Barry Lindon di Stanley Kubrick nella critica del tempo

Mario Mancini
33 min readDec 30, 2023

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Film del 1972 tratto dal romanzo del 1844 Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray.
Regia di Stanley Kubrick; con Ryan O’Neal (Redmond Barry Lyndon), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (Chevalier de Balibari), Hardy Krüger (capitano Potzdorf).
Premi: Candidato a 7 Oscar con 4 premi; candidato a 2 Golden Globe.
Durata: 3 ore.
Streaming:
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Barry era una di quelle persone abbastanza furbe da impadronirsi di una fortuna ma incapaci di conservarla. Infatti, le qualità e le energie che portano un uomo a conquistare una fortuna sono spesso le stesse che lo portano poi a perderla.
La voce narrante (Romolo Valli)

Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali.
Epilogo

Kubrick sul film

“Per Barry Lyndon ho creato un vastissimo archivio iconografico di disegni e di dipinti presi da libri d’arte. Queste figure servirono come punto di riferimento per tutto quello che avevamo bisogno di creare: vestiti, suppellettili, arnesi, strutture architettoniche, veicoli, eccetera. Una buona ricerca è assolutamente indispensabile e mi diverte farla. Si ha un motivo importante per studiare un certo argomento con una profondità maggiore di come l’avreste studiato altrimenti, e si ha inoltre la soddisfazione di utilizzare quelle conoscenze acquisite per un buon fine immediato. Mi ci volle un anno per preparare Barry Lyndon prima di passare alla lavorazione, e credo che sia un tempo assai ben speso. Il punto di partenza e la conditio sine qua non di qualsiasi vicenda storica o fantascientifica consistono nel farvi credere in quello che vedete. […]

Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte, presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico. […]

Penso che il cinema muto avesse molte più qualità del cinema sonoro. Barry e Lady Lyndon siedono entrambi al tavolo da gioco e si scambiano lunghe occhiate. Non dicono una parola. Lady Lyndon esce sulla terrazza per prendere un po’ d’aria. Barry la segue. Si fissano negli occhi e si baciano. E ancora non hanno detto una sola parola. È tutto molto romantico, però nello stesso tempo credo che suggerisca quell’attrazione vuota che sentono l’uno per l’altra e che scomparirà con la stessa rapidità. Prepara cioè il terreno a tutto quello che seguirà nel loro rapporto. Credo che gli attori, le immagini e la musica di Schubert funzionassero bene insieme”.

Michel Ciment, Intervista a Stanley Kubrick, in Kubrick, Rizzoli, Milano, 1999

Adriano De Carlo

Un film anomalo

Barry è un giovane di bell’aspetto ma dalle origini modeste. Rifiutato dalla donna che ama, intraprende la carriera militare dopo un duello con l’avversario in amore. Stanco della vita militare, con un espediente entra nell’esercito prussiano, divenendo il beniamino del capitano Potzdorf. Ma anche questa volta la fortuna gli volta le spalle e, costretto a fuggire, diventa il compare di un raffinato avventuriero.

Con la spada e la pistola si fa largo nella bella società. Ormai è un uomo appagato. Gli manca solo il blasone. Sposando la contessa di Lyndon e assumendone il cognome colma la lacuna. Ma sarà un matrimonio infelice.

Il figlio della contessa, nato da un altro matrimonio, lo odia e per molti anni progetterà una vendetta, che si compirà quando affronterà il patrigno in duello. Barry Lyndon perderà una gamba e i suoi averi. Un malinconico esilio segna il suo definitivo destino.
Tratto dal noto romanzo settecentesco di William Makepeace Thackeray, Barry Lyndon si può definire un film anomalo nella produzione del grande Stanley Kubrick.

Film di difficile collocazione e che ha spaventato la critica al suo apparire a causa della mancanza di una chiave di lettura che conducesse alle origini del progetto. Il misterioso Kubrck non ha mai chiarito le sue intenzioni. Ma ciò non impedisce di giudicare il film una splendida anomalia.

La tecnica fotografica

Usando una tecnica d’illuminazione naturalistica, tutta a base di candele, che il grande direttore della fotografia John Alcott realizza genialmente, il film è immerso in una atmosfera che restituisce il clima del tempo. Kubrck si è avvalso di lenti speciali, fornite dalla Carl Zeiss e adattate da Ed di Giulio. Un film freddo e crudele. Ironico e mastodontico. Solenne e malinconico. La bella voce narrante di Romolo Valli accompagna il racconto con tono suadente e beffardo.

Altro contributo memorabile al film sono le musiche assemblate da Leonard Rosenmann. Fra tutte spicca il trio per piano in mi bemolle di Schubert. Gli interpreti sono usati da Kubrck come pedine di un’invisibile scacchiera, che egli percorre seguendo un imperscrutabile disegno metafisico.
Le leggi cosmiche e l’ineluttabilità del destino avvicinano Barry Lyndon a 2001: Odissea nello spazio. L’astronauta affronta i misteri del cosmo e ne è vittima, così come Lyndon entra in un mondo che non gli appartiene, subendone la consueta glacialità. Il film ha ricevuto quattro Oscar: per i costumi, la fotografia, la scenografia e la musica.

Da: MYmovies

Tullio Kezich

Il tempore della critica americana

Opera 10 di Stanley Kubrick, Barry Lyndon ha impegnato per quasi tre anni il regista di 2001: Odissea nello spazio che ha lavorato senza badare a spese: il costo finale della pellicola supera i 13 milioni di dollari, sul recupero dei quali la Warner Bros ha ufficialmente dichiarato di non contare affatto.

In generale il film, tratto dal primo romanzo di William M. Thackeray (1844), ha avuto tiepide accoglienze da parte della stampa USA. Lo si è accusato di essere soltanto una sontuosa illustrazione di vita settecentesca, scarsamente animata da un eroe ambiguo e indecifrabile impersonato da Ryan O’Neal.

Il successo in Europa

Tutta diversa, a Londra e a Parigi, la reazione della critica europea: il film è una tappa fondamentale nella storia del cinema tratto dalla letteratura. In apparenza molto fedele al romanzo, Kubrick l’ha trasposto dalla prima alla terza persona e vi ha apportato notevoli variazioni (per esempio il duello iniziale e quello finale non appartengono a Thackeray).

Barry Lyndon mette in scena una società violenta, ferocemente classista, dove l’avventuriero gode di una libertà effimera e viene presto emarginato e distrutto. Arricchito dalla più bella fotografia che si sia vista al cinema (l’operatore è John Alcott), immerso in un suggestivo bagno musicale che va da Haendel a Schubert, vivificato da una schiera di attori perfetti, il film comunica con stoicismo un sentimento amaro dell’esistenza e della storia.

