Che cos’è tedesco?

di Theodor Adorno

Mario Mancini
17 min readNov 12, 2019

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [novembre 2019]

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Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, “Goethe nella campagna romana”, 1787, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut

Titolo originale: Auf die Frage: Was ist deutsch. Intervento all’omonima serie di trasmissioni della Deutschlandfunk (Radio Tedesca), 9 maggio 1965; in “Liberal”, n. 8, anno VIII, agosto 1965, p. 470 e sgg.

“Cos’è tedesco?” A questa domanda non posso rispondere subito. Innanzitutto bisogna riflettere sulla domanda stessa. Grava su di essa il peso di quelle presuntuose definizioni, che fan passare per peculiarmente tedesco non ciò che lo è, bensì ciò che si desidera che lo sia. L’ideale inevitabilmente tende la mano all’idealizzazione. Già solo dal punto di vista puramente formale, quella domanda pecca contro le esperienze irrevocabili degli ultimi decenni, perché rende autonoma l’essenza collettiva “tedesco”, da cui poi si deve determinare ciò che la caratterizza. L’immagine della collettività nazionale, tuttavia, di solito, nell’orrendo gergo di guerra che parla dei russi, degli americani, certamente anche dei tedeschi, obbedisce a una coscienza reificata, del tutto incapace di vivere autentiche esperienze umane. Tale immagine si mantiene dunque nell’ambito di quegli stereotipi che dovrebbero appunto essere eliminati dal pensiero. È dubbio se esista in generale qualcosa come il tedesco, o ciò che è tedesco, o qualsiasi cosa del genere con riferimento ad altre nazioni. Il vero e il meglio di ogni popolo è certamente, anzi, ciò che non si adegua al soggetto collettivo, e magari gli si contrappone. Invece l’immagine stereotipa favorisce il narcisismo collettivo. Ciò con cui ci si identifica, l’essenza del proprio gruppo, diventa improvvisamente il bene; il gruppo estraneo, gli altri, diventano i cattivi. Altrettanto accade poi, inversamente, dell’immagine che del tedesco si fanno gli altri. Poiché tuttavia sotto il nazionalsocialismo l’ideologia della superiorità del soggetto collettivo a spese di qualsiasi realtà individuale ha provocato il male estremo, in Germania è addirittura doppia la ragione per guardarsi dalla ricaduta nella stereotipia dell’auto incensamento.

