Coronavirus: la caduta dell’Europa
L’inchiesta del New York Times, di David D. Kirkpatrick, Matt Apuzzo e Selam Gebrekidan
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David D. Kirkpatrick è corrispondente internazionale del New York Times e autore di Into the Hands of the Soldiers: Freedom and Chaos in Egypt and the Middle East. Attualmente di base a Londra, ha fatto parte del team che ha vinto un premio Pulitzer nel 2020 per il reportage internazionale sulle interferenze russe nella politica di altri governi.
Matt Apuzzo è un reporter con sede a Bruxelles due volte vincitore del Premio Pulitzer. Prima di entrare a far parte dello staff internazionale, ha trascorso più di un decennio a Washington occupandosi di questioni relative alle forze dell’ordine e alla sicurezza. È coautore del libro Enemies Within. Laureatosi al Colby College, è entrato a far parte del New York Times nel 2014 dopo 11 anni di collaborazione con The Associated Press. Insegna giornalismo alla Georgetown University.
Selam Gebrekidan è una giornalista investigativa del New York Times, con sede a Londra. In precedenza è stata reporter per la Reuters, dove ha scritto, tra l’altro, sulla migrazione in Europa e sulla guerra nello Yemen. Si è occupata anche dei mercati petroliferi.
La ricchezza non è un antidoto
Nel 2018 Chris Whitty, ufficiale sanitario capo del Regno Unito, stava parlando della storia delle epidemie in un museo londinese di fronte a un vaso auditorio.
È stata una storia funesta quella delle epidemie: dalla peste nera del XIII secolo al colera nello Yemen devastato dalla guerra. Il professor Whitty, che aveva passato la maggior parte della sua carriera a combattere le malattie infettive in Africa, si mostrò, però, rassicurante. L’Europa, asserì, aveva una protezione speciale, quella di “essere una terra ricca”.
La ricchezza, ribadì in quell’occasione, “rafforza notevolmente una società contro le epidemie. La qualità della vita — cibo, alloggio, acqua e cure mediche — è più efficace di qualsiasi medicina nel fermare le malattie che affliggono il mondo in via di sviluppo”.
La fiducia di Whitty era ben condivisa. A febbraio 2020, quando i ministri della salute europei si riunirono a Bruxelles per discutere del nuovo coronavirus sviluppatosi in Cina, elogiarono i loro sistemi sanitari e promisero di inviare aiuti ai paesi poveri e in via di sviluppo.
“La responsabilità cade su di noi, non solo per l’Italia e per l’Europa, ma anche per il continente africano”, precisò Roberto Speranza, ministro della Salute italiano.
“L’Unione Europea dovrebbe essere pronta a fornire sostegno”, fece eco Maggie De Block, allora ministro della sanità belga.
Appena un mese dopo, il continente era sopraffatto dal virus. Altro che fornire aiuti alle sue ex colonie! L’Europa occidentale era diventata l’epicentro della pandemia. I funzionari, che una volta si vantavano della loro preparazione, cercavano freneticamente di ottenere dispositivi di protezione e materiale sanitario, mentre il tasso di mortalità aumentava a vista d’occhio in Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e Belgio.
Non avrebbe dovuto succedere
Questo non avrebbe dovuto succedere. Si pensava che l’esperienza e le risorse dell’Europa occidentale fossero il miglior antidoto contro le epidemie virali provenienti dalle regioni più povere del mondo.
Molti leader europei si sentivano a tal punto sicuri dopo l’ultima pandemia — l’influenza suina del 2009 — che decisero di ridurre le scorte di attrezzature antipandemiche, criticando anche gli esperti sanitari per aver reagito in modo eccessivo in occasione dell’influenza suina.
Ma questa fiducia gettò i semi della loro rovina. I piani pandemici dei paesi europei si basavano su una congerie di errori di calcolo e di false supposizioni. I leader europei si vantavano della superiorità dei loro sistemi sanitari di prima classe, quando in realtà li avevano indeboliti con un decennio di tagli.
Quando iniziò a imperversare il COVID-19, questi sistemi non furono in grado di condurre test sufficientemente ampi per gestire il picco, o per garantire la sicurezza degli operatori sanitari impegnati a contenerlo.
