Analisi del film Così bella, così dolce, di Robert Bresson
di René Prédal
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Una giovane donna si è suicidata. Accanto al corpo sul quale veglia l’anziana domestica, il marito si interroga sulle responsabilità di ognuno rivivendo il loro passato di coppia. Proprietario di un monte di pietà, ha conosciuto questa ragazza povera che veniva a impegnare degli oggetti. Si è innamorato di lei e ha insistito per sposarla.
In breve tempo, alcuni malintesi, il suo temperamento possessivo e geloso, hanno condizionato i loro rapporti. Il silenzio si è instaurato tra loro, malgrado una vita sessuale riuscita e distrazioni culturali abbastanza numerose. I ricordi del marito sono vivi e tiene conto di ogni cosa.
Un giorno, lei ha la tentazione di ucciderlo nel sonno. Cade allora gravemente ammalata. Lui la fa curare e la «perdona». Ma ora lei può solo far la parte della moglie sottomessa e della donna-oggetto. Questo nuovo ruolo viene ricordato con maggiore esitazione, le domande si fanno dolorose e la disapprovazione muta della domestica è ancora più evidente. Arrivata al limite, la donna si getta dalla finestra.
Uno dopo l’altro (1969–1971), Bresson adatta due racconti brevi di Dostoevskij. Rispondendo a Yvonne Baby a proposito della sua passione per il romanziere russo, il cineasta precisa: «Parla dei sentimenti e io credo nei sentimenti». Sebbene — come nel caso di Bernanos — lo stile lussureggiante dello scrittore si trovi agli antipodi di quello ascetico del cineasta, Dostoevskij è uno degli autori prediletti da Bresson, che ammira in particolar modo L’idiota e Delitto e castigo. Troviamo d’altra parte la traccia di questo interesse in alcuni tratti psicologici dell’eroe bressoniano, soprattutto nei rapporti difficili con gli altri, come pure nel suo modo di affrontare la lotta perpetua fra il bene e il male. L’incontro di Bresson col romanziere era dunque prevedibile.
La morte, spesso esito finale del destino e conclusione del film, per la prima volta compare all’inizio. Questo aggancio scenico pesa sull’accoglienza dell’opera perché, ogni volta che la donna appare viva, lo spettatore si ripeterà sempre che dovrà morire e quindi tutto viene visto sotto una luce particolare. Ogni immagine si trova gravata da questa morte annunciata al pubblico mentre proprio l’eroina non lo sa. Il film diventa così una marcia verso il suicidio, dove l’odore della morte si mescola alle immagini erotiche, che per una volta sono estremamente presenti.
D’altronde, se la costruzione generale in flashback è abbastanza tradizionale, Bresson sovrappone la dialettica presente-passato alla dualità morte-vita a partire dagli straripamenti suono-immagine utilizzati come legami tra le scene grazie alla voce fuoricampo o al rumore che deborda frequentemente in un senso o nell’altro.
E il primo film a colori di Bresson, ma il regista li cancella come gli altri elementi formali «in modo da non distrarre l’occhio»0. Elimina i contrasti, le macchie vive e perfino i tratti troppo netti di luce, per tradurre la monotonia smorta di queste vite. Le inquadrature, invece, sono spesso primi piani particolarmente serrati, soffocanti, con i quali Bresson si rituffa a dieci anni di distanza da Pickpocket nell’ambiente urbano, dopo il luogo chiuso carcerario del Processo di Giovanna d’Arco e il dittico rurale di Au hasard Balthazar e Mouchette.
A parte la parentesi medievale di Lancillotto e Ginevra, non lascerà più la città, ma i suoi eroi non si mescoleranno mai del tutto alla folla, distanziandosi dagli altri senza cercare, d’altronde, di sottolineare volontariamente la propria diversità. Che sia per questo che vediamo in Così bella così dolce un certo numero di animali (un cigno, una scimmia al Jardin des Plantes, un libro sugli uccelli) che offre come un’eco ovattata dei due film precedenti?
