Sitemap

Congressi della pace del 1936 e la guerra di Spagna

di Giuliano Procacci

57 min readApr 16, 2025

Vai alla lista della serie “Documenti storici”

Robert Capa, Gerda Taro, La ragazza con la Laika.

L’idea di una grande assise pacifista

L’idea di un congresso universale della pace era nell’aria verso la metà degli anni ’30. L’esperienza del Peace Ballot inglese del giugno 1935 era stata una persuasiva dimostrazione del peso che una pressione organizzata dell’opinione pubblica poteva avere sull’azione stessa dei governi. È noto infatti che il governo conservatore in carica ne fu fortemente impressionato e che anzi esso ne tenne conto nell’impostazione della campagna per le elezioni generali del novembre 1935, accentuando il suo sostegno alla Società delle Nazioni (SDN) e il suo impegno a una politica di sanzioni contro l’aggressione italiana all’Etiopia, che si annunciava imminente[1]. È noto altresì che, a vittoria elettorale ottenuta, i governanti conservatori gettarono parecchia acqua nel vino della loro intransigenza, come ampiamente dimostrarono gli accordi Hoare-Laval del dicembre 1935. Anche in questa occasione si ebbe però una nuova dimostrazione e una controprova del peso esercitato dall’opinione pubblica: Hoare, come è noto, fu costretto alle dimissioni.

Fu in questo torno di tempo e in un siffatto contesto che negli ambienti della League of Nations Union (LNU), che era stata la principale promotrice del Peace Ballot, venne maturando l’idea di una campagna internazionale per la pace che esercitasse simultaneamente su tutti i governi quella pressione che già era stata esercitata sul governo inglese, una sorta di plebiscito pacifista universale. Il primo avvio all’iniziativa venne dato da una serie di contatti tra Lord Cecil e alcuni esponenti politici francesi, in particolare Pierre Côt e Léon Jouhaux, tra la fine del 1935 e gli inizi del 1936[2].

L’idea di una grande assise pacifista a livello internazionale non era però esclusiva dei pacifisti inglesi della LNU e dei loro interlocutori francesi. Nel corso del 1935 la proposta di un congresso internazionale sindacale contro il fascismo e la guerra era stata oggetto di trattative fra il Profintern e la Federazione sindacale internazionale, affiliata la prima all’Internazionale comunista e vicina la seconda all’Internazionale Operaia Socialista (IOS), ma l’intransigenza dimostrata dall’una e dall’altra parte aveva fatto sì che le trattative si arenassero e che l’iniziativa fosse rinviata sine die[3]. Non si poteva però escludere che le due iniziative potessero in qualche modo intrecciarsi e confluire; il terreno su cui dei contatti potevano più facilmente essere stabiliti era quello della Francia del fronte popolare. Si era, tra l’altro, alla vigilia dell’unificazione sindacale, che sarà suggellata dal Congresso di Tolosa del marzo 1936 e nella quale Léon Jouhaux ebbe, come è noto, una parte di rilievo. Non più tardi del novembre 1935 il capo dei sindacati sovietici Švernik era stato a Parigi, per partecipare a un congresso del Movimento Amsterdam-Pleyel, e non aveva mancato di cogliere l’occasione per rilanciare la proposta di una commissione di collegamento tra i sindacati sovietici, francesi ed inglesi cui fosse affidato il compito di preparare una conferenza delle Internazionali sindacali contro la guerra ed il fascismo[4].

Il Rassemblement Universel pour la Paix (RUP)

Sta di fatto che nel gennaio 1936 un ufficio del Rassemblement Universel pour la Paix (RUP) era insediato a Parigi e collegato con altrettanti «centri di adesione provvisoria» di Londra, Ginevra, Bruxelles e Madrid. Tra i nomi dei promotori ed aderenti che figuravano sulla carta intestata vi erano per l’Inghilterra quelli di Lord Cecil e di Philip Noel Baker, per la Spagna quelli di Manuel Azaña, di Largo Caballero e di Salvador de Madariaga e per il Belgio quelli di de Brouckère e del premio Nobel per la pace André La Fontaine. Quanto alla Francia, la lista delle adesioni era più lunga e comprendeva, oltre a Pierre Côt e Léon Jouhaux, P. Langevin, S. Brumbach e il sindacalista comunista Racamond. In una successiva riunione, che si svolse il 13 febbraio, il Bureau parigino del RUP si dette una struttura organizzativa con l’elezione di una segreteria che risultò composta da Louis Launay, un uomo politico radicale, da Mounier, segretario della Lega degli ex combattenti pacifisti e da Louis Dolivet, un personaggio che per il suo passato e le sue relazioni negli ambienti comunisti passava agli occhi di molti come l’eminenza grigia dell’operazione, se non come un agente moscovita. Presidente della sezione francese del RUP fu Pierre Côt e tesoriere il generale in pensione Pouderoux[5].

Una delle prime preoccupazioni del Bureau parigino fu naturalmente quella di sollecitare nuove adesioni e tra queste una delle più ambite era quella di sir Walter Citrine, il capo dei potenti sindacati inglesi, che venne sollecitata con una lettera del 22 gennaio 1936[6]. Questi, che era reduce da un recente viaggio di studio in Unione sovietica nel corso del quale egli non aveva nascosto ai suoi interlocutori la sua avversione al sistema comunista[7], fiutò subito qualcosa di sospetto nell’iniziativa e si rivolse al segretario della Internazionale sindacale di Amsterdam, Schevenels, per ottenere informazioni più affidabili[8]. La risposta non tardò ad arrivare e fu tale da confermare i sospetti di Citrine: non si trattava, a giudizio di Schevenels, che del proseguimento delle manovre comuniste già in precedenza respinte dalla FSI e ora condotte con metodi più sottili e sotto la copertura di nomi e di personalità insospettabili, ma poco avvertite[9]. Dal canto suo Philip Noel Baker scriveva invece a Citrine assicurandolo che egli era stato parte dell’iniziativa dal suo very beginning e che perciò era in grado di escludere ogni sospetto di una strumentalizzazione comunista[10], e assicurazioni analoghe venivano da una nuova lettera del generale Pouderoux[11] e da Louis Launay che a metà febbraio si recò a Londra, dove ebbe un colloquio col responsabile per le relazioni internazionali del Labour Party W. Gillies[12]. Tra le due campane, quella di Schevenels e quella di Noel Baker e dei rappresentanti parigini del RUP, Citrine era assai più propenso ad ascoltare la prima: non solo egli non si lasciò convincere, ma anzi, come apprendiamo da una sua lettera a Schevenels del 19 febbraio, egli tentò attraverso A.G. Wakden, un parlamentare laburista che rappresentava il TUC nella LNU, di impedire che quest’ultima aderisse all’iniziativa parigina[13]. I suoi sforzi ebbero parzialmente successo: gli organi direttivi della LNU aggiornarono ogni decisione in attesa delle informazioni che un loro fiduciario, Lady Gladstone, era incaricata di raccogliere sul continente e a Parigi[14], in particolare sulla persona di Dolivet. Dalla documentazione del TUC non sappiamo molto sui risultati di questa missione, se non che Schevenels tentò nuovamente di dissuadere Lady Gladstone dal collaborare con il RUP, trovando — sembra — una certa disponibilità ad ascoltare i suoi consigli[15]. Agli inizi di marzo i contorni dell’iniziativa erano ancora lungi dall’essere definiti, specie per ciò che concerneva la partecipazione e la rappresentanza inglese: il progetto era quello di organizzare un congresso universale, ma non era ancora chiaro chi vi avrebbe partecipato e quali sarebbero stati gli argomenti all’ordine del giorno. La lista delle personalità che avevano aderito si era nel frattempo accresciuta ed estesa a vari altri paesi (in particolare la Spagna e la Cecoslovacchia), ma l’asse portante dell’iniziativa rimaneva quello anglo-francese[16].

Come sempre, lo stimolo e la spinta sarebbero venuti dai fatti. La questione etiopica sembrava aver ormai perduto l’attualità politica che aveva avuto nei giorni del Peace Ballot e degli accordi Hoare-Laval, quando l’ingresso delle truppe tedesche nella zona smilitarizzata della Renania riproponeva all’opinione pubblica europea il problema del «pericolo di guerra» in termini ben più allarmanti. A partire da questo evento e da questa data molte precedenti remore dovettero attenuarsi, specie sul versante francese, e i preparativi del congresso entrarono in una fase di accelerazione.

L’apertura dell’Internazionale comunista

Il primo fatto nuovo che dobbiamo registrare venne dalla Segreteria del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, la quale il 17 marzo, cioè nei giorni dell’ingresso delle truppe tedesche in Renania, si pronunciò in merito al progetto di Congresso pacifista esprimendo l’auspicio che ad esso fossero chiamati a partecipare non solo i rappresentanti delle varie organizzazioni professionali e del pacifismo «borghese», ma anche quelli dei «partiti e dei sindacati»[17]. Si vorrebbe sapere qualcosa di più sulle origini e le motivazioni di questa dichiarazione di disponibilità e in particolare su come essa si concilii con le affermazioni di una risoluzione dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista di poco successiva, quella del 10 aprile 1936, in cui, tra l’altro, si assegnava ai partiti comunisti il compito di «svolgere un’intensa propaganda per smascherare il falso pacifismo di quei riformisti di destra e di sinistra che, mentre non risparmiano le generiche ed enfatiche dichiarazioni sulla pace, cercano di ostacolare con diversi pretesti la lotta contro i veri responsabili di un nuovo conflitto mondiale»[18]. Tali «abbiette figure» di pacifisti, come le definiva la risoluzione del 10 aprile, non mancavano, come del resto avremo modo ampiamente di constatare, nelle file del pacifismo occidentale e tra gli stessi promotori della campagna pacifista internazionale verso la quale l’Internazionale comunista aveva manifestato il suo interesse. In assenza di ulteriore documentazione archivistica è questo un interrogativo destinato a rimanere senza risposta. Limitiamoci per ora a registrare il fatto nuovo rappresentato da questa dichiarazione di disponibilità.

L‘attivismo di Lord Cecil

Un secondo fatto nuovo fu costituito dalla decisione di Lord Cecil di accettare la presidenza del comitato inglese del RUP coinvolgendo così la LNU nella preparazione del Congresso di Bruxelles[19]. In un memorandum di suo pugno, che recava la data del 19 aprile, il noto pacifista inglese esponeva la sua concezione di quella che sarà chiamata la «campagna internazionale per la pace» (IPC). L’idea base era quella, come si è detto, di trasferire l’esperienza del Peace Ballot a livello universale, ma Cecil mostrava di rendersi perfettamente conto di come un siffatto trasferimento al di fuori dello specifico contesto inglese non fosse realizzabile. Un equivalente internazionale della LNU era cosa impensabile ed egli proponeva perciò di coinvolgere nella campagna le organizzazioni già esistenti nei diversi paesi, le Chiese in primo luogo, ma anche le organizzazioni femminili, degli ex combattenti, gli stessi sindacati. Per quanto concerneva gli obiettivi della campagna, egli fissava «quattro punti» sui quali a suo giudizio era necessario realizzare la più ampia convergenza. Al primo posto figurava il principio della inviolabilità (sanctity) degli impegni derivanti dai trattati e in particolare dal Covenant della SDN e dal patto Briand-Kellog, seguito da quello della riduzione degli armamenti da perseguirsi mediante accordo internazionale e, come primo passo, dalla soppressione dell’aviazione militare. Al terzo posto figurava il rafforzamento degli strumenti a disposizione della SDN per promuovere e, ove fosse necessario, per imporre anche con il ricorso a sanzioni economiche e, in ultima istanza, militari, il rispetto del Covenant e per prevenire l’insorgere di conflitti o far cessare quelli che eventualmente si fossero accesi. Merita peraltro di essere rilevato che, mentre si faceva un esplicito richiamo all’articolo II del Covenant, che conteneva l’enunciazione in termini generali del principio della sicurezza collettiva, non si faceva menzione dell’articolo 16, che trattava specificamente il problema delle sanzioni e che era stato al centro della controversia ginevrina a proposito della questione etiopica. Infine — ed era questo il quarto punto — la «machinery» della SDN andava perfezionata onde permetterle di assolvere meglio il suo compito statutario di riparare (redress) con mezzi pacifici eventuali aspirazioni (grievances) di singoli stati. A questo fine e in questo contesto si faceva riferimento all’articolo 19 del Covenant, che prevedeva la possibilità di una revisione di trattati rivelatisi inadeguati o superati, e si accennava all’opportunità di una più equa distribuzione delle materie prime e dei mercati.

