Bob Dylan: giugno 1960-giugno 1962
La relazione con Suze Rotolo
Estratto da: Bob Dylan, Chronicles, Milano, Feltrinellii, 2004
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L’incontro con Suze Rotolo
Il tramite della sorella Carla
Io stavo parlando a una ragazza dai capelli neri, Carla Rotolo, che conoscevo un po’. Carla, che era l’assistente di Alan Lomax, mi presentò sua sorella. Si chiamava Susie ma lo scriveva Suze. Fin dal primo momento non riuscii a staccarle gli occhi di dosso. Era la cosa più erotica che avessi mai visto.
Aveva pelle chiara e capelli d’oro, italiana purosangue. L’aria intorno misi era improvvisamente popolata di foglie di banana. Cominciammo a parlare e la mia testa si mise a girare. La freccia di Cupido mi era fischiata vicino alle orecchie anche prima, ma questa volta mi colpì dritto al cuore e il suo peso mi trascinò fuoribordo. Suze aveva diciassette anni ed era della East Coast. Era cresciuta a Queens, in una famiglia di tradizioni di sinistra.
Suo padre aveva lavorato in fabbrica ed era morto da poco. Lei frequentava il giro degli artisti newyorchesi, dipingeva e faceva disegni per varie pubblicazioni, lavorava come grafica e per produzioni teatrali off-Broadway. Era attiva anche nei comitati per i diritti civili ed era pratica di molte cose.
Fare la sua conoscenza fu come entrare nelle Mille e una notte. Aveva un sorriso che avrebbe potuto illuminare una strada piena di gente ed era molto vivace, possedeva una voluttà tutta particolare, una scultura di Rodin che aveva preso vita. Mi faceva venire in mente un’eroina dell’epoca dei libertini. Era assolutamente il mio tipo.
Per tutta la settimana successiva pensai molto a lei. Non riuscivo a tenerla fuori dai miei pensieri, e speravo di incontrarla ancora. Sentivo che mi ero innamorato per la prima volta nella mia vita, sentivo la vibrazione di lei a trenta miglia di distanza, volevo il suo corpo accanto al mio.
Un pensiero ossessivo
Subito. Adesso. I film erano sempre stati un’esperienza magica e i cinema di Times Square, quelli che sembravano templi orientali, erano i posti migliori per andarli a vedere. Ultimamente avevo visto Quo vadis? e La tunica,e adesso andavo a vedere Atlantide, il continente perduto e Il re dei re. Per un po’ avevo bisogno di pensare ad altro che non fosse Suze.
Nel Re dei re recitavano Rip Torn, Rita Gam, Carroll Baker e Jeffrey Hunter nella parte di Cristo. Nonostante tutto quello che succedeva sullo schermo, non riuscivo a sintonizzarmi. Quando cominciò il secondo film, Atlantide, il continente perduto, le cose non migliorarono affatto. Tutti quei cristalli con raggi della morte, gigantesche creature di profondità marine, terremoti, vulcani e onde di maree e chissà cosa ancora. Sarà stato anche il più eccitante film di tutti i tempi, chi lo sa. Io non riuscivo a concentrarmi.
Come era destino, incontrai Carla di nuovo e le chiesi di sua sorella. Carla mi chiese se mi sarebbe piaciuto vederla. “Sì, non sai quanto” dissi io. “Oh, anche lei vorrebbe vederti” disse lei. Presto ci incontrammo ancora e cominciammo a vederci sempre più spesso.
Sotto l’influsso di Suze
I dissapori con la madre di lei
Alla fine diventammo praticamente inseparabili. A parte la mia musica, mi sembrava che stare con lei fosse la cosa più importante della mia vita. Forse, spiritualmente, eravamo anime gemelle.
Sua madre Mary, però, che faceva la traduttrice per riviste mediche, da quel lato non ci sentiva.
Abitava all’ultimo piano di un edificio che dava su Sheridan Square e mi trattava come se avessi lo scolo.