Poco coinvolto dai fatti di cronaca della storia contemporanea, Bresson non ricorda niente degli eventi del Maggio ’68 seppure vicini all’epoca della lavorazione del film. Ma riprende la tematica degli anni Sessanta radicalizzandola a modo suo. L’incomunicabilità diventa allora silenzio, solitudine e freddezza che sfociano nel suicidio.
D’altronde non c’è solo un’assenza di comunicazione ma anche una presenza di concezioni radicalmente opposte della vita di coppia: lui pensa al lavoro e ad assicurare un’esistenza agiata a sua moglie, in questo modo trasformata in un oggetto di possesso. Ma lei disprezza il denaro e vuole realizzarsi, liberarsi da un dominio puramente negativo.
Scelta da Bresson quando era ancora una modella (immagine patinata per copertine di riviste), Dominique Sanda dopo questo film iniziò una brillante carriera di attrice, e questa affermazione di un’espressione personale, in rottura con le concezioni del cineasta, nutre in qualche modo il suo personaggio che rifiuta una certa immagine del padre. Infatti, sebbene Bresson abbia considerevolmente ringiovanito il marito, che ha cinquant’anni nel racconto ma ne dimostra solo una trentina nel film, l’eroina ha solo sedici o diciotto anni e incarna il fascino per la gioventù provato da un regista che non ha mai invecchiato i suoi personaggi a mano a mano che andava avanti con gli anni.
Eccezione in Bresson, i protagonisti non hanno un nome. Solo la domestica si chiama Anna, ma marito e moglie non dicono i loro nomi e il cineasta non li fa chiamare da nessuna comparsa. Questo anonimato li rende molto vicini (si pronunciano raramente i nomi nei rapporti quotidiani), e allo stesso tempo è emblematico di una giovane coppia dei giorni nostri. Ma la biopsia è in ogni modo fatta a una certa distanza: il mestiere antico del marito (proprietario di un monte di pietà) e il modo di vita arcaico (presenza di una domestica) conferiscono all’ambiente descritto un aspetto abbastanza particolare.
In più, il punto di vista adottato dal film è quello del marito (è lui a ricordare) perché Bresson si interessa più a quello che pensa la gente che a come questa appaia, sebbene non ami nemmeno l’analisi psicologica: insomma c’è sempre questa volontà di distanza da un sistema di analisi che si chiarisce soprattutto attraverso il rifiuto delle convenzioni abituali del racconto.
Tutti gli elementi della società dei consumi di alto livello sono presenti fin dall’inizio. La coppia è giovane, ha denaro, salute, cultura e l’intesa carnale delineata allo stesso tempo dalla voce fuoricampo e da alcune belle inquadrature di nudo, al femminile perché ricordati dal marito. Ma questa intesa sembra appunto puramente sessuale, nemmeno veramente erotica (nessun desiderio, piuttosto una voglia subito appagata, dunque il piacere più che la felicità).
I loro rapporti fisici non portano ad alcuna affezione e Bresson non registra alcun gesto di tenerezza. Fuori dal letto, non c’è niente che dimostri che si amano. La spontaneità ancora adolescenziale della ragazza si è spezzata contro la freddezza dell’uomo. Lui fa le parole crociate, lei ascolta Purcell ripresa in totale, e tra di loro non succede niente: «Oh! Perché, fin dall’inizio, abbiamo adottato il silenzio?» si chiede la voce fuoricampo.
Questo silenzio, Bresson lo impone più volte in modo brutale tagliando di colpo il suono — di un disco o della televisione — per passare subito a un’altra scena senza trasporre il suono, cosa che conferisce dei tratti rudi a questo universo il cui aspetto molto levigato è in ultima analisi ingannevole.