Si trattava insomma — mi sembra evidente — di un programma assai cauto e moderato, che rimaneva circoscritto nell’ambito del pacifismo «ufficiale» degli anni ’20 e della tematica della recente conferenza ginevrina sul disarmo. Ma, ciò che più conta, si trattava di un programma polivalente, per non dire onnivalente, che lasciava aperte molte porte e consentiva la partecipazione di organizzazioni esistenti ed operanti nei più diversi contesti politici e statali, anche in quelli degli stati fascisti. Non è certo casuale che nel memorandum di Cecil non sia possibile trovare alcun riferimento concreto alla situazione politica europea: non solo non vi troviamo il termine «fascismo», ma neppure alcun riferimento ad eventi recenti e recentissimi e a singoli stati[20].

Quasi contemporaneamente al memorandum Cecil, Philip Noel Baker metteva a punto per parte sua un progetto e uno schema del congresso che avrebbe dovuto segnare il culmine e la conclusione della campagna internazionale per la pace. Anche in questo caso traspariva evidente la preoccupazione di evitare l’insorgere di contrasti di natura politica e di assicurare un andamento tranquillo dei lavori congressuali. Si prevedevano infatti quattro sessioni plenarie di 2 ore e mezzo l’una, nel corso delle quali la parola sarebbe stata data solo ad oratori scelti in precedenza e senza possibilità di intervento da parte dell’audience. Ai delegati sarebbe invece stata concessa la facoltà di intervenire solo durante i lavori delle commissioni[21].

L’avvio della campagna

L’avvio ufficiale della campagna venne dato a Ginevra, dove il 27 e il 28 aprile, sotto la presidenza di Noel Baker, si riunirono alcuni dei principali rappresentanti ed operatori del pacifismo europeo nelle sue varie ramificazioni. Fra gli altri, oltre a Lord Cecil, erano presenti Jouhaux, Alvarez del Vayo e l’immancabile Dolivet. La presenza più nuova e inattesa era quella del capo dei sindacati sovietici Švernik, il quale, a nome dell’organizzazione da lui presieduta, annunciò la decisione di accogliere l’invito che evidentemente era stato ad essa rivolto, assicurando la sua simpatia e il suo appoggio. La riunione ebbe un carattere prevalentemente operativo e da questo punto di vista essa fu indubbiamente un successo: venne decisa la costituzione di un Consiglio generale del RUP, del quale avrebbero fatto parte due rappresentanti di ogni comitato nazionale, oltre ai rappresentanti di alcune grandi organizzazioni internazionali e che sarebbe stato presieduto congiuntamente da Lord Cecil e Pierre Côt, ai quali venne demandata la scelta, che appariva controversa e delicata, della segreteria e degli organismi operativi. Inoltre si abbozzò, sulla base dello schema Noel Baker, l’articolazione dei lavori del Congresso e se ne fissò la data dal 3 al 6 settembre 1936. Non venne presa alcuna decisione formale circa la sede, ma, come vedremo più avanti, a quella data tutti davano per scontato che esso si sarebbe svolto a Ginevra. Infine si fissarono le quote di finanziamento cui si impegnavano i vari comitati nazionali: tra le più cospicue figuravano quella dei comitati inglese e sovietico.

L’impressione che si ricava dallo scarno verbale conservato negli archivi dell’Istituto di storia sociale di Amsterdam è che sul piano dell’impostazione politica le cose filarono meno lisce. Si convenne che a base della campagna e del congresso vi sarebbero stati i quattro punti del memorandum Cecil, con qualche integrazione. In particolare — probabilmente su suggerimento dei delegati «continentali» — si decise di far menzione esplicita del termine di «sicurezza collettiva». La pubblicazione dell’appello di convocazione del Congresso venne però aggiornata, in attesa dei necessari ritocchi. Il punto più delicato rimaneva però quello degli inviti: questi ultimi avrebbero dovuto essere estesi anche alle organizzazioni sociali esistenti in Germania e in Giappone? E, per converso, sarebbe stata ammessa la partecipazione al congresso di rappresentanti dell’emigrazione e dei rifugiati politici? Su questa questione scottante e qualificante non venne presa per il momento alcuna decisione e si preferì anche in questo caso aggiornarsi alle successive riunioni[22].

La decisione di Lord Cecil e della LNU di associarsi all’iniziativa del RUP parigino e di promuovere congiuntamente una campagna pacifista internazionale costituiva indubbiamente un fatto nuovo e un motivo di riflessione per molti. Tra gli altri per il segretario dell’Internazionale socialista Friedrich Adler, che il 7 maggio, scrivendo a Gillies, lo invitava a riflettere sul successo che la campagna incontrava in seguito all’adesione di Lord Cecil e a considerare se fosse il caso di mantenere un atteggiamento «completamente negativo» e se non fosse più opportuno chiedersi se qualcosa di nuovo si era prodotto nel campo di Agramante comunista. «Voi sapete — scriveva Adler — che personalmente non ho simpatia per tutte quelle organizzazioni che hanno una composizione così mista e che mi considero inadatto a partecipare a siffatte iniziative. Né mai lo ho fatto. D’altra parte, mi appare chiaro che per l’Internazionale socialista è di grande importanza considerare se un cambio di tattica nei confronti di queste riunioni non sia opportuno»[23]. La risposta a questo interrogativo venne dal Bureau dell’IOSche si riunì il 15 maggio sotto la presidenza di de Brouckère e fu una risposta sostanzialmente negativa: venne infatti declinato l’invito a partecipare ufficialmente e si lasciò libertà ai singoli partiti di regolarsi come meglio credevano[24]. È probabile da quanto sappiamo circa l’andamento di questa riunione[25] che si trattasse di una decisione contrastata. Oltre ad Adler, anche altri membri del Bureau erano probabilmente propensi a partecipare a una iniziativa che sin dall’inizio aveva raccolto l’adesione del presidente de Brouckère e di altri esponenti in vista del socialismo internazionale, ma anche in questa circostanza non si poteva evidentemente prescindere dall’atteggiamento dei laburisti inglesi, sempre restii a farsi coinvolgere in iniziative comuni con il socialismo continentale e i suoi «fronti popolari».

Una controprova di questa supposizione la si può del resto riscontrare nel fatto che sia l’Internazionale sindacale (FSI), che figurava tra le organizzazioni ufficialmente invitate, sia il TUC entrambi sotto la influenza della forte personalità di sir Walter Citrine, non ebbero né esitazioni né perplessità nel declinare recisamente l’invito del RUP[26]. Veniva così a mancare un possibile anello di congiunzione tra il pacifismo senza aggettivi di Lord Cecil e della LNU e il pacifismo di orientamento antifascista di larga parte della sinistra continentale.

L’appello per il Congresso

Nel frattempo la macchina organizzativa avviata dalla riunione di Ginevra aveva preso a funzionare e il 21 maggio venne reso pubblico attraverso la stampa il testo dell’appello per il Congresso. Da una sua lettura si ricava l’impressione che la sua redazione non fosse stata facile. Si tratta infatti di un documento composito: dopo un cappello iniziale di cauto timbro antifascista (vi si affermava infatti che la pace e la SDN attraversavano un momento difficile, dal momento che «alcuni governi» si erano assunti la responsabilità di violare il Covenant e che taluni — «certains» — celebravano la guerra «come la più grande gloria umana»), faceva seguito la riproposizione in forma scarnificata e con l’aggiunta del concetto di «sicurezza collettiva» dei quattro punti del memorandum Cecil e l’assicurazione che «nessuno di questi principi è diretto contro un qualsiasi popolo»[27]. Il documento recava le firme di Lord Cecil, di Pierre Côt, di Edouard Herriot e di altre non meglio specificate «personalità più eminenti» del RUP. Occorre consultare la stampa ufficiale dell’Internazionale comunista per sapere che tra queste «personalità più eminenti» vi era anche Švernik, il presidente dei sindacati sovietici[28]. Ed occorre scorrere l’elenco delle adesioni pervenute per sapere che alla lista resa nota in precedenza si era aggiunta anche quella dei sindacati sovietici[29]. Il collegamento organizzativo tra le iniziative londinesi e parigine e le sollecitazioni moscovite era dunque cosa fatta, ma ciò non significava ovviamente una convergenza politica. Sull’uno e sull’altro versante persistevano infatti diffidenze e perplessità. Per quanto concerne il versante comunista esse non tardarono a manifestarsi.

Significativo a questo proposito è l’editoriale che l’organo teorico dell’Internazionale comunista dedicò all’iniziativa del RUP. Dopo aver espresso un giudizio genericamente positivo ed aver ricordato che l’iniziativa era partita dall’Inghilterra del Peace Ballot, l’editorialista sottolineava la differenza esistente tra i pacifisti inglesi impegnati nella IPC e quegli «uomini politici inglesi che, ammantandosi della toga del pacifismo, corrono in realtà in aiuto del fascismo tedesco, principale fautore di guerra in Europa». Per la verità qualche dubbio sulla qualità del pacifismo di Lord Cecil e dei suoi amici l’articolista della «Kommunistische Internationale» doveva pur averlo se, proseguendo la sua argomentazione, giudicava «insufficiente» il contenuto del documento del 21 maggio. Non bastava infatti — egli osservava — denunciare la guerra «in generale», ma — e si citava Dimitrov — occorreva individuare e denunciare i fautori di guerra «che siedono a Berlino e a Tokio»[30]. Ciò che si sollecitava dai promotori del Congresso era quindi un più chiaro impegno politico nel senso di un pacifismo di orientamento antifascista. Al tempo stesso però si lasciava intendere che per parte loro i comunisti si riservavano dei margini di libertà. Che altro poteva infatti significare l’affermazione che «il Congresso non può limitarsi ad organizzare la pressione dell’opinione pubblica sulla SDN» e che «l’azione della SDN non può in alcun modo sostituirsi all’azione indipendente delle masse»[31]? Alla luce di queste riserve l’adesione sovietica attuata attraverso il RUP era suscettibile di diverse interpretazioni: da un lato come manifestazione della volontà di conferire spessore e combattività all’azione pacifista, dall’altro come espressione di una persistente riserva, come una scelta di basso profilo.

Se l’iniziativa dell’ICP suscitava perplessità a Mosca, ancor più essa ne suscitava a Parigi negli ambienti politici e intellettuali che facevano capo al Comitato Amsterdam-Pleyel. Il suo instancabile animatore, Willy Münzenberg, era stato nel maggio 1936 a Mosca[32] ed è assai probabile che in questa occasione egli fosse stato messo al corrente degli orientamenti dell’Internazionale comunista nei confronti del congresso di Bruxelles. Ciò non significa affatto che, come sostiene Humbert-Droz, egli fosse il grande regista che, con l’aiuto del fido Dolivet, tenne in mano i fili dell’organizzazione, nella quale Cecil, Pierre Côt, Noel Baker e Herriot non avrebbero avuto che un ruolo di copertura e di immagine. Né tanto meno significa che, come afferma ancora Humbert-Droz, nelle intenzioni dei suoi veri organizzatori il Congresso «non doveva essere pacifista, ma diretto esclusivamente contro il pericolo di guerra nazista, contro il militarismo giapponese, contro la ribellione di Franco in Ispagna e contro gli stati imperialisti»[33]. Si tratta anzi di un’affermazione del tutto infondata, come avremo modo di constatare, ché anzi vi sono solide ragioni per ritenere che Münzenberg non condividesse l’impostazione politica che era stata data al Congresso. È quanto emerge dall’analisi, cui ci accingiamo, dei lavori dell’assemblea plenaria del Comitato Amsterdam-Pleyel che si svolse a Parigi il 6 e il 7 giugno.