Se avesse potuto, mi avrebbe fatto rinchiudere dalla polizia. La mamma di Suze era una donna piccola e sempre in movimento, mutevole d’umore con occhi neri come carboni gemelli che ti passavano da parte a parte, ed era molto protettiva. Ti faceva sempre capire che avevi fatto qualcosa di male. Era sicura che la vita che facevo io non portava da nessuna parte e che non sarei mai stato capace di mantenere nessuno, ma credo che in realtà fosse ancora peggio di così. Penso di essere arrivato nella sua vita in un brutto momento.
“Quanto ti è costata quella chitarra?” mi chiese una volta.
“Non molto.”
“Lo so, non molto, ma sempre qualcosa.” “Quasi niente” dissi io.
Lei mi guardò di traverso, sigaretta in bocca. Cercava sempre di provocarmi e di iniziare una discussione. La mia sola presenza le dava molto fastidio, ma non è che io causassi chissà quale turbamento nella sua vita. Non era colpa mia se il padre di Suze era morto o cose del genere.
Una volta le dissi che pensavo fosse ingiusta. Mi fissò dritto negli occhi come se puntasse lo sguardo su qualche oggetto visibile in lontananza e mi disse: “Fammi un favore, non pensare quando ci sono io”.Suze poi mi diceva che non faceva sul serio. Ma faceva sul serio. Faceva tutto quello che poteva per tenerci lontani, ma noi continuammo a vederci lo stesso.
Un appartamento per loro due
Il senso di soffocamento stava diventando un problema. Era il segnale di cui avevo bisogno per decidermi a trovare un posto dove stare, con il mio letto, la cucina e i tavoli. Era ora. Credo che avrebbe potuto accadere anche prima, ma a me piaceva stare con altri. Era meno faticoso, più facile, con meno responsabilità. Posti dove ero libero di andare e venire, a volte anche con la chiave, stanze piene di libri rilegati sugli scaffali e pile di dischi. Quando non facevo nient’altro, sfogliavo i libri e ascoltavo i dischi.
Non avere una casa cominciava a fare effetto sulla mia natura ipersensibile, per cui dopo essere stato in città da quasi un anno affittai un appartamento al terzo piano di una casa senza ascensore, al numero 161 di West 4th Street a sessanta dollari al mese. Non era un granché, solo due stanze sopra la spaghetteria da Bruno, proprio a fianco di un negozio di dischi da una parte e di un negozio di casalinghi dall’altra. L’appartamento aveva una piccola camera da letto più simile a un largo ripostiglio, un cucinino, un salotto con un camino e due finestre che davano sulle scale antincendio e sui cortiletti interni. C’era spazio a malapena sufficiente per una persona sola.
Quando veniva buio si spegneva il riscaldamento e l’unico modo di stare caldi era di tenere entrambi i fornelli accesi al massimo della fiamma. Non era ammobiliato.
Bob il bricoleur
Appena mi fui trasferito comprai dei mobili. Con qualche attrezzo che mi ero fatto prestare ricavai un paio di tavoli, uno che funzionava anche da scrivania. Misi insieme anche un armadietto e la base di un letto. Tutti i pezzi di legno venivano dal negozio di sotto, e io montai ogni cosa con gli attrezzi che venivano col materiale, chiodi galvanizzati, battenti, cardini, pezzi quadrati da 3/8 di pollice fatti di ghisa, ottone e rame, viti di legno a testa tonda.
Non dovevo fare molta strada per trovarli, era proprio sotto casa. Misi tutto insieme con seghe per metalli, scalpelli e cacciaviti, dopo di che restituii gli attrezzi. Feci anche una coppia di specchi usando una vecchia tecnica che avevo imparato a scuola durante l’ora di educazione tecnica, usando lastre di vetro, mercurio e carta stagnola.
