Angoscia e politica

di Franz Neumann

Mario Mancini
49 min readDec 18, 2021

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [gennaio 2022]

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Georg Baselitz, “Der Brückechor”, 1983

1. Premessa — 2. L’alienazione — 3. L’alienazione e l’angoscia — 4. L’angoscia e l’identificazione — 5. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (I: alcuni casi storici) — 6. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (II: cinque modelli fondamentali di teorie cospiratorie) — 7. Angoscia collettiva, identificazione, colpa — 8. Conclusione.

1. Premessa

Il 6 gennaio 1941 il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt proclamò l’istituzione delle quattro libertà: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. Tuttavia la fine della seconda guerra mondiale non ha segnato la scomparsa della paura dal mondo. Al contrario essa si è fatta più grande e più intensa fino a paralizzare le nazioni e rendere gli uomini incapaci di decidere liberamente.

L’angoscia costituisce, o dovrebbe costituire, un problema centrale per la scienza. L’angoscia non solo condiziona fortemente la libertà di decisione, ma può rendere addirittura impossibile operare una scelta; solo un uomo senza paura è in grado di decidere liberamente. La discussione sul problema dell’angoscia dovrebbe essere aperta alla partecipazione di tutte le discipline; non riservata ad una sola, quale che sia, giacché il grande problema della scienza è l’analisi e l’applicazione del concetto di libertà umana.

Il mio compito oggi è quello di discutere il problema dell’angoscia politica, un compito che trova di fronte a sé molti ostacoli. A differenza delle discipline tradizionali la scienza della politica non possiede un suo proprio metodo, in ultima analisi essa ha un solo punto di riferimento, precisamente il rapporto dialettico fra dominio e libertà. In altre parole la scienza della politica si occupa di un problema solo, servendosi di diversissimi metodi nel tentativo di risolverlo. Tuttavia un simile approccio da parte dello studioso comporta il pericolo di cadere nel dilettantismo, pericolo che egli potrà evitare soltanto nella misura in cui si renderà conto delle proprie limitazioni e cercherà di attingere ai risultati raggiunti da altre discipline. Quindi il suo contributo consisterà spesso semplicemente in una sintesi dei risultati delle ricerche condotte in passato, e al massimo in qualche felice ipotesi.

Ma vi è un secondo ostacolo ancora maggiore, che consiste nella insufficienza dei risultati raggiunti finora dalla psicologia sul problema dell’angoscia. Se io in quel che segue mi rifaccio in larga misura a Freud ciò non significa che accetti il suo metodo terapeutico, che non sono in grado di giudicare, ma che le sue teorie mi sembrano convincenti e non sono state finora confutate.

In questa conferenza dovrò prendere posizione su molte questioni che non sono state ancora esaurientemente studiate: lo farò con la speranza che altri studiosi più competenti si sentano stimolati a sottoporre ad analisi i problemi che io mi limito a sollevare.

2. L’alienazione

Nelle sue lettere Ueber die aestetischc Erziehung des Menschen, Schiller ha descritto magnificamente l’uomo nella società moderna[1]:

“L’uomo dipinge se stesso nelle sue azioni; ma quale quadro è quello rappresentato nel dramma del nostro tempo! Qua abbrutimento, là snervatezza: i due estremi dell’umana decadenza, ambedue uniti nello stesso periodo”[2].

Come Rousseau prima di lui, Schiller accusa la stessa civiltà:

“Fu la cultura stessa che arrecò questa piaga all’umanità moderna”[3].

E questa ferita fu inferta all’uomo mediante la divisione del lavoro:

“Il godimento [fu] separato dal lavoro, il mezzo dal fine, la fatica dalla ricompensa. Legato eternamente a un solo frammento del tutto, anche l’uomo si forma solo come frammento…”[4].

La sua accusa alla civiltà moderna raggiunge il culmine nella caratterizzazione dell’amore:

“Tanto è geloso lo Stato dell’esclusivo dominio sui suoi servi, che si deciderà piuttosto (e chi potrebbe dargli torto?) a dividere il suo uomo con una Venere citerea che non con una Venere urania”[5].

Naturalmente Schiller ha tratto le due rappresentazioni della dea dell’amore dal Simposio di Platone identificando la Venere citerea con l’amore venale e l’Urania con il vero amore.

Quello che Schiller descrive in modo così impressionante è ciò che Hegel e Marx individuarono come alienazione[6]. Schiller mette in contrasto la natura di “polipo” degli stati greci “dove ogni individuo godeva di una vita indipendente e, in caso di necessità, poteva diventare un tutto”[7], con la società moderna, la quale è caratterizzata dalla divisione gerarchica del lavoro[8]. La società moderna produce la disgregazione non solo delle funzioni sociali ma dell’uomo stesso, il quale mantiene le proprie attività divise in compartimenti stagni — l’amore, il lavoro, i divertimenti, la cultura — che vengono tenute insieme mediante un meccanismo che non è stato mai compreso né sembra comprensibile.

Si può, come faccio io stesso, considerare l’analisi dello stato greco di Schiller, e anche quella di Hegel, come decisamente irrealistica, e si possono forse intravedere persino dei pericoli nella glorificazione della Grecia[9]; ciò nondimeno la sua analisi dell’uomo moderno, che trascende la sua epoca, rimane valida ed è forse soltanto oggi che noi abbiamo acquistato una piena consapevolezza dell’importanza delle Lettere di Schiller.

Nelle Theologischen Jugendschriften[10] Hegel sviluppò per la prima volta il concetto di alienazione. Nello scritto intitolato “L’amore, la corporeità e la proprietà”[11] egli definì l’amore come un “intiero”, come “un sentimento, ma non un sentimento singolo”.

“Nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa, e come una unificazione di essa medesima”.

Ma tale amore viene sovente frantumato dalla resistenza del mondo esterno, il monde sociale della proprietà, un mondo creato sì dall’uomo tramite il proprio lavoro e la propria conoscenza, ma diventato a causa della proprietà estraneo, un mondo morto. L’uomo è alienato da se stesso. Poiché non ci interessiamo qui del concetto hegeliano di alienazione possiamo tralasciare il suo successivo sviluppo[12].

Per analoghe ragioni non è necessario che si svolga qui pienamente il concetto marxiano di alienazione[13]. Per Marx sono le merci a determinare l’attività umana: gli oggetti che dovrebbero servire l’uomo diventano tiranni dell’uomo.

Secondo Marx, che qui si trova in pieno accordo con Schiller, Hegel e Feuerbach, l’uomo è un essere universale. L’uomo è libero solo se si realizza come “ente generico” nella “lavorazione del mondo oggettivo”[14]. Ma ciò non avviene, giacché “il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena cosi all’uomo il genere”[15].

La separazione del lavoro dall’oggetto comporta quindi per lui una triplice separazione: l’uomo è alienato dalla natura esterna, da se stesso e dal prossimo. I rapporti fra gli uomini sono reificati: i rapporti personali si presentano come rapporti oggettivi fra cose (merci).

Quindi l’uomo (non solo il lavoratore poiché il processo di alienazione affligge l’intera società)[16] è per Marx, nonché per Schiller, Feuerbach e Hegel, un uomo mutilato.

Ma queste teorie dell’alienazione non sono del tutto esaurienti: senza abbandonare i principi sviluppati da Hegel e Marx bisogna integrare e approfondire le loro teorie. Queste risultano inadeguate in quanto oppongono l’uomo universale o quasi universale (dell’antica Grecia in Schiller e Hegel) all’uomo mutilato del mondo moderno[17].

Ma vi è mai stata nella storia alcuna forma di società in cui gli uomini siano esistiti come esseri universali? La schiavitù non è compatibile con l’universalità. Per chiarire il mio pensiero desidero distinguere fra tre stadi di alienazione: psicologica, sociale, politica.

Per riuscire ad inquadrare il problema dell’alienazione, e quindi quello dell’angoscia nella politica, è necessario condurre l’indagine separando nettamente i tre stadi e i concetti relativi per poter integrarli più in là.

L’alienazione e l’angoscia non si ritrovano unicamente nella società moderna e nell’uomo moderno, anche se le diverse strutture delle società e degli stati modificano le specifiche forme in cui l’alienazione e l’angoscia si manifestano. Le modificazioni sono difficili da individuare e non ho intenzione qui di iniziare un’analisi sistematica, ma cercherò di delineare il problema e di concretizzare la teoria per mezzo di esempi (più o meno arbitrari).

3. L’alienazione e l’angoscia

La tesi enunciata da Freud in Das Unbehagen in der Kultur è questa: “Il programma impostoci dal principio del piacere: diventar felici non può essere adempiuto”[18], giacché per Freud esistono tre fonti di sofferenza: la natura esterna, che non possiamo mai dominare completamente, le malattie del corpo e le istituzioni sociali” [19].

Tuttavia l’affermazione che è la società ad impedire la felicità e perciò che ogni istituzione politico-sociale è repressiva non conduce l’autore ad una posizione di ostilità nei confronti della civiltà; infatti le limitazioni imposte agli istinti libidici, nonché a quelli distruttivi, creano dei conflitti inevitabili che sono essi stessi fonte del progresso storico.

I conflitti però si intensificano con il progresso della civiltà in quanto, secondo Freud, il progresso tecnico dovrebbe di per sé rendere possibile una maggiore soddisfazione degli istinti, ma conduce invece al risultato opposto.

Si verifica a questo punto un “ritardo psicologico” che aumenta sempre più secondo una formulazione che prendo a prestito dalla sociologia americana, dove si parla di “ritardo culturale”. Dunque ogni società è fondata sulla rinuncia alla soddisfazione degli istinti[20]. Freud trova che:

“non è facile capire come possa avvenire che una pulsione venga privata del suo soddisfacimento. Il farlo non è esente da pericoli; se non è compensato economicamente, bisogna rassegnarsi a serie perturbazioni” [21].

È anche vero che secondo Freud è possibile immaginare “una comunità civile che consistesse di… individui doppi, i quali, saziati libidicamente in se stessi, fossero collegati tra loro in virtù della comunanza di lavoro e di interessi”, per cui la civiltà non avrebbe bisogno di attingere energia alla sessualità[22].

Ma è il contrario che si verifica e che si è sempre verificato in pratica. In fondo Freud non presta fede a questo “ideale possibile”. Le differenze fra i vari tipi di società, le quali a nostro avviso costituiscono il fattore determinante, non rivestono per lui una importanza decisiva[23]. La rinuncia alla soddisfazione degli istinti e la tendenza culturale verso una limitazione dell’amore sono operanti nella società a tutti i livelli. Sono queste rinunce e limitazioni che caratterizziamo come alienazione psicologica dell’uomo, o meglio come alienazione dell’Io dalla dinamica degli istinti.