Da: Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere

Richard Schickel

Un libro dimenticato serve da base al decimo film di un artista del XX secolo, ben collocato e riconosciuto, Stanley Kubrick. Egli dispiega le qualità che mancano ancora a Thackeray: originalità dello sguardo, padronanza dei mezzi, coraggio intrepido per mirare non soltanto al successo e all’originalità che numerosi critici già gli hanno accordato, ma alla vera grandezza che solo il tempo può offrire e che senza dubbio il tempo confermerà. […]

Barry Lyndon è con tutta evidenza un film in costume, ma lo è in maniera molto maggiore di ciò che quest’espressione un po’ condiscendente nasconde. […]

Sebbene Barry Lyndon comporti battaglie, intrighi amorosi, duelli, e tutto ciò che siamo abituati ad aspettarci da un film storico, si sbarazza molto sovente di questo materiale troppo facile. La sua distanza e la sua freddezza ci fanno considerare ben misera cosa le passioni melodrammatiche che nutrono abitualmente il nostro interesse per il cinema. Una visione del passato simile a quella che Kubrick proponeva per il futuro in 2001, ci invita a scoprire un mondo estraneo, non attraverso i personaggi, ma insieme con loro, sensorialmente, visceralmente.

Da: Time, 15 dicembre 1975

Jean-Loup Bourget

Un lungo lavoro di preparazione

Se ho capito bene i critici inglesi rimproverano alla montagna di non aver generato un topino. La montagna è Stanley Kubrick. Per mettere al mondo Barry Lyndon ci sono voluti tre anni. Tre anni per adattare e mettere in scena un grande romanzo storico di Thackeray, The Memoirs of Barry Lyndon Esq., by Himself (Le Memorie di Barry Lyndon, 1844).

Tre anni per ricostituire il XVIII secolo, tutta una civiltà con i suoi conflitti bellici, lotte di classe, convenzioni, pittura, musica, costume, camuffamenti, duelli e passatempi.

Tre anni per scoprire e filmare i paesaggi e i castelli di tre paesi: Irlanda, Inghilterra, Germania. Al termine di queste fatiche un film di tre ore, che non assomiglia da vicino a niente di quanto si era visto prima al cinema. La vastità del progetto e del disegno, conciliata con la precisione del tratto, il particolare meticoloso. […]
Una meditazione

In origine la narrazione picaresca è, di fatto, una meditazione (di ispirazione cristiana) sul falso onore dei gentiluomini e sulla vera salvezza, sulla casualità di una nascita umile o illustre e sulla necessità del sostentamento quotidiano, sulla libertà dell’individuo e sul determinismo della sua condizione mortale.
[…] Kubrick ha alzato il tono e il proposito snellendo la trama, schematizzando il dramma, sottolineando la ‘parabola’ in senso balistico e filosofico al tempo stesso. In un certo qual modo è dunque ritornato al modello originale, ma questo non è più cristiano. Non è ‘rumore e furore’ ma piuttosto musica e splendore che, pure loro, non significano niente e sfociano nel nulla dell’epilogo. Sarebbero piuttosto i rari passaggi ove rumore e furore si sostituiscono all’estetica degli automi i portatori di significato: il vitale, l’organico che riprende i suoi diritti pur se in maniera barbara e disordinata. […]

Se lo spettatore è in definitiva toccato da Barry Lyndon, è in virtù di un’emozione insieme morale ed estetica: da una serie dì scene che hanno la durata di una constatazione e la bellezza stessa dell’evidenza.

Positif, n. 179, marzo 1976

Jean-Pierre Oudart

In apparenza Barry Lyndon è fedele alla norma hollywoodiana. La sua trama, che si sviluppa in un vasto affresco storico, può passare per un racconto morale — ascesa e caduta di un arrivista — come supporto di una meditazione pessimista, distante e altezzosa sui grandi valori del mondo. Di che far credito a Kubrick d’essere un grande autore crepuscolare e il suo film un testamento. […]

E invece è un film che sfugge a qualunque maniera. […] Soprattutto […] l’iperrealismo delle scene di genere […], lungi da dar loro l’accento della desuetudine e il fascino dell’immaginario rétro […], le arricchisce di un coefficiente d’estraneità […], quello delle sequenze sociali, dei riti, dei codici il cui senso si sarebbe ormai perduto.

Da: Cahiers du cinéma, n. 271, novembre 1976

Alberto Crespi

1. l’ascesa

Benvenuti nel 700. Siamo in Irlanda, la colonia a quel tempo più vessata e repressa dalla madre patria Inghilterra. Redmond Barry è un bel giovanotto senza nessuna speranza: la morte del padre l’ha lasciato orfano e i pochi possedimenti di famiglia non gli garantiscono certo un futuro.

Si è assurdamente innamorato della cugina Nora, ma lei è destinata a un dragone inglese con una discreta rendita, non certo a quel goffo e spiantato parente. Ma Redmond non sente ragioni: arriva persino a sfidare l’inglese a duello, perché l’unica cosa che non gli manca è una certa dose di incosciente coraggio. Ovviamente il duello all’insaputa di Redmond è combinato: l’inglese si finge morto e il ragazzo ripara a Dublino, con venti ghinee in tasca.

Oddio, in tasca: in realtà il denaro finisce presto nelle bisacce dei banditi, e il giovane Redmond, appiedato e senza un soldo, non trova di meglio che arruolarsi volontario nell’esercito inglese che si accinge a combattere la Guerra dei Sette Anni (1756–1763) contro la Francia…

2. la vita da parvenu

È l’inizio della parabola di Redmond Barry, destinato a divenire Barry Lyndon e a compiere un esemplare percorso all’interno del secolo dei Lumi. Da soldato dell’esercito inglese, Redmond diventa, in rapida successione: disertore, soldato dell’esercito prussiano, spia, giocatore, arrampicatore sociale, sposo di una ricca vedova, padre di un bel bambino. Dopo aver accalappiato Lady Lyndon, Redmond Barry sembra essersi sistemato.

Ma come ammonisce la gelida e saggia voce fuori campo (che nell’edizione italiana è quella, pastosa ed elegante di Romolo Valli, mentre Ryan O’Neal è magnificamente doppiato da Giancarlo Giannini), Redmond ha tutte le doti che servono a conquistarsi una fortuna, ma quelle stesse doti non sono sempre le più adatte a conservarla.

Deciso a divenire Lord, come l’ex marito di sua moglie, intraprende una serie di spese pazzesche, giungendo a finanziare una compagnia di soldati da mandare in America, «a combattere contro i ribelli» (siamo nel 1776, o poco prima…). Il suo ingresso a corte, quando viene presentato a re Giorgio III (sì, proprio quello interpretato da Nigel Hawthorne nel brillante film La pazzia di re Giorgio), è l’esemplare «punizione» del parvenu quando gli dicono che il signor Redmond Barry, aspirante Lord, ha pagato la suddetta compagnia, il re gli dice, sornione: «Ah, magnifico, signor Barry! Armatene un’altra e andate con loro».

3. la caduta

È nella scena del duello, che spesso sfugge a una visione distratta del film, che viene firmata la «condanna a morte» di Barry. Da lì in poi, i pochi nobili che l’avevano appoggiato cominciano a snobbarlo (esemplare, e tristissima, la scena in cui Lord Wendover si rifiuta di pranzare con lui al circolo) e soprattutto il suo figlioccio, Lord Bullingdon — figlio di primo letto di Lady Lyndon — si ribella contro di lui. All’ennesima lite, Bullingdon se ne va di casa. Ma quando apprende che Barry ha instaurato a palazzo una sorta di dittatura, e che la Lady sua madre ha tentato il suicidio, Bullingdon prende in mano La situazione.

Torna, sfida Barry a duello, lo sconfigge anche perché Barry non sembra chiedere di meglio. Barry non muore, ma è quasi una condanna peggiore: gli viene amputata una gamba. Solo, mutilato, assistito dalla vecchia madre, viene liquidato con un vitalizio di qualche centinaio di sterline all’anno, a condizione che lasci l’Inghilterra e non tenti mai più di rivedere Lady Lyndon.

4. L’epilogo

Lo attende l’Irlanda: un esule nella sua vecchia patria, Il film si conclude con un’immagine che sa di morte: seduti in un salone troppo vasto, Lady Lyndon — con i capelli ormai grigi e gli occhi assenti — e Lord Bullingdon — con gli occhiali, brutto e precocemente invecchiato — sbrigano le pratiche dell’amministrazione di Castle Hackton, la loro tenuta.

Tra le tante scartoffie da firmare, c’è il vitalizio per Barry: Lady Lyndon lo guarda, per un attimo, pensosa, mentre in colonna sonora ondeggia lo stesso Trio di Schubert che, qualche secolo prima, aveva accompagnato la sua seduzione da parte di quel bellimbusto che si era presa per amante, poi per marito. Poi, la Lady firma: sul documento la data è quella del 1789, la storia sta per fare «boom». Esplode sullo schermo la Sarabanda di Handel, il «tema della morte» che attraversa tutto il film, e compare una scritta, bianca su fondo nero, a ricordarci che i personaggi, ricchi o poveri, buoni o cattivi, «ora sono tutti uguali».
Barry Lyndon non è un semplice film storico: Barry Lyndon è la Storia.

Un film di quadri d’epoca

È un rarissimo esempio di film ambientato in un’epoca del passato che gli storici, anche i più pignoli ed esperti, rispettano e apprezzano. Stanley Kubrick creò, per realizzarlo, un immenso archivio di quadri, stampe e documenti d’epoca. Può sembrare sorprendente che lo stesso regista capace di attendere 7 anni per girare Full MetaL Jacket, e ben 12 prima di licenziare Eyes Wide Shut, sia stato capace di scrivere, pianificare, produrre, girare e montare un film come Barry Lyndon in tre anni: dal 1972, quando terminò Arancia meccanica, al 1975.

C’è un motivo: il gigantesco archivio di cui sopra, in buona misura, preesisteva.
Kubrick aveva cominciato ad accumularlo, con l’aiuto di numerosi collaboratori (tra cui il futuro regista Andrew Birkin e l’amico «italianista» Riccardo Aragno, traduttore di fiducia dei suoi film), già nel 1967, quando la lavorazione di 2001 Odissea nello spazio era alle battute finali. Kubrick stava cullando il film della sua vita, il suo progetto più ambizioso e irrealizzabile: il film su Napoleone.

La sublimazione del film su Napoleone

Aveva già scelto Jack Nicholson per interpretare il grande còrso, ma nemmeno la Mgm entusiasta di 2001 se la sentì di sostenere un progetto così enorme dal punto di vista finanziario e produttivo. Napoleone finì in un cassetto, e il regista realizzò — con troupe e finanziamenti da «piccolo film» indipendente — il citato Arancia meccanica.

Ma l’imperatore era lì, e continuava a far capolino. È assolutamente lecito sostenere che Barry Lyndon sia la sublimazione di quel progetto. Michel Ciment, che a Kubrick ha dedicato un libro bellissimo edito da Milanolibri, li ha letti in parallelo in modo ironico e sorprendente.

Chi è, tutto sommato, Barry? Un giovane non ricco, nato su un’isola che è la provincia «povera» di una grande potenza, che combatte delle guerre, si fa strada nel mondo, raggiunge potere e ricchezze, ma perde tutto ciò che ha conquistato e finisce, esule, di nuovo su un’isola. Sostituite all’Irlanda, rispettivamente, la Corsica e Sant’ Elena, e vedete un po’ se la parabola di Barry non è la stessa di Napoleone, sia pure in sedicesimo!

Barry Lindon è storia

Ecco perché Barry Lyndon è la Storia. Perché nella storia (con la minuscola) di Barry si racchiudono tutte le tappe che l’uomo moderno ha vissuto nella propria Storia (con la maiuscola). Nella sua apparente freddezza, nel suo essere privo di emozioni futili e di sentimenti privati (tranne che in un caso, fondamentale: come vedremo), Barry Lyndon è una trasparente analisi del funzionamento del capitalismo.

E in questo è una lettura lucidissima della storia moderna. Kubrick sceglie il 700 come paradigma chiudendolo sì nel 1789, quando la Rivoluzione Francese sta per sconvolgere alcuni valori consolidati, ma chiarendo perfettamente come i meccanismi sociali e i rituali in base ai quali l’individuo conquista (o perde) il proprio posto nel mondo siano rimasti i medesimi.

D’altronde, siamo in Inghilterra, nel regno di Giorgio III: gli inglesi, la loro rivoluzione borghese, l’avevano fatta nel ‘600, e nel ‘700 ne stavano facendo un’altra, altrettanto importante, quella industriale, il ‘700 è il «luogo» dove si forma il mondo moderno: sì, sarà il secolo dei Lumi, ma soprattutto è il secolo delle fabbriche, del denaro, dei rapporti di produzione, degli imperi che toccano il proprio apogeo (dalla fine della Guerra dei Sette Anni, 1763, alla rivoluzione americana, 1776, quello inglese raggiunse il massimo della sua estensione).

Ed è anche il secolo in cui nasce l’industria culturale che oggi conosciamo, con i giornali, i primi romanzi a grande tiratura, la pittura accessibile ai borghesi: un tema magari «di sfondo», ma che a Kubrick interessa moltissimo. Basti vedere come insiste sui quadri che Barry acquista per rendersi socialmente rispettabile, e come costruisce il film su un vero e proprio catalogo di citazioni pittoriche (se siete appassionati di pittura settecentesca questo film vi stregherà: ci sono tutti, da Gainsborough a Reynolds, da Zoffany a De La Tour, per non parlare di Hogarth che con i suoi «cicli», come The Rake’s Progress, è anche una fonte tematica, oltre che figurativa).

Il tormentone del 700

Non è certo casuale che il 700 sia una sorta di «tormentone» nell’opera di Kubrick. I critici più attenti, Ciment in testa, lo notarono già all’epoca. il ritratto di fanciulla in stile Gainsborough dietro il quale muore Claire Quilty in Lolita; le citazioni di Samuel Johnson in Orizzonti di gloria e del marchese de Sade in Stranamore; le riconosciute influenze di Voltaire in Arancia meccanica e naturalmente la camera rococò, placenta della memoria umana, in 2001

Tutti tasselli di un 700 nascosto che componeva una sorta di mosaico virtuale, film dopo film. Il discorso vale anche alla rovescia: Barry Lyndon appare una summa del cinema kubrickiano, come se tutti gli altri film venissero da lì, da quel secolo e dalle sue figure.

il rapporto patrigno-figlioccio che rovescia quello fra patrigno e figliastra in Lolita (con il tema, fondamentale in Kubrick, della sostituzione nei rapporti familiari); le citazioni stilistiche da Arancia meccanica (confrontate il carrello all’indietro che accompagna Bullingdon quando va a sfidare a duello Barry, con quello che precede Alex nel negozio di dischi: si assomigliano, e i due personaggi sono vestiti uguali!); le battaglie coreografate come in Spartacus, o come in Orizzonti di gloria; l’uso del linguaggio formale (il continuo chiamarsi «lord», o «lady», o «signore», segno di una società fortemente rituale e gerarchica), di nuovo come nei dialoghi tra ufficiali in Orizzonti di gloria

La letteratura

E poi, dal 700, deriva la fonte primaria: la letteratura. Qui, l’operazione di Kubrick diventa labirintica: il film si ispira a un romanzo ottocentesco, scritto da quel William Makepeace Thackeray più famoso per La fiera della vanità (dove si parla, tra l’altro, di Napoleone…). Ma in Le memorie di Barry Lyndon Thackeray si era divertito a rifare, in modo fortemente satirico, i romanzi picareschi del ‘700.

Sceneggiandolo, Kubrick ha tolto quasi tutti i passaggi comici del romanzo, ma ne ha mantenuto questa distanza: il 700 visto con gli occhi dell’800, in una sorta di cannocchiale rovesciato. E indirettamente, il film gronda di citazioni da Fielding, da Defoe, da Smollett, da tutti i romanzieri che hanno fatto la grandezza della letteratura inglese settecentesca.

Da loro, soprattutto, Kubrick ha mutuato la struttura narrativa: dopo un film come Arancia meccanica che era costruito come una fiaba, in cui tutte le funzioni della prima parte ritornavano, cambiate di segno, nella seconda (una perfetta struttura circolare che ritornerà in Shining), Barry Lyndon è un film lineare, senza flashback, senza immagini deformate, senza effetti speciali, senza nessuno di quei «trucchi» dei quali Arancia meccanica era una sorta di catalogo. Il film perfetto, nella sua linearità: un ritorno alla forma primaria di racconto.

I momenti privati

Ma a dire il vero, un flashback c’è, È anche l’unica immagine linguisticamente «marcata» del film (un ralentì) e si lega all’unico momento in cui il sentimento, scacciato dalla ragione, prende la propria rivincita. È la caduta di Bryan, l’amato figliolo di Barry, da cavallo. E la morte di Bryan, costretto a letto e fasciato come una mummia, è uno dei rarissimi momenti in tutto il cinema di Kubrick in cui è difficile trattenere le lacrime.

Diciamo uno dei tre momenti. Gli altri due — parere strettamente personale, il pianto è soggettivo quasi quanto la risata — sono la morte del computer HAL 9000 in 2001 e la scena finale di Orizzonti di gloria, con i soldati francesi che si commuovono alla canzone della ragazza tedesca,

In quel caso la ragazza (Suzanne Christian, vero nome Christiane Harlan) era anche la futura signora Kubrick. Nel caso di HAL e di Bryan, eventuali coinvolgimenti privati del regista ci sfuggono, e ormai Kubrick non è più qui a confessarli, ammesso che l’avrebbe mai fatto. Possiamo solo concludere con una frase stupida che oggi, poco dopo la sua morte, suona molto amara: anche Stanley Kubrick, l’artista gelido e recluso, aveva un cuore.

Walter Veltroni

C’è una ragione su tutte che mi fa considerare Stanley Kubrick il più grande regista vivente. È la sua straordinaria capacità di mutare il suo cinema, di attraversare tutte le epoche immaginabili. Kubrick è il regista di un grande film satirico, Il dottor Stranamore, ma anche di un kolossal storico, Spartacus, di un bellissimo poliziesco, Rapina a mano armata; di uno stupendo horror, Shining, di un apologo sulla violenza metropolitana, Arancia meccanica. E di un meraviglioso film sulla filosofia, l’etica e che solo i superficiali definiscono fantascienza, 2001: Odissea nello spazio.

Ma la prova più indiscutibile, la più difficile, è il film storico. Anche Kubrick ha creato una meraviglia: Barry Lyndon. Un grande romanzo nell’Irlanda del Settecento. Una storia di amore, di guerra, di morte di cui la memoria rimanda le immagini e la luce. Kubrick cercò di usare le ottiche della macchina da presa e l’illuminazione per far vivere allo spettatore il miracolo di un viaggio nel tempo. Ciò che solo un essere al di sopra della media può garantire ai suoi contemporanei.

Da: Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994

Philippe Pilard

Differenze e analogie tra romanzo e film

Le memorie di Barry Lyndon, romanzo dello scrittore William Thackeray, vengono presentate come dettate da Redmond Barry nel 1814 (data non priva di importanza), mentre si trova detenuto per debiti nella prigione londinese di Fleet. La sceneggiatura del film, pur modificando e inventando alcuni episodi, segue sostanzialmente la linea cronologica generale del romanzo, semplificandola. Kubrick infatti riduce la durata del periodo storico evocato, concentra personaggi e azioni, fa sparire alcuni episodi “a incastro” e introduce qualche ellissi narrativa.

La concentrazione più evidente riguarda la durata generale dell’azione descritta. Nel romanzo l’amore iniziale di Redmond e Nora si può situare verso il 1754–55 come nel film. Per quanto riguarda la chiusura della storia, Kubrick sceglie di terminare il film su una data fortemente simbolica: dicembre 1789.

Nel romanzo invece non si fa alcun cenno alla Rivoluzione francese, mentre il narratore detta le sue memorie nel 1814, il che gli offre l’occasione di evocare la carriera di un altro personaggio ambizioso: Napoleone Bonaparte. Le avventure di Redmond coprono dunque quasi trentacinque anni nel film e una quarantina nel romanzo.

Il personaggio di Lord Bullingdon è senza alcun dubbio quello su cui Kubrick interviene maggiormente in fase di adattamento. Il Bullingdon del film, in gran parte reinventato dal regista, è un ragazzo molto attaccato alla madre che lo ricambia distrattamente. La grande trovata drammaturgica di Kubrick a suo riguardo è la concezione di due sequenze decisive: il concerto incompiuto nel salone di musica, e il duello tra Redmond e Bully.