A parte suonare, mi piaceva fare queste cose. Comprai un televisore usato, lo misi in cima a uno degli armadietti, comprai un materasso e stesi un tappeto sul pavimento di legno. Presi un giradischi da Woolworth e lo misi su uno dei tavoli. La stanzetta mi sembrava immacolata. Per la prima volta avevo una casa che era mia.
La scena teatrale off-Broadway
Suze e io passavamo sempre più tempo assieme e io cominciai ad allargare i miei orizzonti, a vedere com’era il suo mondo, specialmente la scena teatrale off-Broadway… Molta roba di Le Roi Jones, L’olandese, Il battesimo, Miss Right. Vidi anche The Connection di Jack Gelber, una storia di eroinomani, The Brig del Living Theater e altre opere teatrali notevoli. Andavo con lei nei posti dove si ritrovavano gli artisti come il Caffè Cino, Camino Gallery, Aegis Gallery. Con lei andai anche a vedere Comedia dell’Arte, una bottega nel Lower East Side affacciata sulla strada e riadattata a piccolo teatro con marionette enormi, grandi come persone, e che si giravano muovendosi da destra a sinistra.
Vidi un paio di spettacoli, uno dove un soldato, una prostituta, un giudice e un avvocato erano tutti la stessa marionetta. Le marionette, a causa delle loro dimensioni e della ristrettezza dello spazio, risultavano strane, sconcertanti e minacciose. Non assomigliavano per niente ai buffi manichini di legno come Charlie McCarthy[1], la marionetta in frac di Edgar Bergen che tutti conoscevamo e che c’era sempre piaciuta.
L’arte di Red Grooms e la passione per il disegno
Alla mia mente si apriva un mondo artistico nuovo. Qualche volta di mattina andavamo uptown a vedere i musei, enormi tele a olio dipinte da artisti come Velazquez, Goya, Delacroix, Vermeer, Rubens, El Greco. Anche arte del ventesimo secolo, Picasso, Braque, Kandinskij, Rouault, Bonnard.
Il modernista preferito di Suze era Red Grooms[2], e divenne anche il mio. Mi piaceva il modo in cui qualunque cosa facesse si sminuzzava in un mondo fragile, precari grappoli di parti tutte assemblate insieme anche se ,stando a una certa distanza, si poteva cogliere la complessità del tutto.
Quello che faceva Grooms voleva dire moltissimo per me, era l’artista che andavo a vedere più spesso. Le sue opere erano stravaganti, si incidevano come un acido. E tutti i materiali che usava, pastello, acquerello, guazzo, scultura o tecnica mista, collage tableaux, mi piaceva come riusciva a farli stare tutti assieme.
Era audace, segnalava la sua presenza con dettagli sfolgoranti. C’era una somiglianza tra il lavoro di Red e molte delle canzoni folk che cantavo io. Sembravano dividere lo stesso palco. Le canzoni folk erano, liricamente, quello che le canzoni di Red erano visivamente: barboni e poliziotti, l’andirivieni lunatico, i vicoli claustrofobici, tutta la vitalità carnevalesca. Red era lo Uncle Dave Macon[3] delle arti visive.
Incorporava ogni cosa vivente in qualcos’altro e la faceva gridare. Tutto stava sullo stesso piano, ogni cosa creata uguale: vecchie scarpe da tennis, distributori automatici, alligatori che strisciavano nelle fogne, pistole da duello, il traghetto di Staten Island e la Trinity Church, la 42nd Street, i profili dei grattacieli, tori di Brahma, cowgirl, reginette del rodeo e teste di Mickey Mouse, torrette di castelli e la mucca di Mrs. O’Leary[4], tipi viscidi e tipi impomatati, tipi strani, modelle nude ingioiellate e sorridenti, facce dallo sguardo malinconico, macchie indistinte di dolore, tutto divertente senza essere sguaiato.
