Calcio in movimento
di Paolo Marcucci
Vai al magazine“La Tavola dei pensieri”
Vai agli altri articoli della serie “Tendenze attuali”
Moto continuo
Il calcio, come sapeva bene Carlos Bilardo, ironico e intelligente commissario tecnico dell’Argentina, è un gioco di movimento: “Io i giocatori li metto bene in campo, il problema è che loro poi si muovono”. Argomento sostenuto anche da un altro allenatore sudamericano, Marcelo Bielsa[1]:
“Io dico sempre ai ragazzi che il calcio per noi è movimento, spostamento. Bisogna sempre correre. Ogni giocatore, in ogni circostanza, ha sempre una buona ragione per correre. Nel calcio non esiste una sola circostanza in cui un giocatore possa permettersi di stare fermo in campo. Il calcio è movimento, il calcio è correre e smarcarsi”.
È il movimento dei calciatori che, fin dagli esordi, colpisce anche l’arte che lo rappresenta attraverso, ma non solo, la creatività futurista. L’intuizione della scomposizione del soggetto di Boccioni si allinea così alla rivoluzione industriale fordista[2], che aveva scomposto il vecchio lavoro artigiano.
Dall’altra parte dell’Europa, nell’Unione Sovietica, si esalta invece, in pittori come Aleksandr Dejneka, il movimento di squadra, il movimento dei corpi sani e in forze, come educazione del popolo e dei proletari.
Se c’è un successo è del gruppo
Ma il corso della storia sta già prendendo la direzione che ci porterà ad oggi, con l’esaltazione del fuoriclasse, indipendente, addirittura, dal resto della squadra, e intuita, come prodotto di massa da vendere in serie, dalla pop-art e Andy Wharol. Il pallone c’è, ma quasi un simbolo per riconoscere la specialità di Pelé, l’eroe[3]. E in questo filone, forse va inserita anche la recente tentata (per ora?) rivoluzione della Superlega, a cui si sono opposti fin dall’inizio, non a caso, i tedeschi figli del pensiero dell’economia sociale di mercato[4].
Su questo tema qualche tempo fa è uscito un bel contributo di Marco Reggio dal titolo parlante “Scelta di campo — Il calcio metafora della cooperazione”[5]. Nel quale si racconta “come quello, che milioni di persone reputano il gioco più bello del mondo, se ben interpretato, sia la quintessenza della condivisione e del successo di gruppo. Dove le mancanze dell’uno si possono compensare con le qualità dell’altro. E dove questa alchimia può portare anche a stravolgere pronostici e, come ricorda nella prefazione Massimiliano Allegri — “non c’è successo senza cooperazione”.
La nascita e l’esportazione del football
Il calcio, al pari degli altri sport, nasce, nella sua accezione moderna, alla fine dell’Ottocento nei paesi ricchi come l’Inghilterra che, nel 1890, aveva il più alto PIL europeo e la sua crescita maggiore rispetto agli inizi del secolo. Nascono quindi codifiche e regole al calcio e agli altri sport come il tennis, l’atletica, l’ippica, solo per citarne alcuni. Società ricche che possono permettersi che una parte della popolazione possa dedicarsi allo sport e studiarne addirittura le regole.
È nel 1860 che si istituisce il sabato pomeriggio libero per i lavoratori, e quindi nascono i primi club aziendali: il Manchester United è la squadra dei ferrovieri e l’Arsenal è la squadra dell’arsenale.
A questo proposito consiglio la visione della mini serie The English Game, su Netflix, che iscrive bene la nascita del football nel contesto economico e sociale dell’Inghilterra (e anche della Scozia e del Galles) del periodo vittoriano. La serie mostra anche come il calcio, nato come attività dell’élite dominante (cfr la suadra campione degli Old Etonians), si sia presto esteso, specialmente nella zona di Manchester e del Lancashire, alle classi proletarie che ne fecero un vessilo della loro identità (vedi la squadra simbolo del Darwen Football Club e poi la Lancashre League).
È l’impero inglese che, attraverso la sua flotta navale, perché dovunque sbarchi gioca, esporta il football. Non a caso la prima squadra italiana a nascere è il Genoa, nel 1893, città portuale.
Il dribbling game
Ma come si muovevano i giocatori? Le partite erano delle gigantesche mischie e il gioco tipico era, ovviamente, il dribbling game per cercare di superare l’avversario. Ma c’è la prima evoluzione nel muoversi sul campo, non solo correre dietro alla palla, ma correre senza palla per poterla ricevere dal compagno. Gli scozzesi inventano il passaggio (passing game) e cominciano anche a vincere, così quindi cambiano i movimenti dei giocatori.