Concentrando vari incidenti del romanzo in una sola scena tra il tragico e il grottesco, la sequenza del concerto incompiuto tocca il culmine di violenza e crudeltà. Inventando la scena del duello tra Redmond e il figliastro, Kubrick introduce invece un elemento di simmetria nella narrazione. In questo modo può sviluppare a fondo il ritratto psicologico dei due antagonisti. Fino a quel momento, Redmond ha retto il ruolo di provocatore: ed eccolo provocato.

Quanto alla signora Barry, nel romanzo è una virago in gonnella, ma non ha l’importanza del personaggio interpretato da Mary Kean nel film. È la signora Barry (versione Kubrick) che consiglia a Redmond di ambire a ottenere il titolo, con gli sviluppi fatali che ne conseguono. Le modifiche ai personaggi di Bullingdon e della signora Barry portano alla fine del film a una situazione inversamente simmetrica: Lady Lyndon si ritrova sotto la tutela del figlio, e Redmond Barry sotto quella della madre. […]

La fotografia, una pietra miliare

Il lavoro del direttore della fotografia John Alcott per Barry Lyndon segna una pietra miliare nella storia del cinema contemporaneo. Ciò che più stupisce gli spettatori alla metà degli anni Settanta è il trattamento delle scene notturne.

In effetti, volgendo risolutamente le spalle alle convenzioni abituali e alle costrizioni tecniche per cui una scena ambientata nel passato, alla fine risultava illuminata come quelle moderne, Alcott e Kubrick optano per la luce “naturale” dell’epoca: quella delle candele. Scelta estetica resa possibile dall’evoluzione tecnica, in campo ottico, nella fabbricazione della pellicola con nuove emulsioni ultrasensibili, e nei procedimenti di sviluppo e stampa in laboratorio.

Ma le esigenze del regista e del direttore della fotografia trovano talvolta soluzione solo grazie a un lavoro di bricolage, ad esempio l’adattamento di un obiettivo a grande apertura previsto in origine per funzionare su macchine fotografiche, come racconta John Alcott: “Stanley ha avuto l’idea di adattare l’obiettivo fotografico Zeiss — il 50mm F. 0,7 — alla sua macchina da presa Mitchell. È Ed Di Giullo che ha modificato la Mitchell in modo che vi potesse essere installato questo obiettivo a grande apertura. È il genere di sfida che piace a Stanley. Sono pochi i cineasti che si pongono problemi di questo tipo e decidono di dedicarvi il tempo necessario. Sono stati necessari tre mesi per mettere a punto questo nuovo obiettivo”.

Gli interni

Il procedimento messo a punto da Kubrick e Alcott tocca l’apice nelle scene di gioco, come quando Lord Ludd, circondato dalle sue amanti (omaggio a Watteau) affronta Balibari e Redmond; o nell’incontro con Lady Lyndon, dove l’azione drammatica si concentra nello scambio di sguardi: la calda luce delle candele sui cristalli (rafforzata dai riflettori), i colori cangianti dei costumi, il viso truccato di uomini e donne, l’affettazione dei personaggi creano davanti ai nostri occhi l’impressione di un mondo completamente “altro”.

Si osservi che l’impiego di questa illuminazione, giustificato quando si tratta di un palazzo, pone invece problemi di verosimiglianza quando si gira in ambienti più modesti, come nella capanna di Lischen che, per necessità di ripresa, sfoggia una mezza dozzina di candele: spesa voluttuaria assolutamente improbabile all’epoca. Le riprese ‘a luci basse’, l’uso di un obiettivo a grande apertura di diaframma, la ‘forzatura’ del negativo in laboratorio danno tuttavia un effetto estetico interessante: la creazione di una ‘grana’ sull’immagine, effetto differente da quello più frequente della “tramatura”. Così, l’immagine cinematografica sa ritrovare le preoccupazioni pittoriche di certi fotografi anglosassoni di fine Ottocento.

Gli esterni

Altrettanto interessante è il lavoro sull’immagine in esterni. Nei paesaggi, Kubrick e Alcott rinunciano a quello che è stato a lungo uno dei ‘luoghi proibiti’ della ripresa: la ‘falsa tinta’, cioè la variazione di luce naturale, come per l’arrivo di una nuvola sul sole durante le riprese. Non si trattava soltanto di una scelta estetica: la pellicola, infatti, non permetteva scarti di esposizione che per un tempo assai ridotto nel bianco e nero e, a maggior ragione, nel colore.

Barry Lyndon è dunque il primo film a proporci superbi paesaggi e soprattutto ammirevoli cieli, degni del pennello di Constable, dove l’occhio vede vivere la luce e il vento. Bisogna ancora sottolineare le “luci basse” in esterni (effetto di crepuscolo o di nebbia), come l’impiego della luce radente alla fine del giorno nella scena in cui il capitano Quin corteggia Nora Brady prima di essere interrotto dall’arrivo di Redmond: qui il riferimento a Gainsborough è stupefacente.

La luce del giorno morente esalta i colori, soprattutto negli abiti femminili, tutto acquista rilievo grazie alle ombre prodotte e si crea un effimero clima drammatico.

Stanley Kubrick: Barry Lyndon, Lindau, Torino 2004, p. 62 e pp. 78 -83

Enzo Ungari

Un film bellissimo

Il silenzio ostinato che circonda Barry Lyndon, l’ultima fatica di Stanley Kubrick, uno dei film più belli che si siano mai visti — un film che, come 2001, non ci stancheremo mai di vedere e di rivedere — è incomprensibile. […]

Barry Lyndon è un film di tale splendore che dovrebbe accecare (e dunque sono assolti quelli che, chiudendo gli occhi, conservano un debole ricordo di bei quadri e la sensazione di belle musiche assordanti) oppure infiammare: ogni altra azione tiepida rientra nel paragrafo della patologia del pubblico e va senza dubbio ascritta a quella che è stata definita la caduta della percezione sensoriale, malattia propria delle società dello spettacolo. […]

Un quadro del Settecento

Questa storia piuttosto comune, desunta con relativa fedeltà da un romanzo di Thackeray, permette a Kubrick di darci un quadro del settecento alle porte della rivoltuzione francese di una profondità e di una verità sconcertanti. Grazie a un talento difficilmente misurabile, e a 11 milioni di dollari, il film apre un paragrafo nuovo e luminoso in quel genere lussuoso, vuoto e sostanzialmente regressivo che siamo abituati a chiamare film in costume.

