Bombe atomiche intorno alla terra

Alain Resnais su Hiroshima mon amour

Mario Mancini
9 min readFeb 14, 2024

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La commissione da parte della Argos era precisamente quella di realizzare un documentario sull’esplosione di Hiroshima. Sono partito con questa idea, ho visionato tutto quello che era possibile vedere negli archivi cinematografici di Parigi a quell’epoca. Sono stato molto scosso, perché questi documenti erano molto forti e costituivano essi stessi il documentario che dovevo fare. Ma c’era una somma in yen bloccata su un conto a Tokyo per la produzione. Bisognava continuare. Allora ho proposto un’altra forma. E l’incontro con Marguerite Duras ha cambiato molto la prospettiva. […]

Talvolta accade anche che il contesto nel quale lavoro con uno sceneggiatore o un produttore, il contesto storico, impregni il corso del film, e me ne avvicini ancor di più o modifichi la mia maniera di vederlo e concepirlo. Quando il progetto di un film assorbe come una spugna un contesto storico e mi conduce a riconsiderare una sceneggiatura o delle riprese. È cominciato con Hiroshima, poi è continuato con molti dei miei film. […]

Parlando con Marguerite Duras, abbiamo constatato che, anche se nel 1958 bombe atomiche giravano continuamente attorno alla Terra, pronte a far esplodere il pianeta, ebbene noi potevamo vivere tranquillamente come se niente fosse. Se qualcuno l’avesse detto cinque o dieci anni prima, non sarebbe stato creduto. Era l’idea che, alla fine, ci si abitua a tutto. Allora piuttosto che fare un film sulla bomba atomica, abbiamo avuto voglia di fare un film sull’idea della bomba atomica che, presente sullo sfondo, non sarebbe stata direttamente sullo schermo. […]

È piuttosto la coscienza dell’eroina che assorbe queste immagini difficili. Tutto passa attraverso le sue parole, le sue idee, i suoi impegni. Il mio film non ha niente a che vedere con quello di Peter Watkins, The WarGame, dove tutto è dato come un documento, il più autentico possibile.

In Hiroshima, ci si può sempre domandare se le cose hanno avuto luogo o se non sono proiettate mentalmente dall’eroina. […]

La memoria dell’esplosione nella mente e le sue tracce nel paesaggio, negli edifici, nel museo erano molto presenti a Hiroshima quindici anni dopo la bomba. E in questo modo, soprattutto, che la storia rientra nel film, tornando sugli stessi luoghi diversi anni dopo. I documenti, in se stessi, non sono la storia, sono piuttosto il tempo che scorre fra queste immagini abbastanza difficili da guardare e le riprese, quindici anni dopo, che fanno entrare la storia nel film.

Marguerite Duras

Avevo chiesto a Marguerite Duras di scrivermi una storia nel tono del recitativo, in cui il passato non sarebbe stato espresso da veri flashback, ma si sarebbe trovato praticamente presente lungo tutta la storia. […] Le avevo chiesto una storia d’amore ambientata a Hiroshima e che non paresse troppo derisoria nel contesto della bomba atomica. L’avevo anche incoraggiata al ‘fare letterario’, senza avere complessi.

Ci tenevo a comporre una specie di poema nel quale le immagini non servissero che da contrappunto al testo. Perché per riprendere la frase di André S. Labarthe: “Al cinema, posso chiudere gli occhi, ma non posso tapparmi le orecchie!” […]

Procedo sempre un po’ nello stesso modo. Mi serve una sceneggiatura. C’è dunque qualcuno che si mette al lavoro per me, o meglio con me, anche se gli lascio molta libertà. Non parto mai da un adattamento o da dei libri, ma piuttosto da delle idee, messe in forma specificatamente per una sceneggiatura. È il modo migliore per fare in modo che questo testo assomigli a un film e non a un romanzo, cosa che per me sarebbe terribile. Perché non mi sento in grado di adattare un romanzo per il cinema.

Nel caso di Hiroshima, per certi momenti del film, l’inizio in particolare, Marguerite Duras è partita da un primo montaggio; per altri momenti — la storia della donna rasata di Nevers o l’incontro finale nel ristorante — è stata Marguerite Duras a scrivere per prima qualcosa. C’è una leggenda secondo la quale l’avrei rinchiusa in una stanza a fianco dello studio di montaggio, finché non avesse terminato la scrittura. È falsa, beninteso.