Bresson non si permette alcuna caricatura. Al contrario, ha messo molti dei suoi gusti artistici personali (musica, pittura) in questa coppia. La cultura è in effetti molto presente nella loro esistenza: proiezione di Benjamin al cinema, rappresentazione de L’Amleto a teatro, visite al Louvre, al Museo d’arte moderna e a quello di Storia naturale, quadri, dischi, libri e televisione in casa…
Mai un film di Bresson è stato così aperto ai mass media e alle manifestazioni artistiche del suo tempo. Ma questa presenza non dà alcuna indicazione: né che sia utile, né che non sia utile all’eroina. Come sempre la lotta dei personaggi è interiore. Non è veramente diretta contro gli altri ma si svolge piuttosto contro se stessi.
L’ambiente condiziona i personaggi ma da solo non determina nulla. Certo, i destini di Mouchette e quello di questa Femme douce non sarebbero stati gli stessi in un contesto diverso e in un’altra epoca, ma ogni anima conserva la propria identità — irriducibile — e si scopre che i personaggi bressoniani hanno tutti un’incapacità innata di essere felici.
Il sistema degli oggetti
I titoli di testa si inscrivono sui totali di lunghe carrellate in auto, di notte, in mezzo ai rumori di un traffico molto intenso e al lampeggiare colorato delle insegne luminose.
In contrasto con questa agitazione, il primissimo piano di una porta a vetri impone il silenzio di un interno borghese. Una domestica vestita di nero la apre.
Sul balcone, di giorno, un tavolo da giardino e una sedia a dondolo vengono rovesciati nello stesso momento in cui il rumore della città invade lo schermo.
Una lunga sciarpa bianca svolazza lentamente in aria.
Primo piano di alcune auto che si fermano bruscamente, paraurti contro paraurti, in un forte rumore di frenate.
Il corpo di una donna giovanissima, con la testa insanguinata, giace sul marciapiede, supina, ripresa leggermente dall’alto in modo da tradurre il punto di vista dei passanti i cui piedi si immobilizzano attorno al cadavere.
Primo piano molto serrato che mostra i piedi del letto dove è stata sdraiata la donna morta le cui gambe toccano i montanti di rame rosso vicino a cui è inginocchiata la domestica. Tra il letto e la macchina da presa passano le gambe di un uomo che va avanti e indietro.
Voce fuoricampo maschile: Sembrava avesse 16 anni, Anna, ti ricordi.
È l’inizio della confessione del marito davanti al cadavere di sua moglie che si è appena suicidata. Tutto il film sarà costituito dal racconto dell’uomo che assicura in voce fuoricampo il legame tra le scene, mentre le sue riflessioni e le sue domande sono riproposte come un severo ancoraggio con ritorni costanti nella camera dove egli veglia il corpo della moglie in compagnia della domestica, ascoltatrice muta così come è stata, durante tutta la vicenda, la testimone silenziosa della loro vita di coppia. Eppure il marito si rivolge direttamente a lei: non si tratta di una voce interiore come quella del Diario di un curato di campagna, ma proprio di un punto di vista che egli espone a un’altra persona.
Primissimo piano di un catino di plastica posato su una sedia con dei panni macchiati che sono probabilmente serviti a pulire grossolanamente la fronte macchiata della giovane morta.
Primissimo piano di un oggetto dorato sul palmo di una mano. Questi due primissimi piani successivi di oggetti fondano il sistema estetico del film basato effettivamente sulla materia. Sono le cose che guideranno il racconto, perché esse condizionano le persone. La tendenza era in Bresson già molto presente, in particolare a partire da Un condannato a morte è fuggito; con Così bella così dolce si trasforma in un vero e proprio sistema: la durezza della materia prenderà il sopravvento sulla dolcezza che è presente nel titolo e che la voce fuoricampo del marito sottolineerà due volte. Il mestiere dell’uomo — proprietario di un monte di pietà — favorisce questa insistenza sullo scambio perpetuo tra oggetti e banconote che ritma tutto il film, prefigurando l’ultimo lungometraggio di Bresson. Il denaro e le cose acquisiscono una presenza costante nell’immagine che fa concorrenza a quella degli esseri e la riduce considerevolmente.