I meccanismi di reazione risultarono inefficaci. Migliaia di pagine di pianificazione nazionale della pandemia si rivelarono essere poco più di una mera esercitazione degli apparati burocratici. In alcuni paesi furono subito da parte nel caos totale che vigeva; in altri paesi, i leader ignorarono gli avvertimenti sulle potenzialità di sviluppo del virus.
Contratti just-in-time
I controlli dell’Unione Europea sulla preparazione dei singoli Paesi erano diventati rituali di autogratificazione. I modelli matematici utilizzati per prevedere la diffusione delle pandemie — e per indirizzare la politica del governo — alimentavano un falso senso di sicurezza.
È infine emerso che le scorte nazionali di forniture medicali esistevano principalmente su carta, costituite in gran parte da contratti “just-in-time” con i produttori cinesi. I pianificatori europei avevano trascurato il rischio che una pandemia, per la sua natura globale, potesse incidere sull’efficienza di tali catene di approvvigionamento. La ricchezza nazionale era impotente di fronte alla mancanza di prodotti sul mercato globale.
Molto apprezzata per le sue competenze scientifiche, l’Europa (soprattutto la Gran Bretagna) aveva formato molti medici in Asia, Africa e America Latina. Durante una visita in Corea del Sud dopo l’epidemia di MERS del 2015, Sally Davies, allora ufficiale sanitario capo dell’Inghilterra, fu riverita come una celebrità. Al suo ritorno a Londra, assicurò i colleghi che un’epidemia del genere non avrebbe potuto verificarsi nel sistema sanitario pubblico.
C’è paese e paese
Ora la Corea del Sud, con un numero di morti inferiore a 300, è un modello di successo contro la pandemia. Molti epidemiologi dei paesi asiatici sono sbalorditi dal disastro causato dai loro mentori.
“I coreani sono rimasti un po’ sorpresi — ha detto Seo Yong-seok della Università nazionale di Seul — dal fatto che i politici europei pensassero a un’epidemia come una malattia che potesse verificarsi solo nei paesi in via di sviluppo”.
Non tutte le democrazie occidentali hanno, però, fallito.
La Germania, con un primo ministro laureato in fisica e un notevole settore biotecnologico nazionale, se l’è cavata meglio di molti altri. La Grecia, con meno risorse, ha riportato meno di 200 morti.
Ma con diversi paesi su punto di aprire indagini parlamentari su ciò che è andato storto, l’Europa è ora alle prese con il fatto che un continente, considerato tra i più avanzati, abbia fallito così miseramente.
La sua caduta ha preannunciato il caos che si sta verificando negli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump ha inizialmente risposto alla pandemia incolpando la Cina l’Europa continentale e imponendo un divieto di viaggiare in questi paesi. “Nessuna nazione è più preparata o più forte degli Stati Uniti”, ha detto l’11 marzo, assicurando agli americani che “il rischio è molto, molto basso”.
“Il virus non ha alcuna possibilità contro di noi”, ha ribadito Trump.
Oggi gli Stati Uniti hanno il più alto numero di casi al mondo e un tasso di mortalità in aumento, che si approssima a quello delle nazioni europee già umiliate dal virus.
Il Belgio ha il tasso di mortalità più alto del mondo. La regione più ricca d’Italia è stata devastata. Il tanto decantato sistema sanitario francese si è dovuto affidare agli elicotteri militari per trasferire i pazienti degli ospedali sovraffollati. La Gran Bretagna, tuttavia, è il concentrato degli errori di calcolo dell’Europa. Questo causa della grande supponenza del Paese forte della sua esperienza e del suo stato di preparazione.
Il geek-in-boss inglese
Boris Johnson, il primo ministro britannico, era così fiducioso che i modelli matematici elaborati dai tecnologici inglesi fossero così accurati nel prevedere la pandemia, da ritardare confinamento del paese per giorni e settimane quando la maggior parte dell’Europa lo aveva già attuato. Attese due settimane mentre i pronti soccorso del paese iniziavano a collassare sotto la pressione dei pazienti affetti da coronavirus.
Con l’epidemia che raddoppiava ogni tre giorni, alcuni scienziati ammettono oggi che dichiarare la quarantena una settimana prima avrebbe potuto salvare 30.000 vite.
Whitty, 54 anni, inizialmente elogiato dai giornali britannici come il “geek-in-boss”, si è sottratto dal parlare pubblicamente del suo ruolo in quelle decisioni. I suoi amici dicono che il governo lo abbia incastrato come capro espiatorio.