È ancora necessario un altro passo preliminare: bisogna stabilire il nesso logico fra alienazione e angoscia. Ciò è estremamente difficile perché la discussione del problema dell’angoscia non ha affatto raggiunto una chiarezza tale da permettere, ad uno che sia estraneo alla materia come me, di adottare una posizione precisa nei confronti delle varie concezioni[24].

Ciò nonostante mi sembra che le differenze di opinione sull’origine dell’angoscia non abbiano importanza per la mia analisi, benché siano naturalmente alquanto rilevanti in altri contesti.

Freud stesso in origine aveva fatto risalire l’angoscia alla repressione degli impulsi libidici, considerandola quindi come trasformazione automatica di energia istintuale[25]; ma in seguito finì con il modificare questo punto di vista[26]. Altri sostengono invece che l’aver paura è una facoltà innata [27]. Rank nella sua famosa opera[28] fa derivare l’angoscia dal trauma della nascita. Inoltre un gran numero di psicanalisti hanno cercato con più o meno successo di combinare le diverse teorie in vari modi[29]”.

A me sembra che, in linea di massima, si possano accettare le seguenti proposizioni. Bisogna fare una distinzione fra angoscia reale (Realangst) e angoscia nevrotica. La differenza ha notevoli conseguenze specialmente per comprendere l’importanza politica dell’angoscia. La prima, l’angoscia reale, appare come una reazione a concrete situazioni di pericolo[30], la seconda, quella nevrotica, è prodotta dall’Io per evitare in anticipo anche la più remota minaccia di pericolo.

L’angoscia reale dunque viene prodotta dalla minaccia da parte di un oggetto esterno, quella nevrotica — che può anche avere una base reale [31] — è invece prodotta dal di dentro attraverso l’Io.

Giacché l’angoscia è prodotta dall’Io, la sede dell’angoscia si trova nell’Io non nell’Es, ossia nella struttura degli istinti. Ma dall’analisi del problema della alienazione psicologica si ricava necessariamente che l’angoscia, il senso di colpa e il bisogno dell’autopunizione sono reazioni a minacce interne ai bisogni istintuali fondamentali[32], di modo che l’angoscia esiste come condizione permanente.

I pericoli esterni che minacciano l’uomo si riverberano sull’angoscia interna[33] e quindi vengono spesso percepiti come più pericolosi di quanto non siano in realtà. Contemporaneamente essi stessi intensificano l’angoscia interiore.

La dolorosa tensione provocata dalla combinazione dell’angoscia interna e del pericolo esterno si può esprimere in due forme[34] angoscia depressiva o angoscia persecutoria. La differenza è importante perché ci aiuta a valutare più correttamente la funzione politica dell’angoscia.

Nella storia dell’individuo ci sono alcuni pericoli tipici che producono l’angoscia; per il bambino il rifiuto dell’amore è di importanza determinante; su questo punto non pare esservi alcun dubbio fra gli psicologi[35].

Dall’esame delle varie fobie si può apprendere molto sul rapporto fra angoscia e rinuncia alla soddisfazione degli istinti, in quanto le inibizioni sono una repressione funzionale dell’Io il quale rinuncia a molte attività per evitare un conflitto con l’Es e con la coscienza. Noi sappiamo che i sintomi di fobia sono un sostituto dalla soddisfazione degli istinti che è stata negata o è irraggiungibile. In altre parole l’Io crea l’angoscia attraverso la repressione.

Ho cercato di riportare in modo corretto i risultati più importanti ottenuti dalla teoria psicanalitica a proposito dell’origine dell’angoscia. Da questi risultati derivano direttamente numerose conseguenze significative per l’analisi del comportamento politico.

L’angoscia può rivestire ruoli molto differenti nella vita degli uomini. cioè la creazione di uno stato di angoscia per mezzo di un pericolo può avere un effetto benefico o anche distruttivo. Si potrebbero distinguere al riguardo tre diversi effetti:

a) Può avere per l’uomo una funzione di ammonimento rappresentare una specie di consigliere: ad esempio l’angoscia affettiva può permettere il presentimento di pericoli esterni. Quindi l’angoscia può esercitare anche una funzione protettiva [36]

b) L’angoscia può avere un effetto distruttivo specialmente quando l’elemento nevrotico è fortemente presente, cioè può mettre l’uomo nell’incapacità di raccogliere le sue forze sia per evi- tare il pericolo sia per lottare contro di esso: essa può paralizzarlo degenerando fino a diventare panico.

c) Infine l’angoscia può avere un effetto catartico[37], l’uomo può sentirsi rafforzato internamente dopo essere riuscito ad evitare un pericolo o a dominarlo. Si potrebbe forse dire (ma non sono in grado di provarlo) che l’uomo che abbia dominato l’angoscia, superando in qualche modo il pericolo, sia più capace di prendere libere decisioni di quanto non sia colui che non abbia mai dovuto lottare seriamente contro un pericolo. Ciò può costituire una riserva importante alla proposizione secondo la quale l’angoscia rende impossibile una libera decisione.

4. L’angoscia e l’identificazione

La nostra analisi del rapporto fra alienazione e angoscia non ci permette ancora di comprendere il significato politico dei due fenomeni perché resta tuttora nel campo della psicologia individuale[38].

Come avviene che le masse vendano l’anima a un leader seguendolo ciecamente?

Quali sono i motivi della attrazione che il leader esercita sulle masse?

Quali sono le situazioni storiche in cui questa identificazione delle masse con il leader si realizza e che idea hanno della storia gli uomini che accettano un leader?

La questione dell’essenza dell’identificazione delle masse con un leader occupa un posto centrale nell’analisi della psicologia sociale. Senza di essa il problema della integrazione o “collettivizzazione” dell’individuo in una massa non può essere compreso.

Presumo nel lettore una certa familiarità con la storia delle teorie sulla psicologia delle masse[39]. La prima ragione della straordinaria difficoltà di comprendere i fenomeni della psicologia sociale sta proprio nei nostri pregiudizi: le esperienze degli ultimi decenni hanno istillato in noi pregiudizi più o meno forti nei confronti delle masse e associamo “masse” con “plebaglia”, cioè con un gruppo di uomini capaci di ogni efferatezza.

Infatti la psicologia delle masse ebbe inizio con l’opera dell’italiano Scipione Sighele, fondata su questo pregiudizio aristocratico[40] e il famoso libro di Le Bon[41] rientra perfettamente in questa tradizione. Le tesi di quest’ultimo sono note: l’uomo nella massa si degrada, è come ipnotizzato dal leader e in tale condizione è capace di commettere atti che come individuo non avrebbe mai commessi.

Essendo schiavo di sentimenti inconsci, cioè — per Le Bon — regressivi, l’uomo nella massa si degrada al livello di barbaro:

“Preso isolatamente, può essere un individuo colto; nella folla è un barbaro, cioè una creatura che agisce per istinto. Egli possiede la spontaneità, la violenza, la ferocia, ed anche l’entusiasmo e l’eroismo degli esseri primitivi”[42].

I critici di Le Bon, fra i quali Freud[43], hanno notato che la sua teoria, che si basa su Sighele e Tarde, risulta insoddisfacente per due ragioni: la risposta data alla domanda — cosa tiene insieme le masse? — risulta insufficiente giacché l’ipotesi dell’esistenza di un’”anima della razza”[44] non viene provata in nessun modo.

Inoltre in Le Bon il problema decisivo, il ruolo del leader-ipnotizzatore, non viene chiarito[45]. Come accade frequentemente negli stadi socio-psicologici, le descrizioni degli stati psicologici sono soddisfacenti, le analisi teoretiche, le risposte al “Perché?”, inadeguate[46].

Sin dall’inizio Freud pone il problema nel modo in cui l’abbiamo posto qui, ossia come quello dell’identificazione delle masse con il leader, identificazione che assume una importanza determinante, particolarmente in una situazione di angoscia.

Egli ritiene che la libido sia il legame che unisce leader e masse, dove, come è noto, il concetto di libido è da considerare in un’accezione molto lata che comprende

“i moti pulsionali che nei rapporti tra i sessi spingono all’unione sessuale, ma in altre circostanze vengono deviati da tale meta sessuale od ostacolati nel suo raggiungimento, pur serbando ancora la loro natura originaria in misura sufficiente da mantenere riconoscibile la loro identità (casi di autosacrificio, dell’aspirazione all’avvicinamento)”[47].

Il legame che tiene insieme la massa stringendola al leader è dunque una somma di istinti inibiti alla meta[48]. In tal modo, ritengo, è stato stabilito il nesso logico fra alienazione e comportamento di massa.

Poiché l’identificazione delle masse con il leader significa l’alienazione di ciascun singolo membro, l’identificazione costituisce sempre una regressione, anzi una duplice regressione: dal momento che la storia dell’uomo è la storia del suo emergere dall’orda primitiva e della sua progressiva individualizzazione, l’identificazione della massa con il leader equivale ad una specie di regressione storica[49]; d’altra parte questa identificazione è anche un sostituto per il legame libidico con l’oggetto[50]; quindi una regressione psicologica, un danno all’Io, forse addirittura la perdita dell’Io.

Ma questo giudizio è valido soltanto per l’identificazione libidica, cioè affettiva, dell’individuo inserito nella massa con il leader non necessariamente, e forse non affatto, per l’identificazione di amanti e di piccoli gruppi. Per quanto riguarda poi l’identificazione non-affettiva, questa non può essere considerata senz’altro come regressiva dal momento che l’identificazione con delle organizzazioni (chiesa, esercito) non è sempre libidica.

L’importanza data dal MacDougall al diverso significato che può avere l’organizzazione per il singolo deve essere seriamente considerata.

Quindi è necessario fare delle distinzioni: esistono delle identificazioni non-affettive in cui o la coercizione o comuni interessi materiali giocano un ruolo essenziale; ciò avviene nella forma gerarchico-burocratica e rispettivamente in quella cooperativa.

Mi sembra erroneo, soprattutto avendo riguardo alla storia recente, vedere nella identificazione del soldato con l’esercito, cioè nella fedeltà a una organizzazione, una effettiva identificazione del soldato con il comandante in capo.

Certo ci sono anche esempi di ciò — Alessandro, Annibale, Cesare, Wallenstein, Napoleone — ma il comandante in capo del ventesimo secolo è più un tecnico della guerra che un leader di uomini, e il legame libidico del soldato è, se mi è concesso coniare l’espressione, essenzialmente cooperativo, cioè si stabilisce con il più piccolo gruppo di camerati con cui si condividono i pericoli.

Vorrei dunque individuare due tipi fondamentali di identificazione: libidica (affettiva) e alibidica (non-affettiva), accettando l’idea, derivante dalla psicologia di MacDougall, che l’identificazione non-affettiva con una organizzazione sia meno regressiva della identificazione affettiva con un leader.

La lealtà non-affettiva è trasferibile[51], quella personale non lo è. La prima contiene sempre forti elementi di razionalità, di calcolabilità nei rapporti fra organizzazione e individuo, e quindi impedisce lo spegnimento totale dell’Io[52].

Ma credo che si debba distinguere ulteriormente fra due tipi di identificazione affettiva, che possiamo chiamare rispettivamente cooperativa e cesaristica.

È concepibile, e probabilmente è avvenuto per brevi periodi nel corso della storia, che molti individui di pari livello si identifichino reciprocamente in modo cooperativo al punto che i loro Io si fondano nell’Io collettivo[53]. Ma questa forma cooperativa è rara, limitata a brevi periodi o comunque operante solo per piccoli gruppi.

La forma predominante di identificazione affettiva è quella delle masse con il leader. Essa è, come ho già detto, la forma più regressiva perché dipende da una totale obliterazione dell’Io ed è quella che ha maggiore pertinenza con il nostro discorso: la chiameremo identificazione cesaristica [54].

5. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (I: alcuni casi storici)

L’identificazione cesaristica assume un ruolo nella storia quando si verifichino le seguenti condizioni: che le masse si trovino in una situazione di pericolo oggettivo, che siano incapaci di capire il processo storico e che l’angoscia attivata dal pericolo venga trasformata, attraverso la manipolazione operata da altri, in angoscia nevrotica persecutoria (aggressiva).

Ciò implica, prima di tutto, che non tutte le situazioni pericolose per le masse conducono ad un movimento cesaristico, e inoltre che non tutti i movimenti di massa si basano sull’angoscia, e quindi non tutti sono necessariamente cesaristici.

Si tratta dunque di determinare in quali condizioni storiche un movimento di massa regressivo al seguito di un cesare cerchi di conquistare il potere politico.

Però prima di descrivere queste situazioni storiche vorrei accennare a un indizio che spesso permette una diagnosi tempestiva del carattere regressivo di un movimento di massa.

Questo indizio è una particolare visione della storia che le masse e i leaders adottano e che possiamo chiamare teoria cospirativa, una teoria caratterizzata da una falsa concretezza. La connessione tra il cesarismo e questa concezione della storia è evidente.

Le masse, come sperano di liberarsi dalle loro difficoltà attraverso l’unione assoluta con una singola persona, cosi ascrivono la responsabilità di queste difficoltà a certe persone che le hanno create mediante azioni cospirative. In tal modo il processo storico viene personificato: odi, risentimenti, paure derivati da grandi sconvolgimenti vengono concentrati su determinate persone che sono denunciate come cospiratori diabolici.

Niente sarebbe per loro più sbagliato che caratterizzare dei nemici come capri espiatori (come spesso avviene nella letteratura), giacché essi appaiono come nemici veri da essere eliminati, e non come sostituti che bisogna soltanto mandare in esilio.

Si tratta appunto di una falsa concretezza, ed è quindi una concezione della storia particolarmente pericolosa: il pericolo consiste nel fatto che una simile visione storica non è mai del tutto falsa, ma contiene sempre un fondo di verità, e infatti deve necessariamente avere del vero se vuole avere presa. Si potrebbe dire che quanto più è veritiera la concezione storica, tanto meno regressivo è il movimento; quanto più è falsa tanto più è regressivo.

La mia tesi è che ovunque in politica si verifichi la forma affettiva, cioè cesaristica, di identificazione con il leader, le masse e il leader hanno questa visione della storia; che le difficoltà che angustiano le masse sono attribuite esclusivamente ad una cospirazione da parte di determinate persone o di determinati gruppi a danno del popolo.

Mediante questa concezione storica l’angoscia reale prodotta dalla guerra, il bisogno, la fame, l’anarchia viene trasformata in angoscia nevrotica, che sarà superata attraverso l’identificazione con il leader demagogo, sulla base di una totale rinuncia al proprio Io, a tutto vantaggio del leader e del suo gruppo, i cui interessi non corrispondono necessariamente a quelli delle masse.

Non posso naturalmente fornire prove definitive, ma credo, riferendomi a determinati eventi storici, di poter chiarire il nesso fra tale concezione storica e il cesarismo.

Un caso interessante di identificazione affettiva delle masse con un leader è rappresentato dal rapporto fra Cola di Rienzo e il popolo romano[55]. Presumo che sia nota la sua storia: l’ascesa dell’avvocatuccio, figlio di un taverniere romano e di una lavandaia, al rango di Tribuno del Popolo Romano e dittatore di Roma, la sua espulsione e il successivo rientro con l’aiuto della Chiesa, la sua esecuzione ad opera dei Colonna nell’anno 1354.

La visione storica di Cola e del popolo romano era semplicissima: Roma era stata rovinata dai signori feudali; la loro distruzione avrebbe permesso che Roma raggiungesse di nuovo l’antica grandezza. Ecco come il Petrarca si esprime nella famosa lettera di congratulazioni a Cola:

“Questi baroni per la cui difesa hai cosi spesso sparso il tuo sangue, che hai nutrito con le tue stesse sostanze… questi baroni ti hanno giudicato indegno della libertà. Essi hanno riunito i resti straziati dello stato in spelonche e in abominevoli rifugi di banditi… Né la pietà né l’amore per il loro infelice paese sono valsi a frenarli… Non permettere a nessuno dei lupi rapaci che hai cacciati via dall’ovile di correre dentro di nuovo, tuttora si aggirano attorno irrequieti in cerca di preda, cercando mediante la frode e l’inganno… di far rientro là donde furono estromessi con la violenza”[56].

Non si può negare che la politica seguita dai signori feudali, soprattutto i Colonna e gli Orsini, fosse criminale. Senza questo elemento di verità la propaganda e la politica di Cola non avrebbero mai avuto successo.

Ma la sua era fondamentalmente una falsa concretezza in quanto, ammesso che fosse riuscito ad eliminare i baroni, quali decisivi miglioramenti avrebbe potuto apportare a Roma?

I fatti storici — la residenza ad Avignone della Corte Pontificia, il decadimento della economia romana, la nuova struttura dei rapporti di classe in seguito all’affermarsi dei borghesi cavallerotti — non potevano essere cambiati da Cola.

Non c’è dubbio che l’angoscia, persino la paura puramente fisica degli arbitri dei baroni, spingeva il popolo verso Cola, che l’acutizzò mediante l’uso abilissimo della propaganda e consegui la vittoria. Ma il leader stesso non deve sentire angoscia, o per lo meno non deve manifestarla[57]. Qui Cola non era all’altezza della situazione: da ogni altro punto di vista il suo rapporto con il popolo romano corrispondeva esattamente ad un rapporto libidico di identificazione masse-leader; e mi rincresce che il tempo non mi permetta di descrivere e analizzare i suoi motivi propagandistici, le sue cerimonie, e i suoi riti.

L’errore fondamentale di Cola era di non essere abbastanza cesaristico: benché umiliasse pubblicamente i baroni non li liquidò, non si sa se per codardia, umanità o considerazioni tattiche. Le masse di Roma si erano invece aspettate che egli si sarebbe comportato in accordo con la sua concezione della storia; non lo fece, quindi era destinato a cadere.

Ho voluto menzionare Cola di Rienzo perché costituisce un caso marginale in cui permane il dubbio se si tratti di un movimento regressivo o invece progressista, che abbia cioè veramente come fine la realizzazione della libertà dell’uomo.

Le otto guerre religiose francesi del ’500 forniscono un ottimo materiale per studiare il carattere della identificazione cesaristica nonché di quella organizzativa. Tutti e tre i partiti — ugonotti, cattolici e politiques — si trovavano ad affrontare gravi problemi: la disgregazione della vecchia società in seguito alla svalutazione dell’argento, la perdita di ricchezza in alcuni settori e l’arricchimento in altri, l’inizio di trasformazioni radicali nei rapporti di classe e infine la dissoluzione della monarchia assoluta dopo la morte di Francesco I. Per comprendere le guerre religiose francesi bisogna vederle su questo sfondo.

Sia i cattolici che i protestanti vedevano il problema della Francia solo sotto il profilo religioso e quindi ascrivevano le angustie della Francia esclusivamente ai loro avversari religiosi, congetturavano, non senza una misura di ragione, che questi avversari rappresentassero una grande sinistra cospirazione, elaboravano o utilizzavano teorie di identificazione cesaristica e passarono coerentemente all’eliminazione dell’avversario ogni qual volta se ne offrisse l’occasione.

Il libellista ugonotto François Hotman in Le Tigre[58] vedeva nel cardinale di Guisa “un mostro detestabile”, il cui scopo era rovinare la Francia, assassinare il Re e cospirare con l’aiuto di dame di corte e del Gran Conestabile di Francia contro “la corona di Francia”, i beni delle vedove e degli orfani, il sangue dei poveri e degli innocenti”.

La teoria di Calvino del redentore secolare mandato da Dio per rovesciare i tiranni[59], che nel ’600 Cromwell avrebbe utilizzato come sua base teorica, divenne la teoria cesaristica dei protestanti[60].

I cattolici, che avevano una più antica tradizione di tirannicidio, elaborarono una teoria pseudo-democratica di identificazione soprattutto attraverso gli scritti dei predicatori della Lega e dei gesuiti[61]. In questi opuscoli infiammati, la cui demagogia supera perfino quella degli ugonotti, la teoria democratica viene infiorata di caratteristiche teocratiche e si usa la teoria sociale per poter identificare la massa del popolo con Enrico di Guisa, grazie appunto all’elemento teocratico.

Chiunque si preoccupi di studiare l’ottava guerra di religione e la ribellione di Parigi vi troverà tutti gli elementi che io ritengo decisivi: l’appello all’angoscia, la personificatone dei mali prima in Enrico III poi in Enrico di Navarra, l’identificazione delle masse con Enrico di Guisa.

Entrambe le posizioni, quella dei cattolici e quella degli ugonotti, sono regressive nella stessa misura, mentre la concezione dei politiques, che Enrico IV avrebbe saputo in seguito tradurre in azione, è incomparabilmente più progressista. Infatti il più importante rappresentante del partito dei politiques, Jean Bodin, ebbe questi grandi meriti: vedeva chiaramente i problemi economici della Francia[62] e capiva la falsa concretezza della concezione storica dell’una e dell’altra parte; se si faceva paladino della monarchia assoluta, cioè della identificazione del popolo con il monarca, lo faceva in quanto riteneva che il monarca dovesse porsi al di sopra delle religioni che si combattevano l’una contro l’altra[63], alleandosi con il terzo stato[64] per salvare la Francia.

Sebbene esigesse dal popolo l’assoluta sottomissione al principe questa identificazione conteneva i due elementi razionali che ho menzionati prima: la trasferibilità della fedeltà (cioè si distingue l’ufficio dal suo titolare) e la razionalizzazione del rapporto fra cittadino e stato.

Quindi Bodin, nonostante l’assolutismo della sua teoria, è in parte giustificato nel definirla come teoria dello stato costituzionale (droit gouvernement)[65].

Credo che l’esame delle guerre religiose del ’500 francese sia servito a chiarificare la mia tesi che l’identificazione non-affettiva con una istituzione (lo stato) sia meno repressiva che non l’identificazione con un leader.

Naturalmente non posso discutere qui tutti i numerosi, significativi esempi che ritroviamo nelle lotte religiose del ’500: basterà citare il famoso scritto del terribile fanatico calvinista John Knox, First Blast of the Trumpet against the monstrous Regiment of Women dove si legge:

“Vediamo il nostro paese abbandonato in preda alle nazioni straniere, udiamo che il sangue dei nostri fratelli, membri del corpo di Gesù Cristo, viene fatto scorrere in modo oltremodo crudele, e sappiamo che la unica causa di tutte queste miserie… è il dominio mostruoso di una donna crudele”[66].

Il regno della cattolica Caterina dei Medici, di Maria di Lorena, che precedette Maria Stuarda, e di Maria Tudor appaiono qui non solo come violazione del comandamento divino (perché Dio ha voluto la sottomissione della donna all’uomo), ma come una vera e propria congiura contro la vera religione.

Purtroppo John Knox ebbe la sfortuna di vedere la restaurazione del protestantesimo in Inghilterra ad opera di una donna e in un secondo Blast[67] chiese scusa ad Elisabetta per il primo attacco.

6. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (II: cinque modelli fondamentali di teorie cospiratorie)

Invece di proseguire con questa rassegna sarà forse più utile esaminare cinque modelli fondamentali di teorie cospiratone, i quali tutti rivelano la stessa sequenza: intensificazione dell’angoscia per mezzo della manipolazione, identificazione, falsa concretezza. Essi sono:

a) la cospirazione gesuitica;
b) la cospirazione dei framassoni;
c) la cospirazione comunista;
d) la cospirazione capitalista;
e) la cospirazione ebraica.

a) La congiura gesuitica

L’ordine dei gesuiti[68] viene davvero additato da molti come una società avente fini cospiratori e i Monita Secreta del 1614 [69]composti da un ex-gesuita polacco e contenente un presunto piano segreto dell’Ordine, servono da utile pretesto per attribuire all’Ordine ogni delitto e ogni disgrazia e agitare in tal modo le masse.

Ciò è sempre stato relativamente facile in tempi di crisi: la notte di San Bartolomeo, l’assassinio di Enrico III da parte di Jacques Clement, l’attentato alla vita di Enrico IV da parte di Barrière e Chastel nonché l’assassinio dello stesso ad opera di Ravaillac, la congiura delle polveri del 1605, lo scoppio della guerra dei trent’anni, per non parlare di innumerevoli crimini e disgrazie meno importanti, furono ascritti tutti ai gesuiti. Il fatto che queste storie fossero credute è da ricollegare naturalmente agli effetti politici della falsa concretezza.

Ci fu del vero in molte di queste accuse: sta proprio in questa misura di verità il pericolo di tali concezioni della storia.

b) La congiura dei framassoni

Con i medesimi caratteri si presenta la denuncia dei fra-massoni: gli inglesi credevano che le cospirazioni giacobine fossero opera dei framassoni e ascrivevano la Rivoluzione francese ad un misterioso gruppo di “illuminati bavaresi”[70].

Queste idee risultano strettamente connesse con quelle antigesuitiche poiché la società degli illuminati bavaresi era stata fondata da Adam Weishaupt nel 1776 per combattere l’influsso dei gesuiti[71]. Anche questa volta esse hanno una misura di verità. La maggior parte degli Enciclopedisti erano framassoni e più della metà appartenevano a logge framassoniche. Ma non ritengo che al pubblico interessi una discussione dettagliata che dimostri come la teoria cospiratoria rappresenti un offuscamento della storia[72].

c) La cospirativa comunista

La teoria della cospirazione comunista segue il medesimo modello e serve al medesimo scopo. La rivoluzione d’ottobre in Russia viene spiegata semplicemente come cospirazione di tipo blanquista[73]”, impersonata dal comitato rivoluzionario militare di Trotzskij.

La colpa per la rivoluzione tedesca del 1918 è data al diabolico Lenin, la presa del potere dei bolscevichi negli stati satelliti viene fatta risalire a sinistre cospirazioni del Cremlino e in genere il rapporto fra il bolscevismo e il mondo è visto come la cospirazione di un piccolo gruppo contro il benessere dell’umanità.

Di nuovo c’è una parte di verità: la rivoluzione di ottobre fu infatti una cospirazione, formatasi però in una determinata situazione storica e sostenuta da una ideologia.

I bolscevichi avrebbero volentieri manipolato la rivoluzione tedesca del 1918, ma non avevano né i mezzi né l’intelligenza per farlo, e comunque non avrebbero potuto aver il sopravvento, anche se fossero stati più abili, a causa delle oggettive condizioni storiche.

È naturale che i comunisti dei paesi satelliti cospirassero, ma riuscirono a giungere al potere solo perché l’esercito rosso stava alle loro spalle e perché la situazione oggettiva li favoriva. A niente sarebbe valsa, o effettivamente valse, una cospirazione per quanto abile nell’Europa occidentale.

Ciò nondimeno la teoria cospiratoria trova i suoi adepti non solo tra le masse ma anche fra gli scrittori seri che, fortemente influenzati dall’antitesi semplicistica teorizzata dal Pareto fra élite e masse, tendono generalmente a concepire la politica come niente altro che la manipolazione delle masse da parte di élites e per i quali la psicologia e la scienza politica non sono che tecniche di manipolazioni.

Lo scopo di questa teoria è evidente: un’angoscia potenziale, il cui significato concreto non è stato tuttora chiarito, viene attualizzata tramite il riferimento a cospiratori diabolici: la famiglia, la proprietà, la religione sono messe in pericolo dalla cospirazione.

La semplice angoscia diventa facilmente angoscia persecutoria nevrotica, la quale a sua volta può in determinate circostanze portare ad un movimento di massa di carattere totalitario.

Potremmo citare ancora un gran numero di casi in cui la storia veniva interpretata in base al principio della falsa concretezza. La storia americana specialmente è piena di esempi di simili movimenti.

Ce per esempio il Know-Nothing Party del 1854–1855 con il suo odio per i cattolici irlandesi e gli immigrati tedeschi. Questo partito nacque dall’“Ordine della Bandiera Stellata”, società segreta fondata da protestanti: gli aderenti maltrattavano i cattolici e quando gli si facevano domande sull’Ordine rispondevano “Non ne so niente” (I know nothing).

Più noto è il Ku Klux Klan. Il timore di una perdita di stato-sociale da parte dei bianchi, specialmente quelli poveri, a vantaggio dei negri e la paura del Papa e dei cattolici costituivano la base che ha fatto di questa società segreta una organizzazione terroristica dalla sua fondazione nel 1867 fino al presente.

Il Partito populista (1892) invece nacque in seguito ad una depressione agraria come protesta contro il dominio dei monopoli ferroviari, industriali e finanziari nonché contro il sistema del monometallismo aureo.

Uno dei suoi leader elaborò una vera e propria teoria cospiratoria:

“Il mio parere sull’argomento è che la cospirazione formatasi, a quanto pare, sia qui che in Europa per distruggere… dai tre settimi alla metà del denaro metallico del mondo sia il crimine più enorme di questa epoca o di qualsiasi altra”.

d) La cospirazione capitalistica

Il bolscevismo funziona in modo analogo con la teoria dell’accerchiamento capitalistico nella quale i capitalisti come regole sono personificati da Wall Street. Di nuovo non ci sono dubbi sull’esistenza di una politica di accerchiamento nei confronti della Russia bolscevica agli inizi della rivoluzione, ma sarebbe fatale credere che il terrore fosse un effetto della politica di intervento e della guerra fredda.

È possibile che la politica dell’accerchiamento portasse all’inasprimento del terrore, così come le guerre di intervento durante la Rivoluzione francese conferivano nuovo impeto al Terrore di Robespierre[74], ma la teorizzazione del terrore come metodo normale di lotta politica contro l’avversario di classe è contenuto nella definizione leninista della dittatura del proletariato, essa fu estesa al partito e finalmente alla presunta società senza classi senza che vi fosse alcun nesso con l’intensità della politica capitalistica dell’accerchiamento.

Intanto la concezione bolscevica della storia, attivando costantemente l’angoscia, rendeva possibile l’identificazione con il leader Stalin e quindi puntellava la sua dittatura cesaristica.

e) La cospirazione ebraica

L’esempio più importante, se non altro per la sua immensa influenza politica, è la teoria della cospirazione ebraica secondo i Protocolli degli anziani di Zion[75]. Questi contengono dei presunti piani segreti di leaders ebraici, che sarebbero stati formulati nell’anno 1897 per la conquista del dominio mondiale da parte degli ebrei per mezzo della forza, del terrore e della corruzione, aiutata dall’influenza disgregante del liberalismo, della framassoneria, ecc.

Questo dominio mondiale si presenterebbe come una finta democrazia attraverso la quale opererebbero i leaders ebraici. Che i Protocolli non siano altro che un falso preparato dagli zaristi russi fu stabilito definitivamente nel processo di Berna del 1934–1935[76]. È parimenti certo che essi sono essenzialmente un plagio dell’opera di Maurice Joly diretta contro Napoleone III, il Dialogue aux Enfers entre Machiavel et Montesquieu[77].

Ma se i Protocolli sono un falso e se i progetti di una cospirazione mondiale ebraica appartengono al regno del mito, dove si trova allora quel nocciolo di verità che è a mio avviso necessario per spiegare l’influenza avuta dall’antisemitismo e dai Protocolli stessi [78]”?

Limiterò la mia analisi alla Germania, la cui situazione può essere compresa soltanto se si è consapevoli del fatto che prima del 1933 l’antisemitismo spontaneo in Germania era estremamente debole.

Già nel 1942 scrissi contro la quasi unanime credenza:

“L’opinione personale di chi scrive, per quanto possa sembrare paradossale, è che il popolo tedesco sia il meno antisemita di tutti»[79].

Ancora oggi sottoscrivo la medesima opinione: è precisamente la debolezza dell’antisemitismo spontaneo in Germania che spiega perché il nazionalsocialismo l’abbia scelto come arma politica decisiva.

In questo caso l’elemento di verità, se si può chiamare cosi, è prima di tutto religioso: la crocefissione nella rappresentazione catechistica viene ascritta a colpa mortale degli ebrei. Ma questo è un elemento del tutto ambivalente giacché è precisamente la crocefissione di Cristo che permette la salvezza dei cristiani, e di tutti gli uomini.

La chiesa inoltre riconosce che l’origine spirituale del cristianesimo è semitica[80]. Cosi mentre la diffamazione degli ebrei sotto il profilo storico-religioso forma la base senza la quale l’antisemitismo non avrebbe potuto essere attivato, la rappresentazione catechistica della crocefissione non è di per sé sufficiente a giustificarlo.