Anche figure storiche ben note, Lincoln, Hugo, Baudelaire, Rembrandt, ognuno reso con finezza di tratto, marchiato a fuoco nella maniera più forte possibile. Mi piaceva il modo in cui Grooms sapeva usare la risata come un’arma diabolica. Inconsciamente mi chiedevo se fosse possibile scrivere canzoni così.
In quel periodo cominciai a disegnare anch’io. In effetti avevo preso l’abitudine da Suze, che disegnava molto. Che cosa disegnavo? Beh, partivo da quello che avevo sottomano. Mi sedevo al tavolo, prendevo carta e matita e disegnavo la macchina per scrivere, un crocifisso, una rosa, matite, coltelli, spille, pacchetti di sigarette vuoti. Perdevo totalmente la nozione del tempo.
Potevano passare un’ora o due e sembravano solo un minuto. Non che pensassi di essere un gran disegnatore, avevo solo voglia di mettere un po’ d’ordine nel caos che avevo intorno, più o meno come faceva Red, anche se lui lo faceva su scala molto più grande. In uno strano modo notai che disegnare purificava l’esperienza del mio occhio, e avrei continuato a fare disegni per conto mio anche negli anni a venire.
L’ispirazione per “Me Die in My Footstep”
Era lo stesso tavolo al quale mi sedevo a comporre canzoni. Non ancora del tutto, però. Bisogna prendere le dritte da qualche parte e c’erano solo pochi artisti allora che ne scrivevano. Uno dei miei preferiti era Len Chandler. Ma pensavo che fosse giusto una cosa sua, non abbastanza per ispirarmi a farla anch’io.
Per quanto mi riguardava, Woody Guthrie aveva scritto le più grandi canzoni e non c’era modo di fare meglio di lui. Alla fine, però, anche se non stavo cercando di ritessere il mondo, composi una canzone un po’ ironica, intitolata Let Me Die in My Footsteps. Era basata su una vecchia ballata di Roy Acuff e si ispirava alla mania dei rifugi antiatomici nata come conseguenza della Guerra fredda. Forse qualcuno avrà pensato che fosse una cosa politicamente radicale venir fuori con una canzone così, ma per me non c’era niente di radicale.
Nel Minnesota settentrionale i rifugi antiatomici non avevano preso piede, non avevano avuto il minimo effetto nella zona dell’Iron Range. Per quanto riguardava i comunisti, non c’era paranoia in giro. La gente non aveva paura di loro, e sembrava tutto un gran darsi da fare per nulla. I comunisti erano come simboli di viaggiatori scesi dallo spazio.
I proprietari delle miniere facevano molta più paura, più di un nemico. I rappresentanti di commercio che erano andati in giro a proporre rifugi antiatomici erano stati rimandati da dove erano venuti. Gli empori non li vendevano e nessuno li aveva costruiti. Le case avevano seminterrati dai muri spessi, e poi a nessuno piaceva l’idea che qualcun altro magari l’aveva e tu no, e se tu l’avevi e qualcun altro no, non era neanche quella una cosa tanto buona.
Poteva mettere i vicini contro i vicini e l’amico contro l’amico. Non si poteva immaginare di dover affrontare un vicino che ti tempestava la porta dicendo: “Ehi, guarda, qui si tratta di vita odi morte e la nostra amicizia non vale un fico, è questo che mi dici?” Cosa avresti risposto a un amico che stava cercando di entrare a forza in casa tua come un tiranno e cheti diceva: “Senti, ho dei bambini piccoli, mia figlia ha solo tre anni e mio figlio due. Prima che tu me li chiuda fuori arrivo con un fucile, e adesso piantala di fare il furbo”.
Non se ne usciva bene in nessun modo. I rifugi antiatomici dividevano le famiglie e potevano creare dei tumulti. Non che la gente non fosse preoccupata del fungo, lo era, ma i rappresentanti di commercio che magnificavano i rifugi venivano accolti da facce impassibili.
