Benedetto Croce: il fascismo come pericolo mondiale

(14 ottobre 1943)

Mario Mancini
11 min readApr 6, 2020

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Qualche mese dopo la caduta del regime fascista, nell’ottobre 1943, un grande quotidiano americano, il New York Times, chiese a Benedetto Croce un articolo sul fascismo che il filosofo scrisse con la consueta chiarezza e profondità e che qui parzialmente riproduciamo.

L’analisi non presenta, in realtà, elementi nuovi rispetto a quanto Croce aveva individuato nel fascismo fin dal 1925.

In quell’anno, infatti, nel contromanifesto da lui redatto in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, il filosofo aveva rintracciato nella “nuova religione” (come i fascisti avevano definito la loro ideologia)

«un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica».

Dopo 18 anni di esperienza il giudizio di Croce riprendeva questi stessi motivi intorno alla vuotezza ideologica del fascismo, nel quale potevano albergare le idee più diverse ed opposte:

«ultraconservatrici e bolsceviche, capitalistiche e comunistiche, plutocratiche e proletarie, cattoliche e schernitrici della religione, europee e antieuropee, filosemitiche e antisemitiche, tedescofobe e di fratellanza italo-germanica».

Ma oltre questa capacità di assumere volti e aspetti diversi, rivelatasi peraltro di enorme utilità per la conquista del potere e per la liquidazione dei gruppi avversari, si era coltivato da parte dei fascisti il mito del “superuomo”, cioè non dell’uomo grande “in cui l’umanità riconosce ed esalta se stessa”, ma di un uomo “intimamente estraneo al mondo”, visto ora come conquistatore “esultante nelle stragi” ora come legislatore capace di concedere al popolo un “tenor di vita pacifico e comodo”.

Questo ideale del superuomo, che non sarebbe potuto sorgere nel Risorgimento, durante “la grande lotta per l’indipendenza e la libertà dei popoli”, si era formato tra il finire del secolo e l’inizio del successivo, in seguito ad un generale infiacchimento della coscienza liberale, ed aveva preso vigore con la guerra 1914–18 quando (come il Croce aveva già scritto nella Storia d’Europa nel secolo XIX del 1932) ad un’Europa «ordinata, ricca, fiorente di traffici, abbondante di comodi, di vita balda e sicura di sé» si era sostituita un’Europa «impoverita, agitata, triste, tutta spartita da alte barriere doganali… spenta o quasi spenta la comune vita del pensiero, dell’arte, della civiltà».

I “germi” del fascismo non cessavano di essere pericolosi per tutte le nazioni, con la vittoria alleata nella seconda guerra mondiale perché l’ideale della libertà non si poteva imporre con la forza delle armi, ma doveva scaturire «mercé d’un intimo travaglio e lavoro della mente e del cuore, per un processo di amore e di dolore, per un risveglio o una rinnovazione di carattere sostanzialmente religioso», possibili solo quando uomini abituati per anni alla lotta e alla violenza si sarebbero convinti della necessità «di sottoporsi alla critica, di sostenerne la discussione, di usare verso gli altri la dimostrazione e la persuasione».

L’articolo che qui, in parte, si riproduce è tratto da B. Croce, Per la nuova vita dell’Italia. Scritti e discorsi, 1943–1944, Napoli, Ricciardi, 1944, pp. 13-20.

Sul periodo in generale cfr. P. Renouvin, Le crisi del secolo XX, 1929-1943, Firenze, Vallecchi, 1961; L. Salvatorelli, Storia d’Europa, in 2 voll., IV ediz. cit.; Storia d’Italia coordinata da N. Valeri, vol. V.

In particolare cfr. L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, nuova ediz. 1964; M. Abbate, La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Torino, Einaudi, 1955; N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo in Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955 e C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1955.

La parola “fascismo” è stata fuori d’Italia interpretata e intesa in modo assai vario, e i sentimenti che l’hanno accompagnata sono stati non solo vari, ma anche opposti, dall’aborrimento all’ammirazione.

Per uscire dal fantastico e dall’arbitrario l’unica via è di recarsi in mente le forze e le condizioni con le quali s’è attuato quel processo storico che è, o è stato in Italia il fascismo, e chiarire anzitutto la sua premessa ideologica per goffa che sia.

