Analisi del film: Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson

di René Prédal

Mario Mancini
8 min readMay 30, 2021

I film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

Un giovane, Fontaine, tenta di fuggire da una macchina della Gestapo. Viene raggiunto e picchiato. Portato su una barella e sanguinante in una cella, cerca subito di comunicare attraverso il vasistas. Il giorno dopo, inizia a parlare con Terry, un altro detenuto che, dal cortile, gli passerà diversi oggetti e gli permetterà di scrivere.

Un giorno, Fontaine viene cambiato di cella e si ritrova all’ultimo piano del carcere. La sua vita è ormai ritmata dalle discese in cortile per svuotare i secchi e per le pulizie delle latrine. Ma l’uomo pensa solo a preparare la sua evasione. Gratta la porta con un cucchiaio trasformato in taglierino. Terry viene trasferito, e il suo vicino del piano inferiore fucilato. Alle latrine, Fontaine fa amicizia con il pastore Deleyris e cerca di far coraggio al suo nuovo vicino di cella, un vecchio depresso.

Decide di prendere come compagno di fuga Orsini, che occupa la cella di fronte e che fa da guardia. Insieme fabbricano delle corde. Ma Orsini capisce che la cosa richiede troppo tempo e tenta la fuga da solo. Viene catturato e, prima di essere fucilato, fa sapere a Fontaine che occorrono dei ganci per potersi appendere ai muri.

I tedeschi confiscano tutte le matite. Fontaine non restituisce le sue. È portato all’hotel Terminus dove viene a sapere che intendono fucilarlo. Bisogna dunque passare all’azione e fuggire al più presto. Ma nella sua cella viene messo Jost, un detenuto giovanissimo. Fontaine non si fida, esita ma poi decide di raccontargli tutto: fuggiranno insieme.

Escono da un vasistas. Dal momento che la ghiaia sulle terrazze fa rumore sotto i loro piedi, possono camminare solo quando passano i treni. Mentre attraversa un cortiletto, Fontaine è costretto a strangolare una sentinella. Ai piedi di un muro particolarmente alto, Fontaine può farcela solamente grazie all’aiuto di Jost, più abile di lui. Ci mettono diverse ore per attraversare un tetto sorvegliato da un soldato che fa la ronda in bicicletta. Con l’ultima corda superano lo spazio «a scimmia». Allo spuntare dell’alba, saltano finalmente dall’ultimo muro sulla strada e si allontanano su un ponte avvolto dal fumo.

Freddo, semplice, grande, vero, Un condannato a morte è fuggito viene generalmente considerato, da quelli che non amano molto i suoi film religiosi e l’atteggiamento da «profeta di sventura» delle sue ultime opere, il miglior film dell’autore. In ogni caso è a partire da qui che i suoi più brillanti esegeti, aiutati dalle stesse dichiarazioni dell’autore, descrivono con chiarezza le componenti essenziali della stilistica bressoniana.

André Devigny — diventato il tenente Fontaine nel film — è veramente esistito: condannato a morte, evade da Montluc nel 1943 qualche ora prima della sua esecuzione. Bresson dichiara di essere stato affascinato dal racconto di Devigny, che lesse sul «Figaro littéraire» del 20 novembre 1954, e soprattutto dalla forma del testo, dalla sua costruzione, dal suo tono magniloquente. Ma il cineasta ha conservato soltanto la storia dell’evasione, eliminando il seguito (viene catturato, scappa di nuovo, viene tradito dal suo compagno…).

Di una sobrietà assoluta, il film assomiglia a una sfida impossibile e permette a Bresson di esprimere nel momento della sua uscita i principi generali del proprio lavoro, in particolare: «Il cinema non è uno spettacolo, è una scrittura attraverso la quale cerchiamo di esprimerci». O ancora: «Il cinema deve esprimersi non attraverso delle immagini, ma attraverso dei rapporti tra immagini (…).

Allo stesso modo un pittore non si esprime attraverso i colori, ma attraverso i rapporti tra i colori». Se la prima affermazione evoca Ejzenstejn, la seconda parte della frase insiste sull’originalità della posizione bressoniana: con i suoi rapporti tra le immagini. Il primo rapporto produce il senso (oltre alla bellezza), il secondo crea prioritariamente la bellezza (oltre al senso) perché è il loro contatto a farli vibrare, inducendo la vita a farvi irruzione nella misura in cui Bresson si avvale, in effetti, delle possibilità di sorpresa in fase di lavorazione: «Il bello in un film, quello che io cerco, è un cammino verso l’incognito».

Un condannato a morte è fuggito ha richiesto sei mesi per il suo concepimento, tre per la scrittura e due per la preparazione materiale. La lavorazione è durata due mesi e mezzo e il montaggio un trimestre. Come ha scritto Michel Estève nel suo saggio, Bresson si è preoccupato molto più dell’autenticità che della «ricostruzione» storica. Eppure ha girato proprio gli esterni a Montluc e a Lione in presenza di André Devigny. Per quel che riguarda la cella ricostruita negli Studi Saint-Maurice, essa venne fatta con materiali veri invece del solito materiale per decorazioni, in modo che i rumori — quello del cucchiaio sulla pietra, ad esempio — venissero scrupolosamente rispettati.

Per la drammatizzazione, l’autore non ha invece esitato a modificare qualche dettaglio e anche a ritoccare alcuni personaggi. Se il film è composto da 600 inquadrature, l’insieme forma — secondo le parole di Bresson — una sola sequenza, tanto è sostenuto il ritmo, dal momento che l’intensità scaturisce dalla concentrazione su Fontaine e sulla sua unica ossessione. Nondimeno, vi è un equilibrio tra le immagini del condannato solo nella sua cella e quelle che mostrano i suoi contatti con gli altri.

Ma, condensando, Bresson rende più attivo il partigiano perché ogni tappa della sua evasione dura di meno e risulta più veloce.

Nei titoli di testa, Bresson scrive: «Questa storia è vera. Io ve la racconto com’è, senza ornamenti». Infatti, il racconto appare spoglio di tutto ciò che non è utile a rappresentare l’unico impulso che anima Fontaine. Tutto ciò che non è in relazione diretta con il concepimento, la preparazione e la realizzazione dell’evasione viene soppresso. Ogni oggetto e ogni personaggio ha il suo posto.

La prima immagine del film, un primissimo piano di mani, come pure il volto che segue subito dopo, simboleggiano molto bene il cinema di Bresson: si tratta di agilità, ma anche di volontà. La scenografia non è mai fine a se stessa: quando Fontaine entra nella sua nuova cella, non vi è alcuna panoramica descrittiva; subito egli alza gli occhi e guarda con interesse il muro di destra e lo batte. Il ritmo del film è interamente scandito dalla progressione dei preparativi: quando Fontaine non trova difficoltà, tutto si concatena molto rapidamente, ma quando smonta la sua porta — con l’aiuto di due soli cucchiai — le inquadrature sono più lunghe, i movimenti di macchina più lenti, gli oggetti acquistano efficacia e presenza attraverso il loro carattere spoglio.

I rumori possono acquisire una potenza allucinante (quando i mazzi di chiavi urtano le sbarre). Ma sono loro, pure, a punteggiare a volte i fuoricampo della prigione, come il tram che si avverte durante la conversazione tra Fontaine e Blanchet. Nel corso dell’evasione, abbiamo sentito i rumori dei treni e solo alla fine, quando Fontaine e Jost sono riusciti a evadere, Bresson fa vedere il fumo che li circonda. Lo stesso treno sarebbe stato un dettaglio spettacolare che rischiava di distogliere l’attenzione dall’essenziale… il cineasta dunque ne conserva solo il fumo!

All’inizio Bresson non mostra nulla delle brutalità subite da Fontaine, ma solo dei manici di badile appoggiati a un muro e delle urla; immagine successiva: il corpo del giovane trasportato su una barella. Alla fine viene allo stesso modo elusa la morte della sentinella. Invece delle mani che strangolano, egli descrive la terrazza, il muro, il buio con il rumore del treno, perché in quel momento quelle cose sono più importanti per Fontaine. Gli stacchi sono infatti generalmente delle proiezioni verso il futuro. Quando guarda verso la terrazza del palazzo, Fontaine dice a Blanchet: «Se alle dieci non sono nel corridoio…»

Subito dopo sentiamo suonare le dieci e l’immagine mostra il partigiano di notte sotto la vetrata del corridoio. In un altro caso, un prigioniero dice al tenente: «Dobbiamo tenerci occupati». Con un’espressione indefinibile egli risponde: «Mi sto tenendo occupato», e l’immagine successiva lo mostra mentre sta limando la porta. Per evadere, egli deve addomesticare gli oggetti (spillo per aprire le manette, cucchiai, lanterne, ganci, lenzuola…) e approfittare della solidarietà umana: prima di tutto per superare la paura della morte, ma anche per ottenere da Terry lo spillo necessario.

Fontaine comunica con il suo vicino Blanchet picchiando sul muro, per impedirgli di tentare di nuovo il suicidio. In un’altra occasione, cancella dalla porta di un prigioniero l’iscrizione che notifica che è stato privato del cibo e della passeggiata. La sua fermezza incrollabile nei confronti di tutto ciò che riguarda il suo progetto non è in effetti incompatibile con gesti positivi di conforto e alla fine, sebbene egli confidi solo in se stesso, ha bisogno degli altri.

Bresson ha tolto i riferimenti troppo espliciti a Dio. Devigny, nel suo racconto, annotava di non aspettarsi nulla dal cielo: «C’erano due fazioni, la mia e quella di Dio»; nel film la frase diventa: «Sarebbe troppo comodo se Dio si occupasse di tutto ». Ma Devigny scriveva anche che pregava per la riuscita, mentre nel film questa allusione è scomparsa.

In ogni modo è chiaro che gli aiuti di Orsini e di Jost sono indispensabili al buon esito finale: il caso di Orsini ha dato la possibilità ai critici spiritualisti — Henri Agel per primo — di sottolineare come in quest’uomo vi sia una specie di «comunione dei santi» già operante in Anne-Marie (La conversa di Belfort) e nel curato d’Ambricourt (Il diario di un curato di campagna). Fontaine approfitta dell’aiuto materiale degli altri detenuti, ma da parte sua infonde loro speranza.

Così, il fallimento dell’evasione del suo complice è necessario alla sua fuga, perché solo così Orsini gli potrà consigliare l’utilizzo dei ganci di lanterna che si riveleranno preziosi. Inoltre, la sua morte suscita la voglia accanita di far sì che questa non sia stata inutile e che venga vendicata dall’evasione di Fontaine.

D’altronde, mentre egli è un solitario ostinato, tanto che l’arrivo di Jost gli fa pensare di uccidere l’intruso, la presenza dell’adolescente durante l’evasione sarà alla fine indispensabile per scavalcare il muro di cinta che Fontaine non sarebbe senz’altro mai riuscito a oltrepassare senza aiuto: «Da solo sarei probabilmente rimasto lì», egli annota obiettivamente.

La sorte sarà dunque favorevole, forse perché era destinato a farcela: insomma, egli ha la grazia che manca a Orsini. Ma questa dimensione cristiana non è indispensabile per cogliere il senso profondo del film. Ci si può fermare alla nozione di solidarietà, dunque di umanesimo.

Bresson non gioca con la suspense. Il titolo del film come pure il commento comunicano fin dall’inizio che Fontaine è vivo. La macchina da presa non lo abbandonerà più, anche se il cineasta non farà vedere esclusivamente ciò che vedono gli occhi del prigioniero. Per questo, percepiremo talvolta l’effetto prodotto da alcuni suoi gesti, come quando un’inquadratura mostra, oltre la porta, l’estremità della scopa manovrata per togliere la segatura prodotta dal suo lavoro.

La grande sobrietà delle inquadrature nel carcere (molti dettagli sono visti attraverso la porta o la finestra) fa della prigione un universo in cui la volontà (il libero arbitrio?) di ognuno si scontra con il destino, con quella volontà superiore (divina Provvidenza?) che favorisce o controbilancia le imprese individuali. Fontaine ha paura che i tedeschi vengano a perquisire la sua cella. Effettivamente essi arrivano, ma per portargli un pacco. Controllano attentamente il pacco, ma dimenticano di perquisire la cella. Non scoprono quindi i preparativi dell’evasione… Caso? Grazia? Il vento soffia dove vuole (discorso di Cristo con Nicodemo, capitolo 3 del Vangelo secondo san Giovanni).

Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 145–152

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet