Au hasard Balthazar di Robert Bresson nella critica del tempo

Mario Mancini
57 min readJun 13, 2021

I film di Robert Bresson nella critica del tempo
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La santità di Balthazar. «E poi è un santo», dice di lui la madre di Maria.

«Ho sempre pensato di fuggire.»
Maria

«È il film totale di Bresson.»
Jean-Luc Godard

Tullio Kezich

Battuto di misura da La battaglia di Algeri alla Mostra di Venezia del 1966, questo film di Robert Bresson ha messo sei anni interi per arrivare nei nostri cinema, dove attualmente s’intrufola fra una programmazione commerciale e l’altra accompagnato dal viatico del sindacato critici cinematografici italiani (un marchio per i film di qualità di cui lo spettatore intelligente farà bene, da ora in poi, a tenere conto).

L’invenzione dell’asino Balthazar è una delle cose più belle nella filmografia di Bresson: remota e misteriosa come una pittura cavernicola del periodo glaciale. Non c’è dubbio che siamo di fronte a un animale a quattro zampe, ma la storia — delle sue peregrinazioni attraverso la società ha qualcosa di emblematico.

Balthazar passa fra i personaggi del film con il suo carico di sofferenza ignara, come chi sopporta il dolore senza neppure conoscerne il nome né decifrarne il senso. Si potrebbe interpretarlo come un Cristo esistenziale, rappresentante dell’umanità sotto-proletaria o addirittura subnormale: ogni allusione, come la decodificazione eventuale dei simboli, si inserisce comunque in un discorso articolato che ha per fine la concretezza poetica.

Forse è vero, come è stato detto, che le parti umane del film non sono all’altezza di quelle asinine: e tuttavia nei torbidi eventi di sesso e di denaro che Bresson trae dalla contemplazione del mondo attuale ci sono l’ambiguità e la pietà della poesia. Momento sconcertante e commovente di un’autentica vena d’artista, il film va ammirato con rispettosa cautela: troppe spiegazioni gli farebbero torto.

Una straziante allegoria della ingratitudine umana narrata attraverso la storia del povero Balthazar, un asino che passa di padrone in padrone: l’animale subisce ogni sorta d’angherie fino a quando non viene dato a un alcoolizzato, Arnold.

Perito Arnold per ubriachezza, Balthazar finisce in un circo, dove viene esibito come ciuco matematico; di lì, nelle mani di un avaro fabbricante di acqua minerale, che lo aggioga alla ruota di un pozzo. Fino al tragico epilogo: caricato di merce di contrabbando, presso il confine spagnolo, viene ferito dai finanzieri e muore in mezzo a un gregge di pecore.

In queste bizzarre vicende l’animale fa risaltare la sua proverbiale pazienza e la dote di grande intelligenza ingigantita a confronto degli uomini affaccendati, impegnati senza costrutto a distruggersi l’uno con l’altro. Dietro il rigore formale, i personaggi ieratici, la narrazione asciutta e il linguaggio essenzialissimo, si agitano alcuni dei grandi problemi della vita dell’uomo d’oggi caratteristici della poetica del grande maestro francese.

È un film di grande poesia. Bresson sembra voler dire che nessun calvario può riscattare un mondo terreno governato dal male.

Da Il Corriere della Sera

Massimo Magri

L’apologo di Balthazar, l’asino candido, semplice e rassegnato che passa di padrone in padrone — “Eppoi ci sono i personaggi umani che rappresentano l’uno l’orgoglio, l’altro la vigliaccheria, l’altro ancora l’avarizia e via dicendo” (Robert Bresson) — registrando lungo l’arco della sua vita tutto il male del mondo.

«L’invenzione generale di Balthazar sta tutta qui: l’ottica ‘unilaterale’ e deformante dell’asino spoglia i gesti e le parole quotidiane di ogni sovrapposizione consolatoria per restituircene la gratuità e la tristezza. Violenza, sopraffazione, grettezza, avidità di possedere e corrompere, sembrano essere le direttrici esclusive di un’esistenza in cui vivere è un progressivo morire, una perdita di significato e di nesso: solo il dolore, quando non si sublimi nell’orgoglio della sofferenza, sembra conservare il segno della autenticità»(Adelio Ferrero).

«Balthazar, come tutta l’opera di Bresson, è un film sottilmente malsano, come c’è qualcosa di malsano in tutto quello che è religiosità, per cui questa, appunto, può essere affascinante» (René Gilson).

«… il suo manicheismo è di stampo medioevale. I cattivi sono tali a priori e niente, neppure la Grazia, li salva; la vita è considerata un ostacolo alla vita interiore» (Bernard Chardère).

Georges Sadoul

Nella campagna francese, attraverso le peripezie d’un povero asino che passa di padrone in padrone, vediamo un quadro d’un mondo contemporaneo di odi, passioni o indifferenze, disorientamenti o turbamenti, di cui l’asino senza colpa sarà lo spettatore e la vittima.

Attraverso il suo asino, Bresson ha mostrato quello che pensa e vede della società di oggi, gli stessi odi di sempre, le passioni di dominio o di proprietà, quelle gratuite e insoddisfatte, un mondo insomma senza gloria e senza salvezza.

Solo l’asino, al limite, si salva, e sulla sua neutra presenza si scaricano i mali. Bresson sembra esser giunto al limite d’una posizione disperatamente critica sull’uomo, di cui ben poco si salva, e che — nel successivo Mouchette — avrà il suo esemplare positivo nella sola figura della bambina suicida.

Il film, denso, ricco di personaggi, episodi, indicazioni, è nondimeno stretto in una costruzione rigorosissima, in cui Bresson si serve delle sue esperienze precedenti con nuova forza, e con un’estrema capacità di sintesi.

La recitazione è distaccata e “detta” (con lo scarto tipico tra azione e tono della voce), il dialogo scarno e banale se non volgare, la fotografia mediocre e senza “bravure”; gli episodi sono concatenati in una lenta accumulazione di scene dello stesso tono, sino a quella finale dell’uccisione dell’asino, durante una spedizione di contrabbandieri; non mancano momenti sconvolgenti, ma non sono tanto questi a contare quanto lo spoglio sguardo pessimista del regista sul fondo dell’animo.

Il film più grave e forse più importante, opera di culmine e insieme di svolta, della filmografia bressoniana.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Jean-Luc Godard

Io faccio dei film in poco tempo ed alla svelta, mentre Bresson procede molto lentamente, e meditando molto, già in questo c’è un’enorme differenza.

Au hasard Balthazar è un film stupendo. Io sono un drogato del cinema, un cinepatico che ha la malattia del cinema, perciò uso sempre parole forti. Ma nel caso di questo film, posso dire che mi fa l’effetto che può fare Pascal quando parla delle passioni.

Ciò che distingue Bresson da noi della Nouvelle Vague, è il rigore e la coerenza delle sue idee. Egli non ha mai deviato dal suo cammino. Qualunque sia il rischio o la violenza delle cose egli va fino in fondo e penetra nell’intimo dell’animo umano.

Robert Bresson presenta dunque questa differenza, e questo straordinario privilegio; d’essere un inquisitore e un umanista.

Per questo Balthazar è veramente un documento terribile sul mondo e sul male del mondo; tutto questo colpisce con una specie di dolcezza evangelica, che per me è favolosa! […] Tutti coloro che vedranno questo film e che non hanno idee preconcette sul cinema, resteranno sorpresi e meravigliati, perché in esso c’è veramente il mondo contenuto in un’ora e mezzo, il mondo dall’infanzia e della morte.

Da Cineforum, n.56, giugno 1966

Marguerite Duras

Vedendo Au hasard Balthazar ho avuto la sensazione di scoprire un tipo di cinema che non era mai stato fatto prima, un cinema con una densità nuova, la densità del pensiero. Balthazar non è intellettuale, è completo; esso è tanto sensoriale quanto di pensiero. Quello che gli uomini facevano fino ad oggi nella poesia, nella letteratura, Bresson l’ha fatto nel cinema.

Da Cineforum, n.56, giugno 1966

Louis Malie

Non credo che questo film potrà esercitare un influsso, prima che siano trascorsi molti anni. Ritengo che Balthazar, realizzato da un altro che non fosse Bresson, risulterebbe una cosa mostruosa. Vi è una specie di magia che è propria di quest’uomo, un fluido che parte da Bresson e a lui ritorna. Questo film precorre di molto il cinema attuale e si pone all’avanguardia; cioè, è come fuori dal tempo ed è estremamente essenziale: esso resterà come una cosa del tutto particolare, assolutamente unica.

Ciò che è mirabile in Au hasard Balthazar è che Bresson ha superato tutti i film precedenti.

Quello che è del tutto eccezionale in Bresson, e, soprattutto in Balthazar, è che questo tipo di cinema ha spezzato ogni possibile rapporto con l’arte drammatica. È un cinema della vita interiore, che può essere paragonato alla pittura ed alla musica, che è, secondo me, l’espressione di un pensiero ricreato fisicamente allo stato puro e insieme con acuto realismo.

Da Cineforum, n. 56, giugno 1966)

René Gilson

Antonin Artaud, che diede il volto a un monaco esaltato in La passione di Giovanna d’Arco, scrisse: «La pelle umana delle cose, l’epidermide della realtà, con queste cose gioca il cinema. Esalta la materia, la fa apparire nella sua spiritualità profonda, nelle sue relazioni con lo spirito da cui è scaturito».

In Bresson, nessuna esaltazione dei volti, della materia. Bosco, pietra, ferro e facce sono dei segni, ma non stabiliscono rapporti con la spiritualità. Pertanto in tutti i suoi film, come in Balthazar, le analogie eristiche, i rapporti con la Scrittura non smettono mai, ma sono sempre più o meno direttamente leggibili, persino in Journal d’un curé de campagne in cui queste corrispondenze si accumulano con una specie di rabbia, non risultano alla fine né stabilite, né coordinate.

Au hasard Balthazar è una parabola, ma non ne risulta chiaramente una parabola. L’asino è venuto fra i suoi simili ma non l’hanno riconosciuto. All’inizio i fanciulli vorrebbero andare da lui. Ma non li lasciano avvicinare troppo…

Balthazar esiste, vede e ascolta, è testimone e tace. Vede e forse si diletta. Vede la vita: la «vede veramente», ecco la saggezza. «Fai delle bolle di silenzio nel deserto dei rumori». Non ha ascoltato, si potrebbe dire, che il silenzio e ha obbedito, s’è sottomesso, forse trovando le radici di un’obbedienza autonoma dalla fede: Balthazar non si fa riconoscere; è presente nel mondo, lo caricano, lo picchiano, una ragazza l’ama, ma non troppo. Muore, non raccoglie nulla.

Davanti a Balthazar, il film raccoglie delle figure, non le riunisce. Sono figure, segni, non personaggi. Segni individuali, non individui. Non c’è nessuna singolarità psicologica, ma un’evidente pluralità in ciascuna di queste figure: è un altro cammino per arrivare all’essenza dell’essere umano. «… quale cammino mi è toccato per arrivare fino a te.»

Da Cahiers du Cinéma, n. 182, settembre 1966

Adelio Ferrero e Nuccio Lodato

Nel conflitto tra esistenza e possibilità, schiavitù alla norma e infrazione all’ordine che essa sancisce, conflitto centrale e persistente nell’opera bressoniana, l’accento era caduto finora sul secondo termine del contrasto, sulla forza e coerenza dell’alterità, più o meno vittoriosa nell’immediato ma pur sempre “necessaria”.

Ma già nel Processo la separazione e l’antitesi tra il mondo stabilito e l’individualità che lo negava appariva non componibile (la fuga di Fontaine e il “ravvedimento” di Michel recavano in sé, nel rifiuto del presente, la promessa e l’attesa di un modo diverso di vivere con gli altri), divaricata senza possibilità di accordo e conciliazione, estremisticamente vissuta sino all’autoannullamento.

