, più che la conseguenza di un conflitto di caratteri.

Non meno sensibile il rifiuto bressoniano di raccontare i fatti in funzione delle psicologie: saltano, così i raccordi lineari tra gli uni e le altre producendo la consueta rarefazione del racconto, ridotto a schema di una narrazione non consumata, esile diagramma di un arco non compiuto, o non compiuto mai sino in fondo.

Due esempi particolarmente probanti: il matrimonio e il mancato adulterio. Nel primo caso, la situazione economica e familiare che, nel racconto, induceva la ragazza ad accettare la proposta, viene riassorbita, ma non del tutto annullata, nel giro contratto di un raccordo, il più ellittico possibile: l’uomo segue la giovane per le scale di una casa, lei gli ingiunge di non entrare («è gente squallida»), sparisce dietro una porta.

Stacco: rivediamo la coppia, le mani si scambiano gli anelli. Nel secondo caso il complesso retroterra dell’adulterio, la cornice romanzesca e teatrale, i sospetti e i pedinamenti del marito spariscono completamente. Tutto si riduce a una rapida sequenza di frammenti staccati e sfuggenti: uno sguardo tra la donna e un giovane all’uscita da un cinema, lo stesso, forse, ripreso di spalle e le parole di lei che non sentiamo in fondo alla bottega del marito, questi che si avvicina a un’auto, di sera, e costringe, ma senza violenza, la donna a seguirlo.

La verità è che, con una significativa “regressione”, Bresson è tornato alla ipotesi dostoevskiana dello “stenografo”, prendendone il posto egli stesso e sostituendo alla penna la macchina da presa: una macchina da presa intenta a seguire e scrutare impietosamente due personaggi che anche qui, come osservava Strada a proposito di Dostoevskij, «non sono idee o simboli di idee, ma uomini “di idea”, concrete figure della coscienza». E ne è venuta fuori, appunto, «una cosa alquanto più scabra, meno finita».

Ma non nel senso riduttivo, tecnico-formale, della resa, bensì in quello, deliberato e coerente, della scrittura e del procedimento. Nel racconto “perfetto” di Dostoevskij, protagonista assoluto è l’uomo: e anche quando, involontariamente, egli si svela definendo «stranezze» certi atteggiamenti della moglie che aprono invece, al lettore, più di uno spiraglio sulla vita interiore della donna, questa viene pur sempre risucchiata nel disordinato e affannoso monologo dell’uomo.

Bresson, con la sua apparente professione di “oggettività”, non solo restituisce alla ragazza tutto il suo spessore spirituale ma risolve, genialmente, il dissidio in un conflitto tra due ottiche: quella “normale” e mediocre dell’uomo, secondo la quale certe azioni e comportamenti della moglie risultano sfuggenti e incomprensibili, e quella di lei, limpida ed esigente, che non riesce a non vedere la meschinità del marito dietro ogni atto e parola, anche la più banale (ma anche la più premurosa e sollecita).

L’ambivalenza del reale”, cara a Bazin, viene ritrovata non, come pensa Moravia, perché « Bresson è un cattolico che crede nell’esistenza del male» ma perché, come abbiamo accennato, e vedremo meglio, sono qui in gioco, in contrasto non riducibile, due modi opposti di stare nel mondo.

Conflitto di sguardi, di cose e persone guardate con ottiche diverse, che si respingono: un po’ come accadeva nella trilogia di Antonioni, ma senza alcuna concessione di “atmosfera” e di “clima”.

Le immagini di questo film di Bresson, anche quando fermano un sorriso dolcissimo di Dominique Sanda, hanno la durezza luminosa e tagliente degli scisti. Una porta a vetri che dà su un balcone, una sedia che dondola, un tavolo bruscamente rovesciato e un vaso che cade e si spezza, uno scialle bianco che si apre e oscilla nel vuoto, la brusca frenata di un’auto, persone che accorrono, il corpo di una giovane donna sul selciato.