L’assemblea plenaria del Comitato Amsterdam-Pleyel

Ad essa partecipò il fior fiore dell’antifascismo europeo, da Nenni a Malraux, dalla Pasionaria a Norman Angell, da Heinrich Mann a Breitscheid, oltre a numerosi esponenti politici della sinistra europea. Il Leitmotiv all’insegna del quale si svolsero i suoi lavori fu quello della «chiarezza»: essa figurava nel titolo sotto il quale furono raccolti in opuscolo i vari interventi pronunciati (Agir dans la clarté), nell’allocuzione introduttiva di Francis Jourdain[34] e nell’intervento di Norman Angell[35]. La «chiarezza» che si invocava consisteva in primo luogo nella denuncia aperta dei nemici della pace. Su questo punto l’unanimità era completa: i nemici della pace erano la Germania nazista, il Giappone imperiale e l’Italia fascista. Più esattamente il nemico della pace era il fascismo come fenomeno internazionale: anche se nel corso della discussione affiorò qualche divergenza tra coloro che, come Münzenberg, sembravano inclini a introdurre una gradazione di pericolosità tra i diversi fascismi e a porre l’accento più sul nuovo e più grave pericolo del riarmo tedesco che sull’avventura italiana in Africa, e coloro che — come Nenni — vedevano nel fascismo un continuum e non erano disposti a dimenticare l’Etiopia per la Renania, tuttavia tutti erano consapevoli delle dimensioni internazionali del fenomeno fascista. «L’Etiopia — asseriva Norman Angell — si difende sul Reno e il confine del Reno si difende in Etiopia»[36], mentre Heinrich Mann, avendo in vista soprattutto l’opinione pubblica inglese, dedicava il suo intervento a mettere in guardia dalle illusioni di ogni possibile intesa con Hitler[37]. L’autentico pacifismo non poteva perciò non essere antifascista: «Tutti coloro — tale era la conclusione dell’intervento di Breitscheid — che lottano contro il fascismo lottano contro la guerra e tutti coloro che lottano contro la guerra lottano contro il fascismo»[38]. Di qui ad affermare — come faceva Cudenet riecheggiando quanto detto da Nenni — che «ogni pacifismo che non sia antifascista era un inganno e un’illusione»[39] il passo era breve.

Se la chiarezza (un termine caro alla sinistra francese, da Barbusse a Romain Rolland) era necessaria per individuare il nemico, essa era necessaria anche per individuare gli alleati e per porre in termini corretti il rapporto tra il pacifismo di orientamento antifascista e le altre correnti pacifiste o, come preferiva dire Malraux, «pseudopacifiste»[40], o ancora — come diceva Nenni — «con i pacifisti volgari»[41]. In questo contesto si poneva in particolare la questione dell’atteggiamento da assumere nei confronti del RUP e del Congresso di Bruxelles. Ad essa faceva indirettamente riferimento il deputato comunista Rabaté non dissimulandosi che se si voleva «dare una linea ideologica comune» al movimento per la pace in atto, non poche difficoltà avrebbero dovuto esser superate, derivanti non solo dai nemici della pace, ma anche da certi «amici della pace»[42]. Ad affrontare esplicitamente il problema fu lo stesso Willy Münzenberg, che dedicò buona parte del suo intervento alla definizione dell’atteggiamento del Comitato Amsterdam-Pleyel nei confronti del RUP. Quella di Lord Cecil era a suo avviso un’«iniziativa felice» e che andava accolta e sostenuta con favore, per quanto occorreva anche dire — e Münzenberg lo diceva riecheggiando il giudizio della «Kommunistische Internationale» — che «questo non basta». Ciò significava — ed era questo il punto sul quale egli maggiormente insisteva — che era necessario che il Comitato mantenesse il suo ruolo specifico, un ruolo che (l’allusione al RUP mi sembra evidente) nessun altro organismo era in grado di assolvere[43]. Il problema dell’atteggiamento nei confronti dell’IPC e del RUP veniva ripreso in una lettera aperta a tutti gli amici della pace che la Segreteria del movimento Amsterdam-Pleyel pubblicò per incarico ricevuto dall’assemblea del 6–7 giugno. Anche qui l’iniziativa di Lord Cecil era gratificata dell’epiteto di «magnifica» e ad essa si assicurava un’adesione «entusiasta», anche se subito dopo si aggiungeva che compito del Comitato sarebbe stato quello di contribuire al «chiarimento di idee troppo spesso oscure e all’unificazione delle forze di pace nella misura maggiore possibile»[44]. I principi e gli obiettivi attorno ai quali questo chiarimento e questa unificazione sarebbero stati possibili ricalcavano per una parte i quattro punti del memorandum Cecil, ma per altri aspetti non secondari se ne distaccavano. Si faceva ad esempio esplicito riferimento all’articolo 16 del Covenant relativo alle sanzioni e ci si pronunciava esplicitamente per una «lotta attiva e costante contro le dittature fasciste come principali fautori di guerra»[45]. Da tutto ciò si ricava la fondata impressione che le pressioni cui Münzenberg era stato soggetto a Mosca avevano ottenuto qualche risultato, inducendolo a collaborare a una impresa verso la quale egli nutriva più di una perplessità e ad aderire al RUP[46]. Egli non rinunciava peraltro alle sue convinzioni più profonde e all’autonomia del movimento del quale era stato ed era il principale animatore[47]. «Non vogliamo — si legge nella lettera aperta — avere niente in comune con uno pseudopacifismo che divide il fronte unico di opposizione alla guerra e al fascismo!»[48].

Il Consiglio generale della RUP

A meno di una settimana dall’assemblea plenaria del movimento Amsterdam-Pleyel, si riunì, sempre a Parigi, il Consiglio generale della RUP, la cui composizione era stata, come si è visto, fissata nella riunione di Ginevra di fine aprile[49]. Oltre a Lord Cecil, a Pierre Côt e a Philip Noel Baker, erano presenti i rappresentanti dei vari comitati nazionali che si erano venuti costituendo: la Francia era rappresentata tra gli altri da Marcel Cachin, da René Cassin, la Spagna da Alvarez del Vayo, la Svizzera da Ernest Bovet, l’Inghilterra da Dame Adelaide Livingstone e la Cecoslovacchia da Lev Sychrawa, che rappresentava anche la CIAMAC, un’organizzazione internazionale di combattenti. Altri comitati nazionali rappresentati nella riunione parigina erano quello austriaco, finlandese, romeno, lituano, messicano e olandese. Un piccolo enigma per lo storico è costituito dall’inclusione nella lista delle adesioni quale rappresentante del comitato nazionale bulgaro di un «G. Dimitroff». Se si trattava di un’omonimia, si converrà che era abbastanza singolare. Vi erano poi i rappresentanti delle varie organizzazioni nazionali e internazionali e quelli delle associazioni religiose: dal Comitato Amsterdam-Pleyel, rappresentato, tra gli altri, da Francis Jourdain, al Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti, alle organizzazioni combattentistiche, all’Alleanza universale per la pace tra le chiese rappresentata dal pastore Jules Jezequel per finire con i sindacati sovietici rappresentati, oltre che da Švernik, da Kakhan. Una segnalazione a parte merita il generale Nemours, delegato permanente di Haiti presso la SDN, di cui si ricordava l’infiammato discorso pronunciato in assemblea al momento della crisi etiopica e che rappresentava per l’appunto un’imprecisata «Ligue pour la defense de l’Ethiopie et de la paix». Nel complesso sulle 63 presenze registrate dal verbale della riunione, si contavano ben 29 francesi, 7 inglesi e 26 di varie altre nazionalità.

Tra i compiti più urgenti cui si trovò di fronte la riunione parigina vi era quello di completare la struttura organizzativa abbozzata a Ginevra: vi si provvide con la designazione di un comitato esecutivo del quale furono chiamati tra gli altri a far parte Lord Cecil, Pierre Côt, Švernik, Jouhaux, il pastore Jezequel e Sychrawa. Tale comitato fu affiancato da due organi a carattere operativo: un segretariato con sede a Ginevra del quale era responsabile Rosa Manus, nota pacifista e femminista olandese, e un comitato internazionale di propaganda con sede a Parigi affidato a Noel Baker, a R. Lange e a Dolivet. Si decise inoltre di allargare il consiglio generale a vari rappresentanti di organizzazioni internazionali di vario tipo e di attribuire la qualifica di osservatori ad alcune organizzazioni internazionali a carattere specificamente interpartitico, quali la Federazione internazionale dei partiti radicali, l’Internazionale socialista e l’Internazionale comunista.

Rimanevano però da sciogliere i nodi politici che non erano stati sciolti nella riunione di Ginevra circa la partecipazione al Congresso di organizzazioni operanti in paesi non aderenti alla SDN, a cominciare naturalmente dalla Germania, e circa l’ammissibilità di delegazioni rappresentative dell’emigrazione politica. Era evidente che le due questioni erano strettamente intrecciate: era impensabile infatti che delle organizzazioni tedesche o italiane a carattere ufficiale consentissero di partecipare a un congresso in cui erano presenti anche dei «fuorusciti». La discussione su questo punto fu particolarmente vivace: se da una parte numerosi delegati francesi, spagnoli e belgi si pronunciarono a favore della partecipazione di rappresentanti dell’emigrazione antifascista e subordinarono la partecipazione di organizzazioni ufficiali dei paesi fascisti a una serie di condizioni che la rendevano praticamente impossibile[50], dall’altra Lord Cecil si dichiarò nettamente contrario alla partecipazione di emigrati politici, fatta eccezione per alcune figure particolarmente rappresentative (si fece il nome di Einstein)[51], e favorevole a una partecipazione ufficiale delle organizzazioni tedesche alla sola condizione che anche in Germania venisse costituito un comitato nazionale del RUP. Anche in questa occasione nessuna decisione definitiva venne presa: si stabilì infatti, su proposta di Pierre Côt, di affidare al comitato di propaganda il compito di svolgere un’inchiesta al fine di appurare se in Germania e in altri paesi non aderenti alla SDN esistessero le condizioni per la costituzione di comitati nazionali. In quanto ai delegati dell’emigrazione si decise di lasciar liberi i singoli comitati nazionali di inserirli o meno nella propria delegazione[52].

Per la verità la questione della partecipazione tedesca o italiana aveva una rilevanza soltanto formale. Le reazioni della stampa dei paesi fascisti nei confronti delle iniziative di Lord Cecil non lasciavano dubbi sul fatto che essi la considerassero una strumentalizzazione antifascista e comunista[53]. Ma, come è noto, anche le questioni di forma possono avere ed hanno sovente un valore sostanzialmente politico: tenere formalmente aperta la questione tedesca significava infatti ribadire e sottolineare l’apoliticità del Congresso e la volontà di effettuare una dimostrazione pacifista super partes. Era questo il nodo che i partecipanti alla riunione parigina erano chiamati a sciogliere e non ci deve sorprendere se, dopo che essi si erano rifiutati di prendere il toro per le corna ed erano ricorsi a una nuova dilazione, il problema si ripresentò loro in forma implicita quando passarono a trattare altre questioni.

La scelta della sede del Congresso

Tra queste quella che si rivelò più spinosa fu quella della sede del Congresso. L’intenzione originaria di Lord Cecil e dei promotori dell’iniziativa era quella di tenere il congresso a Ginevra, onde sottolineare fiducia e sostegno alla SDN. Dalla relazione che Rosa Manus svolse nella riunione di Parigi risultò evidente che nella città del Lemano si nutrivano non poche perplessità circa l’opportunità dell’iniziativa e della scelta della sede del Congresso. In particolare ci si preoccupava degli effetti che avrebbe potuto avere l’arrivo di una massiccia delegazione francese in cui i sostenitori del fronte popolare, uscito allora vittorioso dalle elezioni, fossero predominanti e si esprimeva scetticismo circa la capacità degli organizzatori, malgrado l’autorità morale di Lord Cecil, di evitare una politicizzazione del congresso. Tali riserve apparivano a vari membri del Consiglio generale inaccettabili e tali da consigliare il trasferimento del congresso ad altra sede. In tal senso si espressero i francesi Lange e Sennac, che avanzò la candidatura di Bruxelles, e lo stesso Alvarez del Vayo. Dal canto loro i delegati cechi proposero che il Congresso si tenesse a Londra, non senza, probabilmente, qualche arrière-pensée di natura politica e diplomatica. Sia la proposta francese che quella ceca incontrarono però la ferma opposizione di Lord Cecil e di Philip Noel Baker, che difesero a spada tratta la scelta di Ginevra e chiesero che sulla questione ci si pronunciasse con un voto esplicito. Anche questa volta ci si cavò di imbarazzo approvando una risoluzione presentata da Dolivet in cui si riconfermava la scelta di Ginevra, ma non si escludeva che, se fossero insorte difficoltà d’ordine tecnico o politico, ci si potesse trasferire a Bruxelles o altrove[54]. Successivamente il Comitato esecutivo, che si riunì il 5 luglio, decise di inviare a questo fine una delegazione nella quale avrebbe dovuto figurare tra gli altri de Brouckère, Alvarez del Vayo e Lord Lytton, incaricato di conferire in proposito con il governo svizzero.