Nell’emergenza del personaggio “altro”, il mondo veniva messo tra parentesi e restituito in forme sempre più ellittiche e riduttive, che ne vanificavano la pretesa di totalità mortificandola nel frammento. Ora, esaurita l’apologia, ma non la ricognizione, dell’interiorità antagonistica, l’occhio del regista si posa sul mondo, e sulla trasparenza di negatività e di orrore che ne promana. La negazione non assume più la forma dell’azione, del gesto, del comportamento ma si trasmette tutta e soltanto allo sguardo: lo sguardo di Balthazar, di Mouchette, della “femme douce”. La conseguenza sarà un chiuso ed estremo ritrarsi, ma senza illusioni di esemplarità, senza la pressione interiore e il risarcimento delle “voci”.

Nasce un asinelio, che la bambina Marie denomina Balthazar. È testimone di giochi infantili (con l’altro bambino Jacques) e vicissitudini familiari. Cresciuto, viene adibito a lavori pesanti. Gli anni passano. Approfittando dell’aver rovesciato il carro che stava trainando, Balthazar fugge e finisce nella fattoria mandata avanti proprio dal padre di Marie, ex-maestro del paese. Ritrova così la fanciulla, cresciuta, che lo colma di tenerezze, ma è anche molestato da una banda di giovinastri.

Dal capo di questi, Gérard, Marie è però attratta. Torna a comparire Jacques, del cui padre quello di Marie è dipendente: è devoto alla ragazza come ai tempi dell’infanzia, ma subisce lo spiacevole contrattempo del mutato atteggiamento del proprio padre, che ha perso la fiducia in quello di Marie e del suo operato, e si mostra fiscale con lui.

Il fattore preferisce però essere processato, e questo irrigidimento provoca l’allontanamento di Jacques da Marie e la diminuita attenzione di quest’ultima verso Balthazar, che viene venduto al fornaio e destinato al trasporto del pane.

A condurlo è Gérard, del quale è invaghita la fornaia, che gli perdona piccoli furti nel negozio per impegnarlo a non rivedere Marie. Il ragazzo però non le dà retta, e anzi un giorno, incontratala in un viottolo poco frequentato, la seduce sotto gli occhi di Balthazar.

Gérard è anche sospettato di un delitto maturato nell’ambiente dei contrabbandieri, cui è collegato, così come Arnold, il barbone del paese, ch’egli tiene in soggezione. Nel frattempo continua ad amoreggiare con Marie, che gli cede sistematicamente: durante i loro incontri l’asino resta abbandonato alle intemperie, e si ammala.

Gli risparmia l’abbattimento Arnold, che lo rileva gratuitamente dai fornai. Per un po’ Balthazar può godersi, rimessosi, la sua vita pigra e svagata, fatta di incontri strani. Ma quando Arnold viene preso dal dubbio di aver commesso effettivamente senza averne coscienza il crimine per cui era sospettato, scarica le sue tensioni in maltrattamenti sull’animale, costretto a una nuova fuga.

Il suo nuovo destino è un circo: prima bestia da fatica, poi attrazione in pista. Le cose sembrerebbero ben indirizzate a questo punto, quando il riconoscimento di Arnold tra gli spettatori di un numero lo fa interrompere per lo spavento.

Riottenuto dall’uomo, ne condivide il tragico destino: obnubilato da un’improvvisa eredità, l’ex-vagadondo suscita l’invidia di Gérard, che per dispetto prostituisce Marie agli amici e induce il nuovo ricco a ubriacarsi. Determinandone di fatto la morte, perché l’ebbro, tornando alla propria dimora, scivola dalla groppa di Balthazar e batte la testa restando inanimato.

Venduto a un avaro mercante di granaglie, Balthazar è costretto a lavorare denutrito alla ruota girevole. Una notte capita lì Marie, in fuga da tutti: rifiuta di prostituirsi al padrone di casa, ma finisce poi per passare egualmente la notte con lui, fuggendo al mattino. Quando i genitori sopraggiungono a cercarla, l’uomo cede loro nuovamente Balthazar per tacitarli.

Jacques tenta invano di persuadere Marie, rientrata a sua volta in famiglia, a cambiar vita sposandolo. La ragazza rifiuta e, recatasi a un appuntamento-tranello con Gérard, viene violentata dal gruppo dei suoi amici, e lasciata lì senza abiti.

Marie se ne va. Suo padre muore disperato, e la madre rifiuta di ridare Balthazar a Gérard, e lo fa sfilare nella processione della domenica delle Palme. Ma i contrabbandieri tornano a impossessarsene per una notte. In un conflitto a fuoco con le guardie di frontiera, Balthazar è ferito a morte. Si trascina a morire in un luogo poco distante, che riconosciamo per quello dov’era nato.

«Vedendo Balthazar — confessava Godard a Bresson — si ha l’impressione che esso abbia vissuto nei suoi film, attraversandoli tutti. Voglio dire che vi si ritrovano anche il borsaiolo, e Chantal… ed è questo che fa sì che sembri il più completo di tutti. È il film totale. In se stesso, e in rapporto a lei. Lo sente anche lei in questo modo?».

E Bresson: «Non mentre lo facevo; ma è un film al quale credo di pensare da almeno dieci o dodici anni. Non in modo continuo: c’erano periodi di calma, che potevano prolungarsi anche due, tre anni, durante i quali non ci pensavo affatto. Ho meditato a lungo questo film, l’ho lasciato, ripreso… A volte mi sembrava troppo difficile, e pensavo che non l’avrei mai fatto. Lei ha dunque ragione di credere che ci riflettevo da molto tempo. Ed è possibile che si ritrovino le tracce di questo lavorio in altre opere. Mi sembra che sia anche il film più libero che ho fatto, quello in cui più ho messo me stesso» («Cahiers du cinéma», n. 178, 1966).

Anche in altre occasioni Bresson è tornato sulla lunga e tormentata gestazione di Au hasard Balthazar, inseguito e abbandonato nel tempo come, e più di altri suoi film, ripreso e di nuovo accantonato.

Ma senza che si appannasse l’immagine da cui tutto era scaturito: «il punto di partenza è stato una visione folgorante, di un film nel quale l’asino sarebbe stato il personaggio centrale».

Una rivelazione non dissimile, almeno per intensità e violenza, si era affacciata (e il regista lo ricordava esplicitamente) al principe Miskin, L’idiota di Dostoevskij: «Ricordo: la tristezza in me era intollerabile; avevo perfino voglia di piangere; ero sempre pieno di meraviglia e di inquietudine; su di me aveva agito in modo orribile il fatto che tutto ciò era straniero, questo lo compresi. L’ambiente straniero mi uccideva. Ricordo che mi svegliai del tutto da questa tenebra una sera a Basilea, al mio arrivo in Svizzera, e mi svegliò il ragliare di un asino sul mercato cittadino. Quell’asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello».

E Bresson: «Questo film mi è venuto da solo, circa dieci anni fa, e mi ha tormentato. Ho visto tutto a un tratto una testa d’asino riempire lo schermo. Gli occhi di un asino, il suo sguardo». E ancora: «…avevo letto L’idiota, ma senza fare attenzione (a quel passaggio, ndr). Poi, due o tre anni fa, rileggendolo, mi sono detto: Ma quale passaggio! Ecco l’idea meravigliosa! (…). Assolutamente meravigliosa: illuminare la figura di un idiota attraverso un animale, fargli vedere la vita attraverso questo (…). E paragonare questo idiota (ma voi sapete bene che egli è, di fatto, il più fine, il più intelligente di tutti), paragonarlo all’animale che passa per idiota e che è il più fine, il più intelligente di tutti. È magnifico!» (ibidem, i corsivi sono nostri).

La scelta provocherà molte discussioni e congetture: Estève ricorda un famoso quadro di Watteau, la Bibbia e la tradizione cattolica del Medioevo, e naturalmente, la natività e la domenica delle palme.

Interpretazioni vivacemente contrastanti divisero l’équipe dei “Cahiers”. Secondo Labarthe, «l’asino non era che un pretesto, un modo di condurre i personaggi. Il problema era: come fare un film su un certo numero di persone che riassumono le diverse tappe della vita? E l’asino è comparso a titolo di tramite, è una semplice funzione. Anche se Bresson sostiene il contrario».

Ma Weyergans era di parere opposto («Io penso esattamente il contrario: Bresson si è detto: «come si può fare un film su un asino?»), mentre Comolli suggeriva di verificare le ripercussioni di quella scelta a livello della scrittura: «scegliere di mostrare il mondo attraverso un asino, è trovare l’equivalente neutro degli scrittori» (“Cahiers du cinema”, n. 180, 1966).

È vero, come si osserverà più di una volta in quel dibattito, che rispetto alla struttura e al percorso rettilinei (un personaggio protagonista, un’avventura unitaria e irreversibile, un senso rigorosamente determinato che subordina e riassorbe tutte le suggestioni esterne e collaterali) dei film precedenti (dal Diario al Processo, attraverso il Condannato e Pickpocket), colpisce qui la novità dell’apertura narrativa, la multilateralità delle vite e delle esperienze che il film abbraccia, la polivalenza dei nuclei e dei raccordi semantici.

«In tutti gli altri film di Bresson — osservava Narboni nella “tavola rotonda” dei “Cahiers” — c’è una retta che è percorsa da un personaggio. Ed è ciò che dà l’impressione di un maggior rigore. Ma ciò che è magnifico in Balthazar è che esiste sempre questa linea, solo che, questa volta, i differenti tronconi sono recuperati da diversi personaggi».

Ma rispetto a questi personaggi l’asino non è affatto un “pretesto”, come sostiene Labarthe: è uno sguardo. Uno sguardo attraverso il quale tutto ciò che accade è riflesso, spogliato, giudicato.

È dunque non uno sguardo “neutro” ma, se mai, semplificatore. Coinvolto, direttamente o meno nei destini che attraversano o sfiorano soltanto la sua vita, Balthazar è anche il testimone- martire di quanto avviene intorno a lui.

Il filo di sangue che gli scorre dal fianco, in una delle ultime immagini, non ci sorprende: sorprendente, se mai, è che lo avvertiamo come il compiersi di un destino.

Attraverso l’occhio triste e impietoso del suo asino, che scopre e subisce il male del mondo, Bresson descrive, alla luce di un pessimismo cristiano sempre più desolato, la mostruosità di un universo destituito di senso e di bellezza.

Rispetto al precedente verghiano delle Novelle rusticane (Storia dell’asino di san Giuseppe), viene operata una sorta di ribaltamento per cui la vittima si trasforma in giudice.

L’intuizione geniale di Balthazar sta essenzialmente qui: l’ottica “unilaterale” e semplificatrice dell’asino spoglia gesti e parole, movimenti e fatti, di qualsiasi sovrapposizione consolatoria restituendocene, inflessibilmente, la gratuità e la tristezza.

L’irriducibilità dei grandi personaggi bressoniani si è trasferita tutta nell’ottica di un animale, nel suo sguardo “puro”: la trasparenza del male, riaffiorando attraverso questa rilettura del mondo vitrea e frontale, si allarga sulle cose e sulle persone come un secondo, e più vero, grado dell’esistenza.

Balthazar è uno sguardo gettato sul mondo ma anche una peripezia semplificata ed estrema: l’infanzia, i giochi, il lavoro, la solitudine, la morte ne scandiscono e segnano i tempi.

Nelle immagini aurorali dell’inizio (la nascita e le prime capriole nel paesaggio alpino, l’incontro con i bambini), lo sguardo dell’asino comincia a posarsi sul mondo: la felicità e gli amori infantili di Marie e di Jacques, la luce che li attrae e la zona d’ombra che li riprende nel movimento dell’altalena, ma anche la sofferenza e il pianto improvviso della piccola Louise.

Bresson accosta e suggerisce, in poche immagini essenziali e staccate, figure e rapporti, frammenti e interferenze di destini, vanificando sul nascere, nel punto stesso della sua possibile condensazione, qualsiasi indugio lirico-descrittivo: l’immagine dissolve prima ancora di toccare la coscienza dello spettatore.

E come sempre, ma con particolare determinazione e continuità, non è la motivazione psicologica e lo sviluppo narrativo di una situazione a interessare il regista ma la sua persistenza e durata.

Così, il ricorso frequentissimo, ossessivo, alla dissolvenza incrociata suggerisce la continuità di un tempo senza alterazioni e fratture, riassorbendo il potenziale drammatico di certe situazioni emergenti nella uniformità di una condizione stabile e generalizzata.

La dissolvenza visiva della pioggia e della neve che cadono su Balthazar, legato davanti all’ovile dove si sono rifugiati Marie e Gérard, e la dissolvenza sonora dei ragli dolorosi che si perdono nel silenzio della campagna («gli animali hanno coscienza che sta accadendo qualche cosa di insolito», ha detto una volta Bresson) sono soltanto un esempio della continuità-iterazione che regola l’asse temporale del film.

Il procedimento ellittico, che impronta tutta la composizione, trova un riscontro particolarmente intenso nei frammenti della vita di lavoro di Balthazar, scanditi dallo scorrere eguale del tempo e delle stagioni: dei primi padroni dell’asino, il fabbro, il falegname, il contadino, resta una labile sequenza di facce dure e cattive, di mani che battono e feriscono.

Resta anche la dolente continuità di un’esistenza fatta di inattese ribellioni (la bellissima sequenza della corsa improvvisa di Balthazar, con la sineddoche della ruota del carro il cui movimento si fa sempre più veloce) e di più dure cadute.

Se i metaforici animali di Buñuel sono un riscontro impudente e sarcastico, nella “natura”, delle leggi occulte che governano la “società civile”, la parabola dell’asino di Bresson riassorbe anche queste in un irredimibile apologo sulla negatività del mondo.

Gerard e i suoi amici ne danno dimostrazione esemplare. La loro malvagità ha qualche cosa di gratuito e di necessitato a un tempo, come se fossero costretti al male senza saperlo.

Per questo non convince il pur stimolante accostamento, proposto da Estève, di Gérard a Jaïbo, il protagonista di Los olvidados. Nei “dimenticati” di Buñuel, la coazione alla violenza e all’oltraggio, fortemente connotata in senso etico-sociale, conserva una sua marginalità rivoltata e distruttiva che è altra cosa dalla brutalità squallida e automatica dei ragazzi di Balthazar.

Si veda con quale ottuso automatismo essi versano l’olio sulla strada e attendono il rumore dell’incidente, o come distruggono il bar durante la festa. Bresson ne ha genialmente suggerito la schizofrenia del comportamento divaricando sino al limite estremo il contrasto tra la violenza delle azioni (la “punizione” di Arnold, l’oltraggio a Marie, i calci e le botte all’asino) e l’assenza dello sguardo.

Anche lo sfondo rumoroso e frastornante (le moto, il transistor a pieno volume, la scarica di petardi nella notte), di cui non sembrano poter fare a meno, come di una consuetudine divenuta bisogno, e che ne anticipa e accompagna le intrusioni, non evoca allegrie vitalistiche ma pare sottintendere il tetro orrore di ritrovarsi a tu per tu con se stessi, la paura della solitudine e della riflessione.

Se Gérard è predestinato all’abiezione, Marie e il maestro lo sono alla sofferenza: l’orgoglio della sofferenza, tentazione ricorrente nel personaggio bressoniano, è degradato, nel padre di Marie, a paura del ridicolo e aridità, solitudine e disperazione senza conforto di potersi esprimere («egli ama il suo dolore più di noi. Lo coltiva, ne ha bisogno», dice di lui la figlia).

In Marie la sofferenza ha radici più profonde, nasce, come ricorderà lei stessa a Jacques, da un dissidio non colmato, continuamente riaperto, tra l’immaginario e l’esistente, tra un sentimento della vita ostinatamente perseguito, nonostante tutto, dietro quel volto chiuso e imbronciato, e le delusioni e sconfitte che quella attesa deve ricevere e patire ogni giorno.

Se ne veda l’ultimo slancio, la speranza di poter amare Jacques — «Io l’amerò, io l’amerò» –, confessata a Balthazar, nella stalla, con sommessa esaltazione: possibilità ancora una volta, e definitivamente, frustrata nella sequenze dell’oltraggio, immediatamente successiva.

Nel rapporto amore-sessualità, il contrasto tocca il suo punto più intenso: la seduzione di Marie è spezzata in una sequenza di frammenti e dettagli il cui centro è fuori dell’inquadratura, nella presenza e nello sguardo di Balthazar che le mani di Marie avevano accarezzato a lungo, in una scena precedente, nel silenzio della notte.

L’odio di Gérard per Balthazar nasce anche di qui: Marie non sa né vuole resistere alla brutalità del giovane ma la direzione del suo sguardo è rivolta altrove. «Balthazar, l’asino — ricordava Bresson –, porta con sé, forzatamente, l’erotismo greco e, a un tempo, la spiritualità e il misticismo biblici. Egli occupa il primo posto tra gli animali della creazione nell’antico e nel nuovo Testamento, e si trova effigiato su almeno cento delle nostre chiese e cattedrali romaniche» (“Cineforum”, n. 56, 1966).

La pretesa dispersione delle figure e dei nuclei narrativi, sulla quale ha insistito una critica tradizionalmente ostile al regista (tra gli altri, e con particolare pedanteria, Droguet, che parla di film composito, eterogeneo, ecc.), è frutto di una lettura superficiale e preconcetta: tra la parabola di Balthazar e quelle di Marie, di Arnold, del maestro vengono a stabilirsi affinità e contrappunti governati da una necessità segreta ma irrefutabile. È dunque vero, come fu osservato nel dibattito dei “Cahiers”, che «la novità in Balthazar (…) pare essere nel movimento, nel ritmo, nella narrazione che li trasporta, più flessibile e più serrata, raccolta e distesa» (Narboni) e che si avverte la costanza di un «equilibrio compensatore tra frammentazione e ampiezza, ellissi e parabola» (Comolli).

Ma il centro e la misura di questa dinamica più aperta, e tuttavia sempre rifluente su se stessa, è lo sguardo che, dietro le apparenze del movimento, ne svela la staticità e la ripetizione.

L’occhio limpido e dilatato di Balthazar riporta quelle esistenze alla loro nuda disperazione, ma esse trovano un riscontro esemplare nell’esperienza dell’asino tra gli uomini.

I ragli lancinanti di Balthazar (nella sequenza dell’ovile, ad esempio), le sue fughe assumono lo stesso senso delle ribellioni inutili di Marie, delle improvvise crisi di follia di Arnold, strappi e lacerazioni (e tali risultano nel ritmo grave e pacato del racconto) nel tessuto uniforme di un’esistenza votata alla sconfitta e alla morte.

Si veda come Arnold, la cui “diversità” di vagabondo e di miserabile (non contraddetta né incrinata dal senso casuale e beffardo che assume l’inattesa ricchezza di cui si trova, suo malgrado, gratificato) perciò stesso oggetto di diffidenza e persecuzione, sia da parte delle forze dell’“ordine” (la polizia) sia di quelle del disordine (Gérard e i suoi amici), accetta infine, in quel calvario senza redenzione che è il suo ultimo viaggio, il mistero inutile della morte e come si congeda, nel silenzio notturno, dalla bellezza imperturbabile e distante di una natura che tutto smorza e riassorbe.

Le origini del male sono profondamente radicate ma non indecifrabili: anche in Balthazar il denaro governa indirettamente, ma con dura determinazione, il destino dei personaggi.

All’origine del distacco di Jacques da Marie c’è una questione di interesse, la stessa che sospingerà il maestro alla rovina; la squallida moglie del fornaio alimenta la propria sensualità triste e rimossa cercando di tenersi vicino Gérard con regali e premi; lo stesso Balthazar appare continuamente ridotto a oggetto di scambio.

Nella figura del mercante, infine, il culto del denaro è diventato ossessivo, una distorsione che indurisce i lineamenti del viso e crea il vuoto intorno. Anche qui la vita regolata dal danaro evoca il proprio contrario: «Io vi seppellirò tutti», si consola il mercante, ma la triste constatazione di Marie svela uno dei segreti meno effimeri di questo film misterioso e struggente: «È qui che si desidererebbe morire: non ci sarebbe nulla da rimpiangere».

Le ormai lontane conclusioni del Diario, di cui Estève ha voluto ritrovare certi echi e ricorsi in Balthazar, appaiono completamente ribaltate; quello che Balthazar contempla è un mondo senza Grazia, abbandonato da un dio impietoso e distante: violenza, sopraffazione, grettezza, avidità di possedere e corrompere sembrano essere le direttrici di un’esistenza in cui vivere è soltanto un progressivo morire e dove il sentimento che «il mondo è già costituito, ma anche mai completamente costituito» e che «noi siamo aperti a possibilità infinite» (Bresson-Godard, Le testament de Balthazar, “Cahiers du cinéma”, n. 177, 1966) si rivela del tutto astratto e impraticabile. Solo il dolore, quando non si sublimi nell’orgoglio della sofferenza (come nel maestro, con il suo amaro e scostante gusto del soffrire), pare conservare il segno della autenticità.

In questo universo dove le preghiere non vengono mai ascoltate — si veda la crudeltà del passaggio dalla madre di Marie, che invoca Dio di conservarle il marito, all’immagine dell’uomo morto sul letto — l’istanza religiosa coincide con una sofferenza senza riscatto, alla quale non si offre alcuna apertura liberatoria.

Au hasard Balthazar finisce dove era cominciato, nella luce della montagna toccata dai primi raggi di sole: l’asino viene a morire nei luoghi della sua nascita, mentre nella lontananza di un campo lunghissimo si sente un suono di campanacci e si intravedono le forme confuse di un gregge.

Pecore e montoni circondano e sommergono Balthazar, lo lambiscono pietosamente, si allontanano e tornano ad accostarsi. La morte dell’asino nero, circondato da quel mare di forme bianche che si spostano e ondeggiano lievemente, suggella un mistero la cui intuizione («e poi, è un santo») era risuonata, poco prima, nelle parole della madre di Marie.

«Esiste un abisso — notava giustamente Comolli — fra la spoliazione dei segni e la ricchezza dei loro sensi (…). Come se ci fosse, ancora una volta, un rapporto inversamente proporzionale tra la pochezza dell’informazione e l’ampiezza, l’intensità delle emozioni o delle riflessioni che essa suscita».

In questo senso, una delle aspirazioni più segrete di Bresson, quella di «far sentire il silenzio», tocca in Balthazar l’approssimazione forse più alta. La musica (la Sonata n. 20 di Schubert) si riduce anche qui a una frase, accennata e subito interrotta, che ricorre brevemente, come nel Condannato e in Pickpocket, scandendo momenti essenziali dei destini paralleli di Balthazar e dei suoi amici: i ritorni alla casa del maestro, l’ultimo dialogo di Jacques e Marie, la sequenza conclusiva.

È anche la scarna, reticente intrusione della pietà dell’autore in una materia che sembra ubbidire, nel suo organizzarsi, a una automatica fatalità interna. Nella selezione bressoniana del suono, la musica del transistor di Gérard e il rumore della sua moto assumono lo stesso valore del silenzio che divide e isola i personaggi, la stessa impossibilità di rapporto.