Questa premessa era il culto non più semplicemente del genio (come nel “periodo dei geni”) né quello degli eroi (come nel secolare culto degli eroi greci e romani), né in genere dell’uomo grande, in cui l’umanità riconosce ed esalta sé stessa, ma dell’uomo non partecipe della umana natura, del “superuomo”, come fu chiamato con un vocabolo tedesco coniato nel Settecento. Ed esso era concepito come tale che solo potesse consolare gli animi, assetati di sublime, della irrimediabile miseria, bassezza e viltà della restante umanità, verso la quale, secondo i casi, ora a lui s’assegnava l’ufficio di conquistatore, esultante nelle stragi e nelle prede e imponente la schiavitù, ora l’altro diverso ufficio di un legislatore dall’alto che concedeva al volgo il tenor di, vita pacifico e comodo che esso solo bramava, riserbando a sé e ai suoi l’esercizio di una vita superiore; e più spesso il suo ufficio rimaneva nell’indeterminato e nel vago, non sapendosi veramente che cosa fosse venuto a fare nel mondo e tra gli uomini, uno che era sopra e perciò intimamente estraneo all’uomo e al mondo. In Italia l’ideale del superuomo con tutte le sue oscillazioni e contraddizioni, ora di barbaro sadicamente ebbro di sangue e di lussuria, ora di nobilissimo “re di Roma” e del mondo intero, fiorì nella pomposa e ciarlatanesca letteratura di Gabriele d’Annunzio e fu accolto e carezzato dalle fantasie giovanili di quel tempo.

Era dunque un ideale profondamente immorale e anticristiano in quanto negava l’umanità dell’uomo e certamente non sarebbe sorto nella prima metà dell’Ottocento, nella grande età delle lotte per l’indipendenza e la libertà dei popoli, ma si formò nello scorcio dell’Ottocento, e nei primi del secolo seguente, quando la coscienza della libertà, nonostante le istituzioni liberali dappertutto esistenti e operanti, s’infiacchiva e le correnti materialistiche, principalmente quella del marxismo, ne corrodevano i fondamenti idealistici.

Un’altra premessa ideologica si aggiunse o si congiunse alla prima nello, stesso tempo, l’invocazione, in mezzo agli eccessi demagogici delle democrazie e alle minacce del socialismo, di un rinvigorimento dell’autorità, invocazione che anch’essa, a chi bene osserva, scopre il suo carattere negatore e spregiatore della libertà. Perché la libertà è inscindibile dall’autorità, mettendo la forza di questa a garanzia della libertà di tutti; ma quel rilievo dato all’autorità per se stessa era ed è segno di sfiducia nel principio della libertà e velleità di ritorno in misura maggiore o minore o addirittura pienissima ai regimi assolutistici, dei quali l’Europa si era disfatta con una serie di rivoluzioni, da quella francese del 1789 a quella del 1830, del 1848 e del 1860. Questa velleità si espresse nel fondo reazionario dei vari imperialismi e nazionalismi che, nati in altre parti d’Europa, al principio del secolo s’affacciarono anche in Italia per effetto dei modelli stranieri e segnatamente francesi. Materialisti marxistici e materialisti nazionalistici si mostrarono tanto affini nella loro avversione alla libertà che gli uni si reclutarono sovente nel campo degli altri.

Tuttavia né il culto del superuomo e del “re di Roma”, né la nostalgia per il vecchio assolutismo alla Luigi XIV avevano forza pratica di turbare il senno e l’equilibrio politico italiano, come non l’aveva il socialismo, che, abbandonato il rivoluzionarismo marxistico, si veniva facendo riformatore e con ciò sostanzialmente liberale; e nessuno di essi sarebbe prevalso se non fosse intervenuta la guerra del 1914, che fornì il materiale umano, o, come si dice, la “massa di manovra” al fascismo, e ne preparò le condizioni politiche propizie.

Quando scoppiò quella guerra, gli uomini della mia generazione si attenevano ancora alle esperienze e alle idee del Risorgimento, onde la guerra era considerata un alto e austero dovere, al quale s’era chiamati per la patria, e dal cui adempimento si sarebbe tornati ritemprati, più elevati di cuore e più forti, più capaci di affrontare difficoltà e dolori, più alacri al lavoro, con la coscienza tranquilla e l’animo severo. E non fu senza stupore che, nell’autunno del 1914, lessi per caso un articolo di una rivista francese, scritto, se mal non ricordo, da un ufficiale, nel quale si prevedeva che la guerra avrebbe disabituato dalla vita civile, la quale richiede ogni giorno e ogni ora l’iniziativa della mente e l’industria e lo sforzo della volontà, perché ciascuno sa che deve contare unicamente su se stesso per vincere le lotte quotidiane e conseguire i propri fini, da quelli della sussistenza materiale ai più alti e nobili. Invece — si diceva in quell’articolo — in guerra gli uomini sono discaricati di tutto ciò. C’è una volontà dietro o sopra di loro che provvede a vestirli, a nutrirli, ad armarli, a portarli in qua e in là, a mandarli contro il nemico, a farli vivere e a farli morire, senza che essi abbiano da impicciarsene. Che cosa faranno — si domandava lo scrittore, codesti milioni di uomini dopo che per più anni siano stati metodicamente diseducati dal vivere e dal lavorare per proprio conto e con la propria responsabilità?

Quel che lo scrittore dell’articolo, giustamente ragionando, prevedeva, accadde veramente, e dalle trincee tornarono nelle città in gran moltitudine uomini che, abituati a comandare e ad essere comandati, serbavano questa disposizione di spirito; che, disabituati dal cercare da sé i mezzi del vivere, li aspettavano dall’opera dei governi, come nel tempo di guerra o dai colpi di fortuna e dell’audacia; che, non avendo appreso o avendo dimenticato o non riuscendo più ad amare i mestieri e le professioni che nella vita civile si esercitano, volevano impieghi che dessero loro stipendi, ma non le fatiche del lavoro. Certo la parte eletta dei combattenti non si comportò a questo modo, e, chiusa la lunga parentesi della guerra, ripigliò con fervore gli studi interrotti, le opere cominciate e gli uffici ai quali aveva atteso da giovane, e similmente i contadini che tornarono ai loro campi, Ma la classe numerosa che si suol chiamare “piccola borghesia” rigurgitava di gente disoccupata e irrequieta, non volenterosa né capace del lavoro tecnico e perciò disposta alle avventure politiche…

Non dirò che cosa sia stata la vita dell’Italia nel periodo che allora si aprì e che è durato oltre un ventennio, perché chi l’ha vissuta e ha dovuto di necessità osservarla e parlarne, sia pure per opporlesi, non prova ora altro desiderio che di non pensarvi e di non parlarne più. Accennerò soltanto che il fascismo non è definibile secondo una determinata idea politica, perché non ne ha e si vanta di non averne alcuna, e di non essere una rivoluzione che metta capo a un’idea realizzata e si dia un assetto, ma una rivoluzione che continua all’infinito. Non appena giunse a Roma, esso rinnegò l’intero programma ultrademocratico, che prima aveva divulgato per la stampa, e si fuse col nazionalismo: dichiarando allora il suo capo: — «Noi eravamo una forza senza un’idea: il nazionalismo ci apporta l’idea». — E da allora in poi, a volta a volta, inclinò verso tutte le idee e tutte le tendenze, ultraconservatrici e bolsceviche, capitalistiche e comunistiche, plutocratiche e proletarie, cattoliche e schernitrici della religione, europee e antieuropee, filosemitiche e antisemitiche, tedescofobe e di fratellanza italo-germanica, e via discorrendo, verso tutte indifferentemente appigliandosi ora all’una ora all’altra con l’unico fine di guadagnare la propria giornata, cercando il plauso ora da una parte ora dall’altra e ingannando e corrompendo tutte le parti e così mantenersi al potere. Ogni giorno esso doveva fare qualcosa di nuovo o almeno distruggere qualcosa di esistente; e quest’opera era commessa di solito a gente inesperta e ignorantissima e sollecita unicamente di moltiplicare gli impieghi e le sinecure. La più penosa sensazione che si provava (oltre a questa del vedere i più delicati affari del proprio paese posti in mano di gente senza intelligenza e senza coscienza) era di sentirsi come immersi in un quotidiano bagno di menzogne che giornali e libri e parole della radio versavano a torrenti senza concedere respiro. Dopo vane speranze di moti interni del popolo, di favorevoli eventi internazionali, d’interventi della Corona, gli oppositori finirono col dirsi: — «Tutto questo finirà, purtroppo, non in altro modo che con una guerra e un disastro nazionale». — E così è finito: solo che nessuno di noi pensava che il disastro sarebbe stato così grande.

Ed ora l’Italia si è liberata dell’infezione fascistica e, sebbene sempre in grave pericolo, di ogni altra morte potrà morire, ma non più di quella. Ma sono, con ciò i germi del fascismo espulsi dalle vene della società contemporanea, purgandone affatto l’organismo? Proprio questo dubbio mi ha indotto a tornare a discorrere di un argomento a me ingratissimo e repugnante e a esporre in breve il carattere e la genesi del fascismo.