“I politici dicono di seguire gli scienziati, ma quando prendono le decisioni sbagliate incolpano questi ultimi”, ha detto David Mabey della London School of Hygiene and Tropical Medicine, un amico e collega di Whitty. “Non sono sicuro che i politici ci ascoltino”, ha concluso.
Tuttavia, sono in molti a pensare che sia impossibile assolvere i consulenti scientifici dalla condivisione di responsabilità.
“Pensavano di poter essere più intelligenti di altri paesi”, ha detto Devi Sridhar, un epidemiologo dell’Università di Edimburgo.
“Pensavano di poter superare in astuzia il virus.”
David King, un ex chief scientist nel Regno Unito, ha detto: “Temo che l’unica parola che mi viene in mente sia “arroganza. Superbia”.
L’influenza suina
La paura aveva già serpeggiato nel continente europeo. Era la primavera del 2009 e un nuovo virus, noto come influenza suina, aveva contagiato centinaia di persone e ucciso decine di persone in Messico. I turisti europei stavano congestionando gli aeroporti per tornare a casa.
I governi europei intervennero prontamente. La Francia chiese all’Unione Europea di sospendere i viaggi in Messico e iniziò ad acquistare dosi di vaccino bastevoli per tutta la popolazione. Gli ospedali inglesi richiamarono operatori sanitari in pensione e distribuirono maschere, guanti e grembiuli.
Ogni paese d’Europa sviluppò e testò un dettagliato piano pandemico di qualche centinaia di pagine. Il piano del Regno Unito pareva la sceneggiatura di un film dell’orrore scritto nella lingua della burocrazia. Si prevedeva l’ospedalizzazione di circa di 1,3 milioni di persone con 800.000 possibili decessi.
Cercare di contenere la pandemia, diceva un documento, “avrebbe potuto essere “uno spreco di risorse per la salute pubblica”.
L’epidemiologia matematica
Questi scenari catastrofici erano tracciati da una nuova sotto specializzazione dell’epidemiologia avviata dagli scienziati inglesi: l’uso di modelli matematici astrusi per tracciare il percorso di una malattia contagiosa.
Uno dei primi discepoli della nuova disciplina, Neil Ferguson dell’Imperial College di Londra, aveva assunto una sorta di preminenza nella politica sanitaria del Regno unito. Ferguson era un fisico formatosi a Oxford e si era specializzato in epidemiologia matematica negli anni ’90 dopo aver visto morire di AIDS il fratello di un caro amico.
Alcuni colleghi affermano che Ferguson, che ora ha 52 anni, si contraddistingue per il suo stile assertivo nel fornire risposte facili da capire quando resta poco tempo per decidere.
“È in grado di rispondere alle domande in modo sintetico e chiaro e tirare una conclusione molto equilibrata. È esattamente il tipo di informazione di cui i politici hanno bisogno”, ha detto Peter Openshaw, professore di medicina all’Imperial College di Londra, che è membro con Ferguson di un panel che consiglia il governo sui virus respiratori.
Gli esperti tradizionali di salute pubblica, che privilegiano l’esperienza clinica e le osservazioni sul campo, sono molto scettici verso l’epidemiologia matematica. Hanno sempre messo in guardia sul fatto che le proiezioni dei modelli siano uno strumento sicuro per prendere decisioni. I responsabili politici, senza esperienza matematica, potrebbero trattare quetse modellazioni come del tutto affidabili. Quando sono ipotesi.
L’epidemia di afta epizootica tra i bovini in Gran Bretagna nel 2001 è stata la occasione nella quale i responsabili politici si sono affidati per la prima volta a un modello matematico per fronteggiare la crisi. Nonostante le obiezioni dei veterinari, il lavoro di Ferguson convinse i responsabili politici a macellare preventivamente più di sei milioni di suini, ovini e bovini.
Studi successivi conclusero che la maggior parte delle soppressioni non erano necessarie. Una indagine commissionata dal governo esortò i responsabili politici “a non fare affidamento sui modelli matematici per prendere una decisione”.
Un documento ufficiale aveva messo in guardia i politici:
“I modellisti non sono gli ‘astrologi di corte’”.