Un’altra importante questione della quale il Consiglio generale si dovette occupare nella sua riunione parigina fu quella della scelta degli oratori che avrebbero parlato nelle sessioni plenarie del Congresso. Venne fatta una prima rosa nella quale comparivano naturalmente i nomi di Lord Cecil, di Pierre Côt, di Noel Baker, del belga Rollin e di Perrin. Evidentemente, se ci si fosse limitati a far parlare coloro che erano stati i principali animatori della campagna, la risonanza nell’opinione pubblica sarebbe stata minore e si decise perciò di includere nella rosa dei possibili oratori anche i nomi di alcune personalità della politica e della cultura, quali il generale Smuts, sir Walter Citrine (alla cui assenza non si era evidentemente rassegnati), Charlie Chaplin e Evangeline Booth dell’Esercito della salvezza. In questa compagnia il nome del trasvolatore Lindbergh, noto per le sue opinioni conservatrici, appariva decisamente fuori luogo[55]. Ma forse era proprio quello che si voleva per dissipare le preoccupazioni che si erano manifestate, in Svizzera e altrove. Ce lo conferma una circolare del Comitato esecutivo del 6 luglio in cui si tornava a ribadire che il RUP era aperto a tutti i movimenti, qualsiasi fosse il loro orientamento politico o filosofico e la loro composizione sociale o professionale, a tutte le nazioni, razze e classi alla sola condizione che il loro fine fosse l’instaurazione di una pace «loyale» tra tutti i popoli e che essi aderissero senza riserve ai quattro punti del memorandum Cecil. Se poi taluni di questi movimenti perseguivano anche altri obiettivi oltre a quello della pace, il RUP dichiarava di «non voler conoscere le sue altre attività» e, di conseguenza, «né di approvarle né di disapprovarle»[56].

La riunione parigina del Consiglio generale aveva fatto fare un deciso passo avanti alla preparazione del Congresso e in quanto tale essa può essere considerata un successo. Rimanevano però non poche zone d’ombra e ambiguità circa la sua impostazione politica ed esse si facevano evidenti non appena il dibattito cauto ed ovattato che si era avuto in sede interna si trasferiva all’esterno. È quanto accadde nella manifestazione pubblica che ebbe luogo nella giornata del 12, in una pausa dei lavori del consiglio generale, e nel corso della quale presero la parola alcuni dei più autorevoli rappresentanti del RUP. Mentre Lord Cecil, a giudicare almeno dagli scarni resoconti della stampa, si limitò a rivolgere un appello a favore della pace e della SDN, Švernik pronunciò un discorso di chiaro timbro antifascista[57]. A questo punto era la preparazione del Congresso quando improvvisamente giunse la notizia del pronunciamento franchista in Ispagna.

Scoppia la guerra civile in Spagna

Che cosa la guerra civile spagnola rappresentò per l’opinione pubblica europea è cosa ben nota ed è noto anche quale profondo impatto essa ebbe nella sinistra politica e intellettuale europea. La sensazione che si fosse aperta una partita decisiva in cui erano in gioco non solo l’avvenire della Spagna, ma quello dell’Europa e le sorti stesse della pace era largamente condivisa. Diverse erano invece le conclusioni politiche che da questa comune sensazione si potevano trarre e di fatto furono tratte. L’alternativa tra pacifismo senza aggettivi e pacifismo di orientamento antifascista, che già come si è visto, si era posta durante la guerra d’Etiopia, diveniva ora drammatica e imponeva a ciascuno delle scelte non facili.

«La Spagna — scriveva Bertrand Russell a Gilbert Murray nel marzo 1937 — ha indotto molti pacifisti a cambiare opinione. Non è stato facile neanche per me non imitarli, tanto più che conosco la Spagna e quasi tutti i luoghi in cui si è combattuto, nonché gli spagnoli e partecipo vivamente alle traversie del paese. Indubbiamente non mi sento altrettanto impegnato per la Cecoslovacchia. Se sono rimasto pacifista quando i tedeschi invadevano la Francia e il Belgio nel 1914, non vedo perché dovrei cambiare atteggiamento se hanno voglia di ricominciare daccapo. Tu dici “bisogna fermarli”. Io sento che, se incominciassimo a muoverci per fermarli, ci troveremmo poco a poco a essere diventati esattamente come loro, e il mondo non ci avrà guadagnato nulla. Inoltre se dovessimo sconfiggerli, finiremo col dare origine, coll’andar del tempo, a un altro, tanto peggiore di Hitler quanto questi è peggio del Kaiser. Cose tutte che non mi lasciano intravvedere alcuna speranza per l’umanità»[58].

Questa lettera, che assomiglia tanto a un monologo interiore e che riproduce in forma compendiata i punti di vista sostenuti da Russell stesso nella sua opera Which way to peace?, scritta nel corso della guerra civile spagnola[59] riflette fedelmente a mio giudizio il turbamento di una generazione di intellettuali e di pacifisti inglesi, quella cui appartennero Aldous Huxley, Virginia Woolf e tutti coloro che in quei mesi si trovarono a dover scegliere tra la militanza nelle file del Peace Pledge Union del reverendo Sheppard, con il suo pacifismo assoluto, e il pacifismo di orientamento antifascista della maggioranza degli aderenti alla LNU. Lord Cecil stesso a ben vedere condivideva questi dubbi e questi turbamenti.

Se in Inghilterra il contrasto verteva essenzialmente sull’interpretazione del pacifismo e coinvolgeva sia gli ambienti politici sia quelli religiosi, in Francia, nella Francia del fronte popolare e del governo Blum, esso verteva essenzialmente sull’interpretazione dell’antifascismo. Come tale si trattava di un contrasto eminentemente politico, che coinvolgeva anzitutto i partiti e lo stesso governo. Pierre Côt, che abbiamo visto impegnato a fondo nella campagna del RUP, era un po’ il simbolo di questo lacerante contrasto: divenuto ministro nel governo Blum, egli si trovò nella difficile posizione di chi doveva conciliare le sue simpatie per la Spagna repubblicana e il rispetto della politica del non intervento[60]. Dagli ambienti politici il contrasto si riverberava in quelli intellettuali, di una intelligencija del resto fortemente politicizzata. La crisi del Comité de vigilance des intellectuels antifascistes (CVIA) apertasi al momento della remilitarizzazione della Renania toccò il suo punto di rottura nel giugno-luglio 1936, quando coloro che si riconoscevano nella linea del Comitato Amsterdam-Pleyel o, a maggior ragione, nel pacifismo rivoluzionario e sostanzialmente filosovietico di Romain Rolland abbandonarono l’associazione e fecero parte per se stessi[61]. Tra i due schieramenti fu anzi polemica aperta: ne è testimonianza lo scritto Le pacifisme et les intellectuels di René Maublanc[62][63].

Il Congresso di Bruxelles, la cui macchina organizzativa lavorava ormai a pieno regime, si sarebbe perciò svolto in un contesto politico notevolmente diverso da quello che si poteva supporre al momento del suo lancio. Anche se ristretto, il tempo per una correzione e per un aggiornamento della sua impostazione però c’era. Ma c’erano anche forti resistenze in senso contrario e queste finirono per prevalere. Nelle sue memorie, nelle quali peraltro egli si sofferma solo brevemente sulla IPC, Lord Cecil afferma che «la guerra spagnola, creando un nuovo focolaio di guerra, agì “forse” come una sorta di valvola di sicurezza attraverso la quale l’energia aggressiva dei dittatori trovò provvisoriamente sfogo»[64]. Non ci è possibile controllare se questa affermazione, fatta a molti anni di distanza dagli avvenimenti, corrispondesse esattamente alle sue convinzioni di allora, né le biografie disponibili su di lui ci sono di aiuto[65]. Sappiamo invece dalle ricerche del Birn sulla LNU che l’impegno di Lord Cecil nella IPC non era ben visto da alcuni tra coloro che un anno prima avevano invece appoggiato e favorito la campagna del Peace Ballot. Era il caso in particolare di Winston Churchill, il quale, come apprendiamo da una lettera dello stesso Cecil a Noel Baker, «non mostrava di gradire i contatti con il fronte popolare francese»[66]. La cosa è verosimile: dalle memorie dello stesso Churchill appare evidente che il suo impegno a favore dei repubblicani spagnoli fu assai più cauto di quello manifestato a suo tempo per la causa etiopica[67]. Anche da parte dei laburisti, che in quel torno di tempo erano impegnati, non senza difficoltà e contrasti interni, a definire la loro posizione sui grandi temi dell’attualità politica internazionale[68], non mancavano riserve nei confronti di un’iniziativa in cui erano coinvolti i comunisti del Continente e Bevin stesso non mancò di farlo sapere a Lord Cecil[69].

Che da parte inglese si manifestassero delle resistenze a rettificare la piattaforma politica del Congresso di Bruxelles non può sorprendere ed appare anzi scontato. Meno scontato appare invece il fatto che da parte comunista non si fece, almeno a quanto ci risulta, alcun serio tentativo per porre la questione spagnola all’ordine del giorno del Congresso di Bruxelles. Certo chi scorra la stampa comunista e dell’Internazionale comunista di queste settimane può trovarvi degli accenni in questo senso: «Se il Congresso di Bruxelles — affermava ad esempio G. Monmousseau dopo aver evocato gli avvenimenti spagnoli — avesse solo il compito di sollevare lamenti sulla gravità della situazione e di fare dichiarazioni di fiducia sulla buona volontà dei governanti, permarrebbe il pericolo che il futuro dei popoli si presenti altrettanto sinistro quanto l’appello delle campane a stormo del 1914»[70]. Dal canto suo l’editorialista della «Rundschau», scrivendo nell’immediata vigilia del Congresso, preferiva volgere le cose in positivo augurandosi che da Bruxelles venisse un «monito solenne per i fomentatori di guerra fascisti»[71]. Ma non mancano neppure sulla stampa comunista e della III Internazionale segnali ed accenni di diverso segno, intesi a gettar acqua sul fuoco degli entusiasmi antifascisti troppo accesi. È il caso di una recensione agli interventi della sessione plenaria del Comitato Amsterdam-Pleyel del giugno e allo scritto del Maublanc sul pacifismo e gli intellettuali che fu pubblicato dalla rivista teorica della III Internazionale[72]. La critica che veniva loro rivolta era quella di aver sottovalutato il ruolo di pace dell’URSS, un modo come un altro per ricordare che la «lotta per la pace» era in primo luogo una lotta per la sicurezza e la difesa del paese del socialismo, e, come tale, subordinata alla sua linea di politica estera. Potremmo continuare ancora a spigolare nella stampa comunista dell’estate 1936, ma ci sembra più utile appurare, sulla base della documentazione archivistica disponibile, come si sviluppò il dibattito all’interno del RUP e quali furono le posizioni assunte dai membri comunisti in quella sede.

La riunione del Consiglio generale a Bruxelles

Dopo quella parigina del giugno, la prossima riunione del Consiglio generale avrebbe dovuto svolgersi a Praga, dal 24 al 26 luglio. Era una scelta nel contesto politico europeo di allora non priva di significato, ma forse fu proprio per questo che ci si dovette rinunciare. Già il primo luglio una circolare della Manus comunicava che in seguito a «certaines difficultés» e in particolare a causa dell’indisponibilità dei presidenti Cecil e Côt la riunione nella capitale ceca era annullata. Ci si sarebbe rivisti a Bruxelles il 21 e 22 luglio[73]. La riunione del Consiglio generale nella capitale belga, che fu preceduta da una breve riunione del Comitato esecutivo a carattere spiccatamente operativo, si svolse effettivamente alla data fissata[74]. Rispetto alla riunione parigina del giugno vi era qualche presenza nuova, in particolare quella di Georg Branting. Ma vi era soprattutto qualche assenza di rilievo, in particolare quella, forzata, di Alvarez del Vayo e dei delegati spagnoli. «Le comité espagnol — annotava burocraticamente il verbale — s’excuse».

I lavori, che si svolsero sotto la presidenza di de Brouckère, si iniziarono con una relazione del pastore Jezequel sui contatti e le trattative che, in qualità di delegato del RUP, egli aveva avuto con le autorità svizzere e con lo stesso presidente elvetico Motta. Quest’ultimo si era impegnato a garantire l’ingresso in Svizzera a tutti i delegati, inclusi quelli che fossero stati in precedenza espulsi dal paese, ma aveva formalmente chiesto un impegno a non effettuare manifestazioni all’aperto e a garantire l’ordinato procedere dei lavori.

Successivamente però la stampa aveva continuato suoi attacchi all’iniziativa del RUP contribuendo così a determinare un «clima poco propizio» e a suscitare perplessità nella delegazione. Queste ultime si erano poi accresciute quando il Consiglio federale, che era stato investito da Motta della questione, comunicò la sua risposta definitiva, che vari membri della delegazione giudicarono ambigua e non pienamente rassicurante. Tra le varie difficoltà vi era anche quella derivante dal fatto che la Svizzera non riconosceva ufficialmente l’URSS.