A parte quello, secondo l’opinione generale un contatore Geiger era l’unica cosa di cui c’era bisogno in caso di attacco nucleare. Era una cosa molto preziosa da avere, ti diceva che cosa potevi mangiare e che cosa era pericoloso. I contatori Geiger si trovavano facilmente. Adire il vero ne avevo anch’io uno nel mio appartamento a New York, per cui scrivere una canzone sull’inutilità dei rifugi antiatomici non era una cosa così politicamente radicale.
Non è che mi dovessi conformare a nessuna ideologia per scriverla. Era una canzone personale e sociale insieme. Era questa la differenza. Anche così, la canzone non abbatté nessuna barriera per me, néfece alcun miracolo.
La maggior parte delle volte, quello che volevo dire lo potevo trovare in una vecchia canzone folk, o in unadi Woody. Quando cominciai a eseguire Let Me Die inMy Footsteps non dissi nemmeno che l’avevo scritta io. La infilavo qui e là, dicendo che era una canzone dei Weavers.
L’incontro con Brecht e Weil
Ma la mia prospettiva su queste cose stava per cambiare. Il livello d’intensità dell’atmosfera stava per schizzare verso l’alto e guadagnare in potenza. Il mio baracchino nell’universo stava per trasformarsi in una gloriosa cattedrale, almeno per quanto riguardava la composizione delle canzoni.
Suze aveva lavorato dietro le scene per una produzione musicale al Theatre de Lys su Christopher Street. Era uno spettacolo di canzoni scritte da Bertolt Brecht[5], il poeta tedesco antifascista e marxista, un commediografo le cui opere erano bandite in Germania, e da Kurt Weill, le cui melodie erano una specie di mescolanza di opera e jazz.
Avevano già avuto un grande successo con una ballata intitolata Mack the Knife che Bobby Darin aveva reso celebre. Lo spettacolo non era una commedia vera e propria, era più che altro un flusso di canzoni interpretate da attori cantanti. Andai lì ad aspettare Suze e la pura intensità dei brani mi mise immediatamente in uno stato di eccitazione… Corale mattutino, Canto nuziale, Dell’incertezza degli umani rapporti, Canzone di Polly, Ballata della schiavitù sessuale, Ballata della vita piacevole[6].
Canzoni dal linguaggio duro. Imprevedibili, aritmiche, inconsulte, piene di visioni inquietanti. I cantanti erano ladri, gente che razzola tra i rifiuti, buoni a nulla, tutti a ruggire o a ringhiare. Il mondo intero era stato ridotto a quattro strade. Sul piccolo palcoscenico si distinguevano appena alcuni oggetti, lampioni, tavoli, scalette d’ingresso, finestre, angoli di case, la luna che brillava attraverso cortili circondati da tetti.
Uno scenario tetro e una sensazione di paura incombente. Ogni canzone sembrava venire da qualche oscura tradizione, come se avesse una pistola nella tasca posteriore, un bastone o un mattone da tirare. Ti arrivavano addosso con le stampelle, in busti ortopedici e su sedie a rotelle. Erano come canzoni folk in natura, ma anche il contrario delle canzoni folk, perché erano troppo sofisticate.
In pochi minuti ero così concentrato che mi sembrava di non aver dormito o mangiato da trenta ore. La canzone che mi fece l’impressione più forte fu una ballata che era un po’ il momento culminante dello spettacolo, A Ship the Black Freighter.
Il fulmine “Jenny dei pirati”
Il suo vero titolo era Jenny dei pirati, ma nella canzone non l’avevo sentito e non sapevo quale fosse il titolo giusto. La cantava una donna vagamente mascolina, vestita come un’impiegata delle pulizie addetta ai lavori più miseri, e che va in giro a rifare i letti in una topaia di albergo che dà su un porto. La prima cosa che mi attirò della canzone fu il verso sulla nave, il cargo nero, che ritorna alla fine di ogni strofa.