[…] Abbiamo scelto Nevers come luogo dell’azione passata perché era un bel nome e in seguito abbiamo studiato la città. Insomma, ho fornito a Marguerite Duras la concezione algebrica dell’opera. In seguito, le ho chiesto di scrivere tutta la storia degli avvenimenti e dei personaggi come se dovessimo filmarla integralmente. Volevamo sapere tutto di loro, avere un basamento sul quale edificare. Lo precisavamo nel corso delle nostre conversazioni e glielo facevo scrivere. […]

Amo e ammiro Marguerite Duras e ciò che scrive. E non ho niente contro la letteratura. Il commento di Eluard per Guernica, quello di Chris Marker per Les Statues meurent aussi, di Queneau per Le Chant du styrène, di Cayrol per Notte e nebbia (benché a causa dell’argomento, lo si sia notato meno) sono tutti, ciascuno a suo modo, molto letterari. Nel caso di Hiroshima, penso che il dialogo e il monologo riescano a creare nello spettatore una sorta di ipnosi.

Nevers-Hiroshima

E proprio attraverso l’associazione di idee Nevers-Hiroshima che nasce l’opposizione fra un grande dramma collettivo e la piccola cosa risibile e meschina che è al confronto il dramma individuale di questa ragazza che ha rifiutato di capire ciò che le accadeva e che il suo carattere ha spinto a compiere atti di sfida… Il soldato non ha che un’importanza secondaria, è un ragazzo sul quale lei ha polarizzato l’Amore; la sua morte in qualche modo la paralizza, la ‘taglia alla pancia’, come dice Marguerite Duras, la mette in uno stato di catalessi fino alla sua avventura di Hiroshima.

È a Hiroshima che prenderà coscienza dell’immensità di un dramma al quale si era sottratta durante la guerra, è a Hiroshima che l’amore di un uomo straniero, che parla francese anche lui con un accento, la libererà del suo primo amore mal cicatrizzato e la preparerà a una presa di coscienza. Ad ogni modo è un film dialettico, in cui la contraddizione è continua.

Cosi nel montaggio iniziale, si oppongono da una parte la pelle degli amanti, cioè la gioia, il piacere, e dall’altra l’idea della bomba di Hiroshima, cioè la bruciatura, il dolore.

Come una partitura

Ho voluto fare un film non a tesi, ma a temi, come se fossero temi musicali. Allo stesso modo, la musica di Giovanni Fusco è costruita non sui personaggi, ma sulle idee che si succedono. Formalmente è un film più vicino a una costruzione musicale che a una costruzione drammatica. Si rivolge meno alla ragione che alla sensibilità: l’alternanza della simpatia e dell’antipatia rimpiazza il coup de thèatre, ed è il ritorno al passato, volontariamente incompleto e senza cronologia dato che è soggettivo, a formare l’azione. Non si deve dimenticare che, quando l’eroina parla, è in uno stato di nervosismo, di ebbrezza, di passione tale che la scelta che fa nei suoi ricordi è arbitraria, unicamente comandata dalla sua emozione.

[…] In definitiva, credo che se si definisse il film attraverso un diagramma eseguito su carta millimetrata, si finirebbe con lo scoprire una forma prossima alla forma sonora del quattro: temi, variazioni a partire dal primo movimento, da cui le ripetizioni, i ritorni, che possono essere insopportabili per coloro che non entrano nel gioco del film.

L’ultimo movimento, specialmente, è un movimento lento, sconcertante. Vi è un decrescendo. Questo dà al film una costruzione a triangolo, a imbuto. Evidentemente è una costruzione pericolosa.

Girare in Giappone

Devo molto anche alla troupe giapponese. Era animata da un vero entusiasmo. Aveva il desiderio costante di terminare il film e questo li ha condotti a girare per diciotto ore filate. Naturalmente vi sono state delle difficoltà a causa della differenza di lingua. Abbiamo dovuto tradurre il decoupage (in parecchi esemplari), utilizzare interpreti e far comprendere a Okada — che sapeva appena il francese — insieme il senso delle sue battute e il senso di quelle della sua partner, ma ciò che ci è stato di grande aiuto è la comunanza di linguaggio che ci davano certi riferimenti cinematografici comuni.

Orfeo, per esempio — un film che amo molto — è stato un sistema di riferimento molto prezioso. Tutta la troupe lo conosceva. Il film ci serviva da interprete in qualche modo e quando volevo ottenere qualcosa di preciso che non era stato molto ben compreso, lo traducevo riferendomi al linguaggio di Orfeo. Il cinema come linguaggio universale…

Penso, per esempio, alla scena in cui Roger Blin spiega al commissario che c’è stato un incidente, che la vettura nera è arrivata e che… Ebbene, c’è un’inquadratura che, senza alcuna dissolvenza, ci mostra l’incidente; di seguito si ritorna brutalmente al commissariato. E una delle inquadrature che mi permettevano di spiegare ciò che volevo ottenere.

Distanza

È almeno quel che mi augurerei: che lo spettatore non si identifichi con l’eroe, ma solo, in certi momenti, con i sentimenti dell’eroe. Che abbia momenti di identificazione e anche momenti di distacco. Che si senta coinvolto nelle emozioni che ha in comune con un certo personaggio, ma che mantenga la sua capacità di giudizio.