Barry Lyndon opera, in rapporto a questo genere, lo stesso profondo e radicale mutamento che 2001 ha effettuato sul cinema di fantascienza. I costumi, gli ambienti, gli oggetti scenici, il paesaggio, la luce degli interni (una pellicola speciale, ad alta sensibilità, fabbricata dalla Kodak e una macchina da presa progettata per adattarsi a un obbiettivo fotografico della Zeiss hanno permesso a Kubrick di filmare servendosi soltanto della luce delle candele), il maquillage degli attori, in una parola tutto ciò che, da Scaramouche a Via col vento, da Cleopatra a Il dottor Zivago, definisce il genere, non è qui utilizzato come vestito, come costume del film (costume che dovrebbe garantirne, come un lussuoso travestimento, la commestibilità estetica). Barry Lyndon va al di là, distrugge l’idea ingenua che si cela sempre dietro il film d’epoca minuzioso, si difende da quel kitsch e da quel naïf involontari, da quell’amore infantile e rimosso per il museo delle cere, che fanno capolino perfino in Senso. […]

La veridicità dei dettagli

Nel film di Kubrick la meticolosa veridicità dei dettagli non suggestiona mai col fascino indiscreto e malsano dell’imbalsamazione del passato, ma costruisce, inventa, immagina (esattamente come succede con i modellini, i fondali e le prospettive di 2001) lo spazio vitale, lo spazio psicologico, lo spazio sociale, lo spazio percettivo così come si costituiscono in un dato momento della storia.

L’atteggiamento di Kubrick davanti al settecento è l’opposto di quello di Bertolucci davanti al novecento, non solo per la differenza di due secoli: mentre per il secondo il passato sembra essere, prima di tutto, ideologia, e i personaggi che mette in scena idee e pensieri, per il primo esso è l’intreccio dei modi e dei luoghi reali dell’esistenza sociale di uomini reali. Forse per questo Novecento è un film sul mito, mentre Barry Lyndon è un film sulla storia. […]
Le scene canoniche intorno alle quali il film in costume si è costruito come il western intorno al duello alla pistola, sembrano avvenire per la prima volta. Questi momenti sono esplorati nei loro tempi reali tanto minuziosamente da svelare, bruscamente, la meccanicità con cui gli altri film in costume li hanno quasi sempre rappresentati, riducendoli a retoriche pietrificate.

La partecipazione dello spettatore

Svelamento, rivelazione e verità che non si risolvono nella frustrazione dello spettacolo interrotto, nel sacrificio dell’emozione uccisa a maggior gloria della ragione, ma nella produzione di uno spettacolo espanso, di un’emozione ancora più profonda, di una partecipazione totale da parte dello spettatore, che quanto più è messo in grado di seguire “a distanza” la storia poco edificante del signor Barry Lyndon, tanto più ne è commosso e incantato. Qualunque cosa si dica di questo film, si avrà sempre l’impressione di avere dimenticato l’essenziale.

Mi limiterò, se non a giustificare il mio entusiasmo, a individuare almeno la ragione principale per cui Barry Lyndon rappresenta per me, e mi auguro per molti altri, un’autentica gioia e una rivelazione. Lontano dal cinema di formule e procedimenti a cui rimanda soltanto per la sua mole produttiva, Barry Lyndon si situa in quella zona dove il cinema è invenzione, ricerca, esperimento. Ma dove tutti, coraggiosamente e confusamente, cercano, Stanley Kubrick trova. Non domanda, risponde.

Da: Schermo delle mie brame, Vallecchi, Firenze 1978

Gianni Amelio

La difficoltà del film in costume

Chi disse che il cinema coniuga sempre il presente disse una grande verità ma semplificò un po’ troppo le cose. Non credo, per esempio, che quando si affronta un film in costume lo si possa fare a cuor leggero. Più si va indietro nel tempo e più la macchina da presa compie una sorta d’intrusione in un mondo che non le è familiare. Quel tanto di ‘rubato’ che viene fuori dai film ambientati nell’attualità, è una palla al piede nei film ‘storici’, anche quando la ricostruzione è precisa fino al dettaglio; meglio forse una sana astrazione, o uno sguardo ‘straniante’ esibito con franchezza.
Nel film in costume bisogna poi fare i conti con tanti piccoli e grandi intoppi: gli abiti che non ‘scendono’ bene perché quella certa stoffa d’epoca non si trova più; l’illuminazione che non può avere i riflessi di quando l’elettricità non c’era ancora. E i corpi stessi degli attori, il modo di muoversi, l’accento… Tante cose congiurano, in questo genere di film, contro chi ama l’aspetto sottratto al quotidiano, quel po’ di naturalismo che la cinepresa regala nell’attimo in cui cattura la realtà al di là della messinscena.

Due differenti rappresentazioni

Nell’anno di grazia 1975 Fellini e Kubrick si trovarono quasi contemporaneamente a sfidare questi ostacoli, l’uno con II Casanova e l’altro con Barry Lyndon. L’epoca era la stessa: il Settecento. Ma i due registi, seguendo il loro estro e — immagino — non dormendoci la notte, diedero due risposte ai problemi su accennati, che più diverse non potevano essere. Due risposte ugualmente intriganti e condivisibili. Il Settecento di Fellini è un luogo fantasticato, sognato (temuto, anche), ricreato con le viscere, senza che mai ciò che si vede e si sente sullo schermo obbedisca a un bisogno di verosimiglianza pedante. La verità di Fellini è fatta delle sole bugie alle quali dobbiamo credere ciecamente.
Ma altrettanto viva è la forza di Barry Lyndon, tutto giocato invece sul ritratto maniacale di quegli anni come ci vengono tramandati dalla pittura e da ogni altra fonte consultabile. Il fatto è che a questi livelli fedeltà e infedeltà storica finiscono per coincidere. E verrebbe da fare una considerazione non tanto peregrina: i film sul passato si fanno non solo coniugando il presente ma immaginando il futuro. Ciò che è troppo conosciuto ma lontano deve essere guardato come ciò che non si conosce ancora. Barry Lyndon non come un’odissea nello spazio, ma come un’avventura nel tempo. Fantascienza, in ogni caso.

Da: Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Einaudi, Torino 2004

Stefano Masi

Il protagonismo dei costUmi

Nei film di Kubrick nulla appare mai lasciato al caso. Sarà proprio il capolavoro kubrickiano Barry Lyndon a procurare a Milena Canonero — fulgido astro della costumistica contemporanea — la prima nomination, che si trasforma inevitabilmente in Premio Oscar nel 1976.

La perfezione di questo film, passato alla storia per il maniacale gusto del dettaglio che lo pervade, in ogni aspetto della sua realizzazione, dalla fotografia al costume, dalla musica alla recitazione degli attori, esalta l’intervento della Canonero (qui affiancata da Ulla-Britt Soderlund): non è fuor di luogo affermare che ci troviamo dinanzi ad uno degli esiti più alti della storia del costume cinematografico.

Pur senza mai soverchiare il racconto, in Barry Lyndon il costume assurge al ruolo di protagonista, sin dalla prima sequenza, che ci mostra una raffinata schermaglia amorosa tra il giovane Redmond Barry e la smaliziata cugina Nora. Il contrasto tra questo mondo provinciale irlandese, quasi fatato, e la potenza britannica viene rappresentato dall’intenso rosso della divisa del capitano Quinn, elemento dirompente della storia.