Nel 1872 sarà disputata la prima partita internazionale: Scozia-Inghilterra, che sembra sia finita zero a zero e vede la disposizione dei giocatori con i moduli 2–2–6 e 1–1–8, è un calcio quindi da tutti all’attacco, ma, a quanto pare, poco efficace visto il risultato. Per avere un’idea, che ci possa far intuire come fosse il movimento dei giocatori all’interno del rettangolo di gioco in quel periodo, si può vedere l’opera di Thomas Hemy.
Il pittore inglese fu probabilmente il primo a scegliere una partita di calcio come soggetto della sua opera, che coglie i giocatori nel momento esatto di un calcio d’angolo (secondo alcune fonti la partita si concluse 4 a 4).
La disposizione dei giocatori in campo
Dagli esordi in avanti, piano piano, la disposizione dei giocatori si muove all’interno del rettangolo di gioco, e il movimento ponderato sposta gli interpreti indietro, coprendo più omogeneamente l’intero campo di calcio.
Qualcuno ha detto, con una felice intuizione e sintesi, che tutta “la storia del calcio nel ventesimo secolo è un passaggio dal 2–3–5 al 5–4–1”. Il movimento tattico sposta la gran parte dei giocatori dall’attacco alla difesa. La semplice, e naturalmente non esaustiva di tutte le varianti, rappresentazione grafica degli schemi ci dà l’idea.
In questo percorso, l’Italia si ritaglia un ruolo importante vincendo tre dei suoi quattro titoli mondiali, ma forse l’esempio più eclatante, che lascia un segno profondo è la vittoria dell’Uruguay in casa del Brasile nel 1950. Squadra femmina, come diceva Gianni Brera, che accoglie e attira verso la propria difesa gli avversari, per poi dare la stoccata nel movimento di contropiede.
Il dramma brasiliano del 16 luglio 1950: la finale si gioca a Rio de Janeiro di fronte a 200.000 persone, che con spavalderia affrontano il piccolo Uruguay, che riesce a vincere ed è lutto nazionale, nel vero senso della parola. Fu definito il disastro del Maracanà (o’ maracanaço). Ci furono 100 suicidi e la maglia che fino al 1950 era bianca, venne sostituita per sempre dai colori verde-oro
Ritorno dal futuro
E oggi? Negli ultimi venti anni tutto si è trasformato a velocità pazzesche, il movimento dei giocatori è diventato oggetto di studio da parte dei match analyst, e la disposizione in campo nelle fasi di attacco e di difesa sono analizzate e impostate dai tattici.
Ogni stagione, e spesso anche all’interno della stagione, si varia rispetto alla precedente per non essere prevedibili e quindi più facili da affrontare. La rapidità di movimento e di pensiero è la qualità fondamentale per muoversi e vedere in anticipo, prima che arrivi la palla, il movimento del compagno.
Per chiudere, si può citare il City di Guardiola che, paradossalmente, ma forse non a caso visto che siamo in Inghilterra (anche se con capitali arabi), ci riporta agli albori del calcio, perché sempre di più in fase di attacco si ritorna all’inizio del secolo e rispolvera il vecchio 2–3–5 che tutti pensavano finito.
Note
[1] Marcelo Alberto Bielsa Caldera, nato a Rosario, il 21 luglio 1955, è un allenatore di calcio ed ex calciatore argentino.
[2] Per il confronto Ford/Rolls-Royce, si veda, per esempio, la meravigliosa ricostruzione di Simon Winchester, nel saggio I perfezionisti.
[3] Ma gli eroi nel calcio hanno anche la capacità di farci sognare, come ricorda Valdano a proposito di Menotti: “Ho avuto solo allenatori che mi dicevano di tirare fuori i coglioni. Lui è stato il primo che m’ha detto: domani giochi, tira fuori tutti i tuoi sogni”.
[4] L’economia sociale di mercato è il modello di sviluppo dell’economia che si propone di garantire sia la libertà di mercato che la giustizia sociale, armonizzandole tra di loro.
[5] Nel libro si racconta anche l’esperienza originale della “Democracia Corinthiana”, caso unico di autogestione in una squadra di campioni che, nel Brasile dei primi anni ’80, aiutò un popolo intero ad avere il coraggio di cambiare.