Stando così le cose, data la ristrettezza del tempo a disposizione, non vi è da meravigliarsi se a qualcuno venne in mente l’idea di rinviare il Congresso. Tale possibilità fu però seccamente esclusa dal presidente de Brouckère: un rinvio — egli osservava — poteva significare «attendre que la guerre fŭt là». Si trattava dunque di scegliere tra il mantenere la scelta di Ginevra o optare per un’altra sede. Su questo dilemma i pareri, come già a Ginevra nell’aprile e a Parigi in giugno, risultarono nettamente divisi: se i rappresentanti di alcuni comitati nazionali, come quelli ungherese, polacco, olandese, cecoslovacco e americano, si pronunciarono a favore di Ginevra, i delegati maggiormente orientati a sinistra, quali Branting e Dolivet, optarono decisamente per Bruxelles. Dal canto suo Dame Adelaide Livingstone, che parlò a nome di Lord Cecil assente, espresse la propria preferenza per Ginevra, ma non escluse un ripiegamento su Bruxelles o l’Aja. Anche Švernik si dimostrò possibilista e chiese al delegato svizzero Bovet di adoperarsi presso il suo governo per ottenere garanzie più soddisfacenti, ottenendone però un netto rifiuto.

Non si trattava, come abbiamo già avuto modo di osservare, di una mera questione geografica e neppure, cosa che aveva comunque un rilievo politico, di decidere se il Congresso dovesse tenersi o meno nella città che era sede della SDN. Ciò che era in discussione era la natura stessa del Congresso. Stante l’atteggiamento assunto dalle autorità svizzere, molti ritenevano che un congresso che si fosse svolto a Ginevra alle condizioni richieste dal Consiglio federale avrebbe rischiato di essere, se non, come osservava una delegata belga, una «réunion intime», certo un «congrès d’étude», come paventava un delegato cèco. Comunque non sarebbe stato quel «congresso di massa» che Dolivet ed altri auspicavano, ma, nell’ipotesi migliore, un congresso di «rappresentanti di massa», come suggeriva la Livingstone. Ciò che le autorità svizzere temevano di più era evidentemente una soverchiante e politicamente qualificata partecipazione francese, al punto che la delegata francese Malaterre Sellier sentì il bisogno di fornire assicurazioni in proposito e lo stesso Švernik tenne ad assicurare che dall’URSS non sarebbero venuti i 300 delegati di cui si era parlato nei giornali, ma solo 50.

Ma la questione delle «dimensioni» del Congresso non era neppur essa la più rilevante. Ciò che era davvero decisivo era se i delegati avrebbero goduto di piena libertà di espressione e di parola: se — affermava ancora Švernik — si poteva anche accettare di «non attaccare Hitler e Mussolini», «dobbiamo tuttavia poter denunciare i governi che preparano la guerra o sabotano la pace». Gli faceva eco Marcel Cachin dicendosi disposto ad andare dovunque purché gli fosse permesso di «parlare liberamente».

I nodi da sciogliere erano dunque parecchi e, a mano a mano che si procedeva nella discussione, essi, tra malintesi, questioni personali e contrasti politici, si andavano sempre più aggrovigliando sino a dar luogo a quella che il pastore Jezequel definì una «discussion miserable». Alla fine la Malaterre Sellier e la Livingstone riuscirono però a concordare un documento comune in cui, espressa gratitudine al governo svizzero, si decideva che il «primo» congresso del RUP si sarebbe tenuto a Bruxelles e che una delegazione si sarebbe di qui recata a Ginevra per presentare alla SDN i deliberati del Congresso, in occasione dell’apertura della sessione dell’assemblea. La proposta, dopo laboriose discussioni, fu accolta colla sola astensione della delegazione olandese.

Risolta così la questione più delicata, rimaneva il problema relativo alla partecipazione tedesca, che, almeno formalmente, restava aperto. Dolivet, a nome del comitato di propaganda, riferì sui contatti che si erano potuti avere con rappresentanti delle organizzazioni pacifiste esistenti in Germania prima dell’avvento di Hitler al potere e con esponenti delle Chiese, lasciando chiaramente intendere che qualsiasi tipo di partecipazione tedesca era impossibile. Ciononostante, risulta dagli atti del Congresso di Bruxelles che degli inviti alla organizzazione dei paesi fascisti furono effettivamente inviati, ma che essi «non approdarono ad alcuna risposta positiva»[75]. Quanto alla questione degli emigrati e dei rifugiati politici, risulta dal verbale della riunione che i punti di vista rimanevano divisi tra coloro che ritenevano che una loro ammissione al Congresso potesse dare l’impressione di favorire una «politica di accerchiamento» di certi paesi e coloro invece che la caldeggiavano. Anche in questo caso non venne presa alcuna decisione formale: di fatto gli unici emigrati politici che parteciparono al Congresso di Bruxelles furono alcuni antifascisti italiani, per lo più comunisti, che erano stati inseriti nelle varie delegazioni delle organizzazioni internazionali come invitati[76]. Rimaneva infine da mettere a punto la lista degli oratori, ma anche su questo argomento il verbale della riunione è piuttosto reticente. Possiamo solo constatare che i nomi che erano stati fatti in precedenza, incluso quello di Lindbergh, non vennero riproposti e che qualcuno avanzò invece la proposta di Dimitrov, proposta sulla quale si accese una discussione, il cui contenuto e la cui conclusione possiamo solo immaginare. Il Congresso si sarebbe dunque tenuto a Bruxelles e sarebbe stato soggetto a limitazioni minori di quelle cui sarebbe stato soggetto se esso si fosse tenuto a Ginevra. Ciò non significa peraltro che anche nella capitale belga dei condizionamenti non ci sarebbero stati e che gli esponenti del RUP non ne fossero consapevoli. Purtroppo la documentazione in nostro possesso non ci permette di seguire il corso delle trattative che certo si intavolarono con il governo belga. Quest’ultimo — secondo la stampa dell’Internazionale comunista — sarebbe stato responsabile del fatto che ai delegati fosse impedito di «chiamare gatto un gatto» e «la Germania hitleriana un fautore di guerra»[77], ma tale spiegazione appare poco plausibile e convincente. Di fatto, se ci fu una censura da parte delle autorità belghe, è certo che ci fu anche autocensura, che anzi continuò ad esserci autocensura da parte degli organizzatori del Congresso. Un’ulteriore conferma ci viene dalla lettura del regolamento che venne approvato al termine dei lavori del Consiglio generale di Bruxelles e che ricalca fedelmente lo schema proposto a suo tempo da Noel Baker. In essi si leggeva infatti che «dal momento che il RUP non era diretto contro alcun governo o sistema di stati, i delegati erano pregati di non introdurre nel dibattito questioni di partito e di politica internazionale e di astenersi dall’attaccare dei governi». Si richiedeva inoltre ai delegati di «non testimoniare la loro approvazione o la loro opposizione con manifestazioni rumorose» e di «sforzarsi di dare al Congresso quel carattere di dignità e di oggettività che solo gli permetterà di rimanere il Rassemblement universel de la paix»[78]. In realtà gli impegni assunti dagli organizzatori andavano al di là di quelli pubblicamente sanciti dal regolamento e l’autocensura non consisteva soltanto nell’evitare di attaccare i governi fascisti. Sappiamo infatti da un articolo di Gabriel Péri pubblicato dopo il Congresso che i comunisti avevano accettato che nel corso dei lavori non solo non si parlasse di fascismo e di antifascismo, ma anche che non si facesse allusione agli avvenimenti spagnoli[79].

Tutto era dunque pronto per il Congresso di Bruxelles e ai suoi organizzatori cominciavano già a pervenire i messaggi di adesione e di augurio. Tra i molti meritano una segnalazione quelli di Attlee, di Masarik e di Titulescu tra gli esponenti politici, e quelli di Paul Langevin, di Selma Lagerlof, di Romain Rolland e di Karin Michaëlis tra gli intellettuali. Anche gli scrittori sovietici, rappresentati a Bruxelles da Alexis Tolstoi, inviarono un saluto augurale[80]. I testi di tali messaggi presentavano però notevoli differenze: mentre alcuni, come ad esempio quello di Attlee[81], avevano carattere protocollare e formale, altri, come ovviamente quello di Romain Rolland[82], erano di schietto timbro antifascista.

Si aprono i lavori del Congresso

I lavori del Congresso ebbero inizio nella serata del 3 settembre nel Palais du Centenaire alla presenza di 4050 delegati eletti da 750 organizzazioni nazionali e 50 internazionali e di 950 invitati[83]. Su di essi, oltre al resoconto ufficiale, disponiamo anche dei resoconti della «Rundschau» e della «Internationale Communiste», ed è su queste due fonti e sulla collazione tra di esse che si baserà la nostra esposizione. Entrambe presentano infatti, come avremo modo di mostrare, delle lacune che possono essere colmate in parte. La solenne seduta inaugurale fu aperta da un discorso di Vandervelde, presidente onorario del Congresso, il quale si limitò a pronunciare un indirizzo di benvenuto[84]. Subito dopo prese la parola Lord Cecil «visiblement emù»[85]. Invano si cercherebbero nel suo discorso dei riferimenti alla situazione politica del momento; a parte un rapido e vago accenno ai «governi di numerosi paesi che sembrano voler cercare il suicidio del mondo»[86], non vi si trova altro che generiche espressioni di buona volontà. Non si trattava peraltro di un silenzio casuale: Cecil coglieva infatti l’occasione per ribadire la sua convinzione che compito del Congresso non fosse quello di «discutere delle teorie e nemmeno delle questioni politiche»[87], ma piuttosto quello di occuparsi delle «questioni pratiche» e di impegnarsi in uno sforzo comune a favore della pace e della SDN, della pace attraverso la SDN. Detto questo, non gli rimaneva molto da aggiungere se non terminare il suo discorso con un atto di fede nelle «forze soprannaturali e di ognuno che ami l’umanità»[88]. L’accenno alle «forze soprannaturali» non figurava peraltro nei resoconti della stampa comunista.

Il successivo oratore fu Pierre Côt, ministro dell’aviazione nel governo di fronte popolare, le cui simpatie e il cui impegno fattivo a favore della Spagna repubblicana erano ben noti. Anch’egli peraltro rispettò le regole e il codice di comportamento convenuti e si astenne da riferimenti politici all’attualità. Traspaiono tuttavia dalle sue parole uno stato d’animo e un orientamento diversi da quelli di Lord Cecil: egli denunciava infatti le «dottrine fondate sulla violenza nel mondo e particolarmente in Europa» e metteva in guardia i suoi ascoltatori dal ripetere gli «errori criminali» e i «tradimenti» compiuti «negli ultimi anni»[89]. Oltre a questo neppure Côt se la sentì di andare ed egli preferì dedicare una larga parte del suo intervento al problema che più direttamente lo investiva in quanto ministro dell’aviazione, quello della guerra aerea.

A questo punto — come apprendiamo dal resoconto della stampa comunista — Cecil dette lettura della lista delle delegazioni presenti al Congresso e, a mano a mano che esse venivano chiamate, i rappresentanti di ciascuna di esse salivano alla tribuna e informavano brevemente la sala circa la consistenza del movimento pacifista nei rispettivi paesi. Quando fu la volta della delegazione spagnola, della quale faceva parte anche la Pasionaria, scoppiò un applauso che durò vari minuti e molti delegati sollevarono il pugno chiuso in segno di saluto[90]..

Da un altro sommario resoconto del Congresso — quello del «New Statesman and Nation» — sappiamo anche che si levarono grida per invocare «les avions pour l’Espagne», il cui principale destinatario era probabilmente Pierre Côt che da poco aveva finito di parlare[91]. Era un’infrazione alle regole del Congresso e ciò spiega perché l’episodio non sia registrato nel resoconto ufficiale.