Gli “incasinatori”
“Li chiamiamo gli incasinatori — ha detto Alex Donaldson, al tempo capo del Pirbright Laboratory presso l’Istituto britannico per la salute degli animali. — Nelle future epidemie la prima cosa da fare è metter da parte i modelli predittivi”.
Tuttavia, quando comparve l’influenza suina, i leader britannici si rivolsero al professor Ferguson e al grande dipartimento di modellazione matematica che aveva costruito all’Imperial College. Egli prevedeva che l’influenza suina, nello scenario peggiore, avrebbe potuto uccidere quasi 70.000 persone.
I funzionari pubblici rimasero inorriditi. Boris Johnson, allora sindaco di Londra, teneva riunioni frenetiche prevedendo l’assenza dal lavoro di quasi metà dei poliziotti e degli autisti della metropolitana della città.
“È impossibile dire quanto sarà brutto”, ammonì con severità un insolito Johnson.
Falso allarme
Ma il “ragionevole caso peggiore” dei modelli matematici era sballato. L’influenza suina aveva finito per uccidere neanche 500 persone in Gran Bretagna, meno di un’influenza stagionale. Catherine Snelson, che allora stava completando la formazione in terapia intensiva in un ospedale di Birmingham, era stata incaricata dell’eventuale trasferimento dei pazienti in eccesso.
“In realtà ce ne stavamo seduti lì a non fare nulla”, ricorda.
Per Johnson, l’episodio dell’influenza suina, rinvigorì il suo istinto a non imporre restrizioni in nome della salute pubblica.
“Boris crede che le persone prenderanno da sole le giuste decisioni”, affermò Victoria Borwick, un ex amministratore locale.
La lezione sbagliata
Alcuni esperti affermano che l’Europa abbia imparato la lezione sbagliata dall’influenza suina.
“Ha indotto a una sorta di compiacimento”, ha detto Steven van Gucht, un virologo belga: “Cosa? Una nuova pandemia? Abbiamo un buon sistema sanitario. Possiamo occuparcene senza problemi”.
Nel frattempo ci si è messa di mezzo anche la peggiore depressione economica degli ultimi decenni in Europa. I legislatori francesi erano furiosi per il costo dell’acquisto di milioni di dosi di vaccino e accusavano il governo di aver inutilmente accumulato più di 1.700 miliardi maschere.
Per ridurre i costi, Francia, Gran Bretagna e altri paesi hanno spostato molte delle loro scorte verso contratti “just-in-time”. I funzionari della sanità pensavano che anche in caso di crisi avrebbero potuto acquistare ciò di cui avevano bisogno sul mercato internazionale, tipicamente dalla Cina, che produce più della metà delle maschere del mondo.
All’inizio del 2020, la disponibilità francese di mascherine era scesa di oltre il 90%, a soli 150 milioni di pezzi.
“L’idea di uno stoccaggio pubblico di forniture mediche era diventata obsoleta”, dice Francis Delattre, un senatore francese, che ha lanciato l’allarme sulla dipendenza dalla Cina. “Il nostro destino è stato messo nelle mani di una dittatura straniera”.
“La Francia ha un complesso di superiorità — ha poi aggiunto Delattre — soprattutto nel settore sanitario”.
La devoluzione della spesa
Due anni dopo l’influenza suina, la Gran Bretagna trasferì tre quarti della spesa sanitaria pubblica ai governi locali, dove era più difficile monitorare l’operato e più facile dirottare risorse. Quattrocento esperti sanitari avevano scritto in una lettera aperta che il decentramento avrebbe “perturbato, frammentato e indebolito le capacità sanitarie pubbliche del Paese”. Infatti negli anni successivi la spesa pro capite per la sanità pubblica diminuì costantemente.
Una rete nazionale che un tempo comprendeva 52 laboratori era stata ridotta a due strutture nazionali e a una manciata di centri regionali che servivano principalmente le esigenze interne degli ospedali regionali.
I funzionari sanitari avevano anche deciso di limitare le scorte di dispositivi di protezione per far fronte a un’epidemia di influenza con questa ratio: essere sufficienti da poter supportare determinate procedure negli ospedali, ma non per un uso più generale, per esempio nei pronti soccorso, negli studi medici o nelle case di cura.
Gli scienziati sapevano che un coronavirus come la SARS o il MERS avrebbe potuto richiedere più attrezzature di quel tipo.