Quel verso, in particolare, mi riportò alla memoria le sirene antinebbia delle navi che avevo sentito da ragazzo, e la grandiosità dei loro suoni mi era rimasta impressa nella mente. Sembravano torreggiare su di noi. Duluth, anche se è a duemila miglia dall’oceano più vicino, era un porto internazionale.
Navi dal Sud America, dall’Africa e dall’Europa andavano e venivano in continuazione, e l’intenso fischio delle sirene ti prendeva per il collo e ti toglieva il senno. Anche se non si riusciva a vedere le navi a causa della nebbia, si percepiva la loro presenza per via dei fortissimi scoppi di tuono che si spandevano per l’aria come la Quinta di Beethoven: due note basse, la prima lunga e profonda come un fagotto.
Il suono delle sirene sembrava sempre annunciare qualche cosa di grande. Gli enormi battelli andavano e venivano, mostri di ferro venuti da qualche abisso, navi che facevano impallidire qualunque altro spettacolo. Da bambino, magro com’ero, introverso e colpito dall’asma, quel suono era così forte, così avvolgente, che me lo sentivo in tutto il corpo e mi faceva sentire vuoto.
Versi che cadono addosso come da tre metri
C’era qualcosa là fuori che mi poteva inghiottire. Dopo aver sentito la canzone forse un paio di volte mi dimenticai delle sirene e mi sintonizzai sul punto di vista della cameriera, da dov’è che viene, ed è il posto più arido e freddo che si possa immaginare. Il suo personaggio è duro, bruciante. “I signori” a cui lei rifà i letti non hanno idea dell’ostilità che cova dentro, e la nave, il cargo nero, sembra il simbolo di qualche cosa di messianico che si sta avvicinando sempre di più e che forse ha perfino messo il suo piede maledetto nella porta.
La donna delle pulizie è potente e sta facendo finta di essere nessuno: sta contando le teste. La canzone ha luogo in un odioso inframondo dove presto “tutto intorno a voi cadrà, la città sarà spianata”. Tutta, tranne l’alberguccio che starà ancora in piedi, con lei dentro sana e salva. Ed ecco che i signori cominciano a chiedersi chi è che vive lì. Sono in pericolo, ma non lo sanno ancora.
Sono sempre stati in pericolo, ma non l’hanno mai saputo. La gente corre a frotte verso il porto, i signori vengono incatenati e portati da lei. Qualcuno le chiede chi è che deve morire adesso e chi dopo. È lei che decide. Gli occhi della vecchia serva si illuminano alla fine della canzone.
La nave sta sparando bordate dalla prua e ai signori va via il sorriso dalla faccia. La nave è ancora nel porto che manovra. La vecchia dice: “Uccideteli adesso, così impareranno”. Cos’hanno fatto i signori per meritarsi un tale destino? Il testo non lo dice. È una canzone folle.
Grande medicina nei suoi versi. Grande azione dispiegata. Ogni frase ti arriva addosso come se cadesse da tre metri d’altezza, attraversa correndo la strada ed ecco che te ne arriva addosso un’altra come un pugno sul mento. E poi c’è sempre quel ritornello spettrale sulla nave nera che si fa avanti, sbaraglia tutte le difese e lega tutto insieme con più tensione di una pelle di tamburo.
La scoperta del verso libero
È una canzone cattiva, cantata da un agente del male, e quando è finita non si riesce a dire una parola. Ti lascia senza respiro. In quel piccolo teatro, dove la sua esecuzione costituiva il culmine dello spettacolo, il pubblico era sbalordito, inchiodato sulle sedie con le mani sul plesso solare.
Capivo il perché di quell’effetto. Il pubblico erano i “signori” della canzone. Erano i loro letti che lei rifaceva. Era nel loro ufficio postale che lei riceveva la loro posta ed era nella loro scuola che lei insegnava. Era una canzone che ti stendeva a terra e voleva essere presa sul serio. Non ti usciva dalla testa.