In questi ultimi anni si sono manifestate proprio tendenze di questo tipo. Esse sono rimesse in vita dalle questioni politiche connesse alla riunificazione, alla linea Oder-Neisse, anche da parecchie rivendicazioni degli esuli; un più ampio pretesto lo offre il rispetto internazionale — in verità esistente solo nella sua immaginazione — che il tedesco vuol ottenere, o una non meno fittizia mancanza di quel sentimento nazionale di sé, che alcuni volentieri vorrebbero di nuovo stimolare. Senza che ci se n’accorga, a poco a poco si forma un clima che rigorosamente proibisce e disprezza ciò che sarebbe invece sommamente necessario: l’auto coscienza critica. Di nuovo si sente citare il funesto adagio dell’individuo che parla male di casa propria mentre i tipi che gracchiano su quell’individuo di solito non si discostano dalla norma per cui “cane non mangia cane”. Non sono poche le questioni su cui quasi tutti proibiscono a se stessi di esprimere la loro vera opinione, in vista delle conseguenze che ciò potrebbe avere. Ben presto accade così che tale considerazione delle conseguenze si renda indipendente dall’istanza interiore di censura, che in definitiva non solo impedisce l’estrinsecazione dei pensieri scomodi, ma blocca la formazione di questi stessi pensieri. Poiché l’unificazione tedesca è storicamente riuscita solo troppo tardi, ed è precaria e instabile, si ha la tendenza — allo scopo di sentirsi in generale come nazione — a fare un uso eccessivo e spesso infondato della coscienza nazionale, e a punire irritati ogni deviazione. In tal modo si regredisce poi facilmente a stadi arcaici dell’essere preindividuale, a una coscienza della “razza”, cui ci si può appellare psicologicamente con tanta maggior energia quanto meno essa mostra di esistere effettivamente oggi. Il sottrarsi a tali tendenze regressive, il diventare maggiorenni, il guardare in faccia la propria condizione storica e sociale e quella internazionale; questo dovrebbe essere proprio il compito di coloro che si richiamano all’autentica tradizione tedesca: quella di Kant. Il suo pensiero è incentrato sul concetto di autonomia, di autoresponsabilità come facoltà precipua dell’individuo razionale, invece che su quei ciechi rapporti di dipendenza, da cui uno viene a essere impregnato fin dalle fondamenta se soggiace al prepotere irriflesso di ciò che è nazionale. Solo nei singoli individui si attua, secondo Kant, l’universale di ragione. Se si volesse rendere giustizia a Kant come testimone principale della tradizione tedesca, questo significherebbe rifiutare il coinvolgimento nella situazione coatta dell’asservimento collettivo e dell’autoidolatria. Invero coloro che a gran voce rivendicano Kant, Goethe e Beethoven come il “bene tedesco”, sono normalmente coloro che hanno ben poco a che fare con l’intrinseco significato del contenuto delle loro opere. Le registrano infatti come possesso, e invece ciò che essi insegnarono e crearono impedisce proprio la trasformazione degli uomini in una condizione di ossessione fanatica. La tradizione tedesca viene offesa da coloro che la neutralizzano riducendola a bene culturale al tempo stesso ammirato e non vincolante. Chi tuttavia non sa nulla della trasformazione in vincolo morale di quelle idee, di cui, imbalsamandole, vanifica il significato, viene subito fatto oggetto di indignazione, qualora si azzardi a esprimere anche solo una parola critica su un grande nome che si vorrebbe requisire e sfruttare come intoccabile articolo di marca tedesca. Con ciò non è detto che gli stereotipi siano privi di qualsiasi verità. Si ricordi la celebre formula del narcisismo collettivo tedesco, la wagneriana: deutsch sein heisst, eine Sache um ihrer selbst willen tun [essere tedesco vuol dire fare una cosa per se stessa]. Innegabile la sicurezza di sé della massima, senza contare il suono armonico imperialistico, che contrappone la pura volontà dei tedeschi al presunto spirito da bottegai soprattutto degli anglosassoni. Rimane vero, tuttavia, che il rapporto di scambio, l’estensione del carattere di merce a tutte le sfere, anche a quella dello spirito — il fenomeno cioè che si designa a livello popolare col termine di “commercializzazione” –, nell’ultima parte del diciottesimo secolo e nel diciannovesimo in Germania non era così progredito come nei paesi caratterizzati da uno stadio di capitalismo avanzato. Questo conferì almeno alla produzione spirituale qualche forza di resistenza. Essa concepì se medesima come un in sé, non solo come un essere per qualcos’altro e per qualcun altro, non cioè come oggetto di scambio. Il suo modello non fu l’imprenditore che agisce secondo le leggi del mercato, bensì piuttosto il funzionario che adempie al suo dovere nei riguardi dell’autorità. In Kant ciò è stato spesso rilevato. Nella teoria di Fichte dell’azione come fine a se stessa, ha poi trovato la sua espressione teoretica più conseguente. Quel che c’è di vero in quello stereotipo, si dovrebbe forse studiare nel caso di Houston Stewart Chamberlain, il cui nome e la cui evoluzione sono connessi con gli aspetti più nefasti della moderna storia tedesca, con quello “popolare” nel senso razzista del termine [volkisch] e antisemita. Potrebbe essere proficuo riuscir a capire il processo attraverso il quale quell’inglese conquistato dagli usi tedeschi approdò alla sua sinistra funzione politica. Il suo carteggio con la suocera Cosima Wagner fornisce il materiale più ricco a questo scopo. Chamberlain fu originariamente un uomo distinto, raffinato, sensibile, estremamente suscettibile nel reagire alla scaltrezza furfantesca della cultura commercializzata. Lo attirò in Germania in generale, e in particolare a Bayreuth, il rifiuto là proclamato dell’esigenza commerciale. La colpa del fatto che egli diventò un demagogo razzista la porta non tanto la sua malvagità naturale, e neppure la sua debolezza nei riguardi di Cosima, paranoicamente avida di potere, quanto piuttosto la sua ingenuità. Chamberlain intese in senso assoluto ciò che amava della cultura tedesca, in confronto al capitalismo, che era giunto al totale dispiegamento di sé nella sua patria. Vi scorse una qualità naturale immutabile, non il risultato di processi di evoluzione sociale svoltisi in tempi diversi. Ciò lo condusse senza salti a quelle concezioni razziste, che ebbero poi conseguenze incomparabilmente molto più barbariche di quell’essenza impoetica, della quale egli avrebbe voluto liberarsi.