L’esistenza dell’antisemitismo globale può essere compresa meglio se prendiamo come punto di partenza la politica del nazionalsocialismo, cercando di capire quale ruolo avesse l’antisemitismo entro il sistema politico. Non posso qui presentare il problema che in forma alquanto schematica[81].

La Germania del 1930–1933 era la terra dell’alienazione e dell’angoscia[82]. I fatti sono noti: la sconfitta in guerra, una rivoluzione soffocata e incompiuta, l’inflazione, la depressione, la non-idendificazione con i partiti politici esistenti, il cattivo funzionamento del sistema politico — tutti questi erano sintomi di sradicamento morale, sociale e politico.

L’incapacità di comprendere perché l’uomo dovesse essere cosi angustiato stimolava l’angoscia, che si trasformava in una angoscia quasi nevrotica a causa della politica terroristica del nazionalsocialismo e della sua propaganda antisemitica. La mèta dei nazionalsocialisti era chiara: unificare il popolo saldamente attorno al leader carismatico allo scopo di conquistare l’Europa e forse il mondo intero nonché di realizzare l’egemonia razziale dei tedeschi sopra gli altri popoli.

Ma come integrare il popolo malgrado tutte le divisioni di classe, di partito, di religione? Solo tramite l’odio per un nemico.[83] Ma su quale nemico fermare la scelta? Non poteva essere il bolscevismo perché era troppo forte, la chiesa cattolica non andava perché ce n’era bisogno politicamente e la fedeltà nei suoi confronti era troppo saldamente radicata.

Rimasero gli ebrei: essi apparivano alla coscienza pubblica come potenti mentre erano deboli nella realtà, erano in un certo senso estranei, ma contemporaneamente simboli concreti del cosiddetto capitalismo parassitario grazie alle loro posizioni nel commercio e nella finanza.

Essi incarnavano una morale ritenuta decadente nelle loro posizioni di avanguardia nell’arte e nella letteratura, sembravano essere dei concorrenti cui arrideva il successo sia nel sesso che nelle professioni.

Tutto questo dava alla tesi della cospirazione ebraica quell’elemento di verità necessario a permettere che questa concezione della storia divenisse un’arma orrenda. Sarebbe errato volere presumere una corrispondenza fra la posizione economico-sociale di una persona e il suo antisemitismo, cioè stabilire che l’individuo di istruzione elevata ne sia più immune di quello poco istruito, o i malpagati più immuni dei ben retribuiti. Quello che si può tuttavia affermare [84] è che esiste una correlazione fra perdita di stato sociale e antisemitismo.

La paura della discesa sociale dunque spinge alla creazione di “un bersaglio contro cui scaricare i risentimenti che nascono dall’amor proprio ferito” [85].

Questo ci porta all’analisi delle situazioni storiche nelle quali l’angoscia si impadronisce delle masse.

7. Angoscia collettiva, identificazione, colpa

Mi intratterrò su questi temi in maniera alquanto schematica dato che li discuto dettagliatamente altrove[86]. Abbiamo distinto tre stadi di alienazione: lo stadio psicologico permane a prescindere dalle istituzioni sociali sotto le quali si vive, creando un’angoscia potenziale che l’uomo inserito nella massa tenta di superare mediante la rinuncia al proprio io e l’identificazione affettiva con il leader; questa è poi facilitata dalla nozione di falsa concretezza, la teoria cospiratoria.

Ma sin qui non abbiamo specificato quando è che questi movimenti regressivi di massa vengono attivati, cioè quando è che l’angoscia potenziale può essere attivata al punto di diventare un’arma crudele nelle mani di leaders irresponsabili.

Per inquadrare questo problema dobbiamo tenere conto degli altri due stadi di alienazione, quello sociale e quello politico.

L’alienazione del lavoro: la moderna società industriale è caratterizzata dalla separazione del lavoratore dal prodotto del lavoro per mezzo della divisione gerarchica del lavoro. Nessuno dubiterà che la divisione del lavoro e la sua organizzazione in forma gerarchica abbiano conosciuto un costante aumento sin dalla rivoluzione industriale del 700.

La psicologia romantica tedesca del lavoro chiama questo la “despiritualizzazione del lavoro” (Entseelung der Arbeit). Questo concetto, nonché i vari rimedi proposti, sono pericolosi perché tendono a nascondere la inevitabilità di questo processo di alienazione, il quale deve essere riconosciuto, compreso e accettato.

Se questo non avviene, se ci si rifiuta di tenere conto della inevitabilità della divisione del lavoro e dell’ordinamento gerarchico del processo lavorativo, auspicando la “spiritualizzazione” del lavoro piuttosto che la sua riduzione ad un minimo, allora l’angoscia sociale viene intensificata. L’atteggiamento della cosiddetta “nuova classe media” (impiegati) può essere compreso alla luce di questo processo[87].

La cosiddetta nuova classe media, facendo un lavoro che — usando il linguaggio della psicologia del lavoro tedesca — è “più despiritualizzato” di quello dell’operaio delle industrie e percependo un salario medio probabilmente inferiore a quello dell’operaio, si attacca con tenacia alla sua ideologia e ai suoi modi borghesi. Cosi il borghese medio rifiuta di tenere conto della inevitabilità del processo di alienazione del lavoro e, come in Germania prima del 1933, il suo strato sociale diventa quello più suscettibile al cesarismo.

In una società basata sulla concorrenza si dovrebbero premiare per i loro sforzi i più capaci, cioè coloro che si impegnano, sono intelligenti e accettano i rischi. Non vi è dubbio che il principio della competizione domini oggi non solo l’economia, ma tutte le relazioni sociali. Karen Homey, rappresentante del revisionismo freudiano[88], sostiene che il carattere distruttivo della concorrenza crea grande angoscia nelle personalità nevrotiche.

Quest’affermazione è poco convincente riguardo alle situazioni di competizione veramente genuina, quando cioè persone di circa pari forza lottano con metodi leali. Questo tipo di competizione viene definito da Adam Smith:

“Un individuo non deve mai preferire se stesso o un altro al punto da danneggiare o ingiuriare l’altro per recar benefido a se stesso, anche se il beneficio dell’uno è molto più grande del danno o dell’ingiuria dell’altro[89].

E ancora

“Nella corsa al benessere, agli onori e avanzamenti è lecito a ciascuno correre il più forte che può, impegnando ogni nervo e ogni muscolo al massimo per superare tutti gli altri concorrenti, ma se egli dovesse spingere o far cadere qualcuno di loro, perde del tutto la simpatia dello spettatore. Non si può ammettere la violazione delle regole del fair play[90]. Non posso qui imbarcarmi in un’analisi sociale per dimostrare che questo tipo di concorrenza non esiste e forse non è mai esistito, che in realtà c’è sempre sotto una lotta monopolistica, che in altre parole gli sforzi dell’individuo, la sua intelligenza, le sue aspirazioni, la sua volontà di rischiare vengono frantumati con facilità dalle alleanze di potere”[91].

Dietro la maschera della competizione, la quale non ha necessariamente degli effetti distruttivi se permette una organizzazione razionale della società, si nascondono in realtà dei rapporti di dipendenza. Per godere di successo nella società di oggi è molto più importante stare in buoni rapporti con i potenti che sostenersi con le proprie forze. L’uomo moderno lo sa: è precisamente questa impotenza dell’individuo che si vede costretto ad adattarsi all’apparato tecnologico che è distruttiva e angosciosa[92].

Ma anche quando esiste la competizione genuina non c’è sforzo che valga se le crisi rovinano il mercato. L’incapacità di capire il meccanismo di sviluppo delle crisi, e il frequente bisogno di attribuirne la colpa a forze sinistre costituisce un ulteriore fattore di distruzione dell’Io.

Questo tipo di processo psicologico operava nella cosiddetta “vecchia classe media” della Germania prima del 1933. Ma ripeto che risulta difficile comprendere perché la concorrenza, seppur leale, debba di per se stessa avere effetti distruttivi[93].

In ogni società composta di gruppi antagonistici si verifica una continua ascesa e discesa dei vari gruppi. La mia tesi è che l’angoscia persecutoria — ma che abbia, come ho detto, una base reale — si produce ogni qual volta il prestigio, il reddito o l’esistenza stessa di un gruppo vengono minacciati, cioè quando esso decade e non comprende o gli è impedito di comprendere il processo storico in atto. Gli esempi sono troppo numerosi perché li possa enumerare qui: esempi classici sono il nazionalsocialismo tedesco e il fascismo italiano.

Ma non sono soltanto le classi sociali a resistere attraverso movimenti di massa alla propria decadenza, anche i conflitti razziali e religiosi producono sovente fenomeni analoghi. Il conflitto fra negri e bianchi negli stati del Sud degli Stati Uniti, la lotta condotta attualmente dal governo sudafricano contro gli indigeni avvengono secondo il seguente schema: l’angoscia di una minoranza bianca al potere davanti alla prospettiva di essere scalzata a causa dell’ascesa economica e politica dei negri viene sfruttata in maniera propagandistica per la creazione di movimenti affettivi di masse i quali spesso assumono caratteristiche fasciste.

L’alienazione sociale, cioè la paura della perdita del proprio Stato sociale, non può da sola produrre gli effetti descritti, ma occorre che vi si aggiunga l’elemento della alienazione politica. Poiché dedico un saggio a parte a questo fenomeno mi limiterò qui ad alcune brevi indicazioni. Come regola ci si accontenta, soprattutto nella letteratura americana sull’argomento, di definire l’astensione dal voto nelle elezioni come apatia politica[94].

Ma altrove ho voluto specificare che la parola apatia descrive tre diverse reazioni politiche: innanzitutto la mancanza di interesse per la politica, cioè l’opinione che fare politica non spetti al cittadino perché dopo tutto non si tratta che di una lotta fra piccole cliques e in fondo niente cambia mai; in secondo luogo l’atteggiamento epicureo verso la politica, ossia l’idea che la politica e lo stato devono soltanto assicurare l’ordine che permette all’uomo di dedicarsi al perfezionamento di sé, per cui la scelta fra i vari tipi di stato e di governo è questione secondaria; e finalmente la terza reazione, il rigetto consapevole dell’intero sistema politico, il quale si esprime come apatia solo perché l’individuo non vede alcuna possibilità di cambiare il sistema attraverso i propri sforzi.

Ad esempio la vita politica può esaurirsi nella competizione fra partiti politici che siano dei semplici apparati privi di partecipazione di massa, ma che monopolizzino la politica fino al punto che un nuovo partito non può aprirsi una via stando alle regole del gioco.

Questa terza forma di apatia costituisce il nocciolo di quello che abbiamo caratterizzato come alienazione politica: generalmente questa apatia se opera entro l’alienazione sociale conduce ad una parziale paralisi dello stato e spiana la strada ad un movimento cesaristico il quale, disprezzando le regole del gioco, utilizza l’incapacità del cittadino a prendere decisioni individuali e lo compensa della perdita dell’Io con l’identificazione con un cesare.

Il movimento cesaristico è costretto non solo ad attivare l’angoscia ma anche ad istituzionalizzarla. La istituzionalizzazione dell’angoscia è necessaria perché un movimento cesaristico non può mai affrontare una lunga attesa prima della presa del potere.

Ciò risulta palese se si guarda alla sua base affettiva. Laddove l’organizzazione di massa non-affettiva, come per esempio un normale partito politico, può esistere per molto tempo senza disgregarsi il movimento cesaristico deve affrettarsi proprio a causa della scarsa consistenza dell’elemento che lo tiene insieme: l’affettività libidica. Dopo essere arrivato al potere si trova dinanzi alla necessità di istituztonalizzare l’angoscia al fine di impedire che la base affettiva venga soffocata dalla sua struttura burocratica.

Le tecniche sono note: propaganda e terrore, cioè la incalcolabilità delle sanzioni. Non occorre che io discuta di ciò qui. Il Montesquieu partendo da Aristotele e Machiavelli distingueva tre sistemi di governo costituzionali contrapposti ad uno tirannico: secondo lui la monarchia poggia sull’onore del monarca, l’aristocrazia sulla moderazione degli aristocratici, la democrazia sulla virtù (cioè per lui il patriottismo), ma la tirannide sulla paura[95].

Non bisogna trascurare il fatto, che abbiamo tenuto a sottolineare, nelle nostre osservazioni introduttive, che ogni sistema politico si fonda sull’angoscia. Ma c’è una differenza non soltanto quantitativa fra l’angoscia istituzionalizzata in un sistema totalmente repressivo e quella che sta alla base di un sistema almeno parzialmente liberale. Si tratta di due situazioni qualitativamente diverse. Si può forse dire che il sistema totalmente repressivo istituzionalizzi l’angoscia depressiva e persecutoria, quello parzialmente liberale l’angoscia reale[96].

Una volta chiarito il legame fra angoscia e colpa diventa subito evidente che si tratta di due stati psicologici differenti. Nella Guerra del Peloponneso Tucidide espone le seguenti osservazioni su Sparta:

«Temendone la rozza improntitudine e il gran numero [degli Iloti]… escogitarono [gli Spartani] anche questo stratagemma. Proclamarono che quanti ritenevano di essersi particolarmente distinti nelle guerre si facessero avanti perché intendevano farne una scelta e donare loro la libertà. Volevano invece sondarne l’animo, convinti che colui che si fosse considerato, per conto suo, degno di essere liberato per primo, proprio per questo senso d’orgoglio avrebbe potuto più d’ogni altro rivolgersi loro contro. E cosi ne scelsero circa 2000, che, coronati, fecero il giro dei templi, in rendimento di grazie per l’acquistata libertà; ma poco dopo furono fatti scomparire e nessuno seppe in qual modo ognuno di essi fosse finito”[97].

Con la penetrazione psicologica che gli è consueta questo maggiore fra gli storici vide chiaramente il nesso fra angoscia e colpa collettiva. Leggiamo poi la descrizione di Plutarco dei terrificanti krypteiai, la polizia segreta spartana[98]:

“Le autorità di quando in quando mandavano fuori in luoghi diversi della campagna i giovani che sembravano più accorti, permettendo loro di portare seco soltanto un pugnale, il necessario per mangiare e nulla più. I giovani durante il giorno si disperdevano in luoghi nascosti, ove riposavano indisturbati; come calava la notte, scendevano sulle strade e facevano la pelle a quanti Iloti capitavano loro tra le mani”[99].

Ecco un esempio singolare di quello di cui parliamo [100].

Chi non rammenta a questo punto I demoni di Dostoievskij dove Stavrogin dà il seguente consiglio: “Persuadete quattro membri di un gruppo ad accoppare il quinto, col pretesto che costui li denuncerà e li legherete subito tutti, col sangue versato, come con un nodo. Diventeranno i vostri schiavi, non oseranno piu ribellarsi, né chiedere i conti”[101].

Questo famoso passo di Dostoievsky è importante non solo come verifica della nostra teoria psicologica ma anche perché dimostra allo stesso tempo che il leader rinforza l’angoscia mediante il senso di colpa non nell’interesse delle masse ma per il proprio leader rinforza l’angoscia mediante il senso di colpa non nell’interesse delle masse ma per il proprio vantaggio.

Non desidero discutere qui la teoria psicologica sul rapporto fra angoscia e colpa. Secondo Freud[102] il senso di colpa nell’uomo deriva dal complesso di Edipo. Questa aggressività che il bambino reprime gli crea un senso inconscio di colpa, che viene definito come Super-Io, la coscienza dell’uomo[103]. Ed è proprio l’intensificazione del senso inconscio di colpa a permettere che si diventi criminali[104].

Tenendo presente l’esempio di Sparta, il consiglio di Stavrogin, gli assassini Fehme I e i delitti collettivi delle SS si potrebbe proporre la seguente analisi.

Esistono l’angoscia e un senso inconscio di colpa: è compito del leader legare a sé le masse, mediante la creazione di angoscia nevrotica, tanto saldamente che perirebbero se non si identificassero con lui.

Poi il leader ordina di compiere delitti i quali però, secondo la moralità accettata dal gruppo, come per i lacedemoni, i nichilisti, le SS, non sono delitti, ma atti fondamentalmente morali.

Tuttavia la coscienza, il Super-Io[105] si ribella contro la tesi della pretesa moralità di tali crimini, poiché le vecchie convinzioni morali non possono essere facilmente estirpate. Il senso di colpa quindi viene represso trasformando l’angoscia in uno stato quasi di panico, che può venir superato solo mediante una resa totale di se stessi al leader e richiede inoltre che nuovi delitti vengano commessi[106].

È cosi che concepisco il legame fra angoscia e colpa in una società totalmente repressiva: risulta quindi evidente che quest’angoscia è diversa qualitativamente dall’angoscia che sta alla base di ogni sistema politico.

8. Conclusioni

Occorre ora riassumere i risultati della mia analisi:

a) L’alienazione psicologica — alienazione dell’Io dalla struttura istintuale o rinuncia alla soddisfazione degli istinti — è inerente a tutte le società che si sono avute nella storia. L’alienazione aumenta con lo sviluppo della società industriale moderna producendo l’angoscia: questa può essere protettiva, distruttiva o catartica.

b) L’angoscia nevrotica persecutoria può portare l’Io alla negazione di se stesso nella massa mediante l’identificazione con un leader, cioè alla identificazione cesaristica che ha sempre carattere regressivo sia da un punto di vista storico che da un punto di vista psicologico,

c) Un indizio significativo della regressività è la nozione di falsa concretezza, cioè la teoria cospiratoria della storia che risulta pericolosa proprio per il nocciolo di verità che contiene,

d) L’intensificazione dell’angoscia fino alla sua trasformazione in angoscia persecutoria si verifica quando un gruppo (classe, religione, razza) è minacciato della perdita del suo stato sociale senza riuscire a comprendere il processo che provoca questo declino.

e) Ciò in genere conduce all’alienazione politica, cioè al rigetto consapevole delle regole del gioco politico del sistema.

f) Il movimento regressivo di massa, una volta conquistato il potere, deve istituzionalizzare l’angoscia per poter mantenere l’identificazione con il leader. I tre metodi usati a questo fine sono: il terrore, la propaganda e, per i seguaci più fedeli del leader, il delitto compiuto in comune.

La mia tesi è che il mondo attualmente sia in una situazione che permette sempre più l’affermazione di movimenti regressivi di massa, forse non tanto in Germania dove gli effetti postumi della recente esperienza storica hanno tuttora un certo peso, malgrado tutti i tentativi di sopprimere il ricordo del nazionalsocialismo.

Mi si chiederà che cosa si può fare per impedire che l’“angoscia, che è ineliminabile, diventi nevrotico-distruttiva”. È lo stato in grado di offrire un rimedio? Schiller, e con questo torniamo al nostro punto di partenza, lo nega nella sua settima lettera. Egli si pone la domanda e poi risponde: “Quest’effetto dovrebbe forse aspettarsi dallo Stato?

Ciò è impossibile, perché lo Stato, cosi com’è ora costituito, è causa del male; e quale la ragione se lo forma nell’idea, invece di poter essere fondamento a questa migliore umanità, dovrebbe anzi fondarsi su di essa”[107].

Come educatori noi potremmo essere indotti a sostenere che l’educazione merita una posizione di preminenza, ma Schiller a questo risponde nella nona lettera con una domanda:

“Ma non c’è forse qui un circolo vizioso? La cultura teorica deve produrre la pratica, e la pratica essere, tuttavia, condizione della teorica? Ogni miglioramento politico deve prendere le mosse dalla nobilitazione del carattere; ma come può il carattere nobilitarsi sotto l’influenza di una barbara costituzione dello Stato?”[108].

Certo sono anche possibili soluzioni individuali, come l’amore, ma non tutti fanno l’esperienza dell’amore ma non tutti fanno l’esperienza dell’amore e comunque c’è me rischio della perdita dell’oggetto dell’amore [109]. Quindi che siamo cittadini dello stato e della università resta da condurre una duplice offensiva contro l’angoscia e per la libertà, quella dell’educazione e della politica.

La nostra politica, a sua volta, dovrebbe svolgersi su un doppio binario: da una parte come compenetrazione fra la materia di studio del nostro particolare campo accademico e i problemi della politica, naturalmente non quella di ogni giorno, e dall’altra come necessità di prendere posizione sulle varie questioni politiche.

Se siamo seri nel nostro impegno di effettuare l’umanizzazione della politica, se vogliamo impedire che un demagogo si serva dell’angoscia e dell’apatia, allora noi, come professori e studenti, non dobbiamo tacere, dobbiamo superare la nostra arroganza e inerzia nonché il nostro disgusto per ciò che si pretende definire come la “sporca” politica quotidiana, dobbiamo parlare e scrivere.

L’idealismo espresso cosi nobilmente nelle lettere dello Schiller non deve essere per noi soltanto una bellissima facciata, non deve tornare ad essere quella nota forma di idealismo che in passato mascherava gli scopi più reazionari e antilibertari.

Solo mediante la nostra responsabile attività educativa e politica le parole dell’idealismo potranno diventare storia.

Note

[1] C. G. Jung ha sottolineato il valore delle lettere di Schiller per il problema che qui poniamo: Psychologische Typen, Zurich, 1921, pp. 97–192. Citiamo F. von Schiller da Lettere sull’educazione estetica, Firenze, 1927.

[2] Ibidem, lettera quinta.

[3] Ibidem, lettera sesta.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] II nesso Schiller-Hegel-Marx è visto chiaramente da H. Popitz, Der entfremdete Mensch. Zeitkritik und Geschichtsphilosophie des jungen Marx, Basel, 1953, particolarmente pp. 28–35.

[7] Ueber die aestetische Erziehung des Menschen, trad. it. cit., lettera sesta.

[8] Ciò è espresso nella frase: «Ma anche la scarsa frammentaria relazione che unisce ancora i singoli membri al tutto, non dipende da forme ch’essi liberamente si diano… ma è loro prescritta con scrupoloso rigore da un formulario nel quale si tiene legata la loro libera intelligenza» ibidem, lettera sesta.

[9] E. M. Butler, The Tyranny of Greece over Germany, New York-Cambridge, 1935; il cap. V si occupa di Schiller.

[10] A cura di H. Nohl, Tubingen, 1907.

[11] Ibidem; cfr. in proposito H. Marcuse, Reason and Revolution, New York, 1941; trad. it. Ragione e rivoluzione, Bologna, 1971, p. 52.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem, pp. 305–321. H. Popitz, Der entfremdete Mensch, cit., aggiunge poco alla analisi di Marcuse, ma sono interessanti i suoi costanti raffronti fra Hegel e Marx

[14] Karl Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in Marx-Engels Gesamtausgabe, sezione I, vol. III. trad, it., Manoscritti economico- filosofici del 1844, Torino, 1949, p. 200.

[15] Ibidem, p. 199.

[16] Ibidem, pp. 227–228.

[17] Cfr. in particolare due articoli di E. Fromm, Die Psychoanalytische Charakterologie und ihre Bedeutung fuer die Sozialpsychologie, e Die sozialpsychologische Bedeutung der Mutterechtstheorie, in «Zeitschrift fuer Sozialforschung», 1932, pp. 253–277 e 1934, pp. 196–227. Entrambi furono scritti prima del periodo revisionista dell’autore sebbene il secondo già lo faccia presagire.

[18] Trad. it. in II disagio della civiltà, cit., p. 219. Questa affermazione è in sé valida soltanto per la società patriarcale. La questione se sia valida anche per quella matriarcale può essere qui lasciata aperta. Secondo J. J. Bachofen il diritto matriarcale è «natura rerum» quello del padre solo «jure civili» (Das Mutterrecht, a cura di K. Meuli, Basel, 1948, vol. I, p. 102); lo stadio del diritto matriarcale è quello della poesia (pp. 124–125). Cfr. anche l’articolo di E. Fromm, cit. sopra.

[19] S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, trad. it. cit., p. 212.

[20] Ibidem, p. 219.

[21] Ibidem, p. 333.

[22] Ibidem, p. 243

[23] Per un’analisi del rapporto fra sessualità e società in Freud (e in altri) cfr. R. Bastide, Sociologie et Psychoanalyse, Paris, 1950, pp. 211 ss.

[24] Le opere recenti più importanti mi sembrano le seguenti: K. Abraham, A Short Study of the Development of the Libido, Viewed in the Light of Mental Disorders, e E. Jones, Fear, Guilt, Hate, in Papers on Psycho-Analysis, London, 19295 e E. Jones, The Pathology of Morbid Anxiety, in Papers on Psycho-Analysis, London, 19114; M. Klein, On the Theory of Anxiety and Guilt, in Developments in Psycho-Analysis, London, 1952, pp. 271–291; P. Heimann, Notes on the Theory of Life and Death Instincts, in Developments in Psycho-Analysis, cit., pp. 321–337. Le seguenti opere di S. Freud: Das Unbehagen in der Kultur Jenseits des Lust prinzips, Wien-Zürich, 1920, trad, it., Al di là del principio del piacere, in Nuovi saggi di psicoanalisi, Roma, 1946, Hemmung, Sympton und Angst, Wien-Zürich, 1925, trad, it., Inibizione, sintomo e angoscia, Torino, 1951.

[25] Das Ich und das Es, Wien-Zürich, 1923, trad, it., L’Io e L’Es, in Nuovi saggi di psicoanalisi, cit., p. 200.

[26] In Hemmung Sympton und Angst, trad. it. cit.

[27] E. Jones, The Pathology of Morbid Anxiety, cit.

[28] Cfr. la critica di S. Freud nel cap. II di Hemmung Symptom und Angst, trad. it. cit.

[29] Cfr. la rassegna di P. Heimann, Notes on the Theory of Life and Death Instincts, cit.

[30] Per S. Freud, che segue Rank a questo proposito, l’apparire di una situazione di pericolo ci riporta al momento della nascita. Cfr. Hemmung Sympton und Angst, trad, cit., cap. XI.

[31] S. Kierkegaard, Begrebet Angest, trad. it. cit., distingue fra paura e angoscia La prima è la reazione contro un concreto pericolo esterno mentre la seconda (la «angoscia» del titolo) è la condizione dell’essere angosciato

[32] Cfr. anche M. Klein, On the Theory of Anxiety and Guilt, cit., p. 275.

[33] Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, dt. La migliore formulazione è in F. Alexander, The psychoanalysis of the Total Personality, New York, 1949, p. 101. K. Abrahm, A Short Study of the Development of the Libido, cit., era forse il primo studioso che notasse il rapporto fra cannibalismo da una parte e angoscia e colpa dall’altra.

[34] M. Klein, On the Theory of Anxiety and Guilty cit., p. 282. Cfr. anche R. E. Money-Kyrle, Psychoanalysis and Politics, New York, s.d.

[35] Tuttavia cfr. F. Alexander, The Psychoanalysis of the Total Personality, cit., a proposito dei due principali tipi di metodi educativi patogenici: quello eccessivamente blando e indulgente e quello eccessivamente severo, senza amore. Cfr. S. Freud, Das Unhehagen in der Kultur, trad. it. cit., pp. 259 ss.

[36] C’è un accordo generale su questo punto. Cfr. S. Freud, in Hemmung, Symptom und Angst, cit., capp. IX e XI b; M. Klein, On the Theory of Anxiety and Guilt, cit., p. 279, e molti altri.

[37] Ciò è a quanto pare quello che S. Freud aveva in mente in Das Ich und das Es, cit.; e così M. Klein, On the Theory of Anxiety and Guilt, cit., p. 279.

[38] In verità ciò non è del tutto corretto, come S. Freud ha osservato all’inizio della Massenpsycologie und Ich-Analyse, trad. it. cit., pp. 65 ss. Dopo tutto la psicologia non può mai fare a meno dei rapporti con gli altri (o per lo meno con un’altra persona). L’unica eccezione è rappresentata dal narcisismo. Ma comunque sembra utile conservare la comune distinzione fra psicologia individuale e sociale (dei gruppi).

[39] Una rassegna utile si ritroverà in P. Reiwald, Vom Geist der Massen. Handbuch der Massenpsychologie, Zürich, 1946.

[40] II suo libro più importante è La foule criminelle, Paris, 1898. Cfr. W. Moede, Die Massen und Sozialpsychologie im kritischen Ueberblick, in «Zeitschrift fuer paedagogische Psychologie und experimentelle Paedagogik», 1915, vol. XVI.

[41] G. Le Bon, La psychologie des foules, trad. it. La psicologia della folia, Milano, 1970. Un’applicazione della sua teoria è rappresentata da La révolution française et la psychologie des révolutions, Paris, 1912.

[42] G. Le Bon, La psychologie des foules, cit. Però Le Bon ammette che la massa può avere un effetto moralizzante sull’individuo.

[43] S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, trad. it. cit., pp. 65 ss.

[44] Contro questo si esprime anche W. Lippmann, Public Opinion, New York, 1922, p. 197.

[45] Cosi S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Anahse, trad. it. cit., pp. 68 ss.

[46] Ciò vale anche per W. MacDougall, The Group Mind, Cambridge, 1920, in cui è elaborata la teoria della «induzione affettiva primaria», in quanto anche questa in fondo non è che imitazione o suggestione. L’elemento positivo della teoria di MacDougall verrà sviluppato più avanti.

[47] S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, trad it. cit., p. 87.

[48] Ibidem, p. 138.

[49] Ibidem, p. 120.

[50] Ibidem, pp. 110 ss.

[51] R. West, Conscience and Society. A Study of the Psychological Prerequisites of Law and Order, New York, 1945, p. 227.

[52] Nel poscritto 12 a Massenpsychologie und Ich-Analyse, trad. it. cit., p. 132, S. Freud formula la questione in maniera leggermente diversa. Nel rapporto soldato-superiore egli presume l’idealizzazione dell’Io e nel rapporto fra compagni invece l’identificazione dell’Io. Quanto alla prima può verificarsi o meno: può ben succedere che il soldato non si identifichi in alcun modo con l’esercito né con il proprio superiore, o viceversa egli può stabilire un rapporto con il superiore di idealizzazione dell’Io o identificarsi razionalmente con l’esercito come tale. La identificazione «Io-comunità» (o cooperativa, come io l’ho chiamata) è descritta correttamente, a mio avviso. Quanto alla identificazione con una chiesa, di nuovo bisogna fare delle distinzioni. Spesso, specialmente nei paesi latini, l’identificazione è fortemente razionalistica; nei paesi germanici, soprattutto quelli sotto l’influenza del romanticismo cattolico, essa è fortemente libidica. Forse si potrebbe anche fare qualche affermazione di carattere generale ma a questo punto ciò non mi sembra ancora possibile.

[53] A ciò corrisponderebbe nella teoria politica la volonté générale di J.J. Rousseau.

[54] La tesi di R. Osborn quindi è del tutto erronea. Nel suo tentativo di integrare marxismo e psicanalisi (Freud und Marx, London, 1937) egli esige che la forza direttiva si concretizzi necessariamente in un leader, un individuo che idealizziamo per il beneficio delle masse, le quali si appoggiano su di lui riverendolo e obbedendolo.

[55] Ho preferito qui riferirmi solo ad alcune fonti: P. Piur, Cola di Rienzo, Wien, 1931; M.E. Cosenzo, Francesco Petrarca and the Revolution of Cola di Rienzo, Chicago, 1913; M. Horkheimer, Egoismus und Freiheitsbewegung, in «Zeitschrift fuer Sozialforschung», V (1936), pp. 161–231, offre l’anatisi più im- portante al riguardo. Il mio saggio Notes on the Theory of Dictatorship, ora in via di preparazione, comprende una discussione dettagliata nonché una analisi di altri movimenti cesaristici. Ci furono molti movimenti analoghi verso la fine del medioevo. Una ottima rassegna è quella offerta da G. Franz, Die agrarischen Unruhen des ausgehenden Mittelalters, Marburg, 1930

[56] Var. XLVIII Hortatoria; citata da M. E. Cosenzo, Francesco Petrarca, cit., pp. 16–44.