Woody non aveva mai scritto una cosa simile. Non era una canzone di protesta né di attualità, e non mostrava amore per la gente. In seguito mi ritrovai a esaminarla pezzo per pezzo, cercando di capire che cos’era che la faceva funzionare, perché era così efficace.
Capivo che tutto vi sembrava evidente e visibile, ma non si notava troppo. Stava tutto attaccato al muro con un supporto robusto ma non si riusciva a capire quale fosse la somma delle parti a meno di non fare qualche passo indietro e aspettare fino alla fine.
Era come il quadro di Picasso, Guernica. Una canzone così potente era un nuovo stimolo per i miei sensi, in effetti molto simile a una folksong, ma da una caraffa diversa in un diverso cortile. Mi veniva voglia di andare a prendere un mazzo di chiavi e dare un’occhiata a quel posto, a vedere che cos’altro c’era.
Presi la canzone, la aprii e la smontai. Erano la forma, le associazioni indotte dal verso libero, la struttura e la noncuranza per le risapute certezze melodiche a renderla quella faccenda seria che era, affilata come una lama. Il ritornello, poi, era perfetto per i versi. Io volevo capire come avrei potuto manipolare e controllare quella particolare struttura e forma.
Ispirato da “Jenny dei pirati”
Era quella la chiave che dava a Jenny dei pirati la sua robustezza, il suo stupefacente potere. Ci pensai una volta tornato nel mio malinconico appartamento. Non avevo ancora realizzato niente, non ero affatto un autore di canzoni, ma ero rimasto veramente impressionato dalle possibilità fisiche e ideologiche che potevano essere contenute nei confini del verso e della melodia. Quelle canzoni che sempre più avrei voluto cantare non esistevano, ora lo capivo, e così cominciai a giocare con la forma, a cercare di afferrarla, provando a comporre una canzone che trascendesse l’informazione che forniva, il personaggio e la trama.
Totalmente influenzato da Jenny dei pirati, benché mi tenessi lontano da lsuo cuore ideologico, cominciai a fare esperimenti. Presi un articolo che era uscito sulla “Police Gazette”, un sordido incidente accaduto a Cleveland nel quale una prostituta di nome Biancaneve, figlia di un pastore protestante, aveva ucciso uno dei suoi clienti in modo particolarmente orribile e grottesco.
Cominciai usando quell’altra canzone come prototipo e ammucchiai versi su versi, brevi scoppi di versi, cinque o sei strofe in verso libero, utilizzando i primi due versi della ballata Frankie and Albert come ritornello. Sono i versi che dicono: ‘’Frankie was a good girl, everybody knows, paid a hundred dollars for Albert’s new suit of clothes”, Frankie era una brava ragazza, chi è che non lo sa, aveva pagato cento dollari per comprare ad Albert dei vestiti nuovi. L’idea mi piaceva ma la canzone non uscì fuori. Mi mancava qualcosa.
La rottura con Suze e l’avvio di “Freewheelin’ Bob Dylan”
L’unione tra me e Suze non fu esattamente una vacanza tra i boschi. Alla fine il destino le fece segno di fermarsi, e si fermò del tutto. Doveva finire. Lei prese una svolta della strada e io ne presi un’altra. Uscimmo dalle nostre rispettive vite, ma prima che questo avvenisse, prima che il fuoco si spegnesse, passammo molto tempo insieme nell’appartamento di West 4th Street.
Durante le estati il caldo era asfissiante. Le stanzette erano un forno pieno di aria talmente soffocante che la si poteva masticare e inghiottire. In inverno non c’era riscaldamento. Il freddo mordeva le ossa e noi ci tenevamo caldi abbracciandoci sotto le coperte.
Suze era al mio fianco quando cominciai a incidere per la Columbia Records. Gli eventi che condussero a quel risultato furono del tutto inaspettati. Io non avevo mai messo gli occhi su nessuna grossa compagnia discografica. Sarei stato io l’ultimo a crederci se qualcuno mi avesse detto che avrei inciso per la Columbia, una delle etichette più importanti del paese e con grossi artisti di richiamo come Johnny Mathis, Tony Bennett e Mitch Miller.