Le prime immagini di Così bella, così dolce anticipano subito, in apertura, la determinazione di morte della protagonista e lo scioglimento drammatico del racconto. Se è vero, come pretende Sklovskij (L’intreccio in Dostoevskij, «Il Caffè», n. 5- 6, 1975), che «è tipica di Dostoevskij la comparsa dell’effetto prima della causa, mentre questa si ammanta di mistero», non sarà stato, questo ribaltamento, l’ultimo dei motivi della scelta bressoniana.

Uno stacco sulle mani di una donna che spostano un catino e uno straccio macchiati di sangue, un altro sulla larga ferita che turba la fronte tranquilla della giovane suicida. Il marito (i nomi dei due non verranno mai detti, da loro o da altri) rievoca fatti e circostanze, spesso labili, davanti a un’anziana domestica, testimone muta e impartecipe che lo ascolta a mani giunte davanti al corpo ricomposto sul letto.

Mettere ordine, ritrovare un senso, tentare di uscire dalla disperazione, forse; ma le conclusioni dell’assillante monologo non attenueranno la distanza da quel giovane corpo senza vita che sembrerà, alla fine, ancora più lontano, inattingibile. Riaffiorano alla memoria gli antefatti e le scene di una vita coniugale il cui fondamento era l’impossibilità: il primo incontro con la ragazza nel banco dei pegni, la bellezza chiusa e rattristata dello sguardo; gli accenni, smorzati e reticenti, a un’esistenza difficile, squallida; l’allegria e il trasporto della prima notte d’amore, con quei rapidi e leggeri movimenti di corsa tra la camera e il bagno, rivelando e nascondendo il proprio corpo con improvvisi abbandoni e pudori; il disprezzo per il denaro e i primi attriti.

Il matrimonio, come lei aveva intuito prima di piegarsi, ha significato soltanto la morte del desiderio, la tristezza dell’adattamento e della costrizione. Ancora la prigione, luogo deputato della geografia morale bressoniana: anche qui le figure sono spesso inquadrate dietro sbarre e cancelli, si osservano e si spiano, attendendo la resa dell’altro, dietro i vetri di una camera e attraverso porte socchiuse; anche qui le porte si aprono e si chiudono tra la casa e la strada, tra una stanza e l’altra, segnando la monotonia e il soffocamento dell’esistenza degradata a ripetizione. Una coabitazione forzata, che richiede adattamento e complicità.

Il contrasto travalica le misure strette della psicologia e chiama in causa le ragioni stesse dell’essere e dello stare nel mondo. A teatro, la concentrata fissità della donna sembra attendersi, con delusa impazienza, che dalla mediocrità della rappresentazione riaffiori la verità della poesia.

Tornati a casa, lei, che sola non aveva applaudito, leggerà al marito il discorso di Amleto agli attori, tolto dallo spettacolo che hanno visto. La tragedia (non a caso una tragedia dell’identità), che il teatro restituisce — e tradisce — come rappresentazione, rinasce tra le pareti di un appartamento borghese.

La scena va ben oltre l’allusione metalinguistica (la riflessione sull’attore e la “recitazione”) e suggerisce un tagliente confronto tra il falso spazio tragico del teatro, falso quanto più enfatizzato, e quello vero dell’esistenza, vero quanto più sottaciuto e indiretto (e restituito dal cinema di Bresson con modi che svelano nascondendo, dicono sottacendo).

Come il protagonista di uno dei romanzi meno fortunati di Bassani, ma con altra ricchezza e complessità di motivazioni interiori, la “femme douce” di Bresson è affascinata dalle fotografie e poi, nella sequenza della visita al museo, dalla contemplazione di scheletri di animali e di uomini preistorici che riportano alla sostanziale unicità della materia: «la materia prima è uguale per tutti», ammette convenzionalmente il marito. Ma gli occhi di lei sembrano voler sorprendere quel che c’è di irrevocabile in quelle forme.