Musica e costumi

All’apparizione delle uniformi militari si associa spesso una marcetta irlandese dei Chieftains che ricuce l’intero arco narrativo di Barry Lyndon. Anche in questo film, così come in Arancia meccanica balza all’occhio quel particolarissimo rapporto tra musica e costume: come se il costume si fondesse con il leit motiv della colonna sonora, rendendolo ancor più orecchiabile. E la musica, dal canto suo, trova nel costume la possibilità di trasformarsi in immagine. Il risultato è una specie di andamento sinfonico di musica e forme.

Parla Milena Canonero

Il costume in Barry Lyndon sottolinea una certa formalità che in quel momento stava a cuore a Kubrick, il quale aveva scelto un certo tipo di musica e, per accompagnarla, usava dei movimenti di macchina molto lenti. […] La scrittura di Barry Lyndon è caratterizzata da carrellate e zoomate lentissime. Questa scrittura kubrickiana non accompagna tanto il costume, quanto la maniera di vivere dei personaggi. [L’immagine di Lady Lyndon] è nata dai pittori minori del Settecento inglese.

Del resto quando hai un’attrice come Marisa Berenson, che è una donna straordinariamente bella e ha l’altezza gusta, puoi fare qualsiasi cosa con il costume. Avendo lineamenti così puliti e forti, avendo l’altezza, le potevi mettere in testa le enormi parrucche di quell’epoca, farle quelle pettinature incredibili senza correre alcun rischio. […]

Abbiamo fatto tutto da noi, meno cinque costumi maschili presi alla S.A.F.A.S. Abbiamo realizzato tutti i costumi per conto nostro, anche le uniformi, anche le ghette, anche i cappelli… È una cosa abbastanza insolita e lo era ancor di più a metà anni Settanta. A quell’epoca Danilo Donati era l’unico a mettere in piedi dei laboratori di sartoria. Ma in Gran Bretagna, prima di noi, nessuno aveva allestito un laboratorio per un film.

Da Costumisti e scenografi del cinema italiano, Lanterna magica, L’Aquila 1990

Enrico Ghezzi

Una luce magica della pittura

Le perfezionatissime lenti Zeiss, portato tecnico della tecnologia spaziale, servono (come Carbonio 14 fotografico) per riprodurre la luce di un’epoca passata, nei numerosi interni fotografati alla sola luce delle candele. Una luce ‘magica’, inedita (è la prima volta al cinema che viene compiuto tale exploit, sognato e avvicinato per anni da Kubrick), una novità tecnica percepita sensibilmente dal pubblico.

Nello stesso tempo, un’operazione più che mimetica, o mimetica due volte, oggettivamente e soggettivamente, perché Kubrick riproduce anche il tentativo (fino a oggi riuscito molto più alla pittura che al cinema) tipico dei pittori inglesi citati, di ‘ridare’ esattamente la sfumatura luminosa, il dettaglio luministico del reale. “Accenno al fatto (che solo gli ignoranti contestano) che nella natura non esiste alcuna scenografia che un pittore di genio non possa produrre” (Poe).

Per Moravia, “Kubrick poteva scegliere tra due strade: quella realistica cioè degli ambienti come erano realmente; oppure quella degli ambienti come il Settecento, attraverso la sua arte, ci fa capire che avrebbe voluto che fossero.

Ha scelto quest’ultima strada e ne è venuta fuori una galleria di dipinti di autori inglesi dell’epoca… cioè di pittori che hanno espresso il sogno di razionalità, di ordine, di grazia, di nitore, di sensibilità e di compostezza di un secolo demoniaco, sudicio, cinico, empio, insensibile e turbolento”.

Poco importa che tutti gli ambienti e le scenografie del film siano originali, poco importa che molti esempi di architettura (non solo inglese) del Settecento siano ancora ben visibili, per quanto onirici. Loro, gli ingenui, sognavano, e noi oggi con la fede della coscienza storicista sappiamo come andavano le cose. L’intellettuale di oggi, primo cosciente e critico dopo secoli di critica incoscienza, sa certo “come erano realmente gli ambienti”.

Il film come nel quadro

È evidente qui da che parte sia l’idealismo più ingenuo e deteriore, visto che se mai il sogno dei pittori inglesi (come di quelli fiamminghi) era ancora quello della riproduzione assoluta e perfetta e baroccamente ‘totale’, che porterà più tardi un Turner alla follia — che ci sembra astratta — degli ultimi quadri di incredibili nebbie. […]

Il discorso è se mai quello — kubrickiano — dell’ambiguità dell’immagine (e del piacere), per cui, nel quadro come nel film, la figura del reggimento in movimento è suggestiva e ‘bella’, anche se il volto del soldato è triste stupido o angosciato. Quanto alla riproduzione dell’illuminazione d’epoca, non si può più pensare che la ricostruzione degli aspetti visivo-percettivi di un passato sia meno importante, per averne la storia e l’interpretazione, del racconto delle azioni di un personaggio o di un gruppo sociale.

Da: Stanley Kubrick, La Nuova Italia, Firenze 1977

Vincent Canby

Hollywood e il romanzo in costume

Alcuni anni fa, quando l’industria cinematografica era l’unica protagonista e la televisione era ancora uno strampalato progetto non ancora realizzato, il “Motion Picture Herald”, il giornale del settore cinematografico, era solito pubblicare una rubrica a pagina intera in cui gli esercenti raccontavano le loro esperienze con i film. La pagina si chiamava “What The Picture Did For Me” ed era spesso soprannominata “What The Picture Did To Me”.

Era una rubrica informativa e divertente, piena di indignazione, sarcasmo e franchezza da piccola città. Fu lì, a metà degli anni ’30, credo, che un esercente adirato commentò una produzione hollywoodiana sdolcinata di un romanzo classico con queste parole: “Per favore, non mandatemi più film in cui l’eroe scrive con una penna d’oca”.

Per i successivi 20–25 anni, Hollywood si è quasi completamente astenuta dal produrre film in costume tratti dai i classici, a meno che non ci fossero anche cristiani divorati dai leoni, pirati, terremoti, vulcani, naufragi o qualche altro elemento non comune. C’erano via via delle eccezioni molto rispettabili — penso soprattutto alla versione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio del 1940. Ma fino alla strepitosa versione cinematografica di Tom Jones diretto Tony Richardson nel 1963, i film seri in cui gli eroi scrivevano con le piume erano estremamente rari. Lo sono ancora, a meno che non siano anche divertenti e, in modo innocuo, un po’ osé.

L’ottimo lavoro di Kubrick

Tutto questo per esprimere la mia ammirazione per quello che Stanley Kubrick è riuscito a realizzare nel suo ultimo film, Barry Lyndon, un adattamento cinematografico lungo, serio, spiritoso, straordinariamente bello e di prima qualità del primo romanzo di William Makepeace Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon, pubblicato nel 1844 e ambientato nella seconda metà del XVIII secolo.

