Andrej Rublëv di Tarkovsky nella critica del tempo

Una fiaccola al termine della notte

Mario Mancini
17 min readJan 15, 2024

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Film del 1966, scritto da Andrej Michalkov-Končalovskij e Andrej Tarkovskij
Regia di Andrej Tarkovskij; con Anatolij Solonicyn (Andrej Rublëv), Ivan Lapikov (Kirill), Mykola Hryn’ko (Daniil Cernyi), Nikolaj Sergeev (Teofane il Greco)
Durata: 3h 20m
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Biografia del pittore di icone Andrej Rublëv ma anche storia della Russia all’indomani dell’invasione tartara. Andrej è un giovane monaco che affresca chiese nella Russia del 1400. È convinto che nel suo mondo ci sia posto solo per l’arte e per il suo sentimento religioso. Ma intanto la città di Wladimir dove abita e lavora è messa a sacco e Andrej assiste a scene di violenza indescrivibili. Lui stesso è costretto a uccidere per difendere una ragazza da un soldato straniero. Scioccato dagli avvenimenti si isola da tutti e si rifiuta di continuare a dipingere e smette anche di parlare. Tornerà a farlo e a creare quando avrà capito che la funzione dell’arte non è solo quella di appagare chi ha il dono di possederla.

Giovanni Grazzini

Il calvario del film

I film che è obbligatorio vedere non sono poi molti. Questo lo è. Dura oltre tre ore, non vi è nessun attore di grande fama, è in bianco e nero, manca di scene lubriche: ma è, semplicemente, uno dei capolavori del cinema degli anni Sessanta, e una delle più alte esperienze emotive offerte da un regista che insieme a pochi altri merita il titolo di maestro.
È anche, se lo scandalo politico vi pungola, un film “maledetto”, che in patria è stato a lungo osteggiato, al punto che, finito nel 1967 dopo una lunga incubazione, e tagliuzzato qua e là dall’autore dopo una testarda resistenza, soltanto nel 1969 fu presentato molto di malavoglia al Festival di Cannes, e poi ebbe anche all’estero vita così difficile (pochi in Urss l’hanno visto) da impiegare otto anni prima di giungere sui nostri schermi.
Tutto perché ai nevrotici censori neostalinisti sembrò che Andrei Tarkovskij (già vincitore d’un “leone d’oro” conL’infanzia di Ivan), rievocando il sanguinoso Trecento in cui i russi furono straziati dai tartari e visse il grande pittore che dà il titolo al film, accentuasse i toni crudi, eccedesse nel realismo, esaltasse il misticismo, non rispettasse tutta la verità storica, persino offendesse le donne russe, e finalmente alludesse con troppa indipendenza di giudizio ai rapporti fra l’arte e il potere.
Accuse dettate da vergognosa miopia culturale, la grandezza del film venendo a smentirne il fondamento, ma che ebbero strascichi lunghi, sicché da allora Tarkovskij, di cui ogni libero paese sarebbe orgoglioso, è guardato con sospetto dai burocrati del regime. È nuova prova se n’ebbe questa estate, quando l’ultimo suo film, il mirabile Lo specchio, non fu presentato in concorso al Festival di Mosca, e il consenso che riscosse fra i critici occidentali che ciononostante poterono vederlo fu interpretato come un premio all’irrequietezza ideologica del suo autore.