In Balthazar, luogo di convergenza e di estremizzazione di tutti i motivi del film, questa impossibilità ha qualcosa di radicale e di irreversibile: si veda la straordinaria sequenza degli sguardi scambiati con gli animali del circo, che lo osservano dietro le sbarre.

Anche Balthazar è un film di sguardi, di mani, di figure separate e perdute dietro porte e finestre che sembrano inghiottirle, come quelle della casa dove Jacques e il maestro si aggirano per liberare Marie.

Nel silenzio, il ritmo dei battiti del cuore (il film, secondo la nota equivalenza bressoniana) diventa insostenibile, come nella sequenza notturna del giardino: la mano di Gerard, il volto di Marie, l’occhio attento e dilatato di Balthazar, bagliori di una “situazione” frantumata, trovano una superiore ricomposizione e sintesi poetica nell’unità del silenzio come luogo dell’immaginario e dell’indicibile.

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 83–92

Giorgio Tinazzi

In una lunga e illuminante intervista con Bresson Godard ha parlato a proposito di questo film di opera di arrivo “totale”; in effetti giungono per molti versi a definizione — forse anzi a conclusione — alcune ricerche che si consolidano poi in Mouchette.

Viene in luce più chiara infatti l’apparente contraddizione strutturale di un film calato nelle cose e nei fatti la cui tendenza però è verso la depurazione significativa, se non simbolizzante, in una dialettica tra realismo e astrazione che si è andata progressivamente delineando.

L’andamento di parabola si coglie come primario, con le conseguenti operazioni di divisione, di dilatazione, di caricamento, di schematizzazione delle linee portanti; ma accanto, concomitante, vi è una forte spinta alla “collocazione”, al realismo si direbbe, il mondo si ispessisce invece di rarefarsi, si è scritto giustamente. Saranno le stesse valenze stilistiche di Mouchette.

Dal punto di vista tematico, sembra quasi che il negativo si dilati: dietro l’asse del rapporto tra scelta e preordinazione, tra il caso (che appare nel titolo) e la recettività assoluta, si avverte pieno il senso del reale subito, il peso di una storia inevitabile e normale, secondo una definizione pertinente; il male, sempre più entità ontologica, e la violenza si ramificano, la morte o la “fuga” appaiono come il punto finale.

Stilisticamente, il perno è costituito dalla figura del testimone e dalla scansione allegorica delle sue “tappe”: «guardo con l’occhio di un giudice», ha detto Bresson, sottolineando il fatto che quella che finora era stata una presenza corposa ma secondaria (il testimone, appunto) passa ad essere il polo di un’opera.

Attorno a essa la tensione parabolica si articola e determina i ritmi interni. Su questa proposta il regista rischia l’evidenza didattica (i vizi le tappe) o il parallelismo esplicito (la vita dell’asino la vita dell’uomo), i contrappunti ideologici (quell’essere “candido” e “semplice” di cui parla il regista), la spinta rinforzante intellettuale (le reminiscenze bibiliche, o colte)[1].

Dunque, un’operazione sottile e pericolosa, nella quale far intervenire l’abituale abbassamento, togliendo lo spessore evidentemente drammatico.

Il problema era anche narrativo, di salvare l’uniformità (o l’unità) di fronte alla divisione in blocchi, le cui linee di incrocio potevano apparire o predeterminate o rischiosamente divergenti. Vi era poi un equilibrio da mantenere: da un lato c’è l’accentuazione di alcuni elementi “rituali” (il battesimo di Balthazar o — per altro verso — il circo, la “saggezza” o la messa in scena), cioè un vero trasferimento segnico che carica gesti e significati, ma contemporaneamente la struttura stessa esigeva che anche i gesti senza peso venissero inseriti nel complesso, con la loro non apparente liturgia significativa.

Lo sforzo poteva rivelarsi preordinato, rendendo intellettualistico il tentativo di prendere “dal vivo” i significati secondi. D’altronde, la rottura poteva anche attuarsi nel rapporto difficile tra i diversi momenti che si contrappongono, ad esempio, tra proiezione soggettiva (Maria che accarezza Balthazar), l’ironia-realtà (i due ragazzi: “Come nella mitologia”), e poi l’urto (la sequenza che segue, le motociclette che circondano la ragazza).

Il punto di sostegno è quello Maria Balthazar, cui afferiscono i vari episodi, e in questa prospettiva quasi non contano le conseguenze temporali: les années passent dice semplicemente una didascalia all’inizio. Gli elementi di rinforzo della griglia principale sono di diverso tipo: narrativo, come per il momento di tensione-allentamento rappresentato dalle indagini attorno ad Arnold (il delitto non commesso); descrittivo, come per la collocazione “geografica” (i fatti, i lavori, i ritmi quotidiani, già intravisti nel Diario) o per quella sociale (la «povertà” della famiglia di Maria). Si giunge agli inserti didattici, che stridono nel contesto; è il caso del dialogo tra il pittore e il turista vicino alla cascata[2]. o del professore e l’allievo[3].

Avverti dietro un pessimismo che si radica e cresce. I destini si intersecano e “si ledono”, l’innocenza e la naturalità vengono violate[4]., lo scacco è l’approdo, la morte di Balthazar riprende il peso iniziale (la bambina malata), diventerà il rifiuto di Mouchette; i legami col male, il continuo rimando sono in fondo la vera indecifrabilità.

Lungo l’arco della parabola torna il tema dell’interferenza tra caso[5] e scelte, e più ancora tra volontà e predeterminazione; è il caso che lega le “tappe” di Balthazar e le “avventure” di Maria, e c’è anche la volontà di questa di incidere, di cercare (la tensione, dunque). Il “sacrificio” è un passaggio; ma anche in questo film esso può forse assumere connotazioni non univoche, denotare inclinazioni verso una liberazione di ordine metafisico, avvalorato da accostamenti simbolici, da cariche semantiche implicite (i riferimenti biblici).

In fondo però è pur sempre la “perdita” il momento che più interessa, e già l’inizio lo fa intuire: la naturalità, l’amore (e anche i gesti convenzionali che lo caratterizzano), l’”ombra” che si proietta sul quadro (la malattia di Luisa). Poi lo sviluppo di queste premesse si amplia; sul piano dei soggetti gli altri si insinuano come negativo, la lettera contro il padre il Maria, il rapporto con Jacques che si incrina («Fa che questa storia non si metta tra noi», esclama Maria prevedendo le conseguenze). Sul piano dei fatti è il loro collegamento che ci sfugge, il loro costituirsi in legge che ci sovrasta; l’avanzamento della narrazione è anche questo manifestarsi come determinazione.

Su questa trama di motivi si muovono i personaggi, anzi, come forse ha giustamente precisato un critico, non personaggi ma “segni individuali”, cioè corposamente emblematici, non “soggetti” drammatici. Maria, in parallelo a Balthazar, è l’asse ideologico del racconto, come lo sarà Mouchette del film seguente; la sua parabola è dall’innocenza alla fuga, articolando il tema della perdita.

Disponibile, diventa progressivamente disincantata, «egli ama le sue sventure molto più di noi, ne ha bisogno», afferma circa il padre. Alla radice c’è la sua ambivalenza, l’attaccamento a Balthazar e l’amore per Gérard, il naturale e l’attrattiva del male[6]; la scena degli schiaffi e dell’abbraccio è quasi didascalica, ma piena di risonanze.

Ma già nel primo incontro, quando Gerard entra nell’automobile, vi è tutto un gioco di gesti e sguardi, e le lacrime di Maria sono quasi un preludio. L’erotismo, imploso ma violento, è come un sintomo di questa ambiguità, violenza e desiderio, spinta al male e sfida, ricerca e sconfitta; e di questo vuoto (cioè della perdita, della violenza) Maria ha coscienza: «la realtà è un’altra cosa», dice a Jacques, che tenta il recupero, nell’incontro finale. Il tempo è logoramento: «in così poco tempo, quante cose portate via, spazzate, finite!» (Maria a Jacques). «Una ragazza che si perde», ha detto Bresson; la fuga, la sottrazione sono la libertà perduta che è diventata scelta, la possibilità si è fissata in destino.

L’altro personaggio a più indicazioni è Arnold, residuo di naturalità e volontà di distruzione, indifeso e aggressivo, vittima e partecipe; anticipa qualcosa dell’Arsenio di Mouchette. La passività è anche reazione, il “vizio” confina con la libertà, c’è anche gran riconosce e reagisce.

Balthazar è il punto di riferimento: al circo (la costrizione) lo riconosce e reagisce. Anche la vocazione alla morte di Arnold ha qualcosa di naturale, solo un primo piano vicino allo zoccolo dell’asino ce ne dà i connotati.

Il “movimento” dei due personaggi principali lascia il posto al ruolo più di “segno” del padre (l’orgoglio, l’ostinazione), e di Gérard (la violenza, il tradimento, anche l’attrattiva). Sul fondo, presenze inerti ma testimoni dolenti, la madre e la fornaia; le poche battute di dialogo, una partecipazione ridotta all’essenziale, denotano però o l’apertura che è quasi complicità (la fornaia e Gérard)[7], o una passività che è forza di constatazione[8], che non elude l’interrogativo (Maria e la madre) [9]. In fondo sono loro l’ultimo portato della generale durezza dei rapporti.

La quale poi trova — come altre volte — l’esemplificazione nel motivo del denaro: l’accusa che sconvolge il padre di Maria e rompe il rapporto con Jacques, il furto di Gérard al fornaio, l’eredità di Arnold, Maria “oggetto” («se la vuoi paga», afferma Gérard all’amico durante il ballo al bar), il rapporto tra Maria e il mercante.

La riduzione drammatica procede per linee convergenti ma frammentate, in modo che il crescendo sia livellato, con una calcolata intersezione dei blocchi (le “tappe” di Balthazar). Altre volte la stessa consequenzialità è messa a repentaglio, come quando osserviamo il dopo prima della nostra conoscenza di un fatto: Arnold è raggiunto dai gendarmi / la festa al bar / la dichiarazione di eredità del notaio.

Talora il montaggio nega l’azione precedente: ad esempio, Arnold promette di non bere, e lo si vede subito ubriaco, oppure — ancor più — si vede la madre di Maria pregare per la vita del marito («Non portatemi via anche lui. Aspettate») e subito uno stacco ci introduce nella camera dove lui è morto (a ragione questa sequenza ha richiamato una analoga di Pickpocket, che ho ampiamente descritto).

Il peso del concreto — i fatti, le cose, i luoghi — è la forza dell’allusione. Gli esterni hanno sempre un ruolo rilevante, rappresentano la collocazione dei personaggi, il loro essere radicati, e anche l’ostile, l’urtante (la strada, i rumori); il finale, con la sua apertura figurativa e chiusura sostanziale, è proprio la dilatazione conclusiva dell’uso degli esterni.

I brevi inserti descrittivi di luoghi di azione (il tribunale, il posto di polizia, o il mercato) acquistano una loro pregnanza proprio in virtù della cifra realistica: come gli oggetti, o i rumori (la campagna, il lavoro, la fatica, e ancora l’ostile); anche la musica interna al film dà sempre il senso dell’urto, della dissonanza (il transistor, la festa di Arnold).

Proprio per questo fa da contrasto col pianoforte della colonna sonora (il secondo movimento della sonata n. 20 di Schubert), una sorta di commento appena sottolineante: la parte riguardante i momenti dell’infanzia, il ritorno di Balthazar, Balthazar malato, il finale, tutto risolto in giochi di piani e di rumori (e il loro accordo straniante riscatta il possibile caricamento allegorico preordinato).