La scena così introdotta permette di mostrare da una parte il lavoro dell’uomo nel suo ufficio e, dall’altra, il primo incontro fra i due giovani: «Veniva come gli altri, non l’avevo notata». In effetti, il gioco delle banconote si svolge prima con una donna, poi con una coppia di una certa età. La protagonista porta una macchina fotografica senz’altro di poco valore: «Volevo essere spiritoso: una meraviglia!» Ma quest’improvviso cenno di interesse (o di presa in giro?) la turba. Riprende la macchina fotografica ed esce.
«È a partire da quel momento che l’ho guardata in un modo particolare, che ho pensato a lei in modo particolare», commenta il marito sulle immagini del primo ritorno nella camera con la morta.
Poco tempo dopo, porta un bocchino per sigarette ornato di pietre. Non è di grande valore, ma lui lo paga generosamente: «Lo faccio solo per lei». Lei accetta i soldi e Bresson insiste con un primissimo piano sulla sua carta d’identità mostrata ad Anna che tiene il grande registro dove vengono trascritte a penna le transazioni: gli oggetti hanno preso il sopravvento, il denaro è stato intascato, la preda è catturata. Il suo destino è segnato…
Come testimonia il secondo ritorno al cadavere sul letto: la morte è arrivata.
«Sapevo che sarebbe ritornata.» Fin dall’incontro successivo, si parlano e l’uomo le insegna in privato a redigere correttamente un annuncio su un giornale.
La scena del crocefisso indica, prima ancora del matrimonio, che la coppia è psicologicamente male assortita. Lui la fa salire al primo piano per pesare l’oro («l’oro mi interessa»): maneggia una croce d’oro da cui stacca il corpo di Cristo che non è in metallo per restituirlo alla giovane, ma questa vuole lasciare il tutto. Le dà molte banconote, visibilmente troppe; quindi lei gliene rende alcune. «Non deve disprezzare quello che le viene offerto», le dice. Così inizia un dialogo che sfocia nelle parole che Goethe fa pronunciare a Mefistofele. L’uomo comincia: «Sono una parte di quella forza che vuole sempre il male…» e lei conclude la citazione «…e opera sempre il bene».
Ma mentre ritorna alla veglia funebre, Bresson fa dire al marito che questo scambio dimostrava che lei non si aspettava di trovare in lui un uomo colto. Chiaramente si sentiva ferito e cerca in Anna, sempre muta, la sua approvazione. Se la scena resta volutamente ambigua (le motivazioni di ognuno non sono ancora del tutto chiare), essa colloca comunque il dispositivo etico tipico di Bresson: dialettica del bene e del male, rapporto con il sacro, valore dello scambio confrontato con quello del dono, prezzo da pagare per impossessarsi di un altro essere…
Le loro prime uscite al Jardin des Plantes sono molto convenzionali. Certo, lui le mette il braccio sulle spalle quando sono seduti e la prende sottobraccio mentre camminano, ma parlano dell’amore senza emozione e dei grugniti di bestie sonorizzano le loro battute! Mentre parlano di matrimonio, Bresson li riprende da dietro una rete, e quando lei dichiara che tutto quello che è istituzionalizzato la infastidisce, lui le risponde che migliaia di donne desiderano sposarsi. Lei allora ribatte: «Sì, ma ci sono anche le scimmie» e Bresson mostra l’interno della loro gabbia… dove nell’inquadratura precedente c’era la cinepresa che registrava la loro discussione…
Anche se lei fa fermare la macchina all’angolo della strada per rientrare da sola a casa sua, non volendo essere accompagnata fino al suo appartamento, l’uomo la segue nella «casa sinistra». Lui si fa insistente: «Dica di sì, e qui non ci metterà più piede; dica, dica…».
Inquadratura successiva: l’atto di matrimonio alla presenza di Anna. Bresson insiste sul registro. È la trappola della scrittura: la penna gratta come quando la domestica annota nell’ufficio l’identità di quelli che vengono a impegnare gli oggetti personali o preziosi, allo stesso modo in cui il cancelliere scrive dietro un cenno di Cauchon (Il processo di Giovanna d’Arco).
Il film riprende direttamente col pranzo di nozze: primissimo piano dei bicchieri e dei piatti posati sulla tovaglia bianca come le fedi nuziali alle loro dita. Ma quando la macchina da presa allarga il campo, ci si accorge che stanno mangiando al ristorante da soli.
E da soli rientrano a casa, oltrepassando nell’ombra il portico piuttosto triste.
Si scambiano un gesto di tenerezza e la giovane lo trascina correndo sulle scale.
Sempre leggera e scattante, si riempie la vasca da bagno e accende il televisore che trasmette un servizio particolarmente rumoroso su una qualche corsa automobilistica.
Avvolta in un asciugamano, lei spegne il televisore ma così facendo ne lascia un lembo, l’asciugamano scivola e lei si ritrova nuda, la carne fragile contro l’oggetto liscio.
Salta sul letto, divertendosi a farlo cigolare fortemente. Ridono, ma quando tirano su di loro il lenzuolo bianco, questo sembra un lenzuolo mortuario: «Ho gettato dell’acqua fredda su questo inebriamento».
La vita si organizza con sobrietà e rigore: il lavoro innanzi tutto. Per quanto riguarda gli svaghi, lui le offre il cinema ma non il teatro perché è troppo caro. Quanto ai mobili, non hanno i mezzi per cambiarli. Bisogna risparmiare: «Cercavo una felicità solida». Ma queste contingenze materiali soffocano i loro sentimenti.
«Oh! Perché, fin dall’inizio, abbiamo adottato il silenzio?» . Al Paramount (inquadratura dell’insegna luminosa, loro due seduti rigidi nella sala; scena di un film che stanno guardando), il vicino della giovane mette avanti una mano per toccarle il ginocchio. Il marito se ne accorge e si scambiano i posti senza dire una parola. Ma all’uscita, lo sconosciuto è dietro di loro e quando li sorpassa, si gira due volte per guardarli.
Mentre camminano in mezzo alla folla notturna verso la macchina, lei gli mette tutt’a un tratto le braccia attorno al collo, sempre in silenzio.
La voce fuoricampo osserva: «Ero allora certo del suo amore. Mi amava, o amava, o voleva amare». Ma l’immagine impone il volto della morta con la sua profonda ferita alla tempia.
Allo stesso modo, quando si fa avanti il sospetto e cominciano i controlli del marito («Durante tutto quel periodo non ho smesso di essere geloso e di soffrirne»), è ancora quella testa fracassata a occupare lo schermo.
La giovane ha la passione per i libri e per i dischi: ascolta un giradischi seduta per terra (prima musica leggera moderna, poi musica classica) mentre mangia dei dolci. Il controcampo mostra lui mentre la guarda su uno sfondo di scaffalature che occupa tutta la superficie dello schermo. Ci ricorda Le cose di Georges Perec.
Lei si interessa anche ai libri di scienze naturali e di pittura.
Ma al Louvre, egli nota da parte sua che la vista dei nudi lo porta a considerare «la donna come strumento di piacere»: il corpo ha la meglio.
La scena della passeggiata domenicale è ancora strutturata attorno a due cose: un mazzo di fiori e un cofano d’automobile. Bresson fa vedere l’autostrada piena di traffico; dell’erba sul ciglio di una strada; un piano medio della donna vestita di bianco, un grosso mazzo di margherite bianche tra le braccia (immagine di una sensualità plastica alla Renoir). Ma in controcampo si vede che lei sta guardando una giovane coppia che se ne va su una macchina bianca scoperta: la giovane si stringe amorosamente al suo compagno e dietro di loro c’è un mazzo di fiori simile. Allora lei apre la portiera della loro auto familiare e dice al marito: «Anche noi formiamo una coppia, tutti sullo stesso modello». E getta il mazzo. «Non ti piacciono i fiori?» (Più tardi si parlerà ancora, per due volte, del suo gusto o della sua indifferenza per i fiori).
Ripartono e i loro occhi sono ripresi alternativamente nello specchietto retrovisore. Lo spazio ristretto della macchina costringe l’immagine a mostrare i volti in modo frammentato e i due giovani non si guardano più direttamente. Si osservano attraverso gli strumenti che li circondano e che rinchiudono le loro persone.