[57] S. Freud, Massenpsychologie und Isch-Analyse, trad, it., cit., p. 127.

[58] Le Tigre de 1560. Edizione facsimile di C. Read, Paris, 1875.

[59] Institutio Christianae Religionis, IV, cap. XX, 30, e in forma riassuntiva, nell’ultimo dei cento aforismi.

[60] Oltre alla ben nota teoria calviniana della resistenza sviluppata da F. Hotman in Francogallia e da J. Brutus in Vindiciae.

[61] I più importanti per la Francia sono quelli del predicatore parigino J. Boucher, De Justa Henrici Tertii Ab dicatione, Paris, 1589, e Sermons de la simulée conversion et nullité de la prétendue absolution de Henry de Bourbon, cit. Il carattere pseudo-democratico di queste ed altre analoghe teorie della Lega è discussa da M.Ch. Labitte, De la démocratie chez les prédicateurs de la Ligue, Paris, 1841.

[62] In La response de ]ean Bodin à M. de Malestroit, 1568. Nuova edizione a cura di H. Hauser, Paris, 1932, nella serie La Vie Chère au XVIème Siècle.

[63] Cfr. J. Bodin, Heptaplomeres.

[64] J. Bodin, Les six livres de la république, 2 voll., Paris, 1576, trad. it. (soltanto il I volume) I sei libri dello Stato, Torino, 1964, lib. I, capp. II e IV; lib. VI, cap. IV.

[65] Ibidem, lib. I, cap. I.

[66] A cura di E. Arbor, Westminster, 1895, pp. 3–4.

[67] Si trova nell’appendice della edizione a cura di E. Arbor.

[68] La letteratura è ricchissima. B. Duhr, S.J., Hundert Jesuitenfabeln, Freiburg I. Br., 1913, ha raccolto le «favole» ma vuole provare troppe cose The Secret Policy of the English Society of Jesuits, London, 1715, è un buon esempio inglese; K. Schoppe, Arcana Societatis Jesu publico bono vulgata cum appendicibus utilissimis, Genève (?), 1635 per la Germania; A Startling Disclosure of the Secret Workings of the Jesuits, di un ex-cattolico francese, è un buon esempio francese pubblicato dall’autore nel 1854; la più nota rassegna generale tedesca è quella di R. Fueloep-Miller, Macht und Geheimnis der Jesuiten, Leipzig, 1929.

[69] Su questo cfr. G. Monod, in Academie des Sciences, Morales et Politiques, Séances et Travaux, vol. 1910, pp. 211–229.

[70] G. Martin, La franco-maçonnerie française et la préparation de la révolution, Paris, 19262. L. R. Gottschalk, French Revolution-Conspiracy or Circumstance, in Persecution and Liberty, Essays in Honor of G. L. Burr, New York, 1921, pp. 445–472.

[71] I particolari si ritrovano in M. Lennhoff, Politische Geheimbuende, Zürich, 1931, pp. 17 ss.

[72] II noto volume di F. Wichtl, Weltfreimaurerei, Weltrevolution, Weltrepublïk, München, 1919, fa risalire ai framassoni tutte le catastrofi verificatesi dopo il 1917- 1918. Cfr. E. Lennhoff, Die Freimaurer, Zürich, 1929, p. 412.

[73] L’esempio più noto è quello di C. Malaparte, Die Technik des Staatsstreichs, Berlin, 1932.

[74] Su questo punto cfr. la cauta analisi di D. Greer, The Incidence of the Terror during the French Revolution, Cambridge Mass, 1935.

[75] Le seguenti edizioni: tedesca: Z. G. Beck (pseudonimo L. Mueller von Hausen), Die Geheimnisse der Weisen von Zion, Charlottenburg, 1919, ed acquistata dalla NSDAP nel 1929; francese: Mgr. E. Jouin, Le péril judéomaçonnique, vol. IV, Paris, 1920; inglese: V. E. Marsden (traduzione), The Protocols of the Learned Elders of Zion, London, 1921; americana: The Protocols and World Revolution, Boston, 1920, e molte altre. Un ottimo libro di J. S. Curtis, An Appraisal of the Protocols of Zion, New York, 1942, contiene la migliore presentazione della storia di questo famoso plagio. L’opera del Curtis fu scritta sotto gli auspici di tredici dei più noti storici americani.

[76] Cfr. E. Raas e F. Brunschvig, Vernichtung einer Faelschung: der Prozess um die erfundenen Weisen von Zion, Zürich, 1938.

[77] I ed., 1864. Nuova ed., Paris, 1948.

[78] Le ragioni per le quali il nazionalsocialismo adottò i Protocolli sono dettagliatamente esposte da A. Hider stesso. Mein Kampf, München, 1925–1927, pp. 423 ss.

[79] Nel mio libro Behemoth: The Structure and Practice of National Socialism, cit., p. 21.

[80] Cfr. J. Maritain, Anti-Semitism, London, 1939, p. 27.

[81] Per i dettagli cfr. il mio libro Behemoth, cit., pp. 120–129.

[82] II legame fra angoscia e antisemitismo è stato verificato empiricamente da B. Bettelheim e M. Janowitz, Dynamics of Prejudice. A Psychological and Sociological Study of Veterans, New York, 1950, cap. VI.

[83] C. Schmitt vide questo chiaramente, (cfr. Der Begriff des Politischen, trad, it. cit.) ma ne fece una teoria generale invece di limitarla ai soli movimenti di massa.

[84] Questo punto è ben elaborato anche nello studio Bettelheim-Janowitz.

[85] H. D. Lasswell, The Psychology of Hitlerism, in «The Political Quarterly», 1933, pp. 373–384; anche in The Analysis of Political Behavior, New York, 1949, pp. 235–245.

[86] Nel mio saggio Notes on the Theory of Dictatorship. [Cfr. la versione incompiuta riportata nel volume Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, cit.].

[87] Cfr. il mio saggio, Social Structure and National Socialism (inedito).

[88] The Neurotic Personality of Our Time, New York, 1937, capp. XI e XII.

[89] Theory of Moral Sentiments, 2 voll. 1790, vol. I, parte III, cap. Ill, p. 339.

[90] Ibidem, vol. I, parte II, sez. II, cap. II, p. 206; sul problema giuristico v. Boehm, Wettbewerb und Monopolkampf, Berlin, 1933.

[91] E. Fromm, il quale in Man for Himself, New York, 1947, pp. 67–81, considera l’operazione di mercato (cioè lo scambio) spersonalizzante e vuota sostenendo che essa aumenti sempre più lo scontento, pare trascuri questo fatto. Neanche la tesi più corretta di Fromm (in Escape from Freedom, New York, 1941, trad. it. Fuga dalla realtà, Milano, 1970), che la perdita dell’Io risulti dalla discrepanza fra l’ideologia della libera concorrenza e l’effettiva monopolizzazione del potere è da accettare pienamente. Di contro la tesi giusta di T. W. Adorno, Zum Verhaeltnis von Psychoanalyse und Gesellschaftstheorie, in «Psyché», VI (1952–1953), p. 10.

[92] In uno studio che ora sto concludendo, The Concept of Virtue in Politics, cerco di fornire le prove di ciò

[93] A questa asserzione corrisponde, nella sfera sociale, il socialismo piccolo-borghese, diciamo quello di un Proudhon, al quale la sofferenza della società sembra essere provocata dallo scambio anziché dal processo produttivo.

[94] Così ora anche in Francia: C. H. Sévène, L’abstentionisme politique en France, Paris, 1953.

[95] Per questo cfr. la mia introduzione a Esprit des Lois riportata nel volume Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, cit.

[96] Bisogna sia chiaro che il sistema totalmente repressivo non è tenuto insieme solo dall’angoscia nevrotica, che pure deve essere mantenuta viva in alcuni particolari gruppi, in quanto di pari importanza sono i vantaggi materiali e il prestigio.

[97] Milano, 1952, lib. IV, § 80.

[98] Le ricerche recenti riassunte in H. Mitchell, Sparta, Cambridge, 1952, pp. 162–166, accettano quanto riferito da Tucidide e Plutarco.

[99] Licurgo, in Le vite parallele, a cura di A. Ribera, Roma, 1960, vol. I, pp.63 ss.

[100] H. Epps, Fear in Spartan Character, in «Classical Philology» (1933), pp. 12–30, cerca di provare, senza riuscirci a mio avviso, che la angoscia fosse l’elemento costitutivo del carattere spartano. Cfr. Plutarco, Le vite parallele, cit., Cleomene, IX, vol. II, p. 238; Erodoto, VI, 79–80.

[101] Parte II, cap. VI.

[102] S. Freud, Das Ungehagen in der Kultur, trad. it. cit., pp. 260–261.

[103] S. Freud, Das Ich und das Es, trad. it. cit., pp. 191–192.

[104] In S. Kierkegaard, Begrebet Angest, trad. it. cit., pp. 65, 67, troviamo le seguenti formule, derivanti naturalmente da presupposti teorici differenti: 1) L’individuo produce il peccato nella sua paura del peccato. 2) L’individuo, nel timore (non di essere colpevole ma) di essere creduto colpevole, si rende colpevole.

[105] II significato del Super-Io nella teoria di S. Freud non mi è del tutto chiaro: se egli col Super-Io vuole rappresentare la «coscienza sociale», cioè la somma delle convinzioni morali che prevalgono in una determinata società, si incontrano difficoltà nel caso si abbiano convinzioni diverse in contrasto fra loro; se invece per Super-Io egli intende il senso individuale inconscio di colpa, allora le norme sociali non c’entrerebbero affatto. Per il nostro esempio è indifferente quale interpretazione del Super-Io si voglia accettare. Seguendo la prima: le convinzioni morali dominanti in Germania anche sotto il Nazionalsocialismo condannano l’omicidio. Gli ordini dei superiori di uccidere gli ebrei nelle camere a gas perché ciò sarebbe stato utile alla Germania urtavano contro la morale prevalente, e ciò è provato dal fatto che questi assassini dovevano venir commessi in segreto. Seguendo la seconda interpretazione: poiché gli assassini SS avevano avuto le loro esperienze infantili sotto la vecchia morale dovevano avere almeno un senso inconscio di colpa.

[106] Nel suo articolo, The Covenant of the Gangster, in «The Journal of Criminal Psych1. Premessa. 2. L’alienazione. 3. L’alienazione e l’angoscia. 4. L’angoscia e l’identificazione. 5. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (I: alcuni casi storici). 6. Identificazione cesaristica e falsa concretezza: la teoria cospirativa nella storia (II: cinque modelli fondamentali di teorie cospiratorie). 7. Angoscia collettiva, identificazione, colpa. 8. Conclusione.

Da Franz Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna, Società editrice il Mulino, 1976. Disponbile anche in “il Mulino, Rivista trimestrale di cultura e di politica” 6/1972, pp. 1072–1101, doi: 10.1402/15992

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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