La storia della Russia

Pagine violente, certamente, in Andrej Rublëv esistono, ma soltanto gli ottusi che pensano di poter escludere la violenza dalla rappresentazione della storia possono lamentarsene e invocare le forbici. Gli anni in cui il film è ambientato furono di massacri, torture e devastazioni, e proprio nella reazione a quegli orrori sta il senso dell’opera di Tarkovskij, il regista di oggi in cui si reincarna il sommo pittore di ieri, l’uno e l’altro sconvolti dal male che percorre l’universo.
Riesumando la figura di Rublëv, l’allievo di Romm e il suo cosceneggiatore Konchalovsky (l’autore del Primo maestro, un altro caposaldo del nuovo cinema sovietico) non sembrano del resto aver preso di petto, sia pure con la finzione del film in costume, uno dei problemi centrali della vita intellettuale sovietica. I rapporti fra l’artista e la Chiesa e lo Stato sono qui assunti come un momento dialettico di tutta la storia russa nel quadro di una molto più vasta riflessione sui tormenti dell’uomo e il progresso delle idee.
Erede d’una tradizione letteraria che pensa e vede in grande, Tarkovskij crea soprattutto un affresco, da leggersi a vari livelli e tenuto insieme da un profondo sentimento del tragico. Con tre temi di fondo: il rifiuto di una religione e d’una ideologia intese come intimidazione, la nausea provocata dalla bestialità delle stragi compiute per conservare il pote1·e, la consolante certezza che ove la scintilla del genio individuale sia alimentata dall’entusiasmo delle moltitudini la gioia della creazione ripaga d’ogni angoscia.
Rublëv visse all’incirca fra il 1360 e il 1430, contemporaneo del Beato Angelico, anch’egli fu monaco, e vide tempi insieme sublimi e feroci. Appunto su questi registri della crudeltà e audacia degli uomini, della speranza di Dio e del contrasto tra l’autonomia dell’artista e l’opera repressiva dei potenti.

Una grandiosa allegoria artistica

Il film lentamente si snoda in una grandiosa allegoria articolata in episodi, dove a masse confuse di popolo, il più delle volte vittime delle ambizioni dei signori, e ai supplizi imposti dai mongoli, si contrappone l’assillante interrogarsi di Rublëv sul perché delle sofferenze e sull’utilità di continuare a dipingere in lode di Dio nelle forme tradizionali dell’arte bizantina, quando anche l’artista è stato travolto dalla violenza.
Nel film s’immagina che all’indomani d’uno scontro cruento all’interno della chiesa che stava affrescando, bruciato dal rimorso, convinto di non aver più nulla da dire con la pittura e persuaso da Teofane il Greco della miseria degli uomini, Roublev abbia smesso di dipingere e si sia chiuso nel silenzio del convento di Andronikov.
Ma quindici anni dopo qualcosa lo riportò nel mondo. Fu quando assistette alla fusione d’una grande campana, realizzata insieme al popolo da un giovane cui nessuno aveva insegnato quell’arte con gli stessi strumenti, l’argilla e l’argento, in cui vide simbolicamente condensato il destino dell’uomo.
Questo, pensano Rublëv e Tarkovskij, è il debito dell’artista verso la storia: offrire, con la bellezza dell’invenzione, un rifugio alla speranza. In questo il traguardo: un abbraccio soave fra natura e poesia che superi il dolore· del tempo. Perciò il film, apertosi esaltando l’utopia racchiusa nel volo impossibile di un pallone, si chiude sulle immagini della bellissima Trinità di Rublëv e di alcuni cavalli lungo il fiume. Arte e verità si fondono, e la realtà assume i colori sereni della vita.
L’ottimismo dell’epilogo non incrina tutto l’impalco problematico del film, scenario dolente d’un’epoca in cui la Russia già seppe reggere la minaccia dell’Asia, e compendio delle contraddizioni permanenti dell’uomo, veicolo misterioso della storia. Al di là del suo atto di fede, che tenta il connubio fra le virtù del socialismo e i meriti dell’individuo, Tarkovskij infatti rivela il meglio del suo talento in una rappresentazione del dramma di Rublëv e dell’epopea popolare foltissima di elementi elegiaci e sempre animata dal dubbio, espressa con uno stile che nel sottofondo di tutte I cene! anche le più realistiche, fa vibrare come una corda di inquietante magia impenetrabile alla ragione.

Una maestà classica

Il velo liturgico che fascia le immagini e il ritmo solenne conferiscono alla composizione una maestà classica, ma non ne allentano i molteplici stimoli critici: Andrei Roublev, architettato nel severo rispetto del realismo lirico e nell’amore per il popolo russo, è per questo verso opera modernissima, tessuta in quell’ambiguo sottosuolo della memoria e dell’inconscio che Tarkovskij, lontano da sempre dal realismo socialista, avrebbe frugato più tardi con Solaris e toccando i vertici dello spasimo, con Lo specchio.
Gli strumenti formali del film sono d’altissima scuola, ma non tutti derivati da Eisenstein e da Dovzenko: non a caso Tarkovskij dichiara la sua ammirazione per Bresson. La varietà dei grigi fotografici, la plastica eleganza figurativa e i così ricchi riferimenti alla storia della pittura (dal vecchio Brueghel a Piero…), la suggestività del commento musicale, l’intensità dell’interpretazione — lo ieratico Solonitsin viene dal teatro, Irma Rauch è la moglie del regista –, il dominio delle scene di massa e l’intensità con cui è detta la solitudine affilata del protagonista, l’incanto dei paesaggi naturali sono tutti elementi che sbaragliando i pochi difetti, qualche vezzo calligrafico, qualche indugio descrittivo, concorrono al trionfo dell’opera: uno degli esempi più raggiunti di come il cinema, calando l’ispirazione artistica in una struttura polifonica a ritmo largo, possa riassumere la plenitudine della vita in uno spettacolo saldamente radicato nella tradizione culturale russa e da qui proiettato nell’universale.

Da, Il Corriere della Sera, 31 ottobre 1973

Adelio Ferrero

Le contraddizioni della verità

La Nuova Sinistra scriveva Fortini qualche anno fa ha ereditato dagli intellettuali comunisti della verità degli anni Cinquanta un preciso tipo di ipocrisia verso l’Unione Sovietica […]. Di considerare scontato, saputo (noioso, per i più ebeti) quel che è accaduto nell’età di Stalin.
E più oltre: Ho sentito trattare di “fascista” un noto regista ungherese perché nei suoi film presenta le atrocità rosse accanto a quelle bianche: so che se insegnassi storia a Budapest o a Varsavia o a Praga (e se, naturalmente, me lo permettessero) insisterei molto sulle atrocità e sulle colpe “rosse”. Si devono formare uomini capaci di sostenere le contraddizioni della verità…
Quelle contraddizioni e il tema della perdita, dello scacco, delimitano, “ambiguamente”, lo spazio del discorso di Andrej Tarkovskij fin dall’ormai lontano Infanzia di Ivan. Ambiguità che si può finalmente contestare e anche respingere, volendo, ma che sembra connaturata, nell’attuale fase storica, alla condizione intellettuale e politica di un regista sovietico che non voglia ridursi a celebrare l’esistente. Del resto, le vicende di Rublëv (occultato per anni nell’Urss e all’estero, abbondantemente censurato, diffuso infine anche in Italia in un’edizione ridotta e contraffatta) parlano chiaro.

Arte e potere

Al centro di Andrej Rublëv è il tema dell’arte, del rapporto di questa con il potere e la collettività, e del rapporto dell’artista con se stesso e la storia, ma non in termini di astratta proposizione ideologica bensì di affresco storico carico di risonanze e prolungamenti attuali. E il primo aspetto che colpisce e interessa è, appunto, la struttura non psicologica del racconto, che si raccoglie intorno alla figura del monaco-pittore del secolo XV ma calandola in un contesto ricco di spessore oggettivo e di inflessioni riflessive.
La parabola umana e intellettuale di Rublëv non è ricostruita con taglio biografico e viene invece scandendosi in poche tappe dense ed essenziali: la giovinezza accesa dall’istituzione di un’arte che può dare bellezza e amore agli altri, lo scontro con la violenza del potere e la brutalità quotidiana della sopraffazione, l’assillo di una ricerca artistica non subalterna ai disegni dei potenti e il rifiuto di assecondare nella propria pittura il loro dominio terroristico e repressivo sulle masse, la scoperta della dimensione illimitata della strage e la scelta del silenzio come solitudine ed estraniazione da una storia che sembra svolgersi nel segno della ferocia e del caos, tra lotte interne e invasioni esterne. Infine, il ritorno a un’arte nella quale le atroci dissonanze della realtà appaiono miracolosamente equilibrate e composte, ma senza perdere il loro peso di umiliazione e di dolore.
Questi conflitti, mentre si radicalizzano nella oggettività dei fatti rappresentati, vengono costantemente dilatandosi nella mediazione morale e riflessiva del protagonista, lacerato fra la tentazione della solitudine e la volontà di apertura umana (il bellissimo rapporto con la ragazza idiota, una sorta di Ofelia umile e inconsapevole), fra la vocazione al martirio e l’istinto della vitalità esemplificato, tra l’altro, nello sgomento di Rublëv dinanzi alla festa notturna nel bosco, dove ragazze e ragazzi nudi corrono tra gli alberi e tutto il paesaggio si carica di una sensualità oscura e misteriosa, filtrata attraverso lo smarrimento dell’osservatore.
Ma il contrasto decisivo e persistente investe l’appassionato impegno a lavorare per gli uomini e un fondo di sconsolato fatalismo che i fatti sembrano continuamente ribadire. Non a caso lo scioglimento di questo nodo è introdotto dalla splendida allegoria della costruzione di una enorme campana da parte del ragazzo Boris e di una folla sterminata e anonima di contadini, episodio essenziale e risolutivo perché, in Boris e nelle sue alternative, Rublëv ritrova il se stesso di un tempo e la tormentata attualità dell’esperienza creativa: il lungo gelo del silenzio si scioglie e l’uomo e il ragazzo lavoreranno insieme nelle campagne devastate dalle guerre.

Il nucleo portante del film

Costruito con grande dignità compositiva, talvolta un po’ esterno nelle sequenze corali e di massa, piuttosto scolastico nelle citazioni ejzenstejniane e non privo di indugi e compiacimenti, Rublëv trova i suoi momenti più alti, che non sono pochi o di breve durata, in alcune grandi sequenze epico-liriche che culminano nello stupore attonito e assorto, che dalla folla si allarga a tutto il paesaggio, dinanzi alla campana che sembra suggellare, nel suo primo rintocco, il senso di tutta un’epoca in cui l’abiezione che il potere ha impresso sugli uomini e sulle cose e il disperato sforzo di contrastarla appaiono inestricabilmente fusi.
Ma il nucleo portante del film è nel contrasto fra la dimensione aristocratico-mistica e quella realistica epopolare, contrasto che passa all’interno del personaggio e si esaspera o si compone in rapporto a quel che avviene intorno a lui.
Penso alla memorabile sequenza che ci mostra Rublëv, il quale ha appreso che i suoi allievi sono stati accecati dai sicari del principe, gettare una manciata di fango sulla bianca parete che sta affrescando, straordinaria macchia “informale” e gesto di impotente protesta contro l’inutilità dell’arte di fronte alla violenza.
O, ancora, al racconto di Boris il quale rivela a Rublëv che il padre non gli ha lasciato alcun segreto o investitura carismatica, per la costruzione della gigantesca campana, e alle sottili implicazioniantidogmatiche e antiautoritarie di quella confessione.
Del resto, lungi dal ripiegarsi in una sfera privata della coscienza, il conflitto si proietta su uno sfondo vastissimo dove ricorrono, e costantemente si oppongono, due livelli storico-esistenziali, quello aristocratico-repressivo di un esercizio del potere dispotico e staccato dalla vita quotidiana e creativa della massa, e quello plebeo e contadino, distorto e mortificato, che crea una liberazione, sempre provvisoria e contrastata, ora nel lazzo beffardo ora in una faticosa e drammatica costruzione collettiva.

Da Recensioni e saggi 1956–1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

Claude Beylie

Dal bianco e nero

Prologo: un contadino sacrifica la vita tentando di realizzare il vecchio sogno di Icaro: il volo umano… La Russia agli inizi del XV secolo. Un monaco pittore di icone, Andrej Rublëv, ha l’incarico di ridipingere i muri della cattedrale dell’Annunciazione e lavora sotto la direzione del maestro greco Teofane.
Questi è ossessionato dalla crudeltà dei tempi, che attribuisce all’ira del Cielo, mentre il suo allievo crede al libero arbitrio e alla responsabilità dell’uomo. Considerato un eretico e turbato dagli orrori della storia, Rublëv fa voto di mutismo, fino al giorno in cui un giovane fonditore di campane, Baniska, gli ridà fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità.

… al colore

Epilogo (a colori): omaggio all’artista e alla sua celebre Trinità. Andrej Rublëv è attraversato da un soffio, da un bisogno di elevazione spirituale e da un’esigenza plastica che lo spingono ad anni luce di distanza dal “realismo socialista”. Nel suo cast figurano due nomi fondamentali nel cinema dell’Est negli anni Settanta: Andrei Mikhalkov Koncalovskij (nato nel 1937), già noto come regista di Il primo maestro (1965), storia di un maestro coraggioso alle prese con una società ancora feudale; e Andrei Tarkovskij (1932–1986), che si afferma con questo film come uno dei maestri del cinema moderno.

L’affinità con Bresson

Egli si era fatto conoscere per L’infanzia di Ivan (1962), commovente odissea di un bambino nella guerra contro i nazisti. Si era parlato allora di un Quattrocento colpi sovietico, ma più che a Truffaut, Tarkovskij fa pensare a Bresson, per la sua tendenza alla essenzialità formale e a Dreyer per la sua alta spiritualità.
Le sue energie egli le ha dedicate alla denuncia delle illusioni del progresso materiale, e per contrasto all’esaltazione della dignità della vita interiore, delle virtù dell’ascesi e del sacrificio. È significativo che abbia preso a esempio un pittore di icone alla ricerca di un assoluto che trascende i simulacri del mondo terrestre.
Andrej Rubëv è diviso in capitoli, come le ante di un retablo; la frenesia epica vi si alterna con visioni elegiache, il fervore mistico con la festa pagana. Si può parlare senza esagerarne di una epifania moderna nel senso profano, se non sacro, del termine.

Da I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Goffredo Fofi

Un punto di svolta

Se il punto più alto del cinema sovietico negli anni di Stalin è stato l’Ivan ejzenstejniano, col suo fascino e orrore del potere, e quello più alto negli anni di Kruscev Nove giorni in un anno (Deviat dnei adnovo goda, 1962) di Mikhail Romm colla sua fiducia in una scienza risolutrice del futuro e in un nuovo umanesimo in fieri a essa confacente, il Rublëv, di Tarkovskij, girato nel 1966, è non solo il capolavoro del cinema sovietico nei lunghi anni di Breznev, ma anche la sua implicita critica (e insieme critica dei due altri film citati) e un suo implicito, o almeno sotterraneamente ipotizzato, superamento.
Non esistono “capolavori” assoluti, e neanche il Rublëv sfugge alla regola; esistono opere che in modo più intenso e più puro (o più complesso) stanno nel loro tempo cogliendone la crisi e le aspirazioni più profonde, dialogano con esso da dentro e da fuori — e si vorrebbe dire da poco.
È questo il caso del film di Tarkovskij, emblematico dunque di un’epoca e di un’aspirazione, di una crisi e di un’apertura, di una tradizione e di una novità. E in questo senso il film va anche oltre la contingenza delle idee e dell’ispirazione del suo autore, gli sfugge per essere da più di lui, e per crescerne il pregio oltre le sue stesse intenzioni. Da tutti e tre i film citati, sintomaticamente, non si può pretendere un’ascendenza, un’ottica, un’impostazione marxista. Economia, lotta di classe, strutture storico-sociali, sono cose che sembrano estranee alla riflessione intellettuale di questi decenni sovietici: rifiutate perché pappa scolastica e retorica posta a giustificazione di un potere.

La visione umanistica e religiosa dell’uomo

Che è ambiguo (ma fatto pur sempre di sangue) in Ivan, e negativo (non una tragica e orrifica necessità, ma solo il Male) in Rublëv, e sublimato nel film di Romm nella sua illusione (mistificazione) scientista, cui lo stesso Tarkovskij risponderà con il piovoso Solaris confutandone le stesse basi: la macchina freddamente avvilisce e avvilirà l’uomo invece di liberarlo, e non lo porterà più lontano nella conoscenza dell’universo, essendo che per il regista il perno è e deve tornare a essere l’uomo, terrestre e concreto anche se non “storico”, e da questo centro si deve tornare per ripartire.
La visione laica di Romm (che è però stato, non va trascurato, uno degli autori ufficiali dello stalinismo negli anni Trenta e Quaranta, e la cui evoluzione krusceviana avviene su quelle basi) è negata in quella cupa, metastorica, e metafisica di Ejzenstejn, e in quella umanistica e nonostante tutto affermativa di Tarkovskij, che è però, sul fondo, impregnata di una religiosità basilare.
Questa religiosità è, ripetiamo, di stampo umanistico, e ha un aggancio lontano e prerivoluzionario — nel senso che recupera lezioni ottocentesche, e le ripropone, nella sostanza, al nuovo futuro, vedendosi in un metaforico oggi di qualche possibilità lontanamente prerivoluzionaria.
Insomma, Tarkovskij è figlio di Pasternak e più lontano ancora di Tolstoj — e conosce la distinzione feuerbachiana e poi, in Russia, lunacarskijana, tra religione e religiosità. Crede in un cambiamento e lotta per esso, perché crede nell’uomo: e più particolarmente nell’alleanza, contro il Potere, contro la Storia, della creatività del popolo con quella dell’intellettuale. Che non è l’intellettuale scienziato, ma l’intellettuale artista, poeta, “religioso” in quanto valorizzatore di un Bene attivo nell’ordine delle cose e nella solidarietà dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura.

La critica al potere

L’alleanza tra Andrej e il giovane Boriska che finge di avere una tradizione e non ce l’ha e piange perché i padri non hanno saputo insegnargli nulla e tutto da solo ha dovuto reinventare e creare, è un’alleanza contro i potenti: il Tartaro e il signore russo, non è indifferente che il duca e l’usurpatore suo fratello Tarkovskij li abbia provocatoriamente fatti interpretare da uno stesso attore, ché l’uno non è migliore dell’altro, ed è la loro funzione, il Potere, a venir messa in discussione e negata comunque. Come ha ben capito il pur rozzo Breznev, sequestrando questo film nelle cantine delle cineteche di stato.
La rivalutazione di una terrestre religiosità — insistita nella “presa di coscienza” di Andrej di fronte a Teofane il Greco (col suo disprezzo dell’uomo e della sua corruzione o corruttibilità, il suo mistico rifugio fuori e, egli pensa, sopra la Storia) e di fronte ai potenti (col loro basso, ma equipollente disprezzo per l’uomo, col loro uso spregiudicato dell’uomo) — è in definitiva ben altra da quella dell’eroe soljenitziano, proiezione sempre dell’autore, che riannoda anch’esso con un passato, ma con un passato di irrazionalismo e reazione: non Pasternak o Tolstoj, ma diciamo, i vari Bulgakov e più radicatamente la scuola dei Berdjaev.

Che non contestano, insomma, la Storia (la Politica) in nome dell’uomo e della sua realtà e dei suoi bisogni più profondi (“non di solo pane” e non di sola scienza…) ma finiscono per mostrare nei confronti dell’uomo lo stesso radicato disprezzo che per esso dimostrano i potenti, interessati come sono a qualcosa d’altro che lo superi senza realizzarlo, a qualcosa d’altro che non è rivoluzione e liberazione, ma regressione e, ancora di fatto, paura. In Andrej Rubëv l’eco pasternakiana ci pare evidente e grandiosa, anche se Pasternak ha vissuto il fascino e la speranza, la paura e la delusione della Rivoluzione, e Tarkovskij ne sente l’eco per sola lezione poetica.

La collocazione storica

Sul significato dell’itinerario del monaco-pittore non ci si inganna. La collocazione storica e culturale di quest’itinerario, per quanto precisa, rimanda a altro, a una filigrana di rigorosa chiarezza, e in sostanza di attualità.
Tarkovskij costruisce il suo film per blocchi a sé stanti, che egli dice “racconti”, tutti di distesa narrazione. Anche la concitazione delle esplosioni di storia-orrore, anche la visualizzazione delle ispirazioni e riflessioni poetiche, anche la tensione della costruzione popolare nel più bello dei racconti, hanno tono disteso, largo, per piani-sequenza di ampiezza dovcenkiana.
In una Russia che non riesce a abbandonare il suo medioevo e a decollare, magistralmente introdotta dallo sforzo fallimentare del volo, e che ha il costante e superiore, astuto nemico tartaro a guastarne e stroncarne ogni possibile sviluppo, Rublëv fida in un rinascimento a venire, in contrasto con la lezione di Teofane e del suo convento.
Rinascimento posto sotto il segno del cristianesimo e nella fiducia di un potere illuminato. Egli già afferma una dimensione religiosa che non neghi l’uomo e la natura (si pensi all’episodio della notturna festa pagana e contadina, conchiusa da una donna-natura che riesce a sfuggire nel fiume e nel bosco per rimandarsi a un futuro diverso) e rifiuta la fissità mistica e terribile del Dio bizantino.
Ma sarà la partecipazione di spettatore annichilito dall’atrocità della Storia e poi dalla corruzione del Potere, ché il nemico non è più solo il Tartaro, ma il Potere in sé, anche russo, a chiuderlo nel silenzio e nel rifiuto della consolazione di un’arte e di una religione che non potrebbero avere altro significato che sublimante, sostanzialmente repressivo, di negazione dell’umano.

Terra e natura

La fiducia egli la riconquista attraverso il contadino artigiano Boriska, reinventore di un’arte pratica e comunitaria (la campana), in una funzione di socialità della sua stessa arte, della sua stessa religiosità. Ma in contrapposizione netta al Potere e alla sua logica nemica dell’umano. Uomo e Natura sono al centro di ogni sequenza, che poggia risolutamente su una terra umida e fremente, malta umorale con la quale costruire, ma di per sé inagente senza l’uomo che la usi e la plasmi.
Ogni sequenza conclude sulla terra e rifiuta lo spazio di un cielo lontano e astratto. E la terra è percorsa dai cavalli della vita (come nell’ultima e ancora umida sequenza conclusiva, riassuntiva e utopicamente placata ma in una costanza di movimento e di crescita), da un popolo sofferente ma mosso e attivo in perenne ricominciamento dopo ogni strage e batosta. E infine da donne, che la natura incarnano ed esemplificano nella strega del sabba contadino, come nella muta conquistata dal barbaro come — con più sottile e solenne immagine — nella donna che osserva da lontano con un lieve sorriso la costruzione della campana, il pianto di Boriska, l’abbraccio di Andrej, a mostrare una russa fioritura e pienezza possibili.

L’era di Breznev

L’era di Breznev è certo un’era poeticamente squallida, di apologeti più o mento mediocri e di dissenzienti più o meno cupi e isolati. È per questo che tanto più miracoloso appare il risultato del Rublëv col suo sincero, vecchio e nuovo richiamo alla centralità dell’uomo e del suo riscatto. La creatività del popolo che plasma pazientemente e a tratti violentemente dalla melma le sue campane di speranza è certo non più che un’immagine poetica, anche se suggestiva, anche se formidabile.
Ma Tarkovskij è tra i pochi a affermarla, fino a inserirla in una prospettiva non solo positiva, ma probabilmente (con sua coscienza e quanta qui non ci riguarda) anche la riflessione su una strategia per portare il dissenso dalla sua minorità e confusione attuale a una chiarificazione e a uno sviluppo futuri. In attesa di quella “rianimazione di una classe operaia composta oggi di alcune decine di milioni di lavoratori dotati di un grado di istruzione elevato e del suo ricollegamento col movimento operaio e contadino del mondo” (L. Foa), che però è ancora di là da venire e che, noi crediamo, può essere annunciata da alcuni aspetti del dissenso, anche se cosi alla lontana da portarci magari, irrazionalmente anche noi, alla condanna o a atteggiamenti di facile superiorità nei confronti del fenomeno quale oggi si realizza con la sua confusione o anche con la sua pochezza intellettuale e politica, ma che è, volere o no, il solo preannuncio e la sola speranza di rottura di un ordine congelante di oppressione del proletariato, il solo esistente “specchio di un bisogno di rivoluzione “che sta forse maturando e che può e deve maturare in URSS.

Da Ombre rosse, n. 58-59, 1975

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.