Dopo questo intermezzo prese la parola lord Dickinson, presidente dell’Alleanza universale per l’amicizia tra le Chiese, il quale, da uomo estraneo alle parti politiche qual era, finì però per pronunciare un discorso meno riservato e cauto di quelli degli oratori che lo avevano preceduto: egli si riferì infatti esplicitamente all’invasione giapponese in Manciuria e all’aggressione italiana in Etiopia, collocandole entrambe nell’«età dei dittatori»[92]. Dopo di lui fu la volta di Edouard Herriot che infiammò la platea con un’allocuzione altrettanto ricca di spunti eloquenti quanto povera di riferimenti politici concreti[93] e quindi dell’oratore forse più atteso, il sovietico Švernik. Anch’egli rispettò però il codice di comportamento concordato in precedenza astenendosi dal riferirsi a persone ed eventi dell’attualità, a cominciare dagli avvenimenti spagnoli. Gran parte del suo discorso egli la dedicò ad esaltare il ruolo di pace dell’Unione sovietica, nella cui politica i sindacati sovietici si riconoscevano pienamente, e ad assicurare che questi ultimi non avrebbero fatto mancare il loro concorso onde evitare che, come era accaduto nel 1914, il movimento operaio fosse colto di sorpresa dalle manovre della diplomazia segreta[94].

Tra i successivi oratori della seduta inaugurale meritano una segnalazione gli interventi dell’americano John Levin Sayre e del cinese Wang, se non altro per la diversità dei punti di vista espressi. Mentre l’americano, che era presidente della National Peace Conference, pronunciò un discorso ispirato a una concezione chiaramente isolazionista del pacifismo, nello spirito del patto Briand-Kellogg, e si pronunziò contro qualsiasi tipo di sanzioni e di forniture militari, fossero esse dirette a governi o ribelli (l’allusione alla Spagna e alla politica del non intervento mi sembra evidente)[95], il cinese rivendicò per contro il diritto dell’aggredito a difendersi e non mancò di far un esplicito riferimento al caso mancese. La «non resistenza — egli aggiunse — genera non la pace, ma la guerra» e per questo i cinesi, comunisti inclusi, erano «pronti a difendere una pace vera e onorevole e non una pace umiliante»[96]. Krishna Menon, che rappresentava a Bruxelles il partito indiano del Congresso, pur non mancando di rendere omaggio al Mahatma Gandhi, rivendicò anch’egli il diritto dei popoli oppressi a battersi per l’indipendenza e contro i preparativi di guerra «degli imperialismi rivali»[97]. Evidentemente i delegati dei paesi che non avevano partecipato direttamente all’impostazione del Congresso si sentivano meno vincolati alla disciplina del regolamento e i loro interventi risultarono perciò meno inibiti.

I lavori delle commissioni

Dopo la seduta inaugurale il congresso si divise in commissioni di lavoro. Tra queste la più importante e la più frequentata fu quella sindacale, che fu presieduta dal belga Mertens, vice presidente della FSI. Il rapporto introduttivo fu svolto da Léon Jouhaux, il quale si soffermò principalmente sul ruolo che i sindacati potevano svolgere a sostegno dell’azione della SDN. Jouhaux inoltre colse l’occasione per tornare a respingere la vecchia idea di uno sciopero generale contro la guerra, una polemica per la verità che può apparire abbastanza anacronistica se non fosse per la motivazione che ne veniva data: la completa soggezione in cui le organizzazioni dei lavoratori si trovavano «in alcuni paesi che possono essere considerati i più sospetti di preparare un’avventura» e cioè «nelle dittature ultranazionaliste». Per contro egli si pronunciava a favore di azioni di boicottaggio e delle sanzioni economiche contro i paesi aggressori, senza peraltro far cenno ad eventuali sanzioni militari[98].

Il primo intervento sulla relazione Jouhaux fu quello di Švernik, il quale propose la costituzione e l’elezione da parte del Congresso di un comitato sindacale permanente in cui fossero rappresentate tutte le tendenze del movimento sindacale internazionale e che avesse il compito di assicurare il coordinamento di tutte le forze operaie organizzate e, in prima istanza, di rendere operanti le «sanzioni proletarie» contro un eventuale aggressore[99]. Si trattava di una proposta non nuova, che già era stata avanzata nel corso della guerra etiopica senza successo, e non priva di ambiguità[100], anche se Švernik si affrettava ad aggiungere che le sanzioni proletarie da lui proposte non dovevano essere considerate alternative a quelle eventualmente decise dalla SDN, ma anzi intese a corroborarne l’efficacia. Subito dopo Švernik, prese la parola il presidente degli impiegati ferroviari inglesi Simpson, che esordì affermando che «il movimento sindacale non può funzionare liberamente che in una società democratica»[101] e concluse riservandosi di sottoporre la proposta di Švernik ai suoi mandatari. Non vi poteva essere fin de non recevoir più chiara: la posizione del TUC e di Walter Citrine era infatti nota a tutti. In un congresso, dove il linguaggio esopico era la regola, non si poteva essere più espliciti.

Con la replica di Simpson a Švernik i lavori della commissione sindacale potevano considerarsi praticamente conclusi. I successivi interventi di George Lansbury[102], di Krishna Menon, che tornò a proporre la questione dell’indipendenza indiana[103] e del segretario del sindacato dei lavoratori del mobile inglese Alex Gossip, il quale si dissociò dall’intervento di Simpson[104], furono più che altro delle testimonianze personali e non influirono sulla redazione del documento finale, che risultò estremamente generico e assai poco impegnativo. Ci si limitava infatti ad auspicare la convocazione di una conferenza economica mondiale sulle materie prime, la nazionalizzazione delle industrie di guerra e l’insegnamento nelle scuole dell’esperanto[105].

La seduta conclusiva

Esauriti i lavori delle commissioni, il Congresso si riunì nuovamente in sessione plenaria per la seduta conclusiva. Tra le personalità presenti sul palco della Presidenza faceva spicco la Pasionaria e dalla sala si levarono nuovamente delle grida per richiamare «les Espagnols au micro». Era una richiesta anche formalmente motivata dal momento che nessun rappresentante spagnolo aveva preso la parola nella seduta inaugurale, ma gli accordi presi in precedenza non prevedevano evidentemente un intervento del genere. Anche in questa occasione essi furono rispettati e non solo nessuno spagnolo parlò anche nella seduta finale, ma né il resoconto ufficiale del Congresso né quelli della stampa comunista fanno menzione di questo incidente. Se ne siamo venuti a conoscenza, è ancora una volta grazie alla corrispondenza del «New Statesman and Nation», il cui contenuto e la cui intonazione si può facilmente desumere dalla firma (Critic) del suo estensore. Critic ci fa anzi sapere che a tacitare le proteste che vennero dalla sala fu lo stesso Marcel Cachin[106]. Che le cose si fossero svolte così è confermato proprio da Lord Cecil che nelle sue memorie dà atto ai comunisti presenti a Bruxelles della loro lealtà di comportamento[107] e da Harry Pollit che in una lettera al «New Statesman and Nation» in cui replicava alle osservazioni di Critic, giustificava l’operato dei suoi compagni di partito con la constatazione che «molte delle organizzazioni rappresentate a Bruxelles non erano preparate a discutere la questione della Spagna»[108].

Senza «Espagnols au micro», la seduta conclusiva poté anch’essa svolgersi secondo il copione previsto. Dopo un intervento di Lord Cecil, che illustrò il lavoro svolto nelle commissioni[109], il primo oratore fu Lord Lytton, il quale si mostrò soprattutto preoccupato di giustificare la sua presenza, di un conservatore inglese, in un congresso in cui la sinistra europea era così largamente rappresentata affermando che, quando si trattava della pace, non vi poteva essere distinzione tra destra e sinistra[110]. Siffatto punto di vista non fu peraltro condiviso dagli oratori successivi: da de Brouckère, per il quale «il problema della pace si trova ad essere in ultima analisi un problema d’opinione»[111], dal delegato americano H.F. Ward, presidente della Lega americana contro la guerra e il fascismo, che, pur astenendosi anch’egli da riferimenti alla situazione spagnola, pronunciò un intervento coerente con le sue convinzioni antifasciste[112] e infine da Marcel Cachin, presente al congresso come «osservatore», dell’Internazionale comunista. Nel suo intervento il dirigente comunista francese elencò puntigliosamente tutta una serie di citazioni da scritti o discorsi di Hitler e di Mussolini, senza peraltro nominarli, in cui la guerra era elogiata ora come «igiene del mondo», ora come equivalente mascolino della maternità e la pace considerata come «un’utopia degradante e deprimente»[113]. Erano costoro i soli fomentatori di guerra, di tutte le guerre, quella «delle razze» e della stessa «guerra civile», e contro di essi occorreva mobilitare tutte le forze di pace. Marcel Cachin concludeva il suo intervento con un saluto a «tutti coloro che attraverso il mondo cadono eroicamente nella lotta per la pace»[114]. Certo il suo era un discorso più trasparente di quello di Švernik nella seduta inaugurale e i riferimenti al fascismo e alla Spagna erano anch’essi trasparenti. Tuttavia anch’egli, convinto assertore della linea del VII Congresso, non se la sentì di andar oltre e si limitò ad utilizzare i non grandi margini di libertà che gli accordi presi gli consentivano.

La «Carta della pace» approvata al termine dei lavori riproduceva i quattro punti del memorandum Cecil e, a parte una condanna generica dell’aggressione, non conteneva alcun impegno preciso. Non vi si faceva menzione né della SDN né della sicurezza collettiva, né tanto meno della Spagna[115]. Ancor più generico era il «giuramento di pace» che venne approvato al termine di una grande festa pubblica che si tenne domenica 6 settembre allo stadio Heysel[116], nel corso della quale parlarono Noel Baker, Cachin, de Brouckère e lo scrittore sovietico A. Tolstoi. Neppure in questa occasione fu data la parola a un rappresentante della Spagna repubblicana.

Tutto era andato dunque secondo le previsioni e Lord Cecil poteva rallegrarsi in un articolo di commento ai lavori del Congresso che «non una frase provocatrice fosse partita dalla presidenza» e che «non una critica diretta a un paese o a un governo non rappresentato al Congresso fosse venuta dall’audience»[117]. Meno compiaciuti furono invece i commenti di parte comunista: la Segreteria dell’Internazionale comunista nella seduta del 9 settembre, udita la relazione di Švernik e di Šmeral, pur esprimento la sua soddisfazione per la «serie di importanti e positivi risultati» ottenuti a Bruxelles, non mancava di aggiungere che ai fini di un consolidamento dell’unità raggiunta era necessario che «i difensori coerenti della pace ponessero con la massima forza il problema concreto dell’aggressore senza tollerare a questo riguardo alcuna limitazione del movimento»[118]. Analogo nella sostanza era il commento della «Pravda» che attribuiva particolare rilievo alle proposte di Švernik circa l’unità sindacale e le sanzioni proletarie, senza peraltro far cenno alla fredda accoglienza che esse avevano ricevuto[119]. Meno compiaciuto ancora il commento di Gabriel Péri, che fu il solo a far cenno della calorosa accoglienza che il Congresso aveva riservato alla delegazione spagnola[120]. Ma non era, come avremo modo di vedere tra breve, il solo a nutrire delle perplessità.