Ciò che mi mise in quella compagnia accadde a causa di John Hammond. John mi aveva visto e sentito per la prima volta a casa di Carolyn Hester. Carolyn era una cantante e chitarrista originaria del Texas, che conoscevo e con la quale avevo suonato qualche volta in città. Era molto richiesta e la cosa non mi sorprendeva.
Conclusione
Nel giugno del 1962, dopo sei mesi di convivenza con Bob Dylan nell’appartamento sulla West 4th Street, su pressione della madre che non supportava Dylan e ne era pienamente ripagata, Suze decise di trasferirsi in Italia a studiare arte.
Dylan soffrì questa decisione e cercò, senza successo di spingerla, attraverso svariate lettere, a tornare a New York. Lei tornò solo nel gennaio 1963. Alcuni critici ritengono che le intense canzoni d’amore dell’album di svolta Freewheelin’ Bob Dylan, composto tra il luglio 1962 e l’aprile 1963, esprimano il senso di perdita della sua ragazza.
Nella sua autobiografia, la Rotolo spiegò che la crescente popolarità di Dylan era diventato un problema per lei. In una intervista al “New York Times” ha detto:
“Ho sempre avuto difficoltà a parlare o a ricordare gli anni Sessanta a causa della mia vicinanza a Dylan, il motore e il plasmatore della cultura di quell’epoca. Il tipo di adulazione e di attenzione che riceveva rendeva la faccenda imbarazzante per me. È diventato un elefante nella stanza della mia vita. Sono riservata per natura e il mio istinto era quello di proteggere la mia privacy, e di conseguenza anche la sua”.
Nella sua autobiografia A freewheelin’ time : a memoir of Greenwich Village in the sixties, Broadway Books, 2008, la Rotolo dice di aver avuto un aborto durante la relazione con Dylan.
Note
[1] “Charlie McCarthy”. La marionetta del ventriloquo Edgar Bergen, popolarissimo in radio e poi in televisione fin dalla metà degli anni tenta.
[2] “Red Grooms”. Nato a Nashville nel 1937, Grooms è noto per le sue grandi installazioni di vita urbana come il “Tennessee Foxtrot Carousel” a pochi passi dalla Grand Ole Opry di Nashville.
[3] David Harrison Macon, conosciuto come Uncle Dave Macon, era un suonatore di banjo, cantante, cantautore e comico americano che avevo lavorato a cavallo del secolo XIX e XX e nel primo ventennio del nuovo secolo. Conosciuto come “The Dixie Dewdrop”, Macon era noto per i suoi baffi sul mento, il cappello a spina, i denti d’oro e il colletto socchiuso.
[4] “La mucca di Mrs. O’Leary”. Secondo una voce mai confermata, l’incendio di Chicago dell’8 ottobre 1871 sarebbe stato causato da un calcio che Daisy, una delle mucche della fattoria di Kate O’Leary, diede a una lanterna che, cadendo sulla paglia della stalla, le appiccò il fuoco.
[5] “Era uno spettacolo di canzoni scritte da Bertolt Brecht…”. Si tratta di Brecht on Brecht, diretto da Gene Frankel e George Tabori e con la partecipazione, fra gli altri, di Eli Wallach e Lotte Lenya. Esordì il 14 novembre 1961 al Theatre de Lys e rimase in cartellone tre anni, a New York e altrove. I testi di Brecht erano stati tradotti da Eric Bentley e George Tabori.
[6] “Corale mattutino”, “Canto nuziale”… Tutte le canzoni di Brecht e Weill qui menzionate sono tratte dall’Opera da tre soldi. I titoli italiani e le citazioni nel testo sono basati sulla traduzione di Emilio Castellani, Einaudi, Torino 1963.