Analisi del film Il processo a Giovanna d’Arco di Robert Bresson

Mario Mancini
15 min readMay 30, 2021

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di René Prédal

I film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

La vecchia madre di Giovanna d’Arco legge la richiesta che apre il processo di riabilitazione. Titoli di testa.

Tutto il resto del film alterna interrogatori in tribunale a scene nella cella di Giovanna: nessuna indicazione temporale, ma solo la successione dei capi d’accusa in sequenze brevi (le voci, le sue profezie, le sue false guarigioni, la venerazione per i poveri, la sua verginità, la riconoscenza del re, i suoi vestiti da uomo…).

Parallelamente si tramano i giochi di potere tra uomini di Chiesa (i giudici) e civili (il governatore inglese di Rouen), quindi si moltiplicano le pressioni su di lei: prosecuzione del processo davanti a un tribunale ristretto, interrogatori in cella, sorveglianza costante attraverso un foro nel muro, verifica della sua verginità, obbligo di togliersi i vestiti maschili in cambio dell’autorizzazione a potersi comunicare il giorno di Pasqua, tentativi di avvelenamento, minaccia di torture…

Alla fine, sollecitata da alcuni consiglieri e cedendo alla paura di fronte ai preparativi del rogo, abiura. Ma dopo essere stata vittima, nella sua cella, di un tentativo di stupro da parte di un inglese, si rimette i suoi abiti maschili. Per questo viene condannata a essere bruciata viva. Superato un primo momento di debolezza, muore in un grande slancio di fede.

Il processo di Giovanna d’Arco nasce da una duplice filiazione nell’opera di Bresson: Il diario di un curato di campagna (la santità) e Un condannato a morte è fuggito (la prigionia). Come aveva fatto per quest’ultimo film, Bresson ha voluto girare in ambienti naturali, nel parco e nei sotterranei del castello di Meudon, cioè con pietre vere e volte autentiche il cui aspetto massiccio rende un po’ ridicola la disposizione del tribunale con la piccola tribuna collocata in mezzo a questo vasto spazio vuoto.

Ma la verità del film non è accessoria rispetto alla storia, e Bresson ha lasciato qualche anacronismo (gli scarponi, un letto e gli abiti dei religiosi non sono del 1431) destinato a dare alla storia un respiro più ampio.

L’autore non è stato il primo a scegliere una sconosciuta per interpretare Giovanna: prima di lui c’era stato Otto Preminger (Santa GiovannaSaint Joan, 1957, con Jean Seberg) e soprattutto Carl-Th. Dreyer (La passione di Giovanna d’ArcoLa passion de Jeanne d’Arc, 1928, con Renée Falconetti).

Come quest’ultimo, Bresson prende in considerazione esclusivamente il momento del processo e si sforza soprattutto di descrivere l’avventura della santità, questa forza venuta da lontano per strappare l’umano alla sua condizione. Nella scelta dei suoi modelli, il regista stravolge i cliché legati alla storia: la sua Giovanna non assomiglia per niente a una contadina con le fattezze di ragazzo (non è Marielle Goetcheli), e Cauchon ha il viso asciutto e austero di un intellettuale ascetico (invece dell’immagine gioviale a cui siamo abituati).

Rappresentando questi temperamenti, Bresson oppone — secondo la teoria di Bergson — due concezioni della religione, una aperta e l’altra chiusa: da una parte la regola e dall’altra lo spirito; il dogma di fronte alla fede.

È evidente che un uomo come Cauchon non poteva credere che fosse possibile sentire delle voci, perché non sta in ascolto. È lui invece a parlare, e Dio non sarebbe in grado di farsi sentire da lui. Cauchon rappresenta un sistema che ha dato prova della sua efficienza instaurando l’egemonia della Chiesa.

Giovanna, da parte sua, mantiene intatta una libertà di interpretazione pura e individuale. In questo modo Bresson insiste, per il piacere dell’antitesi, sulle catene che intralciano il cammino della giovane: se i suoi piedi sono incatenati, il suo spirito, contrariamente a quello di Cauchon, è libero. Questo personaggio tocca, ma non commuove con i mezzi usuali della rappresentazione dei sentimenti.