Il congresso mondiale per la pace della gioventù

Dal 31 agosto al 6 settembre, contemporaneamente al congresso di Bruxelles, si svolgeva a Ginevra, sotto l’egida della SDN, il congresso mondiale per la pace della gioventù con la partecipazione di 500 delegati provenienti da 40 paesi, un congresso che per molti aspetti presenta parecchie analogie con l’assise della capitale belga[121]. Esaurita la seduta inaugurale, nel corso della quale parlarono il presidente del congresso Rollin e, a nome del governo cantonale di Ginevra, Nicole[122], all’inizio effettivo dei lavori il presidente di turno tenne subito a mettere in chiaro che non sarebbero stati espressi «attacchi o critiche» verso alcuna nazione e alcun governo[123] e, almeno a quanto risulta dagli scarni resoconti a nostra disposizione, tale consegna venne rispettata. La rispettò Norman Angell, che aprì la serie delle relazioni trattando del problema dell’organizzazione della pace e che si limitò a fornire un exposé delle idee da lui svolte nella recente rielaborazione della Grande illusione e in altri suoi scritti e interventi[124]. Altrettanto fecero i successivi relatori, il francese René Cassin, che trattò il tema della sicurezza collettiva e del disarmo[125] e P.M. Martin, un esponente del BIT, che dedicò la sua relazione ai problemi economico-sociali del mondo contemporaneo[126]. E altrettanto fece anche A.V. Kossarev, il capo della delegazione sovietica giunta a Ginevra quando il congresso era già iniziato a causa delle difficoltà che gli erano state fatte per il rilascio dei visti. Il suo intervento in assemblea plenaria, se si prescinde dalla esaltazione che egli fece delle conquiste materiali e culturali realizzate nel suo paese, fu estremamente controllato e allineato sulle posizioni che la delegazione sovietica presso la SDNveniva sostenendo[127]. Kossarev non fece cenno della guerra civile spagnola, anche se un «saluto di lotta» alla gioventù eroica di Spagna era contenuto nella lista delle parole d’ordine messe a punto dal Komsomol in vista del congresso ginevrino[128]. Anche gli altri delegati comunisti presenti nelle varie delegazioni nazionali, come ad esempio il francese Granjon[129], evitarono di fare espliciti riferimenti all’attualità. In quanto ai giovani comunisti italiani, essi fecero ancora di più, comunicando alla presidenza che essi rinunciavano a partecipare come delegati al congresso, limitandosi al ruolo di «osservatori», per non creare ostacoli alla prevista partecipazione di una delegazione della gioventù fascista italiana, che alla fine però non si presentò a Ginevra[130]; un eccesso di zelo che non si può spiegare altrimenti che alla luce dell’appello ai «fratelli in camicia nera» lanciato proprio in quel torno di tempo dal PCNI[131]. Meno cauto, come già a Bruxelles, fu il delegato cinese, che chiamò in causa la responsabilità delle grandi potenze e della SDN per l’invasione della Manciuria [132]e, sul versante opposto, la delegata polacca che pronunciò un intervento di chiaro timbro nazionalista[133]. Più vivace — ancora un’analogia con Bruxelles — fu invece il dibattito che si svolse nelle commissioni e in particolare in quella politica. Il tema della pace fu naturalmente al centro della discussione ed esso dette luogo a un serrato confronto tra i delegati cattolici, tra i quali Emmanuel Mounier, e i delegati marxisti, tra i quali Ambrogio Donini. Le posizioni rimasero distanti, ma una certa convergenza fu realizzata nel rifiuto del concetto di pace come «evasione dell’individuo in un sogno tranquillo e poltrone» tipica del «pacifismo borghese» e nell’accettazione per contro di una pace intesa come «conquista» e come «ideale eroico». Forse, parlando di «pace eroica», sia Mounier che Donini avevano in mente la Spagna[134]. Non mancarono in questa sede neppure affrontamenti e scontri, quale quello che vide contrapposti alcuni delegati cattolici svizzeri e belgi e la delegazione sovietica a proposito del problema della libertà religiosa in URSS[135]. Volarono parole grosse, ma il clima del congresso si ricompose quando esso tornò a riunirsi in assemblea generale.

A differenza di quanto era accaduto a Bruxelles, a Ginevra i delegati spagnoli poterono prendere la parola. La loro delegazione, della quale faceva parte un giovane operaio metallurgico ferito di recente sul fronte di Guadarrama, fu accolta al suo apparire in sala da una tempesta di applausi e l’intervento di un suo componente nella seduta inaugurale sollevò una tale ovazione da costringere il presidente di turno a precisare che il consenso così calorosamente manifestato non doveva essere interpretato come una presa di posizione politica[136]. Gli spagnoli, per bocca del comunista M. Atzcarate, parlarono anche nella seduta conclusiva, accolti anche in questa occasione da applausi prolungati. Tuttavia, a quanto è dato di capire dal succinto resoconto della «Rundschau», anche Atzcarate dovette moderare il suo linguaggio e tener conto delle circostanze[137]. Comunque quel tanto di dibattito che si era avuto nel corso del Congresso non lasciò tracce nei documenti finali, che furono approvati alla quasi unanimità, e l’appello alla gioventù del mondo, con la cui approvazione l’assise ginevrina si concluse, non andava oltre i termini di uno scontato embrassonsnous[138].

La conferenza del Comitato Amsterdam-Pleyel

Ma in quello scorcio dell’estate 1936, la serie dei congressi per la pace non era ancora finita. L’8 e il 9 settembre si tenne infatti a Parigi una nuova conferenza del Comitato Amsterdam-Pleyel[139] e in questa occasione quelli tra i partecipanti che erano reduci da Bruxelles o da Ginevra poterono dare libero sfogo alle loro convinzioni. Se a Bruxelles la Spagna era stata un argomento tabù e se a Ginevra i delegati spagnoli avevano dovuto accontentarsi degli applausi ed era mancata loro una concreta solidarietà politica, a Parigi, nella capitale del fronte popolare, il problema spagnolo dominò letteralmente i lavori dell’assemblea. Lo si capì subito quando la delegazione spagnola, capeggiata dalla Pasionaria, fece il suo ingresso nella sala accolta da una tempesta di applausi[140] e lo si constatò meglio nel prosieguo dei lavori.

La relazione principale era stata affidata a Georg Branting e la scelta non era stata certo casuale o dettata solo da motivi di opportunità politica, che certo esistevano. Branting era infatti reduce dalla Spagna, alla quale dedicò interamente la sua relazione. Egli si preoccupò anzitutto di smentire le affermazioni della stampa conservatrice e filofascista, secondo la quale nella Spagna repubblicana avrebbe regnato il caos. Certo — egli osservava — in essa era in corso un processo di profonde trasformazioni sociali, ma si trattava di quelle stesse trasformazioni che da tempo i socialdemocratici svedesi avevano realizzato nel loro paese[141]. Era vero invece che il governo repubblicano disponeva di un armamento assai inferiore a quello dei ribelli e che la Spagna si trovava perciò di fronte alla tragica prospettiva di essere «derubata» della possibilità di farla finita con la ribellione militare. A questo spettacolo — continuava Branting — l’Europa si limitava ad assistere, sanzionando così di fatto un «nuovo diritto», quello «alla sollevazione contro la democrazia»[142]. Egli non affrontava di proposito la questione dell’embargo sulle forniture militari, ma si pronunciava decisamente per ogni altra forma di aiuto e sollecitava con calore la solidarietà della classe operaia di tutti i paesi «in questa lotta comune tra fascismo e socialismo». Branting concludeva, applauditissimo, la sua relazione con un «no pasaran»[143].

Gli oratori che presero la parola nel dibattito mostrarono di condividere senza eccezione i concetti espressi dal relatore. È il caso degli interventi dell’americano Ward, dell’inglese Bernal e di Heinrich Mann[144]. Taluni si spinsero anche più in là: Cudenet ad esempio si espresse chiaramente a favore della cessazione dell’embargo sulle forniture militari alla Spagna repubblicana[145] e il ginevrino Nicole, riferendosi esplicitamente alle affermazioni pacifiste del Congresso di Bruxelles, giunse ad affermare che la guerra di cui si paventava l’approssimarsi era già in atto e che «noi vi siamo dentro»[146]. Il delegato spagnolo Marcelino Domingo si disse d’accordo con lui: «La guerra contro la Spagna — egli affermò — è il preambolo della guerra contro tutti i paesi democratici. Le trincee per la libertà della Spagna sono le trincee in cui si difende la democrazia mondiale»[147].

In una siffatta impostazione erano impliciti i rischi di ogni fuga in avanti. Se la guerra civile spagnola era l’inizio, anzi un episodio della seconda guerra mondiale, era difficile sottrarsi alla logica dell’«à la guerre comme à la guerre». Se la lotta per la pace era ormai perduta, non rimaneva da combattere che la «lotta contro la guerra», la trasformazione della guerra civile in guerra rivoluzionaria a scala mondiale. È questa la conclusione cui perverrà un altro convegno «socialista-rivoluzionario» che si terrà a Bruxelles tra la fine d’ottobre e i primi di novembre con la partecipazione di vari gruppi e gruppuscoli dell’estrema sinistra europea e del POUM spagnolo ed i cui atti vennero pubblicati appunto sotto il titolo Vers un socialisme mondial[148]. Ma i rischi impliciti nelle ambiguità di Ginevra e nei silenzi di Bruxelles non erano certo minori. Consapevoli entrambi di questi rischi, la sinistra e il pacifismo europeo non riuscivano a trovare un linguaggio e una linea d’azione comuni.

NOTE

[1] Rinvio per questo al mio lavoro II socialismo internazionale e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 51 sgg. e 207 sgg.

[2] Cfr. Birn, D.S., The League of Nation’s Union. 1918–1945, Oxford Clarendon Press, 1981, p. 173.

[3] Ho ricostruito questa vicenda nel citato lavoro sul socialismo internazionale e la guerra d’Etiopia, pp. 186–187.

[4] Cfr. «Rundschau», 28 novembre 1935, pp. 2680–2682, dove è riportato il discorso di Švernik.

[5] Ricavo queste notizie dalla intestazione delle lettere del Rassemblement universel de la paix, in cui è riprodotta la lista delle adesioni, e dal verbale della riunione del Bureau parisién del Rassemblement stesso del 13 febbraio 19936 conservata in ATUC, F.D., b. 99 906.93, che contiene la documentazione relativa al Rassemblement. Ringrazio il dott. Claudio Natoli per aver messo a mia disposizione le fotocopie della documentazione da lui reperita presso l’archivio del TUC (ATUC).

[6] Ibid.; Pouderoux a Citrine, 22 gennaio 1936.

[7] Cfr. Procacci, cit., pp. 186–187.

[8] ATUC, F.D., b. 99 906.93; Citrine a Schevenels, 27 gennaio 1936.

[9] Ibid.; Schevenels a Citrine, 30 gennaio 1936.

[10] Ibid.; Noel Baker a Citrine, 15 febbraio 1936.

[11] lbid.; Pouderoux a Citrine, 18 febbraio 1936.

[12] Ibid.; la riunione con Gillies ebbe luogo il 21 febbraio. Nel corso di essa Launay avrebbe dato assicurazioni che l’iniziativa del Rassemblement «arose in no way from the communists» e che Dolivét non era un comunista.

[13] Ibid.; Citrine a Schevenels, 19 febbraio 1936.

[14] Ibid.; Noel Baker a Citrine, 18 febbraio 1936.

[15] Ibid.; Schevenels a Citrine, 3 marzo 1936.

[16] La lista completa delle adesioni si trova nell’opuscolo Le monde entier pour la paix edito a cura del RUP nel febbraio 1936. Tra i nomi più illustri segnaliamo quelli del Mahatma Gandhi, del Presidente Benes (che peraltro già figurava tra i promotori sin dall’inizio), del presidente Azaña e di Federico García Lorca, di Venizelos, di Heinrich Mann e del socialista olandese Albarda.

[17] Storia dell’Internazionale comunista, edita dall’Istituto di Marxismo-leninismo presso il CC del PCUS, Mosca, 1974, p. 439.

[18] II testo della risoluzione è in Agosti, A., La Terza Internazionale. Storia documentaria, Roma, Editori Riuniti, 1979, vol. III, t. 2, pp. 999–1010. Il passo qui citato è a p. 1006.

[19] L’adesione di Lord Cecil, il quale acconsentì a presiedere il comitato organizzativo inglese del RUP ebbe luogo nella seconda metà di marzo. È quanto si ricava da una lettera di Dame A. Livinstone a Citrine del 31 marzo in ATUC, B.D., b.99 906.93.

[20] II testo del memorandum Cecil è in ATUC, B.D., b.99 906.93.

[21] II testo del memorandum Noel Baker, che reca la data del 21 aprile 1936, è in ATUC, F.D. b.99 906.93.

[22] II verbale della riunione ginevrina del 27–28 aprile è in AIISG, fondo RUP, fase. 7.

[23] La lettera di Adler a Gillies è in ATUC, B.D., b.99, 906.93.

[24] Cfr. «Informations internationales», 23 maggio 1936 (vol. XIII, n. 17), p. 163.

[25] Cfr. Tobia, B., Pietro Nenni e la politica dell’Internazionale Operaia e socialista (1930–1939), in L’Internazionale Operaia e socialista tra le due guerre, a cura di Collotti, E., «Annali» della Fondazione G.G. Feltrinelli, a. XXIII, Milano, 1985, p. 151.

[26] II consiglio generale del TUC declinò formalmente l’invito della LNU con una lettera del 1° aprile 1936 (ATUC, B.D., b.99 906.93). Dal canto suo, come apprendiamo da una lettera del suo assistente segretario G. Stolz a Citrine, la FSI prese una decisione analoga il 25 maggio.

[27] II testo dell’appello è nell’opuscolo Une idée fait son chemin edito dal RUP in preparazione del congresso di Bruxelles, s.l.n.d., pp. 20–21.

[28] Cfr. l’articolo sul congresso mondiale per la pace di L. Wolinski in «Rundschau», 25 giugno 1936, pp. 1150–1151.

[29] Cfr. Une idée fait son chemin, cit., p. 12–13, dove è data notizia della decisione dei sindacati sovietici di costituire un Comitato nazionale del RUP.

[30] L’editoriale, che fu pubblicato da «Die Kommunistische Internationale», 1936, pp. 491–500, fu anticipato dalla «Rundschau», 4 giugno 1936, pp. 1013–1016.

