Analisi del film Pickpocket di Robert Bresson

di René Prédal

Mario Mancini
18 min readMay 23, 2021

I film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

Michel in azione all’Ippodromo Longchamp in apertura del film.

Una mano scrive su un taccuino. Un’altra stringe delle banconote. Siamo in un ippodromo dove opera Michel, un borseggiatore.

Arrestato dai poliziotti, viene rilasciato subito dopo per mancanza di prove. Va a trovare sua madre ma, giunto davanti alla porta, non ha il coraggio di entrare e consegna il denaro che aveva con sé a Jeanne, una vicina. In un caffè, Michel incontra il suo amico Jacques. Il commissario li raggiunge e inizia una discussione sul furto e sui ladri.

Nella metropolitana, egli rimane affascinato dall’abilità di un borseggiatore che agisce aiutandosi con un giornale. Michel si allena a casa sua, quindi riesce a sua volta a rubare in diverse occasioni con la stessa tecnica, finché un viaggiatore lo sorprende e lo costringe alla fuga.

Jacques e Jeanne tentano, senza successo, di convincerlo a far visita a sua madre. Un borseggiatore professionista gli insegna i suoi trucchi. Michel va a trovare sua madre che sta molto male. La madre muore, e Jeanne lo aiuta a portar via alcune cose. Michel ora lavora in combutta con altri due borseggiatori. Al caffè, altra discussione con Jacques e il commissario a proposito del libro auto-biografico del borseggiatore Baringhton, del quale Michel fa imprudentemente l’apologia. Poi si esercita a rubare orologi da polso.

La domenica, Michel si annoia con Jacques e Jeanne. Lascia che la coppia vada alle giostre mentre lui se ne va a rubare. Alla Gare de Lyon, i borseggiatori si danno da fare. I complici di Michel vengono arrestati, ma lui riesce a sfuggire alla retata.

Il commissario gli dice, nella sua camera, che ne sa abbastanza su di lui per farlo arrestare. Michel confessa a Jeanne di essere un ladro, poi scappa all’estero.

Molto tempo dopo ritorna, e va a trovare Jeanne; lei ha avuto un bambino da Jacques che però l’ha abbandonata. Michel decide di lavorare onestamente per lei. Un giorno, viene preso dalla tentazione di tornare alle corse. Ma è una trappola e viene arrestato mentre tenta un’altra volta di impossessarsi di una mazzetta di banconote.

Nel parlatolo della prigione riceve la visita di Jeanne. Il tempo passa senza che lei si faccia viva, ma lei gli spiega in una lettera che ha dovuto curare il suo bambino ammalato. Nuova visita. I due giovani si baciano: «Oh Jeanne, per arrivare fino a te, che strano cammino ho dovuto fare».

L’itinerario «professionale» del borseggiatore si sviluppa in quattro tappe:
— all’ippodromo, è ancora un maldestro dilettante;
— in metropolitana, è un apprendista serio e comincia ad aver successo;
— alla Gare de Lyon, è particolarmente abile e prova il culmine dell’eccitazione;
— sebbene nel frattempo sia diventato onesto, cade in una trappola che gli hanno teso all’ippodromo.

Se questa linea fornisce al film la sua struttura narrativa, il suo vero soggetto è parallelo a questi avvenimenti e si sviluppa su un piano completamente diverso.

Il cineasta riprende il procedimento utilizzato nel Diario di un curato di campagna: al posto del diario, il taccuino di Michel permette gli stessi salti narrativi nello spazio (Italia, Inghilterra) e soprattutto nel tempo. D’altra parte il «tutto ha un senso» di Jeanne richiama il «tutto è grazia» del curato d’Ambricourt, ma per distinguerli ci vorrebbe veramente il punto di vista di Dio!

Nella sua scheda filmografica, Jean Collet mostra in effetti come Bresson suggerisca attraverso qualche inquadratura furtiva che tutto è consequenziale, facendo vedere come la morte della madre (evento doloroso davanti al quale Michel — e lo spettatore — non può far altro che porsi l’eterna domanda: «Perché?») accelererà l’incontro con Jeanne: si vede il riflesso della giovane nello specchio dell’armadio durante l’ultimo dialogo tra Michel e sua madre.