Ci sono tante penne d’oca, quelle con cui Barry Lyndon (Ryan O’Neal), avventuriero irlandese, disertore, giocatore d’azzardo, cercatore di fortuna, vittima della società e peccatore impenitente, firma gli assegni.

C’è da rimanere stupefatti per come Kubrick abbia fatto ad ottenere il finanziamento di questo film (costo: 11 milioni di dollari, stando alle voci) e a portarlo nei cinema in questa forma così rigorosa, che ha la stessa ampiezza e persino più profondità del romanzo a cui si ispira.

In questo periodo di film catastrofici, melodrammi sulla mafia e altri escamotage per destare sensazioni viscerali, Barry Lyndon è unico con la sua narrativa lunga, verbosa (di fatto, se non in effetti), picaresca. Si sposta dall’Irlanda alla Germania e all’Inghilterra, prestando una meticolosa attenzione ai dettagli storici e sociali oltre che ai personaggi secondari, ricostruendo il passato con lo stesso dettaglio che ha messo nel ricostruire il futuro in 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica.

Sospetterei che sia stato per il successo al botteghino di questi ultimi due film che Kubrick ha avuto l’autorità necessaria per imporre Barry Lyndon, un film di tre ore, quattro minuti, 44 secondi, una durata assolutamente necessaria per il soggetto.

Sospetto anche che i dirigenti di Warner Brothers, che hanno finanziato il film, possano avere avuto le palpitazioni quando hanno visto per la prima volta quello che Kubrick aveva fatto, dato che Barry Lyndon è tutto tranne che un film alla Tom Jones, come detto da uno spettatore con il quale l’ho visto.

Una commedia di maniera

È a tratti molto divertente e ha i suoi momenti di azione, avventura e romanticismo, ma è, più di ogni altra cosa, una commedia di maniera sul XVIII secolo, il che potrebbe non essere esattamente quello che gli spettatori — che sono stati attratti da Arancia meccanica e ipnotizzati dalla perfezione fredda di 2001 — si aspettano.

Quando andate a vederlo, dimenticate i vostri impegni successivi. Rilassatevi. Catturate il ritmo del film, che stimola lo stile discorsivo del romanzo del XIX secolo e trova, nel suo uso ripetuto degli ingrandimenti un equivalente visivo delle didascalie con cui Thackeray punteggiava il suo romanzo (Tipo: “Barry dice addio alla professione militare”).

Volta dopo volta, Kubrick inizia una sequenza in un primo piano stretto, poi ingrandisce lentamente per rivelare un paesaggio che potrebbe essere di una bellezza mozzafiato di per sé, ma che contiene anche indizi di situazioni narrative importanti che devono ancora venire.

Lo stile discorsivo è ulteriormente enfatizzato dall’uso di un narratore fuori campo (il libro è scritto in prima persona da Barry), una voce anziana, amichevole e onnisciente (Michael Hordern) che spesso ci parla degli eventi prima che li vediamo, come qualcuno che racconta una storia durante una cena, sapendo che non ci interessa tanto ciò che è successo quanto il come e il perché. Questa modalità ha l’effetto di distanziarci dai personaggi, trasformandoli in inusuali soggetti provenienti da un ambiente diverso, come in effetti è.

Ma ha anche l’effetto di rendere improvvisamente e sorprendentemente commoventi gli eventi che contribuiscono al declino finale di Barry, principalmente perché fino all’ultimo terzo del film non si può essere del tutto sicuri di cosa ci riservi Kubrick.

Paesaggi meravigliosi

Il film si apre graziosamente, dolcemente, quasi sonnolentamente, con il narratore ci introduce nei luoghi nei quali Barry Lyndon, destinato a diventare uno dei più famosi libertini di tutta Europa, è nato, cioè la campagna irlandese. Vediamo paesaggi meravigliosi, resi come potrebbero essere stati visti da un Gainsborough o da un Watteau, i colori romanticamente morbidi ma i dettagli stranamente, talvolta ostilmente, precisi.

Barry, nella persona di Ryan O’Neal, è una pagina bianca e bella sulla quale viene scritto un personaggio, inizialmente ingenuo, irrimediabilmente innamorato di una cugina più anziana e relativamente ben collocata, quindi scacciato dal suo mondo a cercare fortuna dopo aver creduto di ucciere in duello il ricco pretendente inglese della cugina.

Il film prende slancio mentre segue le avventure di Barry, prima nell’esercito inglese durante la guerra dei sette anni, poi nell’esercito prussiano dove finisce dopo la diserzione da quello inglese. Nel frattempo, Barry stesso si trasforma in un opportunista simpatico, non troppo sveglio, davvero il tipo i cui successi precoci devono inevitabilmente portare a un destino eccessivo per la personalità di Barry.

Il payoff di Kubrick arriva con il corteggiamento e il ricco matrimonio di Barry con un’abbiente e nobile vedova inglese (Marisa Berenson), un’avventura che fa emergere il peggio nell’ambizioso Barry Lyndon e, alla fine, fa uscire la vulnerabilità del ragazzo irlandese che aspirava a entrare nell’aristocrazia

Un film intelligente

Barry Lyndon non è un film appassionato — quelli di Kubrick non lo sono mai — ma è così stimolante da vedere, così intelligente nella sua concezione ed esecuzione, che si finisce per aderire alle sue condizioni, che evitano severamente risate e sentimentalismi ovvi, ad eccezione di due o tre scene. La scala del film è immensa, anche senza le sue impressionanti sequenze di battaglia e il cast sono impeccabile, specialmente nei ruoli di supporto — Murray Melvin come cappellano personale della “vaporosa” moglie di Barry, Leon Vitali come furioso figliastro di Barry, Diane Koerner come una contadina tedesca con cui Barry vive una breve, idilliaca parentesi dalla guerra.

Miss Berenson non è esattamente la sciocca frivola della società che Thackeray ha creato, ma la sua bellezza e la sua eleganza ne è un surrogato. O’Neal supera un ruolo difficile che lo vede sullo schermo in modo quasi continuo, e si concede un leggero accento irlandese che sembra venire e andare. Ma alla fine, l’apparente e allegra opacità di una star del cinema americano diventa parte della trama del personaggio che usa le persone fino al momento in cui non hanno più alcuna utilità per lui. È una performance più riuscita di quanto O’Neal si vedrà riconosciuta dalla critica.

Barry Lyndon è diverso da qualsiasi altro film in costume o con penne d’oca che ricordi di aver visto, anche se ha strette associazioni con entrambi Arancia meccanica e 2001: Odissea nello spazio. Le emozioni che evoca non sono necessariamente quelle suscitate dall’identificazione con i personaggi, ma dalla struttura logica finale che governa l’opera completa.

Nel contesto della produzione cinematografica odierna, Kubrick è riuscito a realizzare qualcosa di estremamente originale e finanziariamente rischioso.

Da: The New York Times, 21 dicembre 1975

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.