Anche se è vero che senza quel “per se stessa” per lo meno la grande filosofia tedesca e la grande musica tedesca non sarebbero potute esistere — ma importanti poeti dei paesi occidentali hanno opposto non meno resistenza al mondo deformato dal principio di scambio –, peraltro questa non è tutta la verità. Anche la società tedesca era, ed è, una società fondata sullo scambio, e il fare qualcosa per se stessa non è così puro come viene stilizzato in quella massima. Dietro a ciò si nascondeva piuttosto anche un “per altro”, anche un interesse che non si esaurisce affatto nella cosa stessa. Solo che era non tanto l’interesse individuale, quanto piuttosto la subordinazione dei pensieri e delle azioni allo stato, l’espansione del quale doveva innanzitutto procurare appagamento all’egoismo temporaneamente frenato dai singoli individui. Le grandi concezioni tedesche in cui l’autonomia, il puro “per se stesso”, viene esaltato in modo così esagerato, erano in tutto e per tutto pronte anche alla deificazione dello Stato; la critica dei paesi occidentali ha sempre ripetutamente insistito su questo fatto, in modo però altrettanto unilaterale. La superiorità e priorità dell’interesse collettivo rispetto agli interessi particolari degli individui era associata al potenziale politico aggressivo insito nella guerra offensiva. L’impulso a un potere infinito accompagnava l’infinità dell’idea, a tal punto che l’una cosa appare inconcepibile senza l’altra. La storia si dimostra, finora, come un contesto di colpa, perché le massime forze produttive, le più elevate manifestazioni dello spirito sono, per così dire, vincolate con giuramento a ciò che è in sommo grado sciagurato. Neppure è estraneo al “per se stesso”, nella inesorabilmente integrale mancanza di rispetto per gli altri che lo caratterizza, anche l’inumanità. Essa si manifesta in una certa violenza gonfia di superiorità, che non sfoga nulla, tipica appunto delle più grandiose creazioni spirituali: nella loro volontà di potenza. Quasi senza eccezione esse confermano l’esistente per il solo fatto che esiste. Se si deve supporre qualcosa come specificamente tedesco, allora esso è questo fondersi del grandioso, che non si rassegna ad alcuno dei limiti convenzionalmente posti, con il mostruoso. Oltrepassando quei limiti, esso vorrebbe nello stesso tempo soggiogare, proprio come le filosofie idealistiche e le opere d’arte non tolleravano nulla che non rientrasse nella dominante sfera d’influenza della loro identità. Anche la tensione fra questi momenti non costituisce alcuna datità originaria, alcun cosiddetto carattere nazionale. La rivoluzione verso l’interno, la holderliniana povertà di azioni piena tuttavia di pensieri, quale predomina nelle autentiche creazioni spirituali a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, ha bloccato e sovreccitato fino all’esplosione quelle forze che poi troppo tardi vollero realizzarsi. Se effettivamente le maglie della rete civilizzatrice — dell’imborghesimento — non furono in Germania, per lunghi periodi della storia protoborghese, tramate così fittamente come nei paesi occidentali, in tal caso dunque c’era ancora una riserva non considerata di forze naturali. Essa produsse tanto il fermo radicalismo dello spirito, quanto la possibilità permanente della ricaduta. Hitler non è dunque da attribuirsi come un destino al carattere nazionale tedesco, così come non fu affatto casuale che proprio in Germania egli pervenisse a impadronirsi del potere. Soltanto senza la serietà tedesca, che pure scaturisce dal pathos dell’assoluto, e senza la quale il meglio della tradizione tedesca non esisterebbe, un Hitler non avrebbe potuto allignare. Nei paesi occidentali, in cui le regole del gioco sociale sono calate più profondamente nelle masse, egli sarebbe incorso nel ridicolo. La sacra serietà tedesca può trapassare nella serietà animalesca, che con superbia si erge letteralmente ad assoluto, e infierisce contro tutto ciò che non si assoggetta alla sua intransigente pretesa.