“È piuttosto difficile costruire una scorta per qualcosa che non hai mai visto prima”, ha detto Ben Killingley, un esperto di malattie infettive che consiglia il governo sui rifornimenti. “Dipende da quanto si vuole spendere per la propria assicurazione”.
In superficie okay, ma in fondo ingannevole
In superficie, le difese europee parevano essere ancora solide. I controlli dell’Unione europea sulla preparazione alla pandemia sembravano garantire una supervisione efficace, ma il processo era ingannevole.
I governi nazionali vietarono al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie di stabilire parametri di riferimento o di evidenziare le carenze. Pertanto, i documenti pubblici dell’agenzia furono quasi sempre positivi. Gran Bretagna, Spagna e Grecia furono elogiate per i loro “esperti altamente motivati”, per le “organizzazioni con personale affidabile” e per la “fiducia nel sistema”.
“Non potevamo dire: ‘Devi farlo’”, ha detto Arthur Bosman, un ex formatore dell’agenzia. “Il consiglio e la valutazione dovevano essere espressi con un’osservazione”.
I funzionari sanitari europei sapevano della vulnerabilità delle riserve nazionali. Per questo, nel 2016 l’Unione Europea indisse una gara d’appalto per la costruzione di un deposito a livello continentale.
Ma l’iniziativa andò in fumo perché Gran Bretagna, Francia e altri grandi paesi pensavano di avere la situazione sotto controllo. In seguito, il Belgio rimosse dalle proprie riserve milioni di tute scadute senza mai sostituirle.
L’Exercise Cygnus e la crisi del grembiule
Nel 2016, la Gran Bretagna verificò la preparazione alla pandemia in una simulazione chiamata “Exercise Cygnus”. Novecento funzionari in tutto il Paese parteciparono a una risposta simulata a una cosiddetta “influenza dei cigni” che era emersa in Thailandia e che avrebbe potuto uccidere più di 200.000 persone in Gran Bretagna.
Chiaramente i progettisti non avevano previsto che l’acquisto di dispositivi di protezione all’estero sarebbe stato un problema. Si partiva dal presupposto che “l’organizzazione degli ordini esistenti” fosse parte del contesto di risposta.
Soprattutto, l’esercitazione rivelò che molti funzionari pubblici non avevano familiarità con i piani pandemici del Paese e non erano consci del loro ruolo nel processo di risposta alla crisi, secondo i partecipanti e secondo il rapporto finale.
“Aveva mostrato una lacuna dell’intervento pubblico all’interno delle infrastrutture”, ha detto Robert Dingwall, un sociologo che consiglia il governo sui virus respiratori e contribuisce a scrivere i piani anti pandemici. “E questo difetto non è stato mai stato corretto”.
Due anni dopo, in Cina, nel mondo reale, il governo fece chiudere una fabbrica che ogni settimana forniva 1,75 milioni di grembiuli protettivi agli ospedali britannici. La carenza di fornitura si diffuse in tutto il sistema. I giornali britannici dichiararono la “crisi del grembiule”.
A quanto pare, nessuno immaginava cosa sarebbe successo all’Europa se tutte le forniture cinesi fossero state tagliate in una volta sola.
Il caso estremo inglese
Il caso della Gran Bretagna è emblematico dei problemi dell’Europa e dispiegare una risposta efficace alla pandemia.
Il 28 gennaio gli scienziati britannici suonarono l’allarme.
La pandemia in espansione aveva scatenato una corsa mondiale ad accaparrarsi i dispositivi di protezione personale, in particolare le maschere respiratorie che forniscono il gold standard della sicurezza.
La decisione di dilazionare i rifornimenti “avrebbe potuto rappresentare un rischio in termini di disponibilità dei materiali sul mercato”, mise in guardia il comitato consultivo governativo sui virus respiratori.
Non è chiaro quando la Gran Bretagna si sia messa a cercare seriamente di aumentare le proprie scorte di dispositivi di protezione.
Il Ministero della Salute ha dichiarato di aver avviato “trattative e ordini”, non specificati, durante la settimana del 27 gennaio 2020. Ma Matt Hancock, il ministro della salute, ha successivamente riconosciuto che quando la Gran Bretagna ha iniziato a rifornirsi, l’aumento della domanda globale aveva reso i dispositivi di protezione “preziosi” e l’approvvigionamento “una sfida enorme”.