Poiché, se il fascismo si è manifestato in Italia in forma violenta, esso non è un fatto esclusivamente italiano, ma, come tendenza, conato, aspirazione, aspettazione, è sparso dappertutto, nel mondo, come in tutto il mondo contemporaneo si è celebrata la figura del Superuomo e del Duce. E già il duce dell’Italia fu salutato dall’ammirazione dell’opinione mondiale, espressa in innumeri volumi in tutte le lingue, il che molto affliggeva noi, che in Italia sapevamo di che cosa realmente si trattasse e perciò persistevamo nell’opposizione. Insigni uomini di Stato stranieri, venendo in Italia, si compiacquero di fregiarsi, in attestato di stima e di simpatia, delle insegne del partito fascistico. Io stesso che prima provavo una sorta di riluttanza a recarmi all’estero, in paesi liberi, provenendo da un paese che stimavo disonorato perché aveva perduto la sua libertà, costretto poi a recarmici per ragioni di studio, incontrai di continuo, insieme con cortesi espressioni verso la mia persona, la dichiarazione della grande ammirazione che, diversamente da me, si nutriva dall’interlocutore per il fascismo e il suo capo.

D’altra parte, dappertutto si nota un certo abbassamento nella coscienza della libertà, la quale non è vera e piena coscienza se non è d’un bene che si senta fondamentale: tale che genera tutti gli altri particolari e non soffre transazioni con alcun altro, avendo esso solo carattere assoluto. Risorgerà questa coscienza nella sua vivezza e pienezza; vi sono segni che già va risorgendo; dovrà di necessità risorgere; ma per ora nessuno certamente potrebbe affermare che sia forte e sicura di sé, dominante negli animi, emanante luce, infondente calore. Dove sono i suoi riflessi nelle filosofie contemporanee, dal più al meno decadentistiche e pessimistiche? Dove nella letteratura contemporanea parimente decadentistica e sensualistica? Certo, i popoli anglosassoni, che hanno dato al mondo le istituzioni liberali, pareggiando la gloria di Roma che gli dié il diritto, combattono ora per quell’ideale. Ma essi, com’è naturale e com’è giusto, combattono insieme per la loro stessa esistenza politica di Stati e d’imperi, e l’ideale della libertà non si può impiantare con la sola vittoria delle armi che è conquista nel campo politico e non in quello morale, nel quale si vince solo mercé d’un intimo travaglio e lavoro della mente e del cuore, per un processo di amore e di dolore, per un risveglio o una rinnovazione di carattere sostanzialmente religioso.

Il pericolo ideologico del fascismo persiste dunque ancora, se anche latente; ma non manca neppure, per il fatto stesso della grande e lunga guerra, l’altro pericolo, quello della gente disposta ad adottare i metodi fascistici per effetto delle condizioni in cui la guerra la pone e per le abitudini e le attitudini che le fa perdere e per quelle affatto diverse a cui la educa. Parlo di ciò senza ritegno, perché in quest’affermazione non c’è né biasimo né sospetto verso alcuno, ma solo l’accertamento d’un rapporto di fatto che tende a formarsi per la necessità delle cose, fuori della volontà degli uomini, e dinanzi al quale non bisogna chiudere gli occhi, ma anzi tenerli bene aperti per opporre al pericolo l’ostacolo e per attenuarne e circoscriverne in breve confine di tempo i danni eventuali. Si può forse disconvenire che sarà ardua cosa far tornare al vario e specificato lavoro del tempo di pace i giovani e gli uomini, che per anni e anni ne sono stati distolti e che sono stati portati nei più lontani paesi, all’unico e indifferenziato lavoro che si assomma nel dare la vita per la patria? E ricondurre alle alterne vicende della libera gara e alla necessità di sottoporsi alla critica, di sostenerne la discussione, di usare verso gli altri la dimostrazione e la persuasione, coloro che erano adusati a tagliare i nodi di colpo con la recisa parola del comando?

Ecco perché io mi permetto di raccomandare di non giudicare il fascismo un morbus italicus, ma un morbo contemporaneo che l’Italia per prima ha sofferto e sul quale può istruire gli altri popoli con le sue dolorose esperienze. Anche quando in Germania si profilava l’avvento del nazismo, vi fu un uomo politico italiano che procurò di far intendere ai suoi amici tedeschi dove sarebbero andati fatalmente a parare. «Wir sind keine Italiener», essi rispondevano con la consueta boria tedesca: «Noi non siamo gli italiani!». Ma qualche anno dopo, il mondo politico e intellettuale tedesco non seppe fare al nazismo quel tanto di resistenza che quello italiano pur fece al fascismo.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.