Certo, il processo di riduzione rischia il didascalismo (magari voluto) come nei dialoghi del mercante (l’avarizia, il denaro, la morte). Ma raggiunge la piena espressività quando arriva al procedimento bressoniano dei particolari, gli sguardi, i gesti[10], i silenzi, le allusioni, le ellissi (la più volte citata sequenza dell’olio sparso sulla strada per provocare l’incidente).

Tutto ciò, sintomo di una tendenza generale, è un’operazione pericolosa. Il rischio c’è, e Bresson probabilmente ne è cosciente. Nei particolari può portare a richiami trasparenti, nella struttura la studiata frammentazione può arrivare a una perdita di coesione, a uno squilibrio nel delicato rapporto degli elementi espressivi, tradito magari da taluni sostegni ricercati (le punte didascaliche, ad esempio).

Può essere anche il riflesso di un tessuto ideologico che, pur rimanendo complesso, è volutamente ridotto a dati essenziali, col pericolo dello slittamento semplificante o dello schematismo; la “facilità” che talora si avverte nella rappresentazione del negativo (ed è un appunto che si fa a Bresson) può essere la prova più che di un “manicheismo medievale” (come taluno vorrebbe), di un equilibrio che può rompersi: il lavoro di scavo che diventa troppo allusivo, o — per sintomatico rovesciamento — troppo pregnante.

Un rischio, allora, non solo di questo film. Ma cosciente, come quello di chi opera coerentemente (e ostinatamente) nel senso della depurazione del reale.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 99–104

Virgilio Fantuzzi

Au hasard Balthazar (1966) introduce una novità nella filmografia di Bresson. Il film narra la storia di un asino dalla nascita fino alla morte. Il regista che non vuole attori sul suo set, ma modelli, non persone che non recitino, che fingano di essere quello che non sono, ma persone che siano disposte a posare, restando esattamente quello che sono, trova nell’animale l’interprete ideale.

Nulla e nessuno è capace di manifestarsi per quello che effettivamente è, senza finzioni, più di quanto sappia farlo un asino. La fedeltà a se stesso è per lui un dato fuori discussione. Il film si presenta con una struttura particolarmente complessa. La vita dell’asino è legata a quella di un gruppo di esseri umani, i quali rappresentano i vizi (orgoglio, avarizia, lussuria, briachezza, violenza…). L’asino è colui che subisce, con una capacità di sopportazione pressoché illimitata, tutte le conseguenze, per lui dolorose, dei vizi altrui. La vita dell’asino è come una linea che attraversa il film che può essere percepita per segmenti. C’è un’evidente analogia tra la vita dell’asino (battezzato con il nome di Balthazar) e la vita di un essere umano. Il film ne coglie le tappe fondamentali: l’infanzia, i giochi, le carezze, l’età adulta, il lavoro, la resistenza alla fatica e ai maltrattamenti, uno sprazzo di genialità che illumina la piena maturità, il momento mistico che precede la morte.

Se il percorso seguito dall’asino è lineare, i percorsi sui quali si muovono i personaggi umani sono tortuosi e costituiscono, attorno alla linea tracciata dall’asino, una sorta di spirale composta, a sua volta, da diversi fili reciprocamente intrecciati. Marie e Jacques (Anne Wiazemsky e Walter Green) vivono felici in campagna accanto a Balthazar, prima che le circostanze della vita li separino. Il padre di Marie (Philippe Asselin), vittima di un malinteso, avvia una lite con il padre di Jacques. L’orgoglio gli impedisce di trovare una via d’intesa. Passato dalle mani del padre di Marie a quelle di un fornaio, Balthazar subisce le angherie i Gérard (François Lafarge), giovane garzone del fornaio e capo di un gruppo di blousons noirs dediti ad azioni di violenza gratuita. Gérard seduce Marie. In cerca di qualcuno contro cui sfogare una rabbia immotivata, Gérard incontra Arnold (Jean-Claude Guilbert), vagabondo ubriacone al quale nel frattempo è stato venduto Balthazar. Disorientato dai bruschi cambiamenti di umore del suo nuovo padrone (il quale è gentile quando è sobrio e diventa furioso quando è ubriaco), l’asino fugge. È accolto in un circo dove «impara» la matematica e viene esibito come animale intelligente.

Arnold eredita una somma cospicua da un parente sconosciuto. Dopo una bisboccia, durante la quale Gérard sfascia tutto quello che gli capita a tiro, Arnold muore. Balthazar e Marie finiscono entrambi nelle nani di un vecchio avaro (Pierre Klossowski). Torna Jacques. Vorrebbe sposare Marie. Percossa e umiliata da Gérard e dai suoi poco raccomandabili compagni. Marie fugge senza lasciare tracce. Suo padre muore, Balthazar partecipa a una processione portando sul dorso le reliquie di un santo. Gérard ruba Balthazar e se ne serve per trasportare merce di contrabbando oltre la frontiera (siamo sui Pirenei). Colpito da una pallottola, sparata nel corso di un conflitto con le guardie di confine, Balthazar muore circondato da un gregge di pecore. La contrapposizione tra il bene e il male, presente in ogni film di Bresson, è affidata qui al rapporto tra l’asino, protagonista unico, e i personaggi di contorno, che entrano in contatto con lui. Nessuno tra gli esseri umani che si vedono nel film (eccetto la madre di Marie, interpretata da Nathalie Joyaut) è esente da difetti o da pecche. Anche Marie, la ragazza che si perde, è vittima e allo stesso tempo complice di coloro che abusano di lei. Solo l’asino si salva. Esempio massimo del «faire face» bressoniano.

Per quanto poco credibile possa apparire la cosa, non si riesce a sottrarsi alla sensazione che il regista abbia voluto presentare nella vicenda di Balthazar un’ulteriore variante sul tema della Via Crucis (rappresentata in maniera indiretta) già affrontato e sviluppato sotto diverse angolazioni nei film precedenti. Vedendo il sangue che sgorga dalla ferita aperta nel fianco della bestia, non ci si può sottrarre al pensiero che la sua morte abbia, in qualche modo, un significato salvifico.

L’asino è simbolo di tutti coloro che sopportano senza ribellarsi le conseguenze del male. Una mole immensa di dolore. Che senso ha? Con i film precedenti (in particolare con il Journal e con il Procès) Bresson ha posto queste domande al centro della propria attenzione. Non le ha eluse. Ha dato loro una risposta. Con questo film fa la stessa cosa.

Balthazar è un nome da presepio. Designa l’ultimo dei tre Magi. Quello abitualmente effigiato con la faccia nera. È come se un pittore di presepi avesse dipinto au hasard la figura dell’asino al posto di quella del bambinello. Balthazar nasce e muore tra le pecore e i pastori. Attorno a lui si ode l’abbaiare dei cani. Nel paesaggio montano si ripercuote, come un’eco lontana, la parola muta della sua pazienza e della sua bontà.

Da: Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovani Spagnoletti e Serfio Toffetti, Lindau, Torino, 1998, pp.41–42

Michael Haneke

«Dovremmo dunque mangiare ancora dall’albero della conoscenza, per ritornare allo stato di innocenza?
Tuttavia, questo è l’ultimo capitolo della storia del mondo». Heinrich von Kleist, Il teatro delle marionette

Il primo film che ricordo — vagamente — di aver visto al cinema fu l’Amleto di Olivier. Dato che fu girato nel 1948, devo aver avuto perlomeno sei anni. Naturalmente, in seguito, l’ho rivisto più volte, cosicché non riesco più a distinguere esattamente quello che ho provato la prima volta dal ricordo delle successive proiezioni. Tuttavia ricordo con precisione l’oscurarsi della sala rivestita in legno scuro all’inizio della proiezione, il lento e grave sollevarsi del sipario e le immagini sinistre del castello di Helsingör, circondato dal mare, accompagnate da una musica altrettanto sinistra.

Inoltre ricordo mia nonna, che quella volta sedeva accanto a me, raccontarmi, svariati anni dopo, di essere stata costretta a uscire dal cinema dopo neanche cinque minuti, perché io piangevo dalla paura, a causa di tutte quelle immagini e di tutti quei suoni tetri.

Poco dopo — deve essere stato in quello stesso anno, dato che non avevo ancora cominciato la scuola ho trascorso tre mesi di «riposo» in Danimarca, a seguito di un programma di aiuti per i bambini dei paesi che avevano perso la guerra. Per la prima volta lontano da casa per tanto tempo, mi sentivo molto depresso. I miei genitori adottivi danesi cercavano di far svanire le mie preoccupazioni portandomi al cinema. Era la brutta giornata di tardo autunno, piovosa, grigia e fredda, e il film, di cui ho dimenticato il titolo e la trama, si svolgeva nella foresta vergine e nella savana africane. Anche in questo caso mi ricordo perfettamente della sala stretta, lunga e buia, le cui porte laterali si aprivano direttamente sulla strada. Il film conteneva molti camera-car, chiaramente girati dall’interno di un fuoristrada davanti al quale si muovevano continuamente antilopi, rinoceronti e altri animali mai visti prima. Anch’io sedevo in quell’auto e continuavo a provare stupore e gioia.

Alla fine il film terminò, la luce in sala si accese, le porte si riaprirono sulla strada grigia. Fuori la pioggia scrosciava. Il rumore del traffico arrivava fin dentro. La gente apriva gli ombrelli e usciva all’aperto. Per me, tuttavia, fu come uno shock: non capivo come potessi essere all’improvviso di nuovo in sala, mentre fino pochi secondi prima mi trovavo ancora in Africa, tra gli animali al sole. Il cinema, che per me era un’automobile nella quale viaggiavo, non poteva certo — o almeno non così velocemente — essere tornato nella nordica e fredda Copenaghen!

Quando penso all’immediatezza e alla violenza di questi due primi ricordi cinematografici mi vengono sempre in mente quelle tribù indiane alle quali, poco dopo la loro «scoperta», ossia poco dopo il loro primo confronto con la cosiddetta civilizzazione, sono stati fatti vedere dei film tramite un impianto di proiezione installato nella foresta vergine. Secondo i racconti dei proiezionisti, i selvaggi si abbandonavano al panico né si lasciavano tranquillizzare. Interrogati sul motivo del loro comportamento, rispondevano, dopo un lungo atterrito silenzio, di sentire la messa in quadro delle immagini come una reale mutilazione della persona mostrata nel film ma che per loro era davvero presente: il primo piano di una testa era veramente la testa tagliata, che parlava e si muoveva davanti a loro, di una persona in carne e ossa, che però a causa di questa mutilazione doveva essere ormai morta!

La conoscenza di quella forza magica delle immagini viventi, capace di suscitare al contempo terrore e incanto, è ormai da tempo caduta nell’oblio in un mondo che abitua già i neonati alla presenza costante della realtà virtuale nel televisore di casa.

(Rimane dubbio fino a che punto, nel buio serale della stanza dei bambini, il terrore magico reclami le sue ragioni, ormai non percepibili più dagli adulti.) Io sono cresciuto in un mondo in cui la tv, ancora, non esisteva, in cui per il bambino, e poi negli anni successivi per il ragazzo che ero, andare in uno dei tre cinema della nostra cittadina era sempre un’esperienza rara, straordinaria, preziosa — non so quanto questa esperienza si possa trasmettere alle persone che sono nate più tardi e che sono cresciute in un mondo ormai inimmaginabile senza la presenza costante di flussi di immagini in concorrenza tra loro.

Da liceale ho visto, alcuni anni dopo, l’adattamento cinematografico di Tony Richardson del Tom Jones di Fielding. Il film raccontava la storia della formazione, piena di rivolgimenti, di un trovatello nell’Inghilterra del XVIII secolo. Era messo in scena in modo arguto e con ritmo, e cercava, con successo, di rendere lo spettatore complice del suo sensuale protagonista. All’improvviso, ci trovavamo all’incirca a un terzo del film, l’eroe del titolo, nel mezzo di un inseguimento mozzafiato, si ferma per un istante, guarda nella macchina da presa (dunque ME!) e, prima di riprendere a fuggire dai suoi inseguitori, con una breve osservazione sulla difficoltà della sua situazione mi ha reso consapevole della mia.