L’Associazione dei medici del Regno Unito ha successivamente affermato di aver ricevuto più di 1.300 reclami da parte di medici in più di 260 ospedali per l’inadeguatezza dei dispositivi di protezione. Almeno 300 operatori sanitari britannici sono morti dopo aver contratto il COVID-19.
“Siamo costernati che alcuni siano morti per mancanza di dispositivi di protezione personale”, ha detto Rinesh Parmar, presidente del gruppo. “È stato miope pensare che le linee di approvvigionamento con la Cina sarebbero rimaste inalterate”.
In Europa continentale
Sulla terraferma, i governi, che avevano ignorato i parametri di riferimento del Centro europeo per il controllo delle malattie, iniziarono a inondare l’agenzia di domande disperate, anche sulle tipologie di attrezzature di cui rifornirsi. L’agenzia pubblicò una lista di ciò che era necessario il 7 febbraio, ma a quella data la disponibilità globale era già esaurita.
“Avevano chiesto molto di più di quanto potessero ottenere”, ha commentato Agoritsa Baka, un membro senior del centro europeo.
In Belgio, la carenza di maschere facciali era diventata così disperata che Re Filippo decise di negoziare personalmente una donazione da parte della società tecnologica cinese Alibaba.
I funzionari sanitari europei e mondiali avevano lavorato a fondo sul piano pandemico del Belgio nel corso degli anni. Ma quando arrivò il COVID-19, i funzionari belgi neppure lo consultarono.
“Non è mai stato utilizzato”, ha detto Emmanuel André, chiamato a coordinare la risposta del paese al coronavirus.
In Francia, all’inizio di marzo, il presidente Emmanuel Macron riconobbe tacitamente la drammatica insufficienza delle scorte pubbliche, requisendo tutte le mascherine e le tute disponibili nel paese.
Eppure continuava a insistere sulla preparazione della Francia. “Non fermeremo la vita in Francia”, assicurò in radio il suo portavoce.
Dieci giorni dopo, Macron dichiarò lo stato di guerra e ordinò un rigido lockdown.
“Non capisco perché non eravamo pronti”, ha detto Matthieu Lafaurie dell’ospedale Saint-Louis di Parigi. “Mi ha meravigliato molto che tutti i paesi siano stati sorpresi di ciò che stava accadendo, come se non avessero avuto esempi dalle altre nazioni”.
La miopia dei consulenti scientifici del Regno Unito
In Gran Bretagna, Johnson invitava ai cittadini a rimanere “fiduciosi e tranquilli”. Ma lo stesso giorno, l’11 febbraio, il gruppo di consulenza scientifica sulle emergenze (SAGE) rilevava che il sistema sanitario pubblico non era nelle condizioni di condurre test sui coronavirus entro la fine dell’anno.
“Non è proprio possibile”, recitava il verbale del gruppo.
Tuttavia, gli scienziati e i funzionari britannici pensavano di conoscere i problemi più di altri paesi, come la Cina e la Corea del Sud. Quei paesi stavano riducendo il tasso di contagio imponendo le quarantene ed effettuando i test. I consulenti scientifici britannici pensavano che tali restrizioni fossero miopi.
A meno che le restrizioni non diventassero permanenti, qualsiasi riduzione dell’epidemia andrebbe perduta in un “secondo picco”, concludeva il SAGE, stando al verbale della riunione e a tre dei partecipanti.
La Gran Bretagna riportò la sua prima morte per il virus il 5 marzo. In tutta Europa, il numero di casi raddoppiava ogni tre giorni. Gran parte dell’Italia settentrionale era già in quarantena.
Testimoniando quel giorno davanti a una commissione parlamentare, Whitty, l’ufficiale sanitario capo, fu fermo e rassicurante. Leggermente chino su un tavolo in una piccola sala di audizione, chiese ai legislatori di fidarsi dei modellisti matematici elaborati dagli scienziati britannici.
“Sono i migliori del mondo”, disse. “Saremo in grado di creare nuovi modelli con un alto grado di attendibilità, man mano che l’epidemia comincia ad accelerare”.