Primissimo piano del cofano dell’auto che corre molto vicino al veicolo che li precede. Nel momento in cui lei chiede («Questo modo di guidare non è pericoloso?») e lui la rassicura («No»), il marito è costretto a una violenta frenata e si blocca a qualche centimetro appena dalla macchina che stavano seguendo!
Dopo gli oggetti, il denaro: le prime liti nascono perché lei in negozio paga le cose più di quanto valgano: «Fai la generosa, per te è facile, il denaro è mio». Da quel momento lei si ribella — «Non cercare di dominarmi con il denaro» — e si susseguono le ingiurie da parte del marito («Idiota») come pure da parte della donna («Vigliacco»): «In un attimo il suo viso è cambiato».
D’altra parte lei indosserà praticamente fino alla fine lo stesso piccolo impermeabile verde abbastanza misero e i suoi capelli saranno praticamente sempre in disordine.
Se Bresson sceglie un film commerciale (Benjamin di Michel Deville) come spettacolo cinematografico, è lui stesso a dirigere la messinscena dell’Amleto alla quale assiste la coppia dopo aver ricevuto dei biglietti in omaggio. La scena appare caricaturale: la regina muore bevendo una coppa avvelenata, i due duellanti si uccidono con fioretti bagnati nel veleno, ma Amleto ha ancora il tempo di assassinare il re, il tutto con grandi gesticolamnenti e forti urla. Gli spettatori applaudono, tranne la giovane.
Rientrata a casa, consulta il testo di Shakespeare e osserva che «per poter gridare durante tutta l’opera, hanno soppresso il passaggio» in cui il drammaturgo fa dire ad Amleto che gli attori devono recitare sobriamente in maniera interiorizzata. Che il pubblico di Bresson si ritenga avvisato: il cineasta gli impone per parecchi secondi l’immagine del passaggio dell’opera letto dalla giovane! Gli adattamenti letterari di Jean-Marie Straub e di Danièle Huillet non sono lontani.
L’erotismo è per Bresson l’inquadratura di una saponetta sfuggita di mano che scivola sul pavimento della stanza da bagno, una gamba mezza fuori dalla vasca, il sapone raccolto dal marito e due cosce fuori dall’acqua: « Quella sera, ci siamo dati un grande piacere l’un l’altra. Ma lei non ha cambiato atteggiamento e io non cercavo nient’altro che il possesso del suo corpo». Ancora il regno della fisicità.
Il sistema degli oggetti stringe la sua morsa quando entra l’immagine del revolver che si troverà al centro del dramma. Ma c’è anche l’orologio d’oro che lui tiene in mano quando scopre l’arma nel cassetto: il conto alla rovescia è iniziato e i dettagli più irrisori acquistano un’importanza smisurata. Come il modo che lui ha di soffiare forte su ogni cucchiaiata di minestra prima di portarla alla bocca sotto lo sguardo insistente della moglie: «A cominciare da quel giorno, tutto era pretesto per un litigio. Credo nella fatalità».
La televisione è invadente. Ad esempio con il suo reportage sulla Royal Air Force che il marito guarda la prima volta quando l’aspetta a lungo di notte mentre lei è scomparsa fin dal pomeriggio. Da quel momento lei gli dà del lei mentre lui continua a darle del tu.
Una discussione mattiniera rilevante (lei scopre che è stato direttore di una banca ma che l’ha lasciata: mandato via per disonestà? Dimissionario per non addossarsi un errore che non aveva commesso?) è disturbata dal rasoio elettrico molto rumoroso che copre spesso le loro parole o le interrompe bruscamente (troviamo in Il diavolo probabilmente… una scena simile con il rumore dell’aspirapolvere, poi dell’organo che stanno accordando e che punteggia la riunione in chiesa).
Bresson insiste sulle porte che si chiudono, le rampe delle scale, i rubinetti della vasca da bagno che il marito chiude dietro sua moglie, il registro dei clienti, gli oggetti nella vetrina del magazzino e soprattutto sul revolver che riappare più volte in maniera ossessiva.