Lo shock da riconoscimento di questo istante non era inferiore al terrore delle mie prime esperienze cinematografiche da bambino: naturalmente sapevo da tempo che il cinema non era la realtà, da tempo tenevo distante dal corpo e anche, così supponevo, dall’anima, attraverso osservazioni ironiche, la spiacevole vicinanza della realtà virtuale di un film di suspense, ma mai prima di questa sconvolgente scoperta della mia incessante complicità con l’eroe del film avevo VISSUTO questa vertiginosa vicinanza che separa finzione e realtà, mai prima di allora avevo ESPERITO CON TUTTI I SENSI quanto io e i miei simili, cioè il pubblico, fossimo generalmente le vittime invece che i partner di coloro che ci «intrattenevano» dietro pagamento. Naturalmente sapevo cosa poteva suscitare la forza delle immagini in movimento al servizio delle ideologie, ma questa conoscenza non era stata che astratta, e come tutte le astrazioni non aveva fatto che impedire un’esperienza diretta.

Allora mi vennero in mente, alcune settimane dopo, quelle prime esperienze cinematografiche il cui effetto sconvolgente, il cui terrore, la cui gioia avevo da tempo sepolto. Avevo guardato al di là dello specchio e cominciai a vedere il cinema con altri occhi, a non fidarmi di chi raccontava storie che fingevano di riprodurre integralmente la realtà.

E nondimeno la mia fame di storie non si era placata — non mi era chiaro ciò che cercavo al cinema, ma in ogni caso doveva essere un’arte cinematografica che mi serbasse l’esperienza di immediato contatto, del meraviglioso incantesimo del cinema della mia infanzia, ma che tuttavia non mi rendesse vittima minorenne della storia raccontata o del suo narratore.

Il fatto che già studente io abbia potuto vedere il film di Bresson — fu presentato nel 1967 e, anche se venne passato in una sala pubblica, non gli fu fatta alcuna pubblicità –, è dovuto a un seminario di cinema della nostra università, che aveva reso possibile agli studenti conoscere una parte di quelle opere che, in quanto «prodotti artistici» difficili da vendere, non avrebbero mai raggiunto i nostri schermi.

Il film si conficcò nel nostro seminario come un UFO precipitato da mondi lontani e ci divise tra fanatici sostenitori e rabbiosi oppositori: provocatorio, strano e sorprendente, rompeva con tutte le regole auree del cinema mainstream al di qua e al di là dell’oceano, così come con quelle del cosiddetto «cinema d’arte» europeo, e tuttavia era spaventosamente compiuto nella sua assoluta identità di forma e contenuto. Che questa compiutezza avesse una sua storia alle spalle, lo compresi solo più tardi, quando ho avuto l’opportunità di vedere i film precedenti di Bresson. Nonostante ciò e nonostante i suoi capolavori successivi, Balthazar rimame per me, fino a oggi, la più preziosa tra tutte le gemme cinematografiche. Nessun film mi ha sconvolto il cervello e il cuore tanto come questo. Cos’aveva, cos’ha di particolare?

Cosa racconta il film?

Balthazar è un asino. Il film racconta la storia della sua vita, della sua passione e della sua morte. E racconta — in frammenti • le storie di coloro che incrociano la strada di Balthazar.

L’inizio

Ancora in nero, prima dell’illuminarsi della prima immagine, lo scampanio di un gregge di pecore; poi la prima inquadratura: in primo piano un asinello beve tra le zampe della madre, sullo sfondo indoviniamo, più che vediamo, il gregge, solo i campanacci risuonano lievi e imperturbabili. Poi un braccio sottile di bambino si stringe attorno al collo dell’animale e lo allontana dalla madre. La macchina da presa lo accompagna. Vediamo la ragazzina abbracciare teneramente l’asino; un altro ragazzino più o meno della stessa età, anch’egli piegato verso l’animale, lo accarezza; tra di essi, sullo sfondo, un uomo. Tutti indossano vestiti leggeri, è estate. «Regalacelo! Ti prego papà!» «Cosa volete farci?».
Totale: i bambini scendono con il padre, che porta con sé l’asinello, dal pascolo alpino verso valle. Lo scampanio del gregge è cessato.
Primo piano: da una piccola brocca uno dei bambini versa acqua sulla testa dell’asino e dice: «Balthazar. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen».

La fine

Balthazar trasporta il carico di una coppia di contrabbandieri — stanno per attraversare un confine montano. È notte. All’improvviso l’altolà dei doganieri. I contrabbandieri tornano indietro di corsa lungo la strada che avevano fatto. Mentre si sentono degli spari, vediamo, a lungo, il muso di Balthazar. Poi anche lui si mette in movimento, giù, verso il luogo dove sono fuggiti i suoi padroni che lo tormentavano in continuazione.
Giorno. Balthazar sta fermo tra le conifere della montagna. Primo piano: il suo dorso — da una ferita di arma da fuoco vediamo il sangue seccarsi. Si mette in cammino, lascia il rifugio. Fuori, nel paesaggio intatto dei pascoli di montagna. Ancora il carico di contrabbando sul suo dorso. Lo scampanio di un gregge. Allora vediamo avvicinarsi le pecore. Il cane pastore nero gira loro intorno, abbaiando. I campanacci suonano. Un pastore. Qualche cane. Poi il gregge circonda Balthazar. Si vede a malapena, tanto è avvolto dalle pecore. I campanacci risuonano vicini. I cani neri. Le pecore sì mettono in movimento — volgono a poco a poco lo sguardo verso l’asino, che ora è accovacciato a terra. Di nuovo i cani. Poi le pecore sono lasciate sullo sfondo, in primo piano Balthazar. Comincia la musica — quell’Andantino tristissimo dalla Sonata in la maggiore di Schubert che ha accompagnato la vita di Balthazar nel corso di tutto il film, sempre con compassione e insieme promettendo consolazione. Lentamente, molto lentamente, Balthazar china la testa. Poi, a tutto schermo, solo il gregge | si muove e ci riconduce a Balthazar, che giace là, disteso sul pascolo, e non si muove più. La musica si interrompe. Si sente solo lo scampanio del gregge. Le pecore sì muovono sullo sfondo. In profondità di campo il paesaggio montano. In primo piano: Balthazar morto. Il suono dei campanacci si fa più sommesso. Fine.

E tra l’inizio e la fine sta una vita che, nella sua triste semplicità, rappresenta quella di milioni. Una vita ili piccole gioie e di grandi fatiche, banale, comune e proprio per la sua deprimente quotidianità assolutamente inadatta allo sfruttamento cinematografico. Dì fatto non si parla di nessuno, dunque di tutti — un asino non ha alcuna psicologia, solo un destino.

Il titolo è l’esatta traduzione dell’intenzione del film: «Per caso, a mo’ d’esempio, Balthazar». Potrebbe essere qualsiasi altro, tu o io. Bresson dice di aver scelto il nome a causa dell’allitterazione.

Sembra qualunquismo e generalizzazione banale (Allerweltsproblematik), ma in realtà è l’esatto contrario.

La teoria del «modello» di Bresson, il suo rigoroso rifiuto degli attori di professione a favore dei non professionisti, scelti con precisione, è stata spesso discussa e ancora più spesso criticata — ed è stata, in fondo, anch’essa ad aver impedito il successo economico dei suoi film. Qui, in Balthazar, il motivo dominante di tale teoria si può cogliere nel modo più semplice e trova la sua formulazione più chiara: l’«eroe» dello schermo non è un personaggio che incita all’identificazione, che vive davanti a noi dei sentimenti che dovremmo fare propri, bensì una superficie su cui proiettare, un foglio bianco, il cui unico compito è quello di essere riempito dai pensieri e dai sentimenti dello spettatore. Questo asino non finge di essere triste o di soffrire quando la vita lo tormenta — non è lui a piangere, ma siamo noi che piangiamo su un’icona della pazienza forzata, proprio perché essa non spaccia in giro, come l’attore, l’esternazione dei propri sentimenti. L’animale Balthazar e i cavalieri del successivo Lancelot du Lac, rinchiusi nelle loro tintinnanti armature fino a essere irriconoscibili, sono i «modelli» più convincenti di Bresson, proprio perché, per definizione, sono incapaci di fingere.

Non sempre la concezione bressoniana del «modello» è sviluppata in questo modo straordinario, può non aver funzionato con i dilettanti così come con i professionisti (Procès de Jeanne d’Arc, che peraltro è un film stupendo, patisce un po’ la mancanza di forza d’irradiazione della sua protagonista). Tuttavia la non-recitazione dei suoi attori non-professionisti, sempre attentamente e amorevolmente selezionati, la monotonia del loro modo di parlare e di muoversi, il loro essersi ridotto a pura presenza, era ed è sempre un’esperienza liberatoria (molto di più di quanto lo fosse la sciatta «naturalezza» dei giovani attori nei fuochi d’artificio cerebrali e negli scherzi più alti del suo più giovane contemporaneo Godard).

Tutto ciò restituiva alle persone davanti alla macchina da presa la loro dignità: nessuno doveva più fingere per rendere visibili delle sensazioni che, recitate, potevano comunque essere solo una menzogna. Avevo sempre sentito come osceno l’assistere a una sofferenza o a una morte raffigurate con furore attoriale — ciò privava coloro che realmente soffrivano e morivano del loro ultimo bene: la verità. E privava coloro che osservavano questa riproduzione professionale del loro bene più prezioso di spettatori: la fantasia.

Essi venivano spinti nella vergognosa prospettiva del buco della serratura propria del voyeur, al quale non restava che sentire ciò che veniva sentito davanti lui, pensare ciò che veniva pensato davanti a lui. Il cinema, nella sua nuova — rispetto alla letteratura — possibilità di rappresentare la realtà come impressione totale, aveva tralasciato di sviluppare forme che salvaguardassero, o perlomeno rendessero possibile, il necessario dialogo tra prodotto artistico e destinatario. La menzogna — la realtà simulata — era diventata il suo marchio di fabbrica, era e rimaneva uno dei trademark più proficui della storia dell’industria.

In Balthazar, come in tutti i film di Bresson, si percepisce un’avversione quasi fisica dell’autore contro qualsiasi forma di menzogna, e in particolare contro ogni forma di inganno estetico. Questa rabbiosa avversione sembra essere la forza motrice di tutto il suo lavoro e porta a una purezza del mezzo narrativo che cerca dei pari nella storia del cinema.

In un lettore che non conoscesse l’opera di Bresson potrebbe insinuarsi, nel leggere la precedente descrizione dell’inizio e della fine del film, l’impressione di «poesia», di ricercata bellezza, di pretenziosa stilizzazione.

Nulla di tutto ciò: una documentaria semplicità della messa in quadro, un rifiuto quasi maniacale delle immagini «belle», ovverosia piacevoli (che si potevano ancora trovare qua e là nei suoi primi film e che oggi dominano il «cinema d’arte» così come i film americani di serie A e gli spot pubblicitari). Si potrebbe addirittura dire che Bresson è l’inventore dell’immagine «sporca» nel campo del film d’arte: accanto alla volontà, sempre avvertibile, di mostrare le cose nel modo più chiaro e semplice possibile, un istinto infallibile lo preserva dal pericolo di una sterile stilizzazione — le sue immagini, nonostante la precisione della messa in quadro, danno sempre l’impressione di essere come sfilacciate, lasciate aperte alla rottura della regola da parte della realtà. (Penso che le sue note dispute con direttori della fotografia, come De Santis, famosi per la «bellezza» delle loro immagini, potrebbero aver avuto in ciò la loro causa.)