Business as usual
Nonostante le allarmanti notizie dall’Italia, dichiarò Whitty, non c’era ancora modo di prevedere il percorso del virus. Ma sottolineò che la Gran Bretagna avrebbe avuto “un periodo abbastanza lungo” prima che l’epidemia raggiungesse il suo apice, e ribadì che la modellazione avrebbe permesso al governo di aspettare fino all’ultimo momento prima di imporre restrizioni sociali.
“Siamo disposti a non intervenire — concluse — fino al momento di non essere costretti a farlo”.
Johnson si dimostrò ancora più ottimista in un’intervista televisiva: “Per la stragrande maggioranza delle persone sarà business as usual”.
Ma i medici degli ospedali britannici sentivano già una crescente pressione. A Birmingham, Londra e altrove gli ospedali erano costretti raddoppiare i reparti di terapia intensiva.
“Divenne chiaro che il piano pandemico non avrebbe ridotto l’impatto del contagio”, commenta Jonathan Brotherton, direttore delle operazioni all’Ospedale Universitario di Birmingham, il più grande sistema di assistenza sanitaria dell’Inghilterra.
Virata a U
In un incontro sempre più concitato del SAGE il 10 marzo, gli scienziati conclusero, sulla base del numero di casi in terapia intensiva, che c’erano almeno 5.000–10.000 contagi in tutto il paese.
“Ci saranno migliaia di morti al giorno”, disse Ferguson, che cercò anche di sensibilizzare i funzionari del governo che sembravano sorpresi dalla piega che stavano prendendo le cose.
Sei giorni dopo, Ferguson riferì che il pannello di modellazione di SAGE aveva rivisto le sue proiezioni. Il picco stava arrivando: ci sarebbe stato tra due settimane, all’inizio di aprile, non durante l’estate come previsto in precedenza. Quel giorno, Ferguson pubblicò uno studio che, per la prima volta, stimava in centinaia di migliaia il potenziale numero di vittime della pandemia.
Con un cambio di rotta, il comitato chiese di adottare misure radicali di distanziazione sociale, tra cui la chiusura delle scuole.
“Sarebbe meglio agire in anticipo”, consigliò il gruppo, stando al verbale della riunione.
Gran parte dell’Europa, Francia compresa, aveva già chiuso. Johnson aspettò un’altra settimana, fino al 23 marzo, per ordinare il lockdown obbligatorio.
Riflessioni
Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Francia e Italia hanno registrato un numero di vittime pro capite tra i più alti al mondo. In Francia sono morte più di 30.000 persone e Macron ha ammesso che il suo governo non era preparato.
Dopo 44.000 morti per coronavirus in Gran Bretagna, i funzionari continuano a difendere le loro azioni. La risposta del governo “ci ha permesso di proteggere i più vulnerabili e ha garantito che il Servizio sanitario nazionale non fosse sopraffatto anche durante il picco del virus”, ha detto un portavoce del dipartimento della salute.
Ma Johnson ha ammesso che il suo governo aveva risposto “lentamente”, come in “quel brutto sogno quando si dice alle gambe di correre e i piedi non si muovono”.
Diversi consulenti scientifici hanno cercato di prendere le distanze dalle politiche del governo.
Ferguson ha detto in un’intervista che la decisione di non intervenire prima è stata presa da funzionari del governo e del ministero della sanità, non dai modellisti.
“Sono entrati e hanno detto: ‘Puoi creare un modello di questo? Puoi creare un modello di quello? “E noi l’abbiamo fatto”, ha precisato Ferguson.
Ferguson ha insistito sul fatto che all’inizio di marzo aveva avvertito in via ufficiosa il governo che i test insufficienti condotti in Gran Bretagna non fornivano agli scienziati abbastanza informazioni per seguire le tracce dell’epidemia.
In tutta Europa, ha detto, più test “sarebbero stati l’unica cosa che avrebbe fatto la differenza”.
Altri scienziati hanno affermato che la situazione delle terapie intensive degli ospedali di inizio marzo avrebbero dovuto essere un motivo sufficiente per dichiarare il confinamento, senza aspettare ulteriori test o modelli. Ma c’è un’altra lezione da imparare, ha detto André, che ha passato anni a combattere le epidemie in Africa prima di diventare consulente del governo belga sul coronavirus.
“Tutti questi esperti continuano a dire agli altri paesi cosa devono fare. Ma, quando succede nel loro paese, niente!”, ha sentenziato.
“Una lezione da imparare c’è, ed è l’umiltà”.