Questo processo verbale minuzioso delle tappe di un degrado senza ritorno culmina il giorno in cui il marito geloso la spia davanti all’abitazione di quello che crede, a torto, essere l’amante di sua moglie. Al calar della notte la vede infine all’interno di una macchina. Apre la portiera, chiede a sua moglie di uscire e di seguirlo, e lei ubbidisce senza protestare.
Ai piedi del suo cadavere dopo il suicidio, con le sue spiegazioni fa vedere ancora alla domestica (come dopo la scena della discussione su Goethe) che, sconvolto, ha sicuramente interpretato male l’atteggiamento di sua moglie. Ciò che ha potuto cogliere della discussione in macchina lo ha convinto che lei probabilmente respingeva le proposte dello sconosciuto. Ma invece di esserne commosso e contento, ha concluso che lei non lo amava e si gettava in quelle false avventure per provocarlo e fargli del male.
La pistola è messa bene in vista sopra un tavolino come una provocazione per la giovane e un incitamento a prenderla. Infatti, lei si avvicina e la afferra. Primissimo piano dell’arma che tiene dietro alla schiena. Avanza verso il letto dove il marito fa finta di dormire e mette la pistola a qualche millimetro dalla guancia dell’uomo. Ma esita e alla fine non riesce a premere il grilletto. Abbassa il braccio, rimette l’arma sul tavolo ed esce completamente sconvolta: è stata sconfitta.
Il marito va a comperare una branda e un materasso. Lo sceglie in un magazzino, lo fa portare su per le scale, fa mettere lenzuola e coperte da Anna. L’oggetto sostituisce sia la narrazione della situazione che l’analisi psicologica. La tentazione dell’omicidio non compiuto precipita la crisi, ma Bresson riprende tre primissimi piani del materasso: il discorso passa attraverso l’oggetto che carica di significato la sua materialità presente proprio nel momento in cui lo spettatore si aspetta tutt’altra scena.
E la giovane moglie che d’ora in poi dormirà nella branda.
Voce fuoricampo: La rivoltella era rimasta sul tavolo.
Il marito non si fida ancora di lei, la spia, ma lei viene colta dal delirio durante la notte. Secondo l’espressione usuale, ne fa — letteralmente — una malattia. Da quel momento l’atteggiamento del marito si modifica: cerca di consolarla e poi assume un ’infermiera a domicilio che rimarrà per sei settimane. Riflettendo mentre cammina intorno al cadavere, si dice contento di aver dovuto spendere molto per curarla… Ma evitava il suo sguardo. Il contatto umano non si è dunque veramente ristabilito. È a quel punto che egli esclama, seduto ai piedi della morta: «Dormire, dormire, bisognerebbe pregare ma non faccio altro che pensare», ossessionato dalle sue responsabilità, cercando in tutti i modi di ritrovare le cause della tragica fine della sua storia d’amore.
Più tardi, durante la convalescenza, vanno finalmente a visitare il Museo di storia naturale come lei aveva desiderato molto tempo prima. Davanti agli scheletri allineati, dai mostri del Secondario alle scimmie dei giorni nostri, ritrovano le parole che lei aveva pronunciato allora: « Tutti sullo stesso modello». Questo ritorno alle origini (gli animali primitivi) è anche un richiamo di morte: le ossa occupano tutta l’immagine. Così Bresson ritorna logicamente al volto della morta: «Lei aveva l’aria così dolce».
Al Museo d’arte moderna, lei si interessa alle macchine girevoli del cinetismo che suo marito si rifiuta di vedere come un’evoluzione della pittura. E il cinema? sembra chiedere Bresson.
Generalmente aggressivi (esplosioni sonore del giradischi e della televisione), i suoni possono anche assumere toni strani: quando è da sola, la giovane canticchia arie sconosciute che hanno con la canzone quasi lo stesso rapporto della dizione bressoniana con le declamazioni teatrali della vecchia Comédie Française. Il marito è in ogni modo profondamente turbato quando la sorprende, sia perché canta sia per le caratteristiche delle melodie.
In preda a un violento sconforto, lui esce e si ferma su un ponte ferroviario mentre guarda i treni che corrono sotto di lui. È un po’ l’immagine tradizionale della tentazione del suicidio, ma la voce fuoricampo parla di «entusiasmo indicibile» e aggiunge «nessuno capirà la mia emozione».
Quando ritorna, lei non è più allo stesso posto, ha smesso di cantare e sta ascoltando un disco.
Uscendo per la prima volta dal suo riserbo, lui si accusa allora duramente: ha avuto torto, ha voluto prendere tutto e non dare niente. Ma la stringe a sé e le promette un cambiamento totale: «Voglio credere in te… ti amo… ti desidero…» Scossa, lei scoppia in lacrime sulla poltrona.
Si baciano, poi lui la porta rannicchiata tra le sue braccia fino alla branda.
Lei: Non si tormenti.
Lui: Partiremo domani, subito.
Lei: E io che pensavo che mi lasciasse.
Ma la reazione della giovane è ancora male interpretata da suo marito: «Presi queste parole come un colpo di pugnale», e confessa poco dopo di non aver prestato abbastanza attenzione alla sua paura.
Gli oggetti, ancora una volta, si interporranno tra i due, impedendo loro di ritrovarsi. Così, nel mezzo della loro convenazione, lei continua a leggere a voce alta, appoggiata alla libreria, un libro sul canto degli uccelli! Lui la interrompe per proporle «bisogna lasciare tutto, andare lontano», perché vuole credere all’idea di poter ricominciare da zero in un altro luogo.
Lei: Ma noi, noi non saremo nuovi. Si può cambiare?
Lui: Sì.
Lei: Voglio qualcos’altro.
Ed eccola riprendere la lettura, aggrapparsi al libro come se volesse rifiutare di accogliere quella speranza. Quando scoppia in singhiozzi, nasconde il viso fra le pagine, poi butta il volume sul tappeto dove Bresson lo mostra in primissimo piano. Il marito si china per raccoglierlo.
Gli oggetti sono anche segni del destino. Per due volte, scostando le tende, Anna scopre sul balcone, dietro le finestre, il tavolo e la sedia a dondolo che abbiamo visto e che rivedremo rovesciati nel momento del suicidio: inquadrature in qualche modo premonitrici.
Il mattino della morte, vi è l’insistenza (in primissimo piano) sul tostapane, i toast, il burro e la tazza che lei gli porge. Gli dice che gli resterà fedele e lui la stringe a sé. Ma qualche ora più tardi lui si chiede davanti al cadavere: «Perché sono uscito? E lei, perché? Perché?»
Infatti, mentre lui esce di casa, lei apre un cassetto e contempla il crocefisso (oggetto che lui le aveva comperato a un buon prezzo e che aveva avviato la loro prima conversazione. Dopo di che abbraccia Anna che le chiede se è felice di essersi riconciliata con suo marito: «Sì, Anna, felice».
Tira fuori da un altro cassetto la sciarpa bianca e si siede sul letto.
Primissimo piano sul pomello della porta a vetri del balcone. La socchiude poi la richiude appoggiandovi la schiena, girata verso l’interno della stanza.
Anna la sorveglia da dietro la porta a vetri di comunicazione.
La giovane esita, si guarda allo specchio con un sorriso molto triste.
Inquadrata in primissimo piano a livello della fronte e degli occhi, riapre la porta a vetri del balcone.
Ed è il ritorno dell’inquadratura già vista del tavolo e della sedia a dondolo.
…seguita da quella della sciarpa, più lunga di quella della prima volta.
Lenzuolo funerario, anch’esso bianco.
Il marito solleva la parte superiore del corpo della morta («Apri gli occhi un secondo, solo un secondo»), poi lo adagia di nuovo all’interno della bara.
In primo piano, tre chiodi d’argento vengono avvitati a lungo sul coperchio della bara.
Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 204–223