Rispetto a quest’ultima accusa Bresson ha risposto così a un intervistatore: «Lei confonde il pessimismo con la chiarezza». E ancora: «Prenda ad esempio la tragedia greca — è pessimista?!».

Possiedo un video della cerimonia di consegna dei premi al Festival di Cannes 1983, in cui la Palma d’Oro è stata assegnata ex aequo all’allora settantaseienne Bresson, per il suo ultimo film L’argent, e a Andrej Tarkovskij per Nostalghia. Appena Bresson, chiamato da Orson Welles, mette piede sul palcoscenico, scoppia un tumulto, una rabbiosa battaglia acustica tra quelli che lo fischiano e quelli che lo applaudono. Bisogna più volte richiamare all’ordine — solo quando Tarkovskij viene fatto salire sul palco l’uragano di proteste si placa. (Tarkovskij, un ammiratore dichiarato di Bresson, non deve essere stato contento di tutto ciò. Infatti aveva lodato nei film del suo maestro proprio quella indipendenza dal cosiddetto gusto del pubblico per la quale ora Bresson veniva fischiato davanti ai suoi occhi, mentre lui, che pure aveva la fama di ermetico, veniva acclamato.)

Cosa, nei film di Bresson, ha causato nella sala di Cannes tale comportamento, che certo era rappresentativo o voleva esserlo, per il comportamento di tutto il pubblico internazionale?

Non doveva essere certo il contenuto: film che raccontano di situazioni amare nel mondo ce ne sono in abbondanza in ogni festival, e più sono piacevoli e alla moda nel loro malessere, e più hanno la possibilità di essere premiati dai giurati o dalla stampa.

Cosa c’è allora di così diverso nel suo modo di trattare immagine e suoni, tanto che allo stesso Bresson è sembrato necessario reclamare per sé il «cinematografo», utilizzando un termine preso in prestito dalle convenzioni linguistiche, poiché non riusciva più a trovare un linguaggio né un senso comune con quanto si chiamava e si chiama cinema?

Un decennio prima dell’uscita di Au hasard Balthazar, Adorno, nel suo saggio Forma e contenuto del romanzo contemporaneo, aveva scritto riferendosi a Kafka: «I suoi romanzi, se possono ancora rientrare in questa categoria, sono la risposta anticipata a una concezione del mondo in cui l’atteggiamento contemplativo diventa scherno cruento, poiché la minaccia costante della catastrofe non permette più a nessun uomo uno sguardo distaccato, e nemmeno la sua imitazione estetica». E in un altro punto, facendo riferimento a Dostoevskij: «Nessun’opera d’arte moderna che valesse qualcosa e che non trovasse anche gusto nella dissonanza e nello scatenamento. Ma è proprio in quanto queste opere d’arte incarnano senza compromessi l’orrore e mettono tutta la felicità dell’osservazione nella purezza di questa espressione, che servono la libertà, invece tradita dalle produzioni mediocri».

L’illusione — già messa in dubbio da Nietzsche — che la realtà sia riproducibile nell’artefatto e non sia sempre e soltanto una convenzione tra l’artista e il suo destinatario, era diventata obsoleta, al più tardi dopo le atrocità incommensurabili del nazismo, dell’Olocausto e della seconda guerra mondiale, per chiunque cercasse di muoversi in questo campo con un discreto grado di consapevolezza. Il verdetto secondo cui dopo Auschwitz non era più possibile la poesia, ha segnato l’orizzonte di coscienza dei sopravvissuti e delle nuove generazioni tanto quanto la «revoca» della Nona sinfonia, insieme a tutta la cultura occidentale, nel Doctor Faustus di Mann.

Nell’area di lingua tedesca, gli eredi sconvolti della colpa si gettarono con occhi spalancati dal terrore nell’analisi di quelle parole e di quei segni che si erano rivelati così corruttibili. Ma anche al di là dei nostri confini linguistici la fiducia nell’incrollabilità del legame tra l’arte e la sua ricezione aveva ricevuto un colpo distruttivo e al contempo produttivo.

Solo il cinema, la forma di comunicazione artificiale più costosa e più dipendente dal denaro, ha rifiutato coerentemente e con successo qualsiasi meditato rinnovamento. I nuovi contenuti, le nuove posizioni o le nuove presunte conoscenze venivano presentate nelle vecchie forme, da tempo sconfessate, e la pretesa distinzione tra i polpettoni sentimentali narcotizzanti, provenienti sia da destra sia da sinistra (il cosiddetto «film d’arte progressista») e che si rappresentavano con arrogante autocoscienza, non è stato altro che una giustificazione farsesca degli artisti e degli interpreti che vivevano grazie all’industria cinematografica.

Per i contenuti e la crisi di senso di un mondo frantumato bisognava trovare, al servizio dei finanziatori, delle forme che tradissero questi contenuti, rendendoli fruibili — altrimenti non sarebbero stati rappresentati. E naturalmente queste forme si trovarono. Vennero perfezionate e accumulate, e in questo lavoro la maggioranza dei registi ha dimenticato il motivo per quale lo si facesse.

Si tratta di una scorciatoia polemica? Io la ritengo necessaria per riuscire a esprimere che cosa ha reso e rende così provocatorio lo scandalo Bresson nel mondo delle immagini in movimento.

Per continuare a restare nell’ambito del film di finzione (evitando di usare il termine più chiaro di film commerciale), anche coloro che intuivano e disprezzavano le regole del gioco sopra descritte si vedevano costretti a riconoscerle e a porsi al loro servizio. Fino a che punto lo facessero con una presa di distanza consapevole oppure influenzati fin nell’inconscio, lo raccontano i loro vari tentativi di aggirare come per gioco queste regole. (Le strategie di aggiramento usate nei paesi cinematografici del cosiddetto mondo «libero» si differenziavano da quelle dei paesi totalitari solo per la loro semantica.)

Appena qualche opera si distaccava da questa approvazione silenziosa — che si ricreava sempre grazie alla costrizione economica — della necessità dell’incoerenza artistica, «faceva fiasco», veniva tagliata, rimontata, castrata, vista come il traviamento del suo autore, associata all’ambito, innocuo per il mercato, del film sperimentale, oppure nel migliore dei casi veniva considerata come l’eccezione che confermava la regola e perciò ancora tollerata a malincuore almeno da una parte della critica.

Ciò che di più emozionante e di più veritiero può offrire il cinema internazionale, è composto da questa categoria fatta di eccezioni: Salò di Pasolini, Lo specchio di Tarkovskij, alcuni film di Ozu, Rossellini, Antonioni e Resnais, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi di Kluge, Cronaca di Anna Magdalena Bach di Straub e una manciata di altre opere.

Cosa accade in questi film? Essi sono diversi tra loro quanto i loro autori e gli ambiti culturali da cui provengono. Ciò che li accomuna, ciò che li distingue dalla restante produzione cinematografica, e anche da altre opere degli stessi autori, è la loro raggiunta identità di forma e contenuto. E questa identità distrugge la pigra concordia tra significato, intermediario e destinatario, impedisce la chiusura delle palpebre, come la sedia di tortura ottica in Arancia meccanica di Kubrick, e costringe a guardare nello specchio.

Che spettacolo! Che terrore! Gli spettatori abituati e preparati lussuosamente alla menzogna abbandonano, disturbati, la sala. Mentre quelli rimasti, affamati di una lingua che sappia riprodurre le tracce della vita, aspettano, con il cuore e la mente improvvisamente aperti, la prosecuzione di quest’inaspettato colpo di fortuna.

A pochi dei suddetti autori questa identità di significato e significante è riuscita più volte. Poi sono tornati di nuovo a una via più facilmente percorribile — bisogna fare attenzione alle avvisaglie dell’insuccesso, bisogna ricompensare la fedeltà dei propri adepti, e più grande è il seguito, più ampia e più frequentata sarà la via. Ma sono i costruttori di autostrade a guadagnare di più.

In questo panorama, la continuità di Bresson sembra addirittura un miracolo: dopo i primi due passi e mezzo iniziali, in cui procede ancora a tastoni ma che contengono già i temi di tutti i suoi lavori successivi (il cortometraggio Les Affaires publiques e i due primogeniti Les Anges du péché e Les Dames du Bois de Boulogne), nel 1950 con Journal d’un curé de campagne ha sviluppato compiutamente il suo vocabolario di forme, a cui rimane fermamente impegnato per la durata di tutta la sua opera (10 film in 33 anni).

Si dice di quasi tutti i grandi autori cinematografici che non fanno altro che ripetere, in ogni loro opera, sempre lo stesso film. Ciò si addice a Bresson come a nessun altro.

Essere dipendenti dall’amore per la verità non lascia alcuna scelta. «Non pensare al tuo film al di fuori dei mezzi che ti sei fatto», scrive nelle Note sul cinematografo. E infatti guardando i suoi film non si riesce a capire se è il mezzo che ha influenzato il contenuto o se il contenuto il mezzo, tanto sono la stessa cosa. Questa identità non lascia spazio all’ideologia o alla spiegazione del mondo, al commento o alla consolazione. Tutto nasce nella pura relatività e sta allo spettatore trarre le conclusioni dalla somma dei fatti.

Riduzione all’essenziale e omissione diventano le parole magiche per attivare lo spettatore. In questo senso è proprio l’ermetismo dell’opera bressoniana a voler facilitare lo spettatore: lo prende sul serio.

Viene omesso il gesto persuasivo dell’identificazione emotiva.

Viene omesso il senso (troppo) convincente del contesto sociologico e psicologico esplicativo — il caso la contraddittorietà di azioni frammentarie reclamano, come nella nostra esperienza quotidiana, le loro ragioni e la nostra attenzione.

Viene omessa la simulazione di qualsivoglia interezza, persino nella riproduzione dell’essere umano, il busto e le membra si congiungono solo per pochi fuggevoli istanti, poi vengono separati, eguagliati e restituiti alle cose. Il volto è diventato un elemento tra tanti, un’icona immobile e senza espressione della malinconia causata dalla perdita di identità.

Viene omesso ciò che è straordinario, poiché tradisce la necessità di restituire dignità alla quotidianità.

Viene omessa, infine, la felicità, perché attraverso la sua rappresentazione vengono oltraggiati la sofferenza e il dolore.

E proprio questa «revoca» universale (non molto dissimile da quella del Faustus di Mann), questo nero rispetto per le facoltà percettive e per la responsabilità dell’uomo, racchiudono nel loro gesto di rifiuto più utopia di tutti i bastioni della rimozione e della consolazione a buon mercato messi insieme.

L’identità di forma e contenuto riscatta l’idea di quella interconnessione tra i sensi, che è andata perduta nel mondo descritto. Proprio perché si tralascia di mostrare la felicità, il desiderio mette le ali e durante gli attimi felici della visione, il dolore viene esorcizzato nella sua icona.

Da: Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovani Spagnoletti e Serfio Toffetti, Lindau, Torino, 1998, pp.105–116. Traduzione dal tedesco e note di Maria Coletti

Conversazione con Anne Wiazemsky

di Anne-Marie Faux e Florence Pezon

Balthazar è stata la sua prima esperienza cinematografica, ed è anche la più importante?

È stata molto importante in effetti, perché, in un certo senso, mi è toccata la migliore delle opportunità. Non si può cominciare in modo migliore, non fosse che dal punto di vista plastico, perché Bresson filma i volti, gli esseri umani, in modo unico. Non ho mai visto gli esseri umani bene come in Bresson. A tratti, si ha l’impressione di sfiorare l’anima, e non capita spesso. Ma è stato anche un modo di mettere l’asticella molto in alto. Per me, questo film è stata una grande opportunità. Anche se, in un altro senso, è stato anche uno svantaggio, se ci si dice che essere un modello non significa necessariamente essere un’attrice. Molti se lo sono detto, e questa è la parte svantaggiosa, ma i vantaggi sono decisamente maggiori. Valeva la pena.
All’epoca pensavo molto al cinema, ma me ne sentivo un po’ esclusa, perché per me al cinema era ancora l’epoca delle bellissime star, cosa che io per l’appunto non ero. Ci voleva proprio Bresson per vedere in me la persona umana: sognavo piuttosto il teatro, ma non ho avuto il tempo di provare perché, a diciassette anni, ho incontrato davvero per caso Florence Delay, che era amica di un mio zio. Florence aveva letto la sceneggiatura di Balthazar e, anche se era già stata scritturata un’altra, ha insistito per farmi incontrare Bresson. Frequentavo l’ultimo anno di liceo, dovevo prendere la maturità, ma non ho avuto il tempo di esitare nella scelta. So che a Bresson non piace sentir dire che le riprese sono state stupende, ma è stato proprio così: la cosa nuoce alla sua reputazione di duro, ed in effetti lo è, ma per me, forse ero molto duttile, è stato davvero un piacere obbedirgli e cercare di fare al mio meglio quello che mi chiedeva. Mi bastavano poche riprese. Di solito cinque o sei, che è una cosa normale. Florence Delay mi aveva messa in guardia sulle difficoltà che avrei potuto incontrare, mi aveva detto di aver dovuto ripetere centocinquanta volta «Mi chiamo Jeanne», ma per me non è stato così. L’ho visto rifare molte volte la scena con Klossowski e con Walter Green, ma non con me.

E con l’asino?

La grande difficoltà con l’asino era di farlo ragliare. Il che era molto divertente. Abbiamo perso varie giornate proprio per questo motivo, fino al momento in cui qualcuno, non mi ricordo più chi, ha avuto l’idea luminosa di venire con dei ragli d’asino registrati che si mettevano in lontananza, e Balthazar rispondeva.

Come è stato il passaggio da Bresson a Godard?

Bresson non mi è servito affatto per gli altri film. Ho l’impressione di aver cominciato a imparare vari film dopo. Con Bresson ero in buone mani, lui sapeva bene quello che bisognava fare, la docilità dell’attore non mi ha mai posto dei problemi e forse io ci aggiungevo un po’ di intuizione. Sì, potremmo dire così: un insieme di docilità e di intuizione. Poi mi sono resa conto che non sapevo fare nulla. Dunque ho cominciato a imparare, consapevolmente, con il teatro. È a teatro che ho imparato cosa voleva dire fare questo mestiere, essere un medium. Prima era solo istinto.

Ha mai rivisto Bresson dopo Balthazar?

Non molto spesso, perché non era affatto contento che continuassi. Durante le riprese di Balthazar mi aveva spesso detto che gli sarebbe piaciuto se avessi fatto Lancelot, e quando ha saputo che stavo girando La cinese, mi ha chiamato per dirmi: «Smetta subito. Se lei fa questo film non sarà mai Ginevra». Credo di avergli risposto in modo molto insolente che per me era lo stesso, poi, quindici anni dopo, ci siamo ritrovati, e lui è stato molto affettuoso. Mi ha chiesto varie volte di andare a presentare il film al posto suo, e l’ho sempre fatto, docilmente.

Florence Delay ha parlato molto di questa idea di docilità.

So che lei ne parla molto bene. Ed è vero che entrambe eravamo molto giovani, l’età in cui, al contrario, si ha generalmente molta voglia di disobbedire, è una voluttà la disobbedienza, e invece per una volta ecco qualcuno che aveva voglia di obbedire.

Lei non aveva paura dell’asino?

No, per nulla. Quando ero piccola mi piacevano talmente i cavalli che per me un asino era quasi come un gattino.

Sa perché Bresson ha deciso di chiamarlo Balthazar?

No, forse lo sapevo ma non me lo ricordo più. Quello che so è che dei bambini si chiamano Balthazar proprio a causa del film di Bresson.

Che rapporto ha mantenuto col film?

Ci penso se qualcuno me ne parla, ed è certamente il film di cui vado più orgogliosa, che posso rivedere tranquillamente perché è un film eccezionale. Non si tratta di me, ma del film. Ho un nipote di diciassette anni che ama talmente Balthazar, da proibire ai suoi amici di vederlo in cassetta. A diciassette anni mi sembra una cosa straordinaria.

Si ricorda l’uscita del film?

Era la vigilia dell’esame di filosofia. Non avevo potuto seguire il film a Cannes per questo motivo, dunque l’ho vissuta molto da lontano.

Ma la maturità l’ha poi presa?

Sì, dopo essere stata rimandata a settembre. Di fronte a Bresson si è come di fronte a un’opera d’arte, è come un quadro. Avete incontrato qualcun altro?

Walter Green, che però si occupa di tutt’altro.

Era già così all’epoca di Balthazar. Io ero affascinata all’idea di fare del cinema, lui tutt’al contrario. Abbiamo girato le stesse scene, e non la finiva di ripetere che voleva fare il dentista, cosa che poi ha fatto. Facevamo la stessa cosa, ma vivendola in modo molto differente.

Si ricorda della postsincronizzazione?

Sì, è un ricordo molto narcisistico, perché Bresson non voleva che vedessimo i rushes, e io, che effettivamente non li avevo mai visti, ho scoperto all’improwiso la mia immagine. E quello che vedevo sullo schermo non aveva niente a che spartire con quello che vedevo di me allo specchio ogni mattina, un’adolescente pacioccona. È l’unica volta che mi è capitato, poi il mio senso critico ha ripreso il sopravvento. Comunque è andato tutto bene, mi piaceva farlo. Vivevamo insieme. Le riprese sono durate tutta l’estate e Bresson ed io vivevamo nella stessa casa, che era poi la casa dove giravamo, a Guyancourt vicino a Versailles. Mangiavamo sempre insieme, perché Bresson non voleva mangiare con la troupe e io ero affascinata dalla sua cultura. Parlava molto male degli altri cineasti, e la sua ferocia mi divertiva molto. Picchiava duro sugli attori eccetto Brigitte Bardot, che gli pareva giusta, ed era la prima volta che lo sentivo dire…

Da: Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovani Spagnoletti e Serfio Toffetti, Lindau, Torino, 1998, pp.187–189

Note

[1] Pensavo a Balthazar da molti anni. L’ho preso e lasciato. E poi l’ho ripreso.

La prima difficoltà, per me, era di non fare un film a episodi. Avevo molte cose da dire in questo film, molti personaggi da far vivere e bisognava evitare di frantumare. Il mio film doveva anche avere un tono biblico. Ho pensato all’asina di Balaam: vede un angelo sulla strada. Il suo padrone la batte. Ma non si muove, a causa dell’angelo. Ho pensato anche alla cerimonia dell’angelo, a Notre-Dame. L’asino celebrava la messa. Si era al Medio Evo, al tempo della Festa dei Pazzi, credo. E poi l’asino del presepio, della domenica delle palme… Tutti i poeti hanno scritto sugli asini. Dostoevskij, nell’Idiota ha parlato di un asino in modo ammirabile, e, più ingenerale, ha parlato molto degli animali nei Fratelli Karamazov. Io cerco — non so se ci riuscirò — di parlare di un asino senza le parole” (Robert Bresson une patience d’âne, intervista a cura di P. Gilles, in «Arts», 9 dicembre 1965, n. 3).

[2] Pittore: «E poi scaturiscono dalla mia tela moltitudini di strutture, che io non domino, ognuna con una sua dialettica. Non è alla cascata che io miro, ma a ciò che essa mi detterà… Anche senza nessun nesso logico con essa. La caduta dell’acqua mi darà la spinta». Turista: «È una pittura cerebrale, una pittura astratta?» Pittore: «Una pittura d’azione, action painting».

[3] In questo caso il didascalismo è scoperto. Studente: «Un individuo può essere responsabile di un delitto senza saperlo, e del quale non serba neppure il ricordo, per effetto di un trauma nervoso o più semplicemente dell’alcool, al punto che la coscienza cede il posto al subconscio?» Professore: «E perché non l’inconscio … E il criminale non sa di essere criminale». Le ultime parole sono dette mentre la macchina da presa inquadra il viso di Arnold (sospettato di omicidio).

1 [4] La freddezza della descrizione, o addirittura la vicinanza di talune inquadrature, hanno fatto richiamare a Estève, Los olvidados. Viene fuori allora, con le dovute cautele, questo accenno a possibili contatti tra i due registi (malgrado le ovvie distanze). Per certi versi possono esserci: la matrice della descrizione della violenza, ma con un realismo valido solo in prima lettura, o magari l’addentellato — sia pure necessariamente vago — di uno sfondo ideologico, legato al tema della corruzione, dell’infiltrazione e rovesciamento del “sano” (certe creature infantili); magari il gusto del particolare significativo. Ma questi elementi di intersezione, piuttosto lati, servono a mettere in risalto le ben più notevoli differenze; e sono lo stile e rimpianto delle opere a rivelare i due percorsi ideologici diversi. Per semplificare, in Bresson la razionale freddezza è di supporto a implicanze metafisiche, le insistenze naturalistiche servono a qualificare il Male, il rimando ad altro, l’indecifrabilità ha radici lontane e fonde. In Bunuel la forza della constatazione si unisce allo slancio di deformazione, e servono a costruire una metafora laica sul destino tragico e le sue incombenze, le insistenze provocano il “salto” dalla realtà al mito di una condizione umana distorta dalla storia. In Bresson il realismo è il dove sul quale l’autore lucidamente agisce per spogliare i dati riportandoli a una visione nella quale l’impianto (e quindi le connessioni ideologiche) prevalgono. Nell’autore di Los olvidados è il punto di partenza per un contrastato poema di violenza e di morte, tra lirica ed epopea, tra lamento e racconto nero.

[5] Circa il titolo Bresson ha dichiarato: «Prima di tutto volevo dare al mio asino un nome biblico; gli ho dunque dato il nome di uno dei re magi. Lo stesso titolo viene dal motto dei conti di Baux che si dicevano discendenti del re magio Balthazar e che era Au hasard Balthazar. Amo la rima … e mi piace anche che questo titolo collimi esattamente con il mio soggetto». (“Téléciné”, dicembre 1966).

[6] Ma non vi è nulla in questo di grevemente moralistico; interpretare il rapporto tra libertà e necessità, tra male e sue ramificazioni in termini di scelta tra positivo e negativo significa svilire e schematizzare una problematica complessa: «Maria … innocente e conturbante insieme, è incrinata dalla tendenza alla lussuria. In definitiva ricerca Gérard che le offre il piacere carnale e rifiuta Jacques che le offre fino all’ultimo un amore ideale» (L. Bini, in Attualità cinematografiche, 1966, pp. 85–89)

[7] «Stai tranquillo. Ti preparerò la valigia. E passerai il confine durante la notte. E non prendermi in giro. Non disprezzare le mie lacrime».

[8] « Bastava dire una parola — afferma — e tutto sarebbe finito per orgoglio. tu non l’hai detta».

[9] La madre: « Sto parlando di quel ragazzo … Cosa trovi _lui» Maria: «Io l’amo. Sai cosa vuol dire amore? (in originale: si sa perché si ama?) Lui non mi dice vieni, e io vado. Fa questo, e io lo faccio.» «Povera piccola. »«Io lo seguirei : » « Io lo seguirei in capo al mondo. E se mi chiedesse di uccidermi, io mi ucciderei.»

[10] Basti pensare alla sequenza della seduzione in automobile: mani piani fissi alternati dei due, rumori, è tutta ridotta a gesti, ma il gesto emergente, il fatto è eliso

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.