In Fino all’ultimo respiro, ciò che mi appassiona è lo scambio di sentimenti fra Beimondo e Jean Seberg, ma posso trovare i loro personaggi antipatici, se mi va. Di fronte all’eroina di Hiroshima, credo si debba sentire della simpatia, ma con riserva, con irritazione… (del resto non è ciò che accade continuamente nell’amicizia e nell’amore?).

[…] E anche per lasciare al pubblico libertà di giudizio che non abbiamo indicato che il soldato tedesco era anti-nazista; per noi era implicito, ma abbiamo rifiutato di dirlo, per non sdoganare troppo visibilmente l’eroina, per non rendere la simpatia troppo facile, non favorire un’identificazione che il pubblico ricerca fin troppo.

L’essenziale, infatti, è che ci si attacchi ai personaggi per amarli, poi li si detesti, e che si crei un movimento di andata e ritorno della simpatia dello spettatore, un’azione che colmi l’assenza di azione, di intrigo propriamente detto.

[…] Noi chiediamo allo spettatore uno sforzo di partecipazione enorme e ancora insolito, comparabile a quello che uno scrittore pretende dal suo lettore. Non credo all’efficacia dei film che sottolineano ogni intenzione più volte. In Hiroshima, Okada dice: “Faccio politica”, senza altre precisazioni.

Ho domandato ad alcuni amici la loro opinione: mi hanno risposto che era chiaro, per loro, che solo un uomo di sinistra avrebbe potuto dire così. Si deve dunque comprendere che, quando schiaffeggia la donna, è geloso di quest’altro amore che lei racconta, e vuole farla uscire dal suo stato di ipnosi, ma anche che tutta questa storia lo disgusta, lo ripugna.

La musica di Giovanni Fusco

Lottavo contro l’idea di prendere Fusco per fare la musica del mio film. Mi sembrava di voler ‘fare come Antonioni’ e che fosse disonesto. Tuttavia, dopo aver considerato tutte le altre soluzioni, ho visto che quella era la sola che mi rimanesse aperta. Ho dunque chiesto a Fusco, che non conoscevo assolutamente, di venire. E qui il racconto ha del fiabesco: Fusco è arrivato a Parigi in ventiquattr’ore. A mezzogiorno gli ho dato una copia di lavoro di Hiroshima e la sera, alle sette, mi spiegava il film. L’aveva completamente sentito, assimilato. Aveva capito tutto: il gioco delle contraddizioni, quello dell’oblio… Tutto. In una giornata ci siamo messi d’accordo per la musica.

Si ricorda di quella di Hanns Eisler per Notte e nebbia? Ebbene, ciò che è straordinario è che c’è in Hiroshima– all’inizio, durante la sequenza del museo — una frase melodica che per venti secondi è assolutamente il tema di Eisler, che Fusco non conosceva assolutamente e che aveva trovato spontaneamente. Sono sempre colpito da questo genere di convergenze.

L’accoglienza

Ha appena ricevuto il premio della critica a New York, come pure quello dei distributori. Sarà anche doppiato, cosa rara laggiù. La cosa più curiosa è che il film era stato scartato dal Festival di Cannes, per non infastidire gli Stati Uniti. Oggi, invece, è là che ha più successo (la stessa cosa è accaduta per Notte e nebbia, in Germania). A Mosca, ha suscitato numerose polemiche. Presentato fuori festival, è stato il solo film a essere proiettato cinque volte. Ho ricevuto una lettera di felicitazioni da giovani cineasti sovietici. Personalmente, pensavo di aver fatto un film ‘vecchia maniera’, alla 1930, con ricerche di montaggio e di decoupage, qualcosa come Intolerance. In fondo, forse sono rimasto un appassionato di film muti, dunque un adolescente.

Le dichiarazioni di Alain Resnais sono tratte da:
“Les Lettres françaises”, 14 maggio 1959 (intervista di Michèle Firk)
“Cinema 59”, n. 38, luglio 1959 (intervista di Michel Delahaye)
“Esprit”, 6 giugno 1960 (intervista di Jean Carta e Michel Mesnil)
“Clarté”, n. 33, febbraio 1961 (intervista di Sylvain Roumette)
“Cinémonde”, 14 marzo 1961 (intervista di Gilbert Guez)
“Cahiers du cinéma”, Le siècle du cinema, numero speciale, novembre 2000 (intervista di Antoine de Baecque e Claire Vassé) in parte raccolte e tradotte in Maurizio Regosa (a cura di), Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Marsilio, Venezia 2002

Da: Hiroshima mon amour, booklet della Cineteca di Bologna, pp. 14–21

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.