Subito dopo, Jeanne è di nuovo al fianco del borseggiatore durante il funerale, ed è con lei che Michel si interroga sulla giustizia divina e sul senso della vita. E così il male assoluto della morte di una madre può generare un bene, l’incontro di due eccezionali esseri solitari.

In opposizione all’inquadratura dell’ombra della croce alla fine del Diario di un curato di campagna (il vuoto), Pickpocket contiene una delle scene più brillanti della filmografia bressoniana, quella della Gare de Lyon (il pieno). La frenesia del lavoro dei ladri assomiglia a quella del cineasta che gira, nelle stesse condizioni della Nouvelle Vague (in mezzo alla folla), un capolavoro di composizione (primissimi piani, piani medi), di movimenti di macchina (panoramiche o carrellate laterali molto brevi) e di ritmo (concatenamenti «diabolici» di montaggio).

Normalmente introverso, Michel conosce qui un grande momento di esaltazione e compie i gesti necessari con una suprema eleganza, lui che si è sempre visto impacciato e fuori posto. Se si fa riferimento agli innumerevoli film che mettono in scena degli accaniti giocatori, degli alcolizzati o dei drogati, dei quali però i registi non riescono a rendere — e ancora meno condividere — il vizio, si vede come invece Bresson riesca a esprimere in maniera sensibile l’emozione che questo tipo di passione procura veramente a Michel.

Emblematico di tutti i film dell’autore, un superbo gioco di mani, di oggetti e di sguardi si incarna in modo evidente in un’attività che sembra — paradosso morale — connaturata all’uomo.

Il ritmo è spasmodico, nutrito da una suspense angosciante dovuta al pericolo costante di essere scoperto, inseguito, arrestato dalla polizia disseminata nella stazione. Ma Michel nota: «Non stavo più con i piedi per terra, dominavo il mondo».

Eccitato dal rischio, convinto di essere al di sopra delle comuni leggi umane, Michel gode della precisione dei propri gesti, che si congiunge a quella delle riprese, alla loro rapidità dinamica; riflessioni fugaci e decisioni repentine si mescolano ai rumori della stazione, questa volta senza che sia necessario un brano di Lully per magnificare la scena.

I pochi brani musicali (appena sette in tutto e molto brevi) «sopraggiungono sempre a chiudere una scena, e ne prolungano la risonanza affettiva. Fanno intrusione con la repentinità violenta dei sentimenti alti: vittoria, dominio, amore». Si tratta dunque ogni volta di momenti psicologicamente forti: dopo il funerale, durante il gioco pericoloso con il commissario, durante la comunione spirituale con Jeanne.

Nel 1936 era uscito Il romanzo di un baro (Roman d’un tricheur). La simpatia dello spettatore veniva allora sollecitata dallo humor nero di Sacha Guitry. Bresson utilizza da parte sua il processo classico di identificazione (il diario), ma lo contraddice attraverso i comportamenti di questo personaggio altero, freddo e schiavo del suo vizio.

Non tutto infatti viene guardato attraverso gli occhi di Michel. Più volte la cinepresa lo ingloba e il personaggio non appare allora per nulla avvincente: dotato dell’orgoglio dei timidi, è come senza pelle, spesso aggressivo, troppo suscettibile, sempre sfuggente per evitare di confidarsi.

Eppure Pickpocket racconta la più bella storia d’amore del cinema di Bresson: si tratta certamente di un sentimento doloroso, ma con splendidi slanci da entrambe le parti (lei, nei confronti del ladro che lui rappresenta; lui, nei confronti della ragazza-madre che lei è diventata) e, una volta tanto, con una vera volontà di amare e di essere amati.

L’amore eleva entrambi i protagonisti, tirando fuori Jeanne dalla sua mediocrità e Michel dal suo vizio; li riempie, li spinge ad aprirsi invece di restare impenetrabili, dando d’un tratto un senso alla loro vita. Entrambi sono stati ingannati da Jacques (falso amico dell’uno, seduttore che mette incinta l’altra e scompare), ma queste delusioni li hanno riavvicinati e alla fine hanno favorito il loro amore.

Fino al suo incontro con Jeanne, il borseggiatore aveva conosciuto la comunicazione solo nel vizio, con i suoi complici propagatori del male. Un po’ a disagio con il suo amico, cercando di evitare sua madre che egli ha derubato, di volta in volta affascinato e irritato dal commissario perché non riesce a vedere chiaro nelle sue manovre (sta giocando al gatto e al topo con lui o cerca paternamente di allontanarlo dalla cattiva strada?), Michel è trascinato da una passione divoratrice che lo colloca ai margini come tutti gli eroi bressoniani.

L’autore dipinge a tinte forti «la freddezza calcolatrice dell’uomo preso dalla passione e la prigione in cui egli si rinchiude». Il vizio svuota il personaggio di tutti gli aspetti ardenti per farne un’idea in movimento.

Nell’inesorabile procedere verso il loro destino, sta la forza di queste nature bressoniane consumate dalla loro ossessione. Sono al limite dell’umano perché privilegiano il funzionamento dello spirito a scapito dello sviluppo del corpo.

Questa violenza interiore che li congela — o li brucia? — si traduce nel loro aspetto fisico: magri, con grandi occhi scavati, a volte ammalati. Solo le mani restano stranamente vive.

L’interpretazione dell’ultima scena è complessa. Le parole testimoniano la comunione tra due esseri che si sono finalmente ritrovati, ma le sbarre persistono nell’immagine. Ciò significa forse che, malgrado la prigione fisica, Michel è uscito dalla propria chiusura spirituale oppure, al contrario, dobbiamo interpretare queste grosse sbarre nere come segni del fallimento futuro della loro relazione?

Secondo questa seconda ipotesi, Michel si crederebbe allora liberato in quel momento, ma si tratterebbe solo di un’illusione o di un breve momento di apertura prima di ritornare al blocco. Certo, come abbiamo detto a proposito del finale di La conversa di Belfort, la dinamica del racconto depone piuttosto a favore di un’interpretazione “felice”, ma un dubbio rimane.

La subitaneità di quest’ultima «conversione» comunque sorprende perché, come sempre, Bresson non l’ha veramente preparata attraverso un’evoluzione psicologica del giovane. Solo pochi indizi testimoniano il fatto che Michel rimane segnato da tutti i suoi incontri con Jeanne, che lei è l’unico essere che gli interessa dal momento che egli si preoccupa dell’impressione che produce sulla giovane.

E poco, e per questo è possibile scorgervi un effetto imprevedibile della grazia. Ma il carattere inflessibile di questo personaggio ombroso lascia tuttavia la porta aperta a questo genere di cambiamento brutale. Bresson suggerisce, non impone mai niente.

Destino e predestinazione

All’ippodromo Longchamp

I titoli di testa sono accompagnati dalla musica di Lully.

Primissimo piano di un diario letto nello stesso momento in cui viene scritto: «So che abitualmente quelli che fanno questo genere di cose non lo dicono, e che quelli che le raccontano non le fanno. Eppure io le ho fatte».

Ancora una volta, si tratta di un racconto soggettivo al tempo passato raccontato in flashback, ma il testo scritto è molto meno presente rispetto a quello del Diario di un curato di campagna.

Alle corse, la cinepresa segue in primissimo piano il movimento delle banconote estratte dalla borsetta di una donna per essere versate allo sportello dal marito. Quando questi ritorna con il biglietto della scommessa in mano, incrocia lo sguardo di qualcuno che lo osserva.

Controcampo: è Michel, il borseggiatore attore e narratore della storia, colto in semitotale frontale.

Voce: (fuoricampo): Da parecchi giorni avevo preso la mia decisione, ma ne avrei avuto il coraggio? (Dunque non ha ancora mai rubato.)

Primo piano di Michel nell’ultima fila degli spettatori della corsa, inquadrato di schiena. Si trova dietro a una donna con un cappello bianco.

Controcampo: di fronte, si trova dietro alla donna in bianco, e questa è seduta di fianco a un’altra spettatrice.

Voce: (fuoricampo): Avrei fatto meglio ad andarmene.

(Sente dunque che il suo destino è stato segnato proprio in quel momento.)

Primissimo piano delle sue mani sulla borsetta della donna.

Controcampo: sempre di fronte tra le due spettatrici.

Primissimo piano della sua mano sulla chiusura della borsetta.

Controcampo.

Mette la mano nella borsetta nel momento in cui il rumore del passaggio dei cavalli invade lo schermo.

Tira fuori una mazzetta di banconote; la macchina da presa indietreggia allargando il campo: Michel ce l’ha fatta.

Totale: egli abbandona la folla.

Voce (fuoricampo): Non stavo più con i piedi per terra, dominavo il mondo. (L’ebbrezza del male lo afferra e non lo lascerà più.)

Piano medio di due uomini, sul genere ispettore di polizia, che gli vanno dietro. Lo fanno mettere sul sedile posteriore di una macchina: «Ma due minuti dopo venivo arrestato».

Non avendolo colto sul fatto, la polizia lo rilascia per mancanza di prove. Esce dal commissariato dopo il tramonto.

Una porta carraia appena socchiusa occupa tutto lo schermo. Michel la spinge, sale delle scale buie e spoglie.

Spinge la porta già socchiusa di una miserevole stanzetta e si siede sul suo letto: «Volevo rimettere ordine nelle mie idee. Ero stanco morto, ho dormito fino al mattino».

Michel, Jacques, il commissario al Caffè

Davanti alla porta chiusa di un appartamento, Michel appare indeciso: «Era più di un mese che non vedevo mia madre. Esitavo». Una giovane vicina si offre di aprire la porta poiché ha la chiave. Lui non ha il coraggio di entrare e consegna alla donna le banconote da dare a sua madre, poi se ne va, fuggendo lo sguardo di lei, Jeanne, che gli dice: « Ritornerà, ritornerà…»

In un caffè molto affollato, Michel incontra il suo amico Jacques, «un bravo ragazzo onesto e sveglio», che vuole aiutarlo a trovare un lavoro. Riconosce il commissario che lo aveva rilasciato e, rispondendo a un impulso improvviso, avanza verso di lui per salutarlo porgendogli la mano: «Mi riconosce?» Ha inizio una partita di caccia in cui Michel assume imprudentemente il ruolo della selvaggina: pungolato dall’orgoglio, vuole giocare con il fuoco.

Tre uomini bevono insieme, e Michel, spinto da Jacques, espone la sua teoria secondo cui la società dovrebbe ammettere, in alcuni casi, per alcuni uomini superiori, la libertà di disubbidire alle leggi. Il commissario esprime il suo disaccordo.

Michel: Sarebbe solo per i primi passi; dopo ci si ferma.
Il commissario: Non ci si ferma mai (ancora la forza del destino). Sarebbe il mondo alla rovescia.
Michel: Dal momento che è già alla rovescia, può essere che lo si rimetta diritto.

In metropolitana

Sulla banchina della metropolitana, dopo aver tirato fuori dalla tasca gli indirizzi fornitigli dal suo amico, Michel rinuncia a cercare lavoro. Ma siccome l’idea di rientrare nella sua camera gli fa orrore, sale sul primo treno.

Si trova di fronte a un curioso viaggiatore che avanza a poco a poco verso il suo vicino leggendo il giornale. Nuovo colpo di mano del destino, dato che si tratta di un abile borseggiatore in piena attività: «Perché mi sono venuto a trovare di fronte a un uomo dal comportamento strano, dal quale non riuscivo a distogliere gli occhi?»

Il dado è tratto. Rientrato a casa sua comincia a esercitarsi da solo.

In metropolitana, Michel passa all’azione: «Le mie mani tremavano e facevano tremare il giornale». Per un momento è disorientato dallo sguardo sospettoso dello sconosciuto scelto come vittima ma, non appena i viaggiatori scendono dai vagoni, riesce a mettere a segno il colpo: « Questo primo successo mi incoraggiò. Lo dovevo più alla fortuna che alla mia abilità». «Avevo preso la precauzione di variare il percorso, viaggiando ora su una linea ora su un’altra.» Ma «i colpi erano mediocri, a volte nulli, e non valevano il rischio». Un giorno, mentre raggiunge la porta di accesso alle scale esterne, viene afferrato dalla sua vittima che lo ha scoperto e che esige la restituzione del portafoglio. Michel rimane interdetto per un bel po’. «Vuole che chiami la polizia?» gli dice la vittima. Allora cede e se ne va di corsa sotto lo sguardo degli altri viaggiatori.

L’incontro con il borsaiolo

Una sera, vede uno sconosciuto che sembra aspettare sul marciapiede davanti alla porta di casa sua. Credendo di essere sorvegliato dalla polizia, sta per risalire le scale ma si imbatte in Jacques, che gli dice di aver incontrato Jeanne che lo cercava. Senz’altro sua madre sta molto male, ma Michel è turbato dalla presenza dello sconosciuto all’entrata del palazzo e chiede all’amico di andare lui da sua madre.

Jacques: Egoista, e pretendi di amare tua madre.
Michel: Più di me stesso, ma ti prego, vai…

Irresistibilmente attratto dallo sconosciuto, Michel lo segue per strada: «Dovevo sapere».

In un piccolo caffè di Rochechouart, i due uomini si parlano al bancone: «Un quarto d’ora più tardi eravamo amici». Spontaneamente, quel borseggiatore incallito lo inizia a tutti i suoi segreti, mentre in sottofondo c’è una musica di Lully. Bisogna allenarsi a far lavorare le dita per renderle elastiche. Quanto ai riflessi, il flipper rappresenta un ottimo esercizio.

Morte della madre di Michel

«Ritornavo a casa solo per dormire.» Gli succede di calpestare per ben due volte senza accorgersene un foglietto infilato sotto la porta: «Venga presto. Jeanne». Da quanto tempo stava lì?

Al capezzale di sua madre ammalata, alla presenza di Jeanne che aiuta l’anziana donna, Michel dichiara di voler riuscire subito nella vita per poterla rendere felice. Ma la donna sa di essere condannata. Lui invece dice che guarirà.

Ma nell’inquadratura successiva, Jacques, Jeanne e Michel sono ripresi di tre quarti di schiena, soli, seduti di fianco al catafalco durante la messa funebre. Quando Michel si alza per inginocchiarsi, si gira verso Jeanne con gli occhi pieni di lacrime.

La giovane lo aiuta a prendere alcune cose e a portarle a casa sua.

Michel: È finita, non c’è modo per tornare indietro (…) Jeanne, lei crede che verremo giudicati?
Jeanne: Sì.
Michel: Come? Secondo quale codice? È assurdo.
Jeanne: Lei non crede in niente?
Michel: Ho creduto in Dio, Jeanne, per tre minuti.

I complici

Dopo questo terribile dialogo, primo ritorno alla scrittura del diario.

In una banca, Michel osserva i clienti agli sportelli, mette gli occhi su un uomo che ritira una grossa somma di denaro, lo segue e lo blocca all’uscita. Ma in quel momento lo sconosciuto lo guarda e Michel non ha il coraggio di agire; ogni volta, uno sguardo che si posa su di lui gli fa perdere sicurezza: «Ho avuto paura, mi è sfuggito».

Ma fuori, grazie alla complicità di colui che lo aveva iniziato a Rochechouart e con il quale fa ora squadra, riesce a rubare il portafoglio pieno di soldi mentre l’uomo prende un taxi.

«La spartizione si faceva giocando a carte» perché al caffè possono contare il denaro senza destare dei sospetti. Ben presto un terzo complice si unisce a loro.

Quando Michel rientra a casa sua, trova Jacques che lo aspetta, dal momento che la porta non è mai chiusa. Sta sfogliando The Prince of Pickpocket che ha trovato sul tavolo. Michel dice di amare molto quel libro e il suo autore Baringhton, mentre tasta la giacca di Jacques che gli dà la schiena.

Jacques: Derubava i suoi amici, ti sembra bello?

Michel, impacciato, ripone la giacca di Jacques che gli chiede in prestito il libro.

Incontro con il commissario

Al caffè, ritrovano il commissario. Quest’ultimo chiede a Michel se considera che Baringhton faccia parte di quegli uomini superiori dei quali aveva fatto l’elogio durante la loro ultima conversazione.

Quando i due amici si ritrovano di nuovo soli, Michel ammette — non senza un’aria di sfida — che sicuramente il commissario lo sospetta.

Per fare una bravata, Michel va perfino al commissariato per portare al commissario il libro di Baringhton. Ma è deluso dal fatto che lo facciano aspettare tanto. Inoltre, sembra che il commissario non si ricordi più del libro. Gli mostra invece uno dei numerosi coltelli speciali di cui alcuni borseggiatori si servono per tagliare le tasche delle loro vittime. Quando un ispettore entra nel suo ufficio, il commissario congeda Michel in maniera piuttosto sbrigativa.

«Come mai non ci avevo pensato? Era una trappola. Se mi metto a correre forse li troverò ancora a casa mia.» Il poliziotto ha forse approfittato del fatto che Michel era al commissariato per fare una perquisizione nella sua camera ? Tirando via un pezzo del battiscopa dietro al letto, il posto in cui egli nasconde i soldi e il bottino, constata, rassicurato: «Sembrava che niente fosse stato toccato, tutto stava al suo posto».

Alla Gare de Lyon

A casa sua ruba da solo un orologio da una gamba del tavolo per esercitarsi a questo nuovo genere di furto.

Jacques apre la porta della camera di Michel: è venuto a prenderlo per la passeggiata domenicale con Jeanne. Al tavolo di un caffè, Jeanne gli dice: «Lei non vive nella realtà». E vero, lui non può fare a meno della sua malsana passione e, dopo aver lasciato Jacques e Jeanne alle giostre, va via senza dire niente.

La cinepresa lo ritrova mentre sale le scale di casa sua, con i pantaloni strappati al ginocchio, le mani scorticate: «Avevo corso, ero caduto». Ma «l’orologio era molto bello». Poco dopo arriva anche Jacques nella camera dell’amico: «Sei qui, ho avuto molta paura».

Per la terza volta, inquadratura sulla scrittura del diario: «Ero diventato audace al massimo. Io e i miei due complici andavamo perfettamente d’accordo; non poteva durare».

Alla Gare de Lyon, i tre borseggiatori sono in piena azione: nella coda agli sportelli rubano la borsetta di una donna, poi i soldi di un uomo di una certa età. Michel scorge l’ispettore che ha incontrato nell’ufficio del commissario, ma non riesce a identificarlo: «Dove l’avevo visto? Avrei dovuto riconoscerlo». Ben presto il poliziotto viene raggiunto da un collega. Ma i tre ladri continuano ad agire con maestria, dandosi da fare sui binari, vicino ai vagoni, e poi anche all’interno di questi.

Sulla scalinata del palazzo di casa sua incontra Jacques che viene ad avvertirlo: la polizia ha convocato Jeanne. Perché? La morsa si sta chiudendo.

Di nuovo alla Gare de Lyon, Michel scorge i due ispettori. Poco dopo questi ritornano: hanno arrestato i suoi due complici, che gli passano davanti senza guardarlo.

Il commissario va a trovare Michel

Il commissario va a trovarlo a casa sua. Passa il dito sui libri e sui quaderni coperti di polvere per fargli capire che sa perfettamente che non è uno studente.

Michel: So che lei sospetta di me.

Si scalda, fa notare in modo aggressivo che la polizia non ha nessuna prova contro di lui. In piena collera, getta un libro per terra: «Basta! Basta!»

Il commissario (imperturbabile): Calma, si controlli.

Gli racconta allora che Jeanne aveva fatto denuncia più di un anno prima per un furto di denaro commesso a casa della sua vecchia vicina, ma poi aveva ritirato la denuncia qualche giorno più tardi perché spesso le persone si accorgono che il furto è stato commesso da un parente, e non vogliono consegnarlo alla giustizia. Poco dopo, il figlio di quella vecchia signora viene arrestato a Longchamp… «Quel giovane è lei.»

Michel gli chiede allora come mai non ha fatto perquisire la sua camera. Lo ha fatto, ma non ha scoperto niente. Allora Michel si fa baldanzoso: «Tutto questo mi ha stufato».

Il commissario: Volevo aprirle gli occhi. Quanto al suo futuro, non ho bisogno di confessioni. Mi basta la testimonianza di uno solo dei miei uomini per arrestarla.
Michel (turbato): Quali sono le sue intenzioni? Voglio saperlo.

Ma il commissario non risponde e se ne va.

Michel rivela a Jeanne di essere un ladro e lascia Parigi

Michel si precipita da Jeanne. Dalle poche parole che lei gli dice, comprende che sua madre sapeva che era lui a derubarla ed era stata proprio lei a chiedere alla giovane di ritirare la denuncia. Quanto a quest’ultima…

Michel: Avete tutti deciso di farmi impazzire? Non riesci a indovinare?
Jeanne (alla fine capisce che è un ladro): Lei?
Michel: Io, e mi arresteranno.
Jeanne: Mio Dio, come ha potuto? (…)
Michel: Si può essere perfettamente coscienti del fatto che un’azione è cattiva e commetterla ugualmente (…)
Jeanne: Non lo so, forse tutto ha un senso.
Michel: Credi che io sia un ladro? Allora, non darmi la mano.

Lei si getta fra le sue braccia.

Jeanne: Andrà via?
Michel: No, no.
Voce fuoricampo: Quest’idea d’un tratto mi sembrò possibile.

E così rientra in casa precipitosamente con l’intenzione di prendere una valigia, ma alla fine preferisce saltare su un taxi: «Mi lasceranno andare fino in stazione?» Alla Gare de Lyon, va diritto allo sportello, salta su un vagone e subito il treno si avvia. «Quell’attimo mi lasciò un ricordo indimenticabile.» La macchina da presa coglie al volo la targa sul vagone con la scritta di destinazione: Milano.

Nel suo diario, Michel annota che poi è andato a Roma e quindi a Londra. Durante i due anni che trascorre in Gran Bretagna, riesce a mettere a segno molti bei colpi, ma dilapida praticamente tutto al gioco e con le belle donne.

Michel torna a Parigi, fa visita a Jeanne e viene arrestato

Alla stazione scende dal treno: «Mi ritrovavo a Parigi senza un soldo».

In maniera quasi meccanica, va da Jeanne, apre la porta e vede un bambino. Lei arriva subito dopo: Jacques le ha dato un figlio e suo padre è partito con sua sorella. Lei non ha voluto sposarsi perché non amava abbastanza Jacques… che d’altra parte non si fa vivo da tre mesi.

Michel: Ti aiuterò. Sarò io a occuparmi di questo bambino.
Jeanne: Bisogna che tu mi lasci e che non ritorni mai più.
Michel: Posso ancora diventare onesto. Lascia almeno che provi.

Riceve una paga.

Gliela dà, ancora nella busta, e subito scende le scale.

«La polizia e io ci eravamo persi di vista, ero tranquillo. »

Ma in un caffè, non può fare a meno di guardare la pagina delle corse alle spalle di un cliente che legge il giornale.

Lo sconosciuto: Lei è un giocatore?
Michel: Oh, io!
Lo sconosciuto: Ci andrà?

Alle corse, trova lo sconosciuto che va a giocare. Poco dopo questi gli mostra una grossa mazzetta di banconote che ha appena vinto: «Era strano, il vincitore non era lo stesso cavallo sul quale aveva puntato».

Affascinato dalle banconote, Michel lo segue. Eppure nota: «Mi era sembrato di aver scorto la malizia nei suoi occhi».

Infatti, era una trappola; appena Michel tende la mano verso le banconote, l’uomo tira fuori le manette che richiude sul polso del giovane.

Michel e Jeanne al parlatoio della prigione

Michel si trova in una cella.

Jeanne viene a fargli visita in parlatoio.

Michel: Questi muri, queste sbarre mi sono indifferenti, non li vedo nemmeno. È l’idea di essermi fatto prendere (…) Perché sei venuta? Per dirmi che ho agito male e che tu hai vinto? (Scaldandosi) Non voglio nessuno… (Ma mentre lei si alza per andarsene, la trattiene) Rimani.

Nella sua cella: «C’è una cosa che non le avevo detto: perché vivere? Non avevo ancora deciso niente» (…ma la tentazione del suicidio è molto vicina).

Jeanne, non ritorna, ma alla fine lui riceve una lettera: il suo bambino è stato ammalato e lei ha dovuto rimanergli vicino; ora si trova fuori pericolo e quindi tornerà a trovarlo. «Leggendo quella lettera, il mio cuore si è messo a battere forte».

Nel parlatoio, appena la vede, constata: «Qualcosa illuminò il suo viso». Attraverso la griglia, le bacia la fronte e le mani. La musica di Lully ritorna trionfante: «Oh Jeanne, per arrivare fino a te, che strano cammino ho dovuto fare».

Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 152–173

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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