[31] Ibid., p. 1015.

[32] Cfr. Gross, B., Willy Münzenberg. Eine politische Biographie, Grankfort am Main-Wien-Zürich, 1969, p. 296.

[33] Humbert-Droz, J., Mémoires. Dix ans de lutte antifasciste, 1931–1941, Neuchätel, 1972, vol. III, pp. 173–175.

[34] Jourdain, F., De la clarté, in Agir dans la clarté. La conference plenière du Secretariat du comité mondial contre la guerre et le fascismo (6–7 juin 1936), Paris, Bureau d’Editions, 1936, pp. 7–8.

[35] Angell, N., De la clarté dans notre propagande pour assurer la paix in Agir dans la clarté, cit., pp. 9–13.

[36] Ibid., p. 56. La citazione è tratta da un secondo intervento di Angell (C’est une politique anglo-française qui sauvera l’Europe), pronunciato nel corso della stessa assemblea plenaria.

[37] Ibid., pp. 52–53.

[38] Ibid., p. 35.

[39] Ibid., p. 23 e 30, rispettivamente per l’intervento di Cudenet e di Nenni.

[40] Ibid., p. 61.

[41] Ibid., p. 29.

[42] Ibid., p. 58.

[43] Ibid., pp. 36–41, dove è riportato l’intervento di Münzenberg.

[44] La lutte pour la paix. Lettre ouverte à tous les amis de la paix, Paris, Bureau d’editions, 1936, p. 15–16.

[45] Ibid., p. 5 e p. 16.

[46] Cfr. Gross, Willy Münzenberg, cit.

[47] II Comitato Amsterdam-Pleyel aderì al RUP soltanto ai primi di giugno. Lo si ricava tra l’altro da una relazione di Adami (R. Cocchi) del 1° giugno 1936 in cui si dice che: «Pleyel… fino a pochi giorni fa non faceva parte del comitato d’iniziativa del Congresso». La relazione Adami, che contiene interessanti valutazioni sul Congresso, è in APC fase. 1393, ff. 110–112.

[48] La lutte pour la paix. Lettre ouverte, cit., p. 14.

[49] Tutte le notizie relative alla riunione parigina del Consiglio generale del RUP riportate qui di seguito sono tratte dal verbale conservato in AIISG, fondo RUP, fase. 8.

[50] In particolare lo spagnolo Alvarez del Vayo propose di limitare gli inviti a quei paesi in cui fosse possibile «una propaganda aperta e libera in favore della pace» e in cui fosse ammessa la diffusione pubblica e legale dei documenti del RUP. Inoltre si richiedeva che le elezioni dei delegati fossero pubbliche e che ci si impegnasse al rispetto dei 4 principi e del principio della sicurezza collettiva. Cfr. Ibid., f. 12 del processo verbale della seduta antimeridiana del 12 giugno.

[51] In realtà sembra che Einstein non ricevesse alcun invito. È quanto per lo meno si ricava dalla sua lettera del 12 agosto 1936 a un corrispondente austriaco, Hans Thirring, che gli aveva scritto per sollecitare il suo interesse nei confronti del Congresso esprimendo l’opinione che sarebbe stato utile che ad esso prendessero parte anche rappresentanti provenienti da stati fascisti. Nella lettera in questione Einstein affermava di non esser stato invitato e comunque di non proporsi di partecipare al congresso. Egli precisava inoltre di ritenere opportuno che nel corso del congresso non si attaccassero apertamente gli stati fascisti, ma esprimeva la propria contrarietà a che questi ultimi fossero rappresentati (Einstein on Peace, cit., pp. 272–273).

[52] Ibid., f. 13 del processo verbale.

[53] Cfr. Birn, cit., p. 173.

[54] Sulla questione della sede del Congresso si discusse nella seduta del 12 giugno. Si veda il citato processo verbale, ff. 3–11.

[55] Della questione dei possibili oratori si discusse nella seduta pomeridiana del 13 giugno. Si veda il f. 1 del relativo processo verbale.

[56] Anche il testo di questa dichiarazione è allegato ai documenti sulla riunione del consiglio generale del 12–13 giugno.

[57] Un resoconto della manifestazione svoltasi il 12 sera nello stadio Buffalo di Parigi è in «Rundschau», 18 giugno 1936, pp. 1110–1111. Il discorso di Švernik vi è riportato integralmente.

[58] Russell, B., Autobiografia, voi. II, p. 440.

[59] Russell, B., Which way to peace?

[60] Cfr. Bilis, M., Socialister et pacifista, où l’mpossible dilemme des socialistes français, Paris, Syros, 1979, p. 178 sgg.

[61] Racine Furlot, N., Le Comité de Vigilance des Intellectuels antifascistes 1934–39. Antifascisme et pacifisme, «Le Mouvement social», 1977, n. 101.

[62] L’organo degli intellettuali antifascisti che abbandonarono il Comité de vigilance fu «Clarté. Revue mensuelle du Comité mondial contre la guerre et le fascisme». Il suo primo numero, aperto da un editoriale di Romain Rolland, fu pubblicato nell’agosto 1936 e conteneva scritti di N. Angeli, G. Péri, P. Nizan, G. Branting e R. Maublanc. Lo scritto di Nizan era dedicato esplicitamente alla Spagna.

[63] Maublanc, R., Le pacifisme et les intellectuels, Paris, Bureau d’editions, 1936.

[64] Cecil Viscount (Lord Robert Cecil), A great experiment. An autobiography, London, p. 286.

[65] Cfr. Bachofen, M., Lord Robert Cecil und der Vöolkerbund, Zürich, 1959.

[66] Cfr. Birn, cit., pp. 172–173.

[67] Churchill, W., La seconda guerra mondiale, Da guerra a guerra, parte I, vol. I, Milano, 1953.

[68] Cfr. Mancini, M., La politica internazionale del laburismo inglese nella seconda metà degli anni Trenta (marzo 1936-settembre 1939), in «Storia contemporanea», ottobre 1980, pp. 747–857.

[69] Cfr. Birn, cit., p. 176.

[70] Cfr. «Rundschau», 27 agosto 1936, p. 1587.

[71] Ibid., 3 settembre 1936, pp. 1641–1642.

[72] «Die kommunistische Internationale», settembre 1936, pp. 933–935.

[73] AIISG, fondo RUP, 8.

[74] Quanto segue è ricavato dal verbale delle riunioni del Comitato esecutivo del 20 luglio e del Consiglio generale del 21 e 22 luglio conservati in AIISG, fondo RUP, 9.

[75] Rassemblement universel pour la paix, Congrès universel pour la paix (Bruxelles, 3–4–5–6 septembre 1936), Paris-Bruxelles, Editions «Labor», s.d., p. 215.

[76] Dalla lista dei delegati annessa agli atti ufficiali del Congresso non risulta la presenza di alcun italiano. Dal resoconto de «La correspondance internationale», 13 settembre 1936, p. 1176 risulta invece che Sereni fu «rapporteur » nella commissione agraria. Risulta altresì dalla relazione tenuta da Brandini nella riunione dell’ufficio politico del PCI del 19 settembre 1936 che, in una sede non precisata, avrebbe parlato anche Miglioli (APC, fase. 1358, if. 161).

[77] «Rundschau», 3 settembre 1936, pp. 1641–1642.

[78] II testo del regolamento è in Premier Congrès. 3–6 septembre 1936. Palais du Centemire. Bruxelles. Programme des travaux, s.l.n.d., p. 6.

[79] «Rundschau», 10 settembre 1936, p. 1690.

[80] Congrès universel pour la paix, cit., p. 28, dove è riprodotto il testo del messaggio degli scrittori sovietici.

[81] Ibid., p. 18.

[82] Ibid., pp. 21–22.

[83] Ibid., p. 215.

[84] Ibid., p. 33; «Rundschau», 10 settembre 1936, p. 1705.

[85] Ibid., p. 34; «Rundschau», pp. 1705–1706 dà un resoconto più breve.

[86] Ibid., p. 35.

[87] Ibid.

[88] Ibid., p. 37.

[89] Ibid., pp. 39–42; «Rundschau» cit., p. 1706.

[90] «Rundschau», cit., p. 1706.

[91] «The new Statesman and Nation», 12 settembre 1936, pp. 342–343.

[92] Congrès universel pour la paix, cit., pp. 43–46.

[93] Ibid., pp. 47–51.

[94] Ibid., pp. 52–56. Il discorso di Svernik è riportato integralmente in «Rundschau», cit., p. 1707–1708.

[95] Ibid., pp. 61–63.

[96] Ibid., pp. 68–70.

[97] Ibid., pp. 74–76.

[98] Ibid., pp. 80–82.

[99] Ibid., pp. 92–95.

[100] Cfr. in proposito Procacci, cit., passim e in particolare pp. 123 sgg.

[101] Congrès universel pour la paix, cit., pp. 95–96.

[102] Ibid., pp. 96–97.

[103] L’intervento di Menon non è riportato nel protocollo ufficiale. Ad esso fa cenno il resoconto di «Rundschau» cit., p. 1712.

[104] Anche l’intervento di Gossip non è riportato dal protocollo ufficiale, ma di esso si fa cenno in «Rundschau» cit., p. 1712.

[105] Cfr. Congrès universel pour la paix, cit., pp. 97–98.

[106] «The new Statesman and Nation», 12 settembre 1936, p. 343.

[107] Viscount, C., A Great experiment, cit., p. 285.

[108] La replica di Pollit all’articolo di Critic è in «New Statesman and Nation», 19 settembre 1936, p. 386.

[109] II testo del discorso di apertura di Lord Cecil non è riportato nel resoconto ufficiale. Vi accenna «Rundschau», cit., pp. 1172–1173.

[110] Congrès universel pour la paix, cit., pp. 183–186.

[111] Ibid., pp. 187–188.

[112] lbid., pp. 194–195.

[113] Ibid., pp. 190–193; cfr. anche «Rundschau» cit., pp. 1173–1174.

[114] Ibid., p. 193.

[115] Ibid., pp. 197–198.

[116] Ibid., p. 202.

[117] Ibid., p. 203.

[118] II testo della risoluzione è in Agosti, cit., vol. III, 2, pp. 1011–1015.

[119] «Rundschau», 10 settembre 1936, pp. 1690–1691.

[120] Ibid., pp. 1689–1690.

[121] Un resoconto del congresso della gioventù per la pace di Ginevra è in «Rundschau», 3 settembre 1936, pp. 1670–1672 e 17 settembre 1936, pp. 1766–1769.

[122] Ibid., p. 1670.

[123] Ibid.

[124] Ibid., p. 1671.

[125] Ibid.

[126] Ibid.

[127] II testo dell’intervento di Kossarev è riportato integralmente in «Rundschau», 3 settembre 1936, pp. 1715–1717.

[128] II testo delle parole d’ordine del Komsomol è riprodotto in «Rundschau», 3 settembre 1936, pp. 1672–1673.

[129] Ibid., pp. 1671–1672.

[130] Ibid., 17 settembre 1936, p. 1768. La notizia è confermata dal resoconto che, a firma G. Ferri, la rivista «Lo Stato operaio» pubblicò del Congresso di Ginevra nel numero di ottobre del 1936, pp. 717–719 e dal verbale dell’ufficio politico del PCI del 19 settembre 1936 in APC, fase. 1358/158–162.

[131] Cfr. Spriano, P., Storia del partito comunista italiano, vol. III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, 1970, pp. 95–112.

[132] Cfr. «Rundschau», 3 settembre 1936, p. 1671.

[133] Ibid

[134] Cfr. «Lo Stato operaio», ottobre 1936, p. 719.

[135] Cfr. «Rundschau», 17 settembre 1936, pp. 1767–1768.

[136] Ibid., 3 settembre 1936, p. 1670.

[137] Ibid., 17 settembre 1936, p. 1768.

[138] Ibid., pp. 1768–1769.

[139] Un resoconto della conferenza è in «Rundschau», 17 settembre 1936, pp. 1762–1764.

[140] Ibid., p. 1762.

[141] Ibid., p. 1763.

[142] Ibid

[143] Ibid

[144] Ibid., p. 1764.

[145] Ibid., p. 1763.

[146] Ibid

[147] Ibid., p. 1764.

[148] Vers le socialisme mondial. La Révolution espagnole. L’action contre la guerre, le fascisme et l’imperialisme. Compte-rendu du Congrès socialiste- révolutionnaire de Bruxelles (31 octobre — 2 novembre 1936), Londra, 1937.

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet