Bauhaus: la grande idea

In che mondo siamo?

Mario Mancini
9 min readAug 4, 2019

di Aldo Spiniello

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Rappresentazione schematica del corso di studi del Bauhuas. Da Gropius Walter “Idee und Aufbau des staatlichen bauhauses” Weimar, 1923.

Quando si parla di Bauhaus in che mondo siamo? In quello reale, della pratica concreta, dell’artigianato che incontra l’industria e dell’arte che si inserisce nelle dinamiche della produzione? O in quello ideale delle forme che si fanno norma, nell’utopia dei conflitti risolti e delle tensioni in equilibrio?

Standard e civiltà

Quando Gropius pubblica La Nuova Architettura e il Bauhaus, nel 1935 a Londra, la festa è già finita. Ma per il fondatore c’è ancora un’urgenza di chiarezza e di definizione, in nome dell’idea.

La standardizzazione non è un ostacolo allo sviluppo della civiltà, bensì una delle sue condizioni preliminari. Un modello standard può essere definito come quell’esemplare pratico e semplificato di un qualsiasi oggetto di uso comune riassumente in sé, come in una fusione, il meglio delle sue forme precedenti, purificate dal contenuto personale dei loro designer e da ogni altra caratteristica non essenziale. Tale standard impersonale viene chiamata ‘norma’, parola che deriva dalla squadra del falegname.

Se davvero il Bauhaus era una scuola in cui si ambivano “a realizzare standard di eccellenza, non a creare effimere novità”, allora, a rigor di logica, ne consegue che l’obiettivo era di individuare “norme” e realizzarle, cioè inverarle nella realtà produttiva concreta. Nonostante poco più in là Gropius, in qualche modo, ridimensioni il tiro:

Il Bauhaus non si proponeva di diffondere alcuno ”stile”, o sistema, o dogma, o formula, o moda, ma semplicemente di esercitare un’influenza rivitalizzante sul design.

Sì, nessun dogma forse, ma comunque un’aspirazione normativa, regolatrice. Ed è il segno di una spinta profondamente ideale che emerge tra gli obiettivi pratici di un “maestro” che prima nega l’equivoca distinzione tra arte e artigianato, predicando quasi nostalgicamente l’importanza del mestiere, per poi propugnare sempre più la consapevolezza tecnica di un’arte in grado di inserirsi nelle dinamiche dell’industria, negli ingranaggi della nuova civiltà della macchina, fino a raddrizzarne le combinazioni e indirizzarne le traiettorie.

Evitare l’asservimento del genere umano alla macchina attraverso il conferimento di contenuto di realtà e di significato ai prodotti di quest’ultima.

Ecco. È l’ultima declinazione di una volontà di forma capace di saldarsi a un contenuto, la fede in un’espressione in grado di portarsi dietro e di esaurire il significato. Insomma non ci si è ancora arresi all’insensatezza del caos e delle eccezioni, alla realtà che sputa fuoco e fiamme o alla brutalità delle forze materiali tradotta nell’indifferenza degli apparati produttivi e nella babele del mercato.

Nei sogni di Gropius c’è ancora spazio per un’ipotesi di ordine e armonia, tratta a forza da una visione astratta del passato.

In tutte le grandi epoche storiche, l’esistenza di modelli standard — ossia l’adozione consapevole di forme-tipo — è stata la regola di una società evoluta e ben ordinata. […] Le più ammirate città del passato sono la chiara dimostrazione che la reiterazione di edifici ‘tipici’ (tipizzati) esalta la dignità civica e la coerenza della città stessa.

La storia, in fondo, è già finita qui, sottratta dal flusso impazzito delle cose, dall’intrico dei casi e delle contraddizioni, dal groviglio dei fatti e degli atti, delle intenzioni e delle passioni. Ed è per questo che il Bauhaus non accoglierà la storia dell’arte, che per decenni era stata una delle zavorre dell’insegnamento accademico tradizionale. Se non in alcuni momenti particolari, quasi clandestini, come le lezioni sui vecchi maestri di Johannes Itten, l’eretico Mazdnaznan. Niente più storia, ma insegnamento formale. E che siano “forme chiare, limpide, essenziali”…

In mezzo al tempo

È il Bauhaus stesso ad assomigliare a una grande invenzione hollywoodiana. Uno spettacolo in forma di lampade, sedie, caratteri tipografici, quadrati e cerchi.

Ecco, dalle linee spezzate, minacciosamente oblique della cattedrale del socialismo di Feininger si è arrivati a questa visione apollinea di ordine, dignità, armonia, sobrietà. Il socialismo è stato pianificato, organizzato secondo il calcolo dei bisogni e dei benifici, secondo le linee del progetto e delle funzioni che guidano la produzione e la costruzione, cioè l’assemblaggio dei prodotti.

Ma, soprattutto secondo l’orizzonte teorico del razionale e del tipico. Fede nella commensurabilità e nella trasmissibilità, nell’intelligenza e nella tecnica, nella teoria che si realizza nella pratica e nei casi particolari che si universalizzano nella teoria. È l’ultima versione di un’idea di classico, dopo che si è persa ogni implicazione archeologica, come dice Renato De Fusco:

Gli stilemi classici sono piuttosto degli archetipi, dei contrassegni concettuali, dei simulacri di idee, qualcosa prelevata dal deposito della memoria con tutte le deformazioni dovute al ricordo: l’astrazione, la nostalgia, lo spiazzamento, talvolta l’ironia.

Archetipi, simulacri, deformazioni del ricordo, astrazioni. Ma in quale mondo siamo? In quello reale o nell’utopia (necessaria) dei conflitti risolti e di tutte le tensioni in equilibrio? Oppure nella fabbrica dei sogni del cinema?

Nella visione di Gropius il Bauhaus, con un atto di volontà ascetica, si tira fuori dal tempo. Nonostante l’intenzione di cercare “l’espressione concreta della vita della nostra epoca” e di ancorarsi al flusso della produzione, estrae il presente dal flusso della storia e lo congela in un’immagine. Del resto, non esiste un cinema bauhaus, a meno che non si voglia scegliere un nome a caso tra Murnau e Lang: entrambi sono alla ricerca di una risposta al caos del contemporaneo, attraversano le forme dell’avanguardia e diventano punti di riferimento “classici”. Ma non ha importanza. Perché è il Bauhaus stesso ad assomigliare a una grande invenzione hollywoodiana. Uno spettacolo in forma di lampade, sedie, caratteri tipografici, quadrati e cerchi.

Eppure il Bauhaus non è fuori dal tempo. Sente e assorbe le scosse e i terremoti ed è il frutto di un’evoluzione. Tutto ciò che vi si vuol riconoscere arriva là dentro e si condensa: socialismi medievalisti da arts and crafts e la fede nel progesso tecnologico, empatia e pura visibilità, espressionismo e sachlichkeit (“oggettività, chiarezza, rispondenza esatta e calcolata di un oggetto a una funzione”), Muthesius e van de Velde, Deutscher Werkbund, Arbeitsrat für Kunst, catene di vetro e Der Stijl.

Anzi, la forza straordinaria del Bauhaus è nel suo essere nel tempo, nel suo stare in mezzo, come l’aurora o il crepuscolo. “Stare tra” le guerre, tra i vecchi imperialismi e i nuovi totalitarisimi, tra i colpi di cannone e gli squilli di tromba del capitale, tra le fibrillazioni della politica e le esigenze dell’economia, il protorazionalismo e la “definitiva” affermazione del Movimento Moderno.

La storia si riprende nei fatti tutto ciò che immaginiamo di sottrarle con le idee. È una contraddizione inestricabile. Ma è proprio questa contraddizione che consente al Bauhaus di far convivere e di incorporare anche le spinte apparentemente più inconciliabili. Di accogliere l’intuizione di Itten, almeno fino a quando la sua figura quasi da mistico new age e i suoi metodi per insegnare l’estasi artistica non diventeranno troppo eccentrici rispetto al progetto di Gropius.

O, ancora, l’immaginazione di Klee e i biomorfismi di Kandiskij, loro sì tanto lucidi e grandi da essere in grado di “durare”. Certo, gli sperimentalismi avanguardisti di László Moholy-Nagy non possono conciliarsi con “la base specialistica puramente oggettiva ed efficiente” dell’impostazione di Hannes Meyer, ma siamo già in un’altra fase, oltre Gropius. In ogni caso, si tratta di due esperienze che, seppur per un istante, hanno potuto sfiorarsi.

Se davvero il Bauhaus è stato una “camera di decantazione delle avanguardie europee” (Manfredo Tafuri) che hanno trovato finalmente “un ancoraggio alla realtà produttiva”, se ha saputo rappresentare un punto di convergenza tra l’arte più avanzata, l’artigianato e l’industria, vuol dire che l’operazione di compromesso di Gropius ha avuto il grande merito di unire per un attimo persone, istanze, urgenze e inclinazioni diverse.

Perciò, come ogni scuola che si rispetti, il Bauhaus è stato innanzitutto un tentativo di ingegneria sociale, che ha dovuto ogni volta ricercare il suo equilibrio dinamico tra i pesi, le forme e i materiali più disparati, bilanciare le differenze e le spinte centrifughe sull’asse di uno scopo comune. Come fosse una gigantesca versione dei modulatori spazio-luce di Moholy-Nagy. Quando l’asse si è spostato, quando il baricentro Gropius è andato via, l’equilibrio è saltato per sempre. Ed è stato l’inizio della fine, sancito dalla congiura della Storia che non avrebbe tardato a prendersi la sua rivincita sull’illusione armonica di un modello ideale.

Piccolo, quotidiano e… marginale

Gruss und Heil den Herzen (Greeting and Salvation for Hearts), litografia su carta di J. Hitten, 1921

Ma in ogni caso, ribadire la vocazione sociale e didattica dell’esperimento potrebbe servire a spiegare un’altra contraddizione fondamentale: questa scuola che vedeva il bau, la costruzione, come l’obiettivo fondamentale, di architettonico in fondo ha prodotto poco. Ha abbaiato più che morso.

