Analisi del film Mouchette di Robert Bresson

Mario Mancini
11 min readJul 19, 2021

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di René Prédal

I film di Robert Bresson nella critica del tempo
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Mouchette al Luna Parl sull’autoscontro. L’unico sorriso del film.

Una donna ammalata prega. Mathieu, il guardacaccia, sorveglia il bracconiere Arsène. Mouchette entra a scuola. All’osteria, il padre e il fratello consegnano casse di alcolici. Nella catapecchia dove vive, Mouchette cura sua madre, accudisce un bambino che piange e aiuta il padre e il fratello, rientrati ubriachi, a sdraiarsi sui loro letti. A scuola, prove di un canto: Sperate in maggior speranza. Mouchette non riesce a trovare l’intonazione giusta. Nascosta in un fosso, getta zolle di terra alle sue compagne.

Domenica mattina: a casa sua, Mouchette prepara il caffellatte e poi va a messa. All’osteria, aiuta a servire mentre Mathieu corre dietro alla cameriera Louisa. Alla festa del paese, uno sconosciuto paga a Mouchette un giro in autoscontro. Lei si diverte da pazzi e scambia degli sguardi con il ragazzo che segue fino al tiro a segno, ma arriva suo padre e la schiaffeggia.

Sorpresa da un temporale all’uscita di scuola, Mouchette si addentra nel bosco e perde uno zoccolo. Vede Mathieu e Arsène che si picchiano, poi si riconciliano e bevono. Arsène incontra Mouchette bagnata fradicia che gli dice di essersi persa. La fa entrare nella sua capanna, accende il fuoco per asciugarla e va a cercare il suo zoccolo. Vuole che la ragazzina dica che si sono incontrati sulla strada, lontano dal bosco, per crearsi un alibi se lo accusassero di aver ucciso Mathieu. Vanno poi in un altro fienile dove accendono un altro fuoco. Arsène beve del liquore di ginepro e ha una crisi epilettica. Mouchette lo calma cantando. Tornato in sé, le corre dietro e la violenta. Lei si difende debolmente.

Rientrata a casa, Mouchette deve dare il biberon al bambino. Sua madre, molto debole, beve del liquore di ginepro. La figlia vuole parlarle, ma lei muore. Il giorno dopo, risponde «merda» a suo padre, poi va a prendere il latte. La lattaia le offre un caffè per farle delle domande e si accorge che ha dei segni sul petto. Viene anche invitata da Mathieu, che è vivo e vegeto, e gli confessa che Arsène è il suo amante. Una vecchia la invita a entrare in casa sua e le parla del culto dei morti. Mouchette giunge in cima a un pendio che si trova al di sopra di uno stagno. Si mette un vestito bianco che le ha regalato la vecchia. Si lascia rotolare per terra: una volta, due volte, un cespuglio la ferma sul ciglio dello stagno. La terza volta il suo corpo cade pesantemente nell’acqua.

Per Bresson, Mouchette «è ancora l’infanzia — un periodo tra l’infanzia e l’adolescenza — colta nell’asprezza». Di fatto, il suo lato infantile si manifesta attraverso alcuni dettagli tipici: il suo modo di versare il caffellatte nelle scodelle messe l’una vicino all’altra senza alzare la caffettiera; i suoi pianti a scuola quando non riesce a cantare correttamente; la sua felicità sull’autoscontro; quando va a messa, sguazza con gioia nelle pozzanghere infangate. Ma a casa sua sostituisce la madre ammalata accudendo il bambino e i due uomini ubriachi, mentre la domenica aiuta anche a servire all’osteria del villaggio. La prima volta che viene trattata da adulta, è la notte del temporale, quando Arsène ha fatto a botte con Mathieu. Chiedendole di non dire che lui e lei sono stati nel bosco ma che invece si sono incontrati sulla strada, Arsène le chiede insomma di essere sua complice: quindi non è più una bambina.

L’inizio del film non è propriamente nello stile diretto di Bresson. Un’introduzione molto breve che precede i titoli di testa mostra la madre che prega per la propria guarigione («Che cosa diventeranno senza di me?»), quindi c’è una lunga sequenza di bracconaggio: Arsène si occupa delle sue trappole, sorvegliato da Mathieu il guardacaccia, ed è seguendo quest’ultimo quando passa davanti alla scuola per rientrare a casa che la macchina da presa coglie la protagonista, Mouchette, mentre esce da scuola.

Si tratta insomma di un inizio molto classico, poiché Bresson definisce prima di tutto l’atmosfera — tra Renoir e Bunuel — di una lotta per la sopravvivenza (caccia, morte, menzogna…) invece di andare diritto allo scopo. Il personaggio principale qui è ancora immaturo e non viene travolto da un’idea fissa; al contrario, è sballottato dagli eventi casuali dell’esistenza. La giustificazione di questo inizio viene in qualche modo data alla fine.

Mentre esce dalla casa della vegliatrice di morti con il bidone del latte e il fagotto della biancheria, Mouchette si trova nel mezzo di una partita di caccia: alcuni uomini sparano, dei conigli corrono. Ciò che rappresentava il soggetto della prima sequenza gioca qui un ruolo di sfondo perturbatore, e questo contesto avrà un ruolo nella morte dell’adolescente. Allo stesso modo i rumori dei camion che non si vedono ma che si sentono nella colonna sonora durante tutto il film, mostrano come il suo ultimo appello (aiuto?) rimanga senza esito. Il contadino sul trattore non capisce. Accenna un vago saluto e prosegue il proprio cammino. Sul piano stretto del racconto, nessun elemento risulta gratuito.

Se non serve a chiarire la stessa sequenza in cui l’elemento viene dato, allora servirà più avanti a spiegare alcuni comportamenti che resterebbero altrimenti poco comprensibili senza questo chiarimento preliminare. E ancora, Bresson apre e chiude il film su immagini di caccia per paragonare Mouchette a un animale braccato. Ma delle due pernici che si vedono all’inizio, una viene uccisa da una trappola, mentre l’altra viene liberata da Mathieu, e riprende il volo verso il cielo accompagnata dalla macchina da presa. Quale sarà il destino di Mouchette che esce dall’infanzia: quello della prima o della seconda pernice? A meno che non si tratti del destino di ambedue: morte e liberazione dell’anima?

Questa volta l’assonometria è tracciata a partire da un materiale decisamente naturalista: povere catapecchie di un villaggio morto, sordida stanza dove la famiglia di Mouchette — cinque persone — è schiacciata dalla miseria e dall’alcol. L’individuo non si rifugia più nella preghiera, nemmeno nella cultura dell’infelicità, ma sprofonda nel liquore di ginepro: l’osteria non è mai vuota. Arsène, Mathieu, il padre e il fratello sono tutti ubriaconi.

La ragazzina stessa riceve la domenica un bicchierino come salario e la madre agonizza con la bottiglia in mano. Nessuno trova gioia, nemmeno l’oblio, ma ormai solamente il sonno della morte. Il neonato non è in grado di rappresentare la speranza: fratellino innocente intrappolato fra una madre ammalata, un padre e un fratello rozzi, una sorella che non capisce niente, non può far altro che piangere senza sosta. Ma è se non altro causa della bellissima scena metaforica nella quale Mouchette, accorgendosi che il biberon è freddo, tenta di riscaldarlo sul suo petto.

Prima coproduzione cinema-tv della storia del- l’ORTF, Mouchette è stato girato rapidamente da un Bresson al culmine della sua carriera, felice di poter lavorare finalmente con i suoi ritmi (sei film in dodici anni dal 1959 al 1971) invece di dover aspettare cinque anni per ogni realizzazione. L’opera è senz’altro la più semplice di tutta la sua carriera, molto più sensibile che intellettuale, costruzione del cuore più che dello spirito con un’attenzione costante alla carne e una ricerca meno sistematica dell’ellissi: Bresson filma senza interruzioni uno stupro e una crisi epilettica, certamente in maniera molto sobria, ma senza nascondere la realtà delle cose. Contrariamente alle sue abitudini, Bresson si permette delle scene lunghe, in particolare quella con Arsène: cominciata nella capanna e proseguita nella bettola in disuso, da quando Mouchette è testimone involontaria del litigio con Mathieu fino allo stupro accondisceso a metà.

Il cuore del film dai tratti bunueliani all’opposto del giansenismo è filmato in tutta la sua durata reale, senza alcuna frammentazione. D’altra parte, la vicenda narrata nel brevissimo libro di Bernanos si svolge tutta in poche ore, dalla sera, dopo la scuola, al giorno seguente verso la fine della mattinata. Ora, pur non essendo cronologicamente molto preciso, l’adattamento di Bresson suggerisce invece alcune giornate, forse anche di più. Dunque non si è limitato a riprendere la storia tale e quale ma, al contrario, l’ha sviluppata pur restandole fedele.

Ambientato nel Nord dallo scrittore, alla fine degli anni Trenta, il racconto è uscito dal grigiore per essere ricollocato nel Vaucluse dove si stagliano i duri contrasti del Sud della Francia, sebbene la lunga scena principale e centrale sia notturna. Attualizzando la storia, Bresson ha anche ritratteggiato un po’ ogni situazione e ogni personaggio, tanto più che non vi è come nel Diario di un curato di campagna la voce fuoricampo che lega l’insieme. Tutto viene mostrato dall’esterno, cosa estremamente difficile perché il cammino di Mouchette è anch’esso interiore, pur se meno ragionato di quello del curato d’Ambricourt.

Mouchette e Arsène fanno pensare a Marie e Arnold di Au hasard Balthazar. Presi in giro, disprezzati, con lo stesso rapporto negativo nei confronti del sesso, i due personaggi femminili sono affratellati nella miseria.

Quanto ad Arsène, vagabondo alcolizzato come il suo alter ego di Balthazar, è più ambiguo di Arnold, interpretato per altro dallo stesso Jean-Claude Guilbert: crede effettivamente di aver commesso l’omicidio del guardacaccia o lo dice solo per impaurire Mouchette? Approfitta della compassione che la sua crisi epilettica ha provocato nell’adolescente per farla cedere? Lo stupro sembra incoraggiato da due esclusi che si sono incontrati più o meno inconsciamente.

Le ribellioni di Mouchette sono in ogni modo per lungo tempo irrilevanti (zolle di terra gettate sulle sue compagne di scuola, il bicchiere gettato nel lavello dell’osteria) e solo alla fine passa a un altro stadio, quando rifiuta il croissant offertole in modo sdegnoso dalla bottegaia e poi quando dice «merda» a suo padre prima di andarsene da casa. Mouchette è uno sguardo in azione: la sua richiesta è costante ma nessuno riesce a capire qualcosa della sua vita e lei non riceve alcuna risposta, a cominciare dalla madre agonizzante fino al contadino del quale cerca di attirare l’attenzione qualche istante prima di morire.

E nel tentativo di aiutare Arsène con la sua testimonianza che prende veramente coscienza della sua diversità: «Può fidarsi di me. Io li detesto. Terrò testa a tutti». Ma questa rivelazione non le è di alcun aiuto e continua a sprofondare in una sofferenza sempre più indecifrabile.

Solo due momenti sfuggono al grigiore senza senso della sua esistenza: la festa del paese e la crisi di Arsène. Il primo, quando riceve l’unico gesto d’amore totalmente disinteressato che abbia mai conosciuto in tutta la sua vita da parte di uno sconosciuto che le paga un biglietto per fare un giro sull’autoscontro. Prova allora una gioia semplice e pura, ma la scena si conclude con una sberla di suo padre dopo che lei ha sorriso al giovane. Il secondo, mentre tiene la testa di Arsène sulle ginocchia, asciuga la bava che gli cola dalle labbra e vi è paradossalmente uno scambio, una comunicazione, a partire dal dono di se stessa. La canzone Sperate in maggior speranza che Mouchette non è mai riuscita a interpretare correttamente, quando vi è costretta a scuola, ma che in seguito canticchia mentre prepara il pranzo la domenica mattina nella sua stamberga, esce questa volta con l’ampiezza di un vero e proprio canto della speranza. Riesce a prendere senza sforzo la nota giusta e conosce — senza rendersene veramente conto — un autentico momento di felicità.

Questa punta massima del film si situa al di là del dialogo, rarefatto come sempre in Bresson e quasi sempre sistematicamente impossibile. Così, quando vuole parlare a sua madre il giorno dopo lo stupro, glielo impedisce il rumore di un enorme camion che passa, poi il bambino che si sveglia e grida. Alla fine, la madre agonizza e muore prima di averla potuta ascoltare.

Nella capanna invece, la notte del temporale, Arsène e Mouchette parlano molto anche se la verità della loro relazione resta nel campo dell’inespresso. Lei trasforma quindi la pioggia in «ciclone» e crede per un istante di vivere un destino eccezionale (stuprata da un assassino nel bel mezzo di un ciclone!) ma tutte le componenti del dramma si rivelano ben presto falsate, menzognere.

Da quel momento non rimane altro che morire per lasciare questo mondo dove nessuno è buono tranne, forse, la giovane cameriera del bar che preferisce il vagabondo al guardacaccia. Ma, fatto nuovo nell’autore, l’ambiente sociale è studiato con attenzione, perché condiziona gli esseri che ci vivono. La cattiveria di Mouchette è, infatti, la conseguenza dell’inferno della sua casa: padre e fratelli ubriaconi, bambino da allattare, madre ammalata, estrema miseria. Così lei vive da solitaria: appena si trova con gli adulti, piovono sberle!

Non ha più contatti con le sue compagne di scuola che la disprezzano e alle quali getta fango; viene umiliata ovunque: perché è stonata, perché porta gli zoccoli o perché è malvestita. Quanto ai ragazzi, si tolgono le braghe davanti a lei per prenderla in giro!

Michel Estève nota nel suo saggio: « Bresson fa sboccare l’onirismo nel soprannaturale solo per quelli che hanno familiarità con il romanzo». Adottando colori naturalisti, il cineasta in effetti blocca praticamente ogni prolungamento spiritualista. La terra si appiccica ai personaggi con il suo fango, l’acqua, la notte pesante e profonda che ricopre tutto.

Bernanos agiva in modo completamente diverso per ottenere lo stesso risultato cupo preoccupandosi di lasciare spazio alle sensazioni e ai pensieri di Mouchette. Secondo Estève, creava «uno sfalsamento costante del realismo spezzando la narrazione con un commento e rimettendo in gioco il racconto con il passaggio frequente dai fatti ai loro sviluppi così come sono percepiti da Mouchette, e come il romanziere li esplicita (per il lettore) ».

Adottando un punto di vista assolutamente esteriore, Bresson elimina praticamente questa dimensione. Sempre di più, infatti, il cineasta proibisce a se stesso di suggerire qualsiasi cosa come se, pur lasciando aperta una via verso un altrove, lui stesso non volesse più mostrare la direzione.

Le cadute finali di Mouchette sono state inventate da Bresson. Il suicidio nello stagno è molto più semplice in Bernanos ma il regista ha colto bene lo spirito di questa specie di ESPERIENZA della morte tentata da qualcuno che non ha veramente pensato che potesse essere irreversibile… e che avrebbe preso in giro chi lo avesse pensato. Bresson riesce a far sentire per tutta la durata del film che l’esistenza di Mouchette è senz’altro un po’ meno insopportabile per lei che deve viverla che per lo spettatore che la osserva e può dunque coglierne meglio tutta l’assurda ingiustizia. È ciò che il regista chiama la «resistenza all’atroce» del personaggio, come se l’interprete si fosse battuta contro la sceneggiatura per potere almeno trovare il suo posto, e che Bresson abbia accettato di conservare le tracce di questa lotta.

Per chiarire il finale, parla allora della «rivelazione che la ragazzina si aspetta dalla morte», contando forse di raggiungere sua madre in maniera giocosa. Interpretare queste nozze con la morte è, per forza di cose, riduttivo. Bresson ha composto immagini al contempo sublimi e irrisorie, portatrici di un’emozione intensa che spinge lo spettatore a un formidabile slancio di simpatia nei confronti di Mouchette.

Questo incontro segna il termine obbligato del suo cammino umano. In qualche ora (o giorni?), ha sperimentato personalmente l’amore (con Arsène) ma non ha fatto altro che assistere alla morte di sua madre. In questo modo non le resta forse altro che andare a vederla più da vicino.

Nel romanzo, Bernanos fa notare che, pensando alla morte, Mouchette provava una stretta al cuore per «l’imminente rivelazione di un segreto, quello stesso segreto che le era stato negato dall’amore». Scossa dall’agonia di sua madre, poi profondamente turbata dalla vecchia vegliatrice di morti e dalla sua attrazione morbosa per i cadaveri ancora caldi («Mi fa schifo, vecchia sudicia bestia»), Mouchette si getta nella morte per incoscienza e per sfida: «Non ricorre alla morte accettata come salvezza, incapace senza dubbio di concepirla: il suo “suicidio” è sublime nella tragicità del suo gioco ambiguo». I suoi capitomboli riflettono allo stesso tempo la nostalgia del gioco preferito dall’infanzia, la volontà di distruggere il vestito ricevuto in regalo e anche il fastidio corporeo conseguente all’amore; è solo nella morte che Mouchette ritroverà, come Ofelia, la purezza dell’acqua.

Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 195–203

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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