La scelta della morte viene dopo una lunga e solitaria “convalescenza”, smentita definitiva al velleitario programma dell’uomo di cambiare vita città rapporti: «Avremo una vita diversa» assicura; «ma noi non saremo diversi» commenta tristemente lei. E prima si era chiesta se si potesse davvero cambiare.

La verità è che questa donna, nella sua scontrosa e ostinata “diversità”, è, come Mouchette, una di quelle sante atee della negazione e del rifiuto care all’ultimo Bresson: a muoverle non è, come accadeva ancora a Giovanna, una volontà di resistere e di opporsi ma solo la determinazione, più o meno oscura, di scomparire, di annullarsi, pur di non cedere alla norma dell’esistenza stabilita e alla destituzione quotidiana del desiderio.

Il suicidio avviene dopo l’apparente riconciliazione, come gesto totale, “necessario”, non legato alla contingenza di un particolare conflitto. Quando ha ormai deciso, la donna tranquillizza l’anziana domestica, sfiora con le dita un piccolo crocefisso ma senza pregare, si stringe lo scialle sul petto, compie qualche movimento automatico (ancora il ritmo dei “battiti del cuore” nell’apparente automatismo dei gesti): poi rivediamo le immagini sulle quali il film si era aperto.

Ricaricate di tutto quel che abbiamo visto e ascoltato, non per questo appaiono meno enigmatiche che all’inizio. Il possibile acme drammatico è ancora una volta eluso, spostato tra una serie di immagini anticipatrici e un’altra che chiude senza che l’arco del dramma sia stato percorso toccandone la curvatura più alta. E, insieme con lo svuotamento del dramma, nessuna spiegazione o commento.

Un’estrema semplificazione di atti, di gesti, di parole dei quali la drammaturgia potenziale del film, costantemente trattenuta, non consumata, rende ancora più evidente l’essenzialità, e non la secchezza e l’“afasia” che alcuni hanno lamentato.

Si veda la figura del marito, più complessa di quanto non sembri a una prima lettura. Profondamente attaccato al denaro («l’oro mi interessa») che ha sempre maneggiato — come dice la moglie, giudicandolo — dopo aver gettato acqua fredda sull’ebbrezza di lei (l’ammissione ricorreva, con le stesse parole, in Dostoevskij, ma il regista, facendola dire all’uomo a commento e suggello della sequenza d’amore, la carica di una diversa connotazione erotica), la considera qualcosa che gli appartiene, alla stessa stregua degli oggetti che passano dalle mani dei clienti, triste processione che si ripete ogni giorno, nelle scansie del banco dei pegni, perdendo la loro qualità d’uso, staccati dall’esistenza che in qualche modo servirono.

Allo stesso modo, non per “malvagità” ma ubbidendo a una sua intima, necessitante coerenza, aberrazione diventata “natura”, l’uomo considera la moglie, non ne tollera la generosità e l’indipendenza di giudizio, ne spia l’innocente “tradimento”, si inorgoglisce della apparente sconfitta e mortificazione di lei, appartata tra i suoi libri e dischi, con il capo finalmente piegato.

E tuttavia, dopo la guarigione della donna, sembra cambiare e accendersi («provai un entusiasmo indicibile»), disposto a rinunciare al proprio orgoglio maschile ed economico, ma si svela, nell’ottica “pura” e implacata di lei, tuttora rigido, meschino. All’asprezza dei contrasti e delle ritorsioni subentra il silenzio, «le silence terrible» e la «nuit incommunicable» di una poesia di Claudel cara a Bresson.

È la radicalità del personaggio femminile, la sua intransigenza, a rifiutare le mezze misure, la logica “adulta” del senso comune: «Riflettete (…), milioni di donne lo desiderano», aveva osservato lui a proposito del matrimonio. «Ci sono anche le scimmie», era stata la replica di lei (sequenza della visita allo zoo).

Una situazione analoga, ma più intensamente rivelatrice, si verifica alla galleria d’arte moderna: «Fra questo e l’arte c’è un abisso», osserva incredulo lui davanti a una struttura di superfici e luci in movimento. «No», ribatte seccamente lei. Dove non è, evidentemente, questione di “sensibilità” o di “gusto” ma di una qualità umana, di un’apertura verso l’ignoto e il diverso, alla quale contrasta la costante disposizione dell’uomo a riportare tutto a un ordine noto, rassicurante, di rapporti e di ruoli.

Nella sua alienazione economica e morale, il marito non è un personaggio “negativo”, è un personaggio medio. Non a caso, è lui a citare, nel primo incontro con la ragazza, la famosa battuta in cui Mefistofele si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene».

Cases ricordava che, in Goethe, «per il diavolo il fine ultimo della natura umana è il binomio sesso-denaro» per concludere che «si può così affermare con Lukàcs che in Mefistofele emergono, tra l’altro, “le caratteristiche cinicamente diaboliche del capitalismo”»: «Ciò risulta evidente nel suo stretto rapporto con il mondo del denaro, fondato su una consapevolezza della sua funzione economica assai lontana dalla generica fame dell’oro che abbiamo visto in Satana (…).

Il giovane Marx si è servito di questo passo nei Manoscritti economico-filosofici per analizzare l’essenza del denaro, la sua capacità di attribuire all’uomo delle qualità che non ha, per cui il brutto può comprarsi la bellezza, lo zoppo le ventiquattro gambe, il disonesto l’onestà, lo stupido l’intelligenza» (Introduzione a Wolfgang Goethe, Faust, tr.it. Allason, Einaudi, 1965). E sarà superfluo ricordare che, per Marx, l’usura è una «antiquata se pur sempre rinnovata forma del capitalismo».

E questa la fonte dell’orrore che promana dalla meschinità dell’uomo e i cui effetti la donna legge sulle facce delle altre coppie: «anche noi siamo una coppia stampata in serie», osserva, e getta con fastidio i fiori che aveva raccolto durante la gita in campagna. Un orrore diffuso, trasparente, che si respira nell’aria e si deposita nelle anime. Mai forse la radicalità spirituale dell’anticapitalismo bressoniano è risultata così estrema e, contemporaneamente, enigmatica, indiretta.

Qualsiasi consolazione o apertura è negata: il futuro che il marito può offrire alla donna sarà la ripetizione, addolcita, del presente. E lei, con l’eroicità dei grandi personaggi bressoniani, preferisce annullarsi piuttosto che perdersi accettando l’immagine parziale e deformata di sé che le “restrizioni della realtà” le impongono.

Il film è la rievocazione angosciata ma incomprensiva (perché fatta dal punto di vista “medio” dell’uomo) di questo destino mancato per eccesso di “orgoglio”: era accaduto anche ad Anne Marie, a Michel, alla stessa Marie, ma qui, come in Mouchette, è negata anche la possibilità, o semplicemente la speranza, di autorealizzazione con e nell’altro. Alla preghiera del marito («Apri gli occhi almeno per un istante!»), risponde lo scorrere del coperchio sulla bara, il rumore delle viti che la sigillano.

Secondo un’alternanza frequente nell’opera di Bresson, a un movimento più aperto e decentrato (Balthazar, in parte Mouchette) segue il ritorno alla contrazione più intransigente: due personaggi intensamente emblematici, la governante che fa da coro silenzioso, qualche ombra che attraversa lo sguardo della donna, il rumore confuso di una città casuale, reversibile, le immagini di competizione e di violenza di un programma televisivo, nessun “commento” musicale.

La durezza della materia, che in Balthazar si allentava in parte nel fluire della dissolvenza (l’ottica dell’asino livellava e uniformava tutto sullo schermo continuo della sua pupilla), viene diversamente organizzata e scandita: prevalgono nettamente gli stacchi e la vicenda si frantuma, nel ricordo e nel commento dell’uomo, in una sequenza di frammenti staccati e taglienti, ferite aperte, riluttanti a qualsiasi ricomposizione. Il colore, usato per la prima volta da Bresson, sembra filtrato attraverso l’antica diffidenza dell’autore verso qualsiasi abbellimento della “realtà”: un colore neutro e smorzato che non vuole fermare l’attenzione dello spettatore, e le cui improvvise emergenze — il bianco dello scialle che scivola dolcemente nel vuoto, l’oro dei capelli e la macchia rossa della ferita — rimandano un bagliore accecante.

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 100–109

Note

[1] La ripetizione genera spesso volute insistenze, come ad esempio gli scambi al banco dei pegni (il denaro, la durezza dei rapporti), o i gesti quotidiani (la colazione, la refrattarietà). Per quel che riguarda le misuratissime tonalità espressive, sembra quasi che l’autore faccia proprie alcuni brevissimi suggerimenti dostoevskiani; mi viene in mente il sorriso di lei “incredulo, silenzioso, non buono.” “Ecco, con questo sorriso appunto la condussi a casa mia.”

[2] Torna una nota bressoniana, probabilmente non esente da didascalismo, che riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’arte, che assume una qualificazione in qualche modo “esistenziale” (la recettività, appunto). C’è una icastica battuta, al museo, d fonte alle tele astratte: lui “ma tra l’arte e questo c’è un abisso”; lei “no”.

[3] La battuta è quella di Mefistofele quando si presenta a Faust. In Dostoevskij — fedele a Goethe — suona: “Io sono parte di quella parte del tutto che vuol fare il male, e fa il bene”; nella traduzione italiana di Franco Fortini (Mondadori, 1970) si legge infatti: “Sono una parte della forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene”, e in una nota si specifica: “Il verso definisce Mefistofele come “parte” della “forza negatrice” che oggettivamente collabora alla positività, intesa come Bene”. In Bresson (almeno nella versione italiana del film) la frase diventa: «Io sono parte di quella forza che a volte vuol fare il male / a volte vuol fare il bene”; inoltre, la seconda parte della frase è detta da lei, nel racconto invece non la conosce. In Dostoevskij lui aggiunge, dopo qualche battuta: “In ogni campo si può fare del bene. Non parlo di me, io, fuorché il male, non faccio nulla, ma …”, “Sicuro — aggiunge lei — in qualsiasi parte si può fare del bene”. Bresson toglie queste frasi; la protagonista, dopo una pausa, esce dicendo: “lei è divertente”.

[4] Questa breve frase finale è ripresa da Dostoevskij, che la situa però in un contesto diverso (cfr. op. cit., p. 830): “Da parte sua, una o due volte ci furono slanci, si precipitava ad abbracciarmi; ma poiché questi slanci erano da ammalata, isterici, e io avevo bisogno di una felicità solida, li accettai freddamente”.

[5] Accanto a queste sottolineature, il regista usa anche i procedimenti classici, come il campo controcampo; in tal caso, in questo film, uno dei personaggi è sempre “di quinta”.

[6] Benjamin, ou le mémoires d’un puceau (tit. it.: Beniamin ovvero le memorie di un adolescente), regia di Michel Deville, interpretato da Pierre Clementi, Michel Piccoli, Michèle Morgan, Catherine Deneuve, Francia 1968. Ha dichiarato Bresson: “Per Benjamin si trattava di proiettare nella sala del cinema dove andava la mia protagonista, un film qualsiasi. La Parc-film e la Paramount, le case con cui lavoravo, erano anche i produttori e distributori di Benjamin, questo facilitava le cose. Il libertinaggio di Benjamin non andava incontro alla sensualità di Une femme douce”.

[7] “Ero sicuro, lei mi amava, o voleva amarmi? O voleva amare”, la frase, pro-nunciata fuori campo dopo la visione del film, finisce (per stacco) mentre la macchina da presa inquadra il viso di lei morta. “Cercavo solo il possesso del suo corpo”, la frase è detta fuori campo mentre si vede lui che cammina nella camera della morta.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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