Sì, certo, la casa modello di Muche, il Bauhaus di Dessau, le case dei maestri, il quartiere Dessau-Törten. Ma si tratta di casi isolati o di modelli appunto, che hanno dovuto scontare i limiti tecnici delle “prime versioni”, la precarietà della loro stessa inclinazione sperimentale.

Oppure si tratta di edifici che, una volta venuta meno la loro funzione originaria, la loro destinazione d’uso, si sono quasi svuotati di senso, sono rimasti lì, come dei vuoti simulacri di un’esperienza. Mentre il Teatro Totale di Piscator rimarrà su carta, ultimo spazio consentito al progetto. Per il resto, quel che il Bauhaus ha prodotto riguarda l’oggetto di uso quotidiano, il caso particolare, l’intervento minimo.

La teiera di Marianne Brandt

I mobili e le sedie in tubolari d’acciaio di Marcel Breuer, le lampade in vetro e metallo di Jucker, le teiere di Marianne Brandt, i tappeti di Muche, le carte da parati di Gunta Stöltz. E poi i costumi di Schlemmer, i giocattoli di legno di Alma Buscher, la grafica di Bayer e i suoi caratteri universal “senza grazie”, geometricamente sgraziati…

Anche qua siamo nel campo dell’architettura, si dirà. Sì, ma è come se l’attenzione si fosse spostata dalla grande forma alla piccola forma. In piena coerenza con la tendenza del moderno. È vero che per il razionalismo gli oggetti autonomi sono parti di un insieme più vasto e che il tutto è fatto di elementi modulabili. Le cellule sono i microrganismi da cui prendono vita i complessi abitativi, i quartieri residenziali e così via. Ma siamo, comunque, letteralmente, nei limiti dell’existenzminimum, e cioè del minimo elementare.

È solo un tratto di matita nel disegno della città e dell’universo mondo. Un intervento parziale che assomiglia a una risposta d’urgenza, pur affermando la sua efficienza razionale per le soluzioni di lungo periodo. E proprio riconoscendo quest’urgenza, piace pensare che il cuore vero, ancora vivo, del Bauhaus sia, in fondo, nella sua marginalità, nel suo concentrarsi sullo spazio residuo.

È l’intuizione che la grande utopia di un ordine e di un’armonia universali è obbligata alla strategia concreta di un lavoro ai fianchi, a partire dagli elementi esterni o dalle cose minime, da tutto ciò che riempie e con cui si confronta la fatica del quotidiano. Sì, c’è sempre qualcosa che assomiglia a un atteggiamento carbonaro, settario, nonostante tutti gli sforzi di agganciarsi al grande treno della modernità.

Ed è forse la versione aggiornata, industriosa di quanto Gropius predicava ai tempi di Weimar:

Non si costruiranno grandi organizzazioni spirituali ma piccole, segrete, autosufficienti leghe, logge, hütten e cospirazioni, per custodire e configurare artisticamente un segreto, un granello di fede; finché dai singoli gruppi, risorgerà una grande idea.

È ancora avanguardia, troppo prima e troppo indietro, sospesa tra l’elitarismo e la vocazione messianica di un’umanità da salvare, impegnata nella dimostrazione cospiratrice ed eversiva, ma costretta a fare i conti con l’irrealizzabilità della forma ideale. Eppure il Bauhaus è anche un passo oltre. Perché, per un paradosso che fa parte dello strano gioco

della storia, è diventato esso stesso un metro e un punto di riferimento formale. Uno stile, a dispetto di Gropius. E, dunque, un qualcosa che rischia di rinchiudersi per sempre nella dimensione fredda e implacabile dell’istituzione. Ha ragione Beuys, forse, quando dice a proposito frl Bauhaus:

Non ha prodotto nulla che le persone possono percepire in modo positivo. Quello che vediamo nelle città in forma cubica o seriale è oggi meno un’espressione di vita culturale che di potere economico.

E ancor più Gordon Matta-Clark quando si scaglia contro l’abuso del Bauhaus e quell’idealismo monolitico che, piuttosto che risolvere i problemi, ha creato una condizione deumanizzata. Ma è questione di abuso, appunto. È la miopia di chi mima le immagini e le forme senza comprenderne l’angoscia, la tensione e l’intenzione che l’hanno create, di chi si obbliga alla vuota ripetizione rituale delle regole, di chi predica filiazioni limitandosi alla superficie esteriore delle espressioni e non alla loro struttura più profonda. Di chi ha mancato il senso della grande idea.

Aldo Spiniello, laureato in Giurisprudenza e abilitato alla professione forense, negli ultimi anni si è dedicato principalmente all’attività di critico cinematografico, scrivendo per diverse testate come Effetto Notte, Terra Lontana e Quaderni di Cinema Sud. Oltre ad essere caporedattore di Sentieri selvaggi Magazine, il periodico digitale di cinema, è docente del corso Storie del Cinema della Scuola Sentieri selvaggi. Dal 2012 è anche il direttore editoriale del magazine.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.