Giovanna non si offre all’olocausto in maniera spettacolare; dice semplicemente quello che prova e che d’altra parte, in una certa misura, la trascende. In questo si mette sullo stesso piano del curato d’Ambricourt che, pure lui, sembrava pronunciare parole non sue. Sono esseri posseduti, invasati, modesti contenitori carnali che hanno dentro di sé una forza straordinaria proveniente dal soprannaturale.

Dopo tante immagini che sono state date della santa, il film di Bresson si propone come una lettura nuova del personaggio, dal momento che le immagini che precedono i titoli di testa mostrano l’anziana madre di Giovanna incamminarsi verso il coro di Notre-Dame per leggere la richiesta che aprirà il processo di riabilitazione.

Cosa si vede subito dopo i titoli di testa, con l’accompagnamento dei rulli di tamburo? Una giovane, con le mani legate da una catena di ferro. Non si scorge il suo volto abbassato e si sente solo la sua voce: «Il mio nome è Giovanna, ho 19 anni».

L’interrogatorio nella sala del tribunale verte sulla sua infanzia. Riportata subito dopo nella sua cella, lei piange. Le domande sulle voci verranno fuori solo nella sequenza successiva. Dunque è l’aspetto umano che fa da epigrafe: la sua esistenza prima che sentisse le voci e il suo pianto testimoniano la fragilità di una creatura come tante altre.

D’altra parte le uniche parole che non sono tratte dall’interrogatorio sono quelle che Giovanna rivolge al vescovo la mattina della sua morte, e cioè che quelle voci l’hanno delusa. Se Bresson ha ritenuto opportuno includere questa scena, scritta a partire da due testimonianze raccolte al processo di riabilitazione venticinque anni dopo, evidentemente è perché voleva insistere sul dubbio che si era insinuato in lei, su un momento di scoraggiamento prima che la condannata ritrovasse la sua fede ancora più viva in mezzo alle fiamme, e che lei potesse dichiarare: «Le voci che ho sentito erano di Dio».

Una volta spento il fuoco, scorgiamo nell’ultima immagine le catene che pendono lungo il palo carbonizzato: con la morte, Giovanna ha spezzato i suoi legami senza troncare con lo spirito dell’infanzia, «inteso nel senso evangelico del termine: purezza, insolenza, specchio dell’intransigenza».

Bresson si attiene rigorosamente al testo delle domande e delle risposte del processo di Rouen, che egli rispetta abbastanza scrupolosamente. Chiaramente gli atti trascrivono molte ripetizioni che il cineasta ha soppresso per drammatizzare la trama, ma ha conservato l’impressione di ripetizione attraverso la ripresa di gesti, luoghi e situazioni.

In questo modo, trasferendo dal suono all’immagine il carattere di ripetizione, il regista può concatenare scene molto corte, riuscendo a ottenere il ritmo sostenuto del dramma e, allo stesso tempo, a sottolineare la monotonia grazie alla ripetitività delle immagini. Anche se ripulito dagli arcaismi, il dialogo conserva un tono molto fermo e la costruzione delle frasi non è del tutto attualizzata.

Giovanna d’Arco non è Gesù: non si esprime attraverso parabole. Le sue dichiarazioni sono nette, vive, chiare, e lei trova subito la parola giusta. Ma non per questo è una intellettuale, perché si limita a parlare di ciò che vede, capisce e prova senza ragionamenti né concettualizzazioni.

È la forza di Dio che si esprime attraverso la sua bocca: non il grezzo buon senso della contadina, ma la forza dell’evidenza del giusto.

Tra le immagini e il testo si sviscera il mistero di Giovanna. La chiave della sua sorprendente personalità sta nell’equilibrio tra la forza (interiore: il testo) e la debolezza (fisica: lei «non è all’altezza» di fronte ai suoi giudici). Qui si fa evidente l’aspetto irrisorio delle pesanti accuse che incombono sulla sua fragilità aggredita: strega (anelli «miracolosi», mandragora…), scismatica (rifiuto di sottomettersi alle decisioni della Chiesa), recidiva (rimette i suoi abiti maschili dopo che l’avevano convinta ad abbandonarli).

Ritroviamo nel Processo di Giovanna d’Arco dei dettagli significativi cari a Bresson: mani (che tengono un vestito: allusione alla tunica di Cristo?), piedi (che inciampano sul selciato di Rouen). L’autore li utilizza come motivi poetico-musicali per punteggiare la schermaglia verbale che costituisce l’essenziale. Le immagini sono in effetti molto sobrie: inquadrature a mezzo busto abbastanza trasparenti messe al servizio esclusivo di questo duello di idee nutrito da una presenza forse più densa di dettagli messi sullo sfondo.

Troviamo qualche primissimo piano solo all’inizio e alla fine (le catene, la croce). Allo stesso modo i movimenti di macchina compaiono alla fine: panoramica che segue le mani del boia mentre lega il corpo con le corde; carrellata indietro che precede la condannata mentre si avvia al rogo. A quel punto Giovanna ha abbandonato le sue paure umane e appartiene ormai al mondo dello spirito.

Non solo la rapidità del ritmo rende conto dell’ineluttabile (tutto si avvia velocemente verso la conclusione) ma, come ha notato Michel Estève «il tempo oggettivo sembra ricalcarsi sulla durata interiore percepita da Giovanna e avvertita come un assillo continuo. Per la prigioniera, il tempo è diventato letteralmente assillante».

Questo cammino verso la morte è scandito dalle parole pronunciate spesso come dei versi. Di fatto, Michel Estève ha riprodotto nel suo saggio alcune risposte strutturate in un ritmo binario o ternario.

Giovanna occupa il centro di un duplice spazio chiuso: prima di tutto quello della cella; poi quello della prigione di Rouen dove è rinchiusa e dove si svolge anche il processo. In questo modo lo spazio carcerario rappresenta un rifugio che le apre le porte della libertà interiore; lei è circondata da oggetti che le inquadrature e la scala dei piani presentano spesso grandi quanto i volti.

A questo faccia a faccia privato con le cose divenute familiari, risponde il confronto pubblico con i religiosi durante gli interrogatori. Perciò il film si sbilancia quando l’integrità della cella viene spezzata: Giovanna si accorge a un certo punto di essere spiata attraverso un foro praticato nel muro (aggressione del fuoricampo visivo), poi sente la folla all’esterno che la insulta (attacco del fuoricampo sonoro) e persino un sasso rotola ai suoi piedi.

Inoltre, i religiosi andranno più volte all’interno della sua cella per proseguire la loro inquisizione e Giovanna sentirà queste incursioni come vere e proprie violenze alla sua intimità: tutto ciò che aveva cercato di tenere lontano da lei ora la penetra e la indebolisce. Inoltre, la sala del tribunale e la prigione si trovano su due livelli differenti: bisogna salire verso il tribunale o scendere nella cella attraverso una scalinata della torre che mette in contatto questi due mondi separati.

Con questa storia antica raccontata cento volte, Bresson riesce ancora a commuovere perché tratta questo processo religioso del passato come fosse un processo politico di oggi, in cui tutti i mezzi sono buoni per ottenere una confessione dell’imputato. Giovanna parla in modo moderno delle persone del suo «partito» e dice a Cauchon, sceso a patti con gli inglesi, che egli è il suo «maggior nemico».

Come in un processo ideologico del XX secolo, è evidente che il tribunale non cerca di punire una colpa; il suo scopo è quello di far abiurare pubblicamente le credenze che il potere stabilito ritiene pericoloso che si propaghino. Da quel momento per la prigioniera non vi è più alcuna garanzia di giustizia: la sorvegliano nella sua cella, cercano di costruire delle false prove (in particolare cercano di farla deflorare perché una parte della sua forza sta nel dichiararsi vergine), praticano la tortura… e Bresson accelera l’andatura dando a questo film molto corto un ritmo trafelato che sembra sintetizzare in pochi giorni delle sedute che si sono invece dilungate per parecchi mesi.

Controllando l’immagine mediatica della giustizia, il vescovo impedisce al cancelliere di trascrivere una risposta che avrebbe potuto essere favorevole all’imputata e, per evitare che la sua esecuzione la trasformi in un mito, deciderà di tagliarle i capelli affinché con questi non si facciano delle reliquie!

Le immagini del processo

Il film inizia con un suono di campane molto forte, ma lo schermo rimane nero.

Dei piedi sporgono da un lungo e pesante vestito scuro. Avanzano rapidamente accompagnati lateralmente dalla macchina da presa. L’inquadratura è interrotta per qualche decimo di secondo dallo schermo nero, poi riprende esattamente dal punto precedente fino a quando la macchina da presa risale verso le mani della persona che cammina e che tiene in mano una pergamena.

Un rapidissimo movimento di macchina passa su un’altra mano appoggiata sul braccio della persona e, con un allargamento di campo, la cinepresa inquadra una sagoma nera ripresa di tre quarti di schiena (con cappa e cappuccio che le coprono la testa), tenuta da entrambe le parti da due mani. Si tratta dell’anziana madre di Giovanna che legge la richiesta per l’apertura del processo di riabilitazione (questo significa forse che Bresson vuole girare un altro film sulla riabilitazione di Giovanna?).

Su questo inconsueto lungo piano fisso (il nero della sagoma di spalle, le due mani, lo sfondo sfuocato che non permette di distinguere niente) si staglia il titolo — Il processo di Giovanna d’Arco — immediatamente seguito dai titoli di testa. Si sentono dapprima i tamburi assordanti, poi alcune note di tromba sulle quali fa di nuovo seguito il rullo dei tamburi.

Nel silenzio, una scritta che si srotola su fondo nero dà alcuni chiarimenti storici sul processo e delle precisazioni sull’origine dei dialoghi. Alla fine, Bresson spiega che nel momento in cui inizia il film, Giovanna si trova già, ormai da mesi, incarcerata a Rouen.

Primissimo piano della Sacra Bibbia sulla quale Giovanna ha appena prestato giuramento. La si sente dire: «Il mio nome è Giovanna, ho 19 anni».

Prima audizione

Lei si trova al centro dell’immagine, inquadrata all’altezza della vita. A destra, un po’ dietro, è seduto un uomo di chiesa vestito di nero, la testa di un altro nettamente più distante, si vede sfuocata. A sinistra, anche loro seduti, due ecclesiastici in bianco; uno dei due è solo abbozzato. In fondo, un prete vestito di nero sta in piedi appoggiato a una colonna.

L’inquadratura di questo piano fisso la ritroveremo esattamente identica durante le prime cinque audizioni che precedono il processo all’interno della cella. Quando più tardi Giovanna sarà riportata nella sala aperta al pubblico, ritroveremo ancora la stessa inquadratura, ma le comparse che la circondano saranno diverse e anche meno numerose.

Le parole che si scambiano a un ritmo serrato, senza — contro ogni verosimiglianza psicologica — la benché minima esitazione da parte di Giovanna o dei suoi giudici, sono assolutamente chiare malgrado la costante presenza del vocio della folla.

La sinfonia dei colori gioca come in La conversa di Belfort: Giovanna è in grigio; i suoi giudici sia in nero (per esempio il vescovo Cauchon) sia in bianco (in particolare quello che all’inizio le fa dei cenni per aiutarla a non cadere nei tranelli dei suoi accusatori più astuti), sia in bianco e nero (come lo «specialista delle voci», pesante, cocciuto, che non lascia trapelare nulla dei suoi sentimenti).

Anche i controcampi del vescovo Cauchon che dirige l’interrogatorio saranno molto simili tra loro in tutto il film, ma con due principali varianti: il vescovo a tutto schermo tagliato alla vita (quando parla); Cauchon circondato da due accoliti, in nero pure loro, il primo alla sua destra e il secondo su un altro scranno piazzato davanti a lui più in basso (quando è quest’ultimo a parlare).A un’osservazione che non le è piaciuta, Giovanna si alza, si gira ed esce.

Quando oltrepassa la porta, viene accolta da grida ostili: «Abbasso la strega!»

Il percorso dalla sala delle udienze alla cella è ripreso attraverso alcune inquadrature dei piedi: i suoi e quelli dei suoi carcerieri lungo i corridoi, mentre oltrepassano delle porte, scendono le scale (anche quando sarà condotta al rogo, nell’ultima sequenza, la cinepresa inquadrerà solo i suoi piedi nudi che incespicano sullo sconnesso selciato della strada. Solo un cane che la segue verrà a lungo mostrato in figura intera con la testa alzata per guardarla mentre sale i gradini del patibolo).

Giunta ai piedi del suo letto, le vengono messe ai piedi lunghe catene, e un soldato le slega le mani.

Quindi, ripresa in un semitotale, piange. È la prima volta che la si vede dalla testa ai piedi. Quella camera-cella rappresenta il luogo della sua integrità fisica; è lì che lei ritrova se stessa ed è dunque lì, pensano i suoi nemici, che conviene spiarla e che bisognerà distruggerla.

Seconda audizione

Quando ricomincia il processo, l’inquadratura che la fa vedere mentre supera la porta della sala è esattamente la stessa di quella che l’aveva ripresa mentre usciva alla fine della prima udienza. Lo scambio di domande e di risposte riprende immediatamente con un ritmo molto sostenuto, come se non ci fosse stata alcuna interruzione.

I movimenti sono rari. Lei è in piedi: «In ginocchio!»

Ogni tanto, un dettaglio in primissimo piano: anche quello delle sue catene.

Le inquadrature sono generalmente brevi tranne quando parla delle voci che ha sentito ancora quella stessa mattina e che le consigliano come comportarsi davanti ai giudici. Ma si tratta sempre dello stesso piano fisso descritto.

Di fronte alla sua sicurezza e alla prontezza delle sue risposte, gli inquisitori si danno invece il cambio, si sostengono, si sostituiscono tra loro e costringono Bresson a cambiare più volte inquadratura per mostrare chi sta parlando.

Giovanna ascolta i suoi giudici, con le palpebre appena abbassate, quindi risponde guardandoli sempre negli occhi, senza arroganza, ma con una ferma determinazione.

Sdraiata nella sua cella piuttosto buia, inquadrata dalla vita, sembra sonnecchiare. Ma d’un tratto sente un rumore, trasale e si alza.

Dall’altra parte del muro, un uomo raccoglie l’elmo che ha lasciato cadere e il cui rumore ha fatto trasalire Giovanna. Si allontana e va quindi a sedersi su un gradino vicino al suo compagno.

È evidente che la prigioniera viene spiata senza sosta come testimonia il primissimo piano di un foro praticato nel muro.

Terza audizione

Questa volta l’inquadratura dell’entrata in sala mostra i prelati che parlano tra loro: sono decisi a condannarla al rogo. Così Bresson ripete i piani (fastidiosa monotonia del processo) ma varia ogni volta i dettagli (infatti, l’istruttoria procede velocemente e ci si ritroverà al verdetto con lo stupore di essere già arrivati alla fine).

Quando Giovanna arriva al suo banco (sempre fuoricampo verso il basso), è inquadrata dalla parte alta del torso al bacino, con la testa fuoricampo in alto e i piedi fuoricampo in basso: le sue mani legate occupano quindi tutta l’immagine. Ma quando si siede, si ritrova nell’inquadratura alla vita.

Durante questa terza audizione si nota per la prima volta un ecclesiastico che la aiuta con qualche cenno quando le vengono rivolte le domande più subdole.

Ancora una volta viene precisato il ruolo del cancelliere (attraverso l’immagine o soltanto con il rumore della sua penna): egli non scrive sempre. Trascrive infatti solo quello che è sfavorevole a Giovanna e si ferma non appena questa mette in difficoltà i suoi giudici. La giovane, un po’ più avanti, lo farà notare al vescovo Cauchon. Qualche volta Giovanna si permette di non rispondere. Elude le domande con un «passiamo oltre». Giovanna è accovacciata nella sua cella. Le tensioni l’hanno abbandonata, sembra fragile e miseranda. Due ecclesiastici si fanno aprire la porta della cella per vederla, ma gli inglesi proibiscono che venga visitata e consigliata.

Quarta audizione

Assillata dallo specialista delle voci, Giovanna moltiplica le non risposte: «Questo non ve lo dirò», oppure «Non saprete tutto»…

Quando esce, questa volta si sente distintamente: «Che venga bruciata».

Primissimo piano della finestra della sua cella. Un vetro vola in frantumi, rotto da una pietra lanciata dall’esterno. I clamori ostili giungono fino a lei.

La pietra rotola ai suoi piedi. La prende in mano e la osserva pensosamente.

La si vede seduta, di tre quarti di schiena, attraverso il foro nel muro dietro il quale inglesi e francesi complottano insieme su cosa fare per rovinarla.

Quinta audizione

Più breve degli altri, questo interrogatorio viene interrotto dal vescovo Cauchon che dichiara di non poter più continuare con tutto quel chiasso che lede l’esercizio della giustizia.

Il processo proseguirà dunque con un comitato ristretto, e il tribunale verrà trasferito nella cella, dove l’interrogatorio si svolgerà a porte chiuse.

Nella cella, Giovanna è seduta sul letto di fronte a tre giudici, fra i quali ovviamente c’è anche Cauchon, il vescovo di Beauvais. Quello che l’aiutava non c’è più. Nell’immagine Giovanna si trova sola, senza nessuno al suo fianco né dietro di lei.

Ma nel muro della cella c’è una specie di cavità semicircolare scavata nella pietra e lei appare già come una statua di santa nella sua nicchia.

Il martellamento ripetitivo di questo esordio, una valanga di inquadrature dai dialoghi densi senza un attimo di respiro nella sala delle udienze (interrotti solo dai momenti più complessi in cui Giovanna si trova nella sua cella), si conclude. I protagonisti del primo luogo hanno invaso il secondo. Tutto si mescola, prende un’altra piega. Si pone fine alla battaglia dialettica dalla quale Giovanna usciva fin troppo bene. D’ora in poi ricorreranno alla malafede, alla menzogna e alla violenza in tutte le sue forme. La Chiesa di Francia, che aveva voluto giocare la sua carta, deve arrendersi alla volontà esclusiva del più forte: il conquistatore inglese. Giovanna è vinta sul piano fisico. Non le rimane altro che compiere il proprio cammino verso la santità, senza per questo essere al riparo dai passi falsi e dalle debolezze.

Di fatto, soprattutto in questa prima parte, sono i dialoghi a colpire: Bresson ha fatto un lavoro incredibile a partire dalle minute del processo, e questo duello verbale raggiunge un’intensità vibrante, paradossalmente sottolineata dalla ieraticità dell’immagine. Ma abbiamo per l’appunto voluto esaminare il sistema di messinscena elaborato dall’autore per mostrare come questo testo (che condensato in questo modo acquisisce un’evidente bellezza letteraria e che potrebbe benissimo invogliare un regista a un adattamento teatrale) ha prima di tutto un’essenza filmica: prodotto dei corpi, dei muri, dei costumi e soprattutto delle inquadrature e del montaggio, il verbo anima uno spazio di natura plastica (e non teatrale o romanzesca), generata da un’estetica dell’imprigionamento fisico, in grado di affidarsi a un altrove psichico che l’immagine suggerisce senza però mostrarlo davvero. L’importanza di questo quadro è tanto più fondamentale in quanto Il processo di Giovanna d’Arco è il primo film per il quale alcuni critici cominciano a parlare di «distacco» a proposito di Bresson. Di fatto, è senz’altro quello in cui l’immagine è per la prima volta messa apertamente al servizio del suono, non attraverso una qualche volontà di trasparenza all’americana, ma, al contrario, con un lavoro sui contorni, sulle superfici e sulle tonalità all’interno dell’inquadratura.

Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 171–186

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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