Una simile complessità: quell’intuizione, cioè, che in ciò che è tedesco non si può avere l’un polo senza l’altro, scoraggia ogni risposta univoca alla domanda. La pretesa di tale univocità va a spese di ciò che si sottrae all’univocità. Di solito si preferisce allora rendere il pensiero — considerato troppo complicato — dell’intellettuale, responsabile di stati di cose che, a meno che egli non voglia mentire, gli impediscono le semplici definizioni aderenti allo schema dell’aut aut. Perciò è forse meglio che io restringa un poco la questione del “cos’è tedesco”, e la intenda in un senso più modesto: che importanza aveva per me, come fuoruscito politico, come esule con offesa e onta, e dopo quel che era stato perpetrato dai tedeschi su milioni di innocenti, il ritornare ciononostante indietro. Cercando di riferire qualcosa che ho esperito e osservato in me stesso, credo di contrastare nel modo migliore la tendenza che porta alla formazione di stereotipi. È una tradizione dell’antichità classica che coloro che furono arbitrariamente, ciecamente scacciati dalla loro patria a causa del prevalere di una tirannide, ritornino dopo la sua caduta. A tale tradizione, seguendola con naturalezza, quasi fosse un turismo, e senza porsi troppe domande, si atterrà chiunque sia ostile all’idea di ricominciare da capo la propria vita. Inoltre, a colui che pensi in termini sociali, che comprenda quindi anche il fascismo in termini socio-economici, è del tutto estranea la tesi che esso sia imputabile ai tedeschi in quanto popolo. Quand’ero fuoruscito, in nessun momento ho rinunciato alla speranza di ritornare. Non è possibile negare che in questa speranza svolgesse un notevole ruolo l’identificazione con ciò che è familiare; solo che di essa non si può abusare a giustificazione teoretica di qualcosa, poiché probabilmente essa è legittima solo finché si obbedisce all’impulso, senza richiamarsi a ben costruite teorie tese a sostenerla. Il fatto che io nella mia libera decisione abbia nutrito il sentimento di poter fare ancora qualcosa di buono in Germania, di poter contrastare l’irrigidimento, il ripetersi del male, non è che un altro aspetto di quella identificazione spontanea.

Ho fatto un’esperienza singolare. Gli uomini che si conformano, che si sentono generalmente tutt’uno con l’ambiente dato e con i suoi rapporti di forza, si adattano ogni volta molto più facilmente alla nuova terra d’approdo. Qui sono nazionalisti, là sono nazionalisti. Chi invece, non vinto, per principio non è d’accordo con quei rapporti, chi è deciso a priori a non collaborare, costui rimane all’opposizione anche nella nuova terra. Il senso della continuità e della fedeltà al proprio passato non è la stessa cosa dell’orgoglio e della ostinazione del ribadire quello che ormai si è diventati, sebbene facilmente vi degeneri. Tale fedeltà esige che si cerchi di cambiare qualcosa là dove la nostra esperienza sa di essere maggiormente radicata, dove si può distinguere, e soprattutto comprendere veramente gli uomini, piuttosto che rinunciare a se stessi per amore dell’adattamento all’altro ambiente. Volevo semplicemente ritornare nei luoghi in cui avevo trascorso la mia infanzia, attraverso la quale ciò che mi è peculiare fu mediato fin nel più intimo. Riuscivo a intuire che ciò che si realizza nella vita non è molto diverso dal tentativo di riguadagnare la propria infanzia. Per ciò mi sento autorizzato a parlare della forza dei motivi che mi indussero a ritornare in patria, senza il timore di incorrere nel sospetto di debolezza o di sentimentalismo, o addirittura di espormi all’equivoco facendo sorgere il sospetto che sia mia intenzione convalidare la fatale antitesi di Kultur e Culture.
Secondo una tradizione ostile alla cultura materiale [Zivilisation], che è più antica di Spengler, si crede di essere superiori al nuovo continente perché esso non avrebbe prodotto null’altro che frigoriferi e automobili, mentre dalla Germania trasse vita la cultura spirituale. Quest’ultima, tuttavia, fissandosi, diventando fine a se stessa, ha anche la tendenza a emanciparsi dall’umanità reale e a bastare a se stessa. In America, invece, prospera nell’onnipresente “per altro”, che giunge a esprimersi nell’obbligo d’esser sempre sorridenti, anche la simpatia, il sentimento di partecipazione, l’interessamento alla sorte dei più deboli. L’energica volontà di fondare una società libera, invece di pensare soltanto con timore alla libertà e di avvilirla anche nel pensiero a una subordinazione volontaria, non cessa d’esser valida per il fatto che alla sua realizzazione attraverso il sistema sociale vengano posti dei limiti. L’alterigia della Germania nei confronti dell’America è ingiusta. Giova soltanto, con l’abuso di una superiorità, agli istinti più ammuffiti. Non c’è bisogno di negare la distinzione tra una cosiddetta cultura spirituale e una tecnologica, per sollevarsi ciononostante al di sopra dell’ostinata contrapposizione di esse. Come può essere accecato il sentimento della vita legato all’utilità pratica, che, chiuso nei riguardi delle contraddizioni incessantemente crescenti, si illude che tutto sia ordinato per il meglio soltanto perché funziona, così risulta accecata anche la credenza in una cultura spirituale che, in virtù del suo ideale vagheggiante una purezza sufficiente a se stessa, rinunzia all’attuazione del suo contenuto e abbandona la realtà in balia del potere e della sua cecità.

Premesso questo, mi arrischio a parlare di ciò che mi facilitò la decisione del ritorno. Un editore, che era del resto un europeo immigrato, espresse il desiderio di pubblicare in inglese la parte principale della Filosofia della musica moderna, di cui egli conosceva il manoscritto tedesco. Mi pregò di fargli un primo abbozzo di traduzione. Ma quando lo lesse trovò che il libro, che pure gli era già noto, era badly organized, mal organizzato. Io dissi che in Germania, malgrado tutti gli orrori che erano accaduti, questo trattamento almeno mi sarebbe stato risparmiato. Alcuni anni dopo si ripeté un episodio analogo, grottescamente enfatizzato. Avevo tenuto una conferenza alla Società psicoanalitica di San Francisco, e ne avevo dato contemporaneamente il testo da pubblicare alla relativa rivista specialistica. Nelle bozze di stampa scoprii che non ci si era accontentati della correzione di quelle imperfezioni stilistiche in cui ero incorso in quanto immigrato. Tutto il testo m’apparve travisato fino al punto da risultare irriconoscibile. Lo spirito informatore che costituiva la sua intenzione primaria, non era più possibile ritrovarlo. Alle mie cortesi proteste ricevetti la non meno cortese e dispiaciuta spiegazione che la rivista doveva la sua fama appunto alla prassi, cui sempre s’era attenuta, consistente nel sottoporre tutti gli articoli che pubblicava a una simile revisione dei curatori, a una simile redazione. Tale prassi le conferiva omogeneità; facevo dunque torto a me stesso, se rinunciavo ad accettare il trattamento preferenziale da cui ero stato privilegiato. Eppure rinunciai. Oggi l’articolo si trova nel volume Sociologica II sotto il titolo Die revidierte Psychoanalyse [Riesame della psicoanalisi], in una traduzione tedesca molto fedele. In essa si può controllare se era necessario che il testo fosse filtrato da una macchina obbediente a quella tecnica quasi universale di adattamento, di arrangiamento, che in America gli autori, impotenti, devono subire. Non faccio questi esempi per lamentarmi della terra in cui mi fu dato di mettermi in salvo, bensì per spiegare perché non vi rimasi. In confronto con l’orrore del nazionalsocialismo, le esperienze letterarie da me vissute erano insipide bagatelle. Poiché però le avevo vissute, era ben scusabile che mi scegliessi condizioni che al mio lavoro nuocessero il meno possibile. Sapevo bene che l’autonomia, che io propugnai come diritto incondizionato dell’autore alla forma integrale della sua produzione, aveva nel contempo, nei confronti dell’utilizzazione economica ad alto grado di razionalizzazione anche delle creazioni spirituali, qualcosa di reazionario. Ciò che si pretendeva da me, era null’altro che l’applicazione conseguente delle leggi della concentrazione economica avanzata ai prodotti scientifici e letterari. Ma questo essere più progredito dal punto di vista dell’adattamento, significava certamente una regressione, se considerato dal punto di vista della cosa. L’adattamento, attraverso il quale le creazioni spirituali si elevano al di sopra dello stesso bisogno dei consumatori, che è già di per sé manipolato, recide ciò che in esse, forse, c’è di nuovo e di produttivo. Qui da noi, l’esigenza di adattare anche lo spirito non è ancora totale. Si distingue ancora, sia pure facendo uso abbastanza spesso di un diritto in sé problematico, tra le sue creazioni autonome e quelle per il mercato. Tale atteggiamento, che appare reazionario se considerato dal punto di vista economico, e che è dubbio possa venir sopportato ancora a lungo, è il rifugio in cui può preservarsi tutto ciò che è progressista, per il quale la verità non è esauribile totalmente nelle vigenti regole sociali del gioco. Una volta che lo spirito, come invero innumerevoli persone vorrebbero, sia fatto diventare euforico nel suo venir tagliato su misura addosso al cliente, su cui l’affarismo commerciale esercita la propria padronanza eleggendo la sua inferiorità a pretesto della propria ideologia, lo spirito risulta essenzialmente finito, quasi gli fosse capitato in sorte di soggiacere ai manganelli fascisti. Le intenzioni che non si rassegnano nell’esistente: direi, le intenzioni qualitativamente moderne, vivono dell’arretratezza del processo di sfruttamento economico. Anche in ciò però non è ravvisabile alcuna peculiarità nazionale tedesca, e viene data testimonianza solo delle contraddizioni sociali globali. Finora la storia non ha conosciuto alcun progresso rettilineo. Fino a quando il progresso avrà un decorso aggrovigliato, svolgentesi nell’orbita del mero dominio sulla natura, s’incarnerà — spiritualmente oltrepassando un tale dominio — piuttosto in ciò che non è affatto associato alla tendenza principale, che in ciò che è up to date. Questa può ancora essere, in una fase politica come l’attuale, che impedisce in ampia misura alla Germania come nazione di svolgere una funzione di primo piano al livello della politica mondiale — con tutti i pericoli di un ridestarsi del nazionalismo che questo fatto comporta –, la chance dello spirito tedesco.

La mia decisione di ritornare in Germania non fu semplicemente motivata dal bisogno soggettivo, dalla nostalgia, che pure non nego. Si fece valere anche un bisogno oggettivo: la lingua. Non solo perché nella lingua appresa di recente non si può mai cogliere con tanta precisione come nella propria, con tutte le sfumature e col ritmo impresso all’orientamento del decorso concettuale, il contenuto di pensiero del discorso. Ma anche, e a maggior ragione, perché la lingua tedesca ha chiaramente una particolare affinità elettiva con la filosofia, e precisamente col suo momento speculativo, che nei paesi occidentali viene così facilmente sospettato, e non senza motivo, di essere pericolosamente oscuro. Storicamente la lingua tedesca, in un processo che ci si dovrebbe finalmente decidere ad analizzare veramente, è diventata capace di esprimere, dei fenomeni, qualcosa che non si esaurisce nel loro mero essere così, nella loro positività e datità. È possibile render evidente tale proprietà specifica della lingua tedesca nel modo più drastico possibile, ricordando la difficoltà quasi proibitiva che insorge quando si vogliano tradurre in un’altra lingua testi filosofici tedeschi estremamente esigenti come la Fenomenologia dello spirito o la Scienza della logica di Hegel. Il tedesco non è solo significazione fissante in sé significati già fissati, bensì ha anche conservato una forza espressiva senz’altro maggiore di quel che sia dato osservare nelle lingue occidentali, le quali, a chi non sia cresciuto in esse, non appaiono come qualcosa di simile a una seconda natura. Ma chi giunge alla certezza che per la filosofia l’esposizione, al contrario di quanto avviene nelle scienze particolari, è essenziale — recentemente Ulrich Sonnemann ha detto con molta pregnanza che non è esistito alcun grande filosofo che non sia stato anche un grande scrittore –, costui viene rimandato necessariamente al tedesco. Per lo meno chi è tedesco di nascita sentirà che non riesce a realizzare pienamente il momento essenziale dell’esposizione, o dell’espressione, scrivendo in una lingua straniera. Se si scrive in una lingua che sia veramente straniera allo scrivente, si incorre, che lo si ammetta o no, nella tirannica necessità di esprimersi, per così dire, in modo che gli altri capiscano davvero. Nella propria lingua, invece, è sufficiente esprimere la cosa stessa col massimo di precisione e senza compromessi per sperare di riuscire comprensibili solo in virtù di tale inflessibile sforzo. Proprio questo sforzo è ciò che subentra, in chi si muove all’interno della propria lingua, al posto della preoccupazione che capiscano coloro con cui si vuole comunicare. Se questo stato di fatto sia peculiare al tedesco, o se molto più in generale riguardi il rapporto tra ogni lingua madre e la lingua straniera, non oso deciderlo. Tuttavia l’impossibilità di tradurre senza forzature in un’altra lingua non solo pensieri speculativi ad alto contenuto concettuale, bensì fin anche singoli concetti rigorosi nella loro determinazione, come quello di spirito, di momento, di esperienza, riproducendo tutte le vibrazioni che hanno in tedesco, è un argomento a favore della proprietà specifica, oggettiva, della lingua tedesca. Senza dubbio essa deve anche pagare un prezzo ad hoc in questa tentazione continua: nel pericolo cioè che lo scrittore s’illuda che la tendenza immanente alle sue parole dica più di quanto non dicano le parole stesse; ciò lo agevola, esonerandolo dal riflettere ulteriormente e liberandolo dalla necessità di porre delle restrizioni critiche al discorso, e consentendogli così di fluire liberamente con esso. Colui che ritorna, che ha perduta la spontaneità che gli era propria, necessariamente unisce il più intimo rapporto con la propria lingua, con l’instancabile vigilanza opposta a ogni inganno che essa possa favorire; opposta alla credenza che ciò che vorrei chiamare il surplus metafisico della lingua tedesca, garantisca già la verità della metafisica da essa proposta, o della metafisica in generale. A questo proposito devo forse dire che sull’argomento ho scritto anche il Jargon der Eigentlichkeit.

Proprio perché attribuisco tanta importanza alla lingua, che è un costituente del pensiero, quanta gliene attribuiva nella tradizione tedesca Wilhelm von Humboldt, insito sul piano linguistico, anche nell’ambito particolare della riflessione, a una disciplina alla quale il discorso perfezionato sfugge anche troppo volentieri. Il carattere metafisico della lingua tedesca non è un privilegio. Non si deve prendere a prestito da esso l’idea di una profondità, che diventa sospetta non appena si esalti da se stessa. Analogamente, per esempio, quell’autenticità di significato che ebbe sempre un tempo il concetto di “anima tedesca” [deutsche Seele], fu mortalmente danneggiata, allorché un compositore ultraconservatore diede proprio quel titolo alla sua opera romantico-retrospettiva. Il concetto stesso di profondità non deve essere affermato in modo irriflesso; non deve, come dice la filosofia, essere ipostatizzato. Nessuno che scriva in tedesco e che sappia che i suoi pensieri sono impregnati dalla lingua tedesca, dovrebbe dimenticare la critica di Nietzsche alla sfera della profondità. Tradizionalmente la profondità tedesca sicura di sé è sempre stata unita, nel più infausto dei modi, al dolore e alla giustificazione di esso. Proprio per questo l’Illuminismo è stato diffamato come superficiale. Se c’è ancora qualcosa di profondo, cioè di scontento nei confronti delle concezioni che si autocristallizzano in una cieca perfezione, questo è il rifiuto di qualsiasi consenso mistificante con la necessarietà del dolore. La solidarietà ne impedisce la giustificazione. Nella fedeltà all’idea che la realtà così com’è non dev’essere l’ultima realtà; non in tentativi volti senza speranza a determinare in che consista effettivamente, qui e ora, ciò che è tedesco, è da supporre che si trovi il senso intimo che tale concetto può ancora in sé serbare: nel trapasso che conduce all’umanità.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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