Analisi del film Au hasard Balthazar di Robert Bresson
di René Prédal
I film di Robert Bresson nella critica del tempo
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Due bambini, Marie la basca e Jacques il parigino, trascorrono le vacanze in un villaggio con un asinello che hanno battezzato Balthazar.
Molti anni dopo, il padre di Marie diventa gestore della proprietà del padre di Jacques mentre Marie protegge Balthazar. Ma, accusato ingiustamente di peculato, il padre di Marie non accetta gli accordi proposti da Jacques che era ritornato per po’ di tempo al villaggio. L’asino viene affidato a Gérard, aiutante del fornaio e capo di una banda di teppisti.
Viene maltrattato dal teppista che seduce Marie. Convocato alla gendarmeria per un caso di omicidio, Gérard conosce Arnold, vagabondo alcolizzato, che diventerà il suo zimbello. Arnold recupera Balthazar ammalato che i suoi padroni volevano abbattere, lo guarisce e lo utilizza per trasportare i turisti. Ma poiché Arnold lo picchia quando è ubriaco, Balthazar scappa e si ritrova in un circo.
Ricevuta una certa somma di denaro, Arnold offre da bere all’osteria del villaggio. Ma si ammazza accidentalmente e Marie, umiliata da Gérard, si rifugia per un po’ in casa di un odioso mercante di grano prima di ritornare dai genitori che, nel frattempo, hanno recuperato Balthazar.
Tornato al villaggio, Jacques vuole sposare Marie. Questa allora cerca di rompere definitivamente con Gérard, ma viene insultata e abbandonata da tutta la banda. Annientata, fugge definitivamente e suo padre muore. Balthazar trasporta delle reliquie in una processione. Gérard ruba l’asino e lo utilizza per il contrabbando. Durante un’imboscata, Balthazar viene colpito da una pallottola vagante e muore in mezzo a un gregge di pecore.
Si è parlato molto della novità di Balthazar rispetto alle opere precedenti di Bresson: è vero che la moltiplicazione degli intrighi, le scene d’azione, l’erotismo e i teppisti sono elementi rari per il cineasta, anche se Balthazar a tratti si lega allo stile drammatico di Perfidia.
Il percorso di Balthazar è meno lineare di quello delle opere precedenti, perché più destini (Marie, suo padre, il giovane teppista, Arnold…) vengono seguiti contemporaneamente, ma una sceneggiatura rigorosa, che prende come punto di riferimento la storia dell’asino, evita la dispersione del film in sketch: il cammino dei vari personaggi incrocia e frantuma in continuazione la linea diritta seguita da Balthazar.
In questo modo, i diversi gruppi si incastrano gli uni negli altri, gravando con tutto il peso della casualità sull’asino sempre identico a se stesso. Lo sguardo così posato sul mondo moderno è impregnato di una grande tristezza che si spinge fino al più nero pessimismo.
Orgoglio, crudeltà, umiliazione, stupidità, violenza e sensualità sono presenti ovunque e fanno soffrire Balthazar, che rappresenta l’insieme delle creature. Con pudore Bresson cancella le asperità del racconto che potrebbero provocare lacrime o strette al cuore, ma solo per far pesare un’angoscia metafisica più autentica di fronte alla scomparsa di quasi tutti i valori cristiani.
Infatti, qui è impossibile cogliere la benché minima trascendenza; i sacrifici non hanno alcun senso, alcuna capacità redentrice; non si scorge nessuna reversibilità dei meriti. Il parallelo con Pickpocket è particolarmente demoralizzante: Michel viene toccato dalla grazia (Pickpocket); Gérard, il teppista, no. Abbandonata da Jacques in Pickpocket, Jeanne trova Michel; qui Marie incontrerà solo la disperazione in un mondo che sembra votato al male.
Secondo Jean-Luc Godard, Au hasard Balthazar è «fatto di cerchi concentrici che si intersecano gli uni con gli altri». Certo, ogni inquadratura continua a veicolare poca informazione e a essere molto spoglia, ma Bresson fa letteralmente lussureggiare il racconto, accumulando personaggi e situazioni in modo tale che il significato di ogni inquadratura si trovi moltiplicato da tale frammentazione.
Questo provoca un fuoco d’artificio, l’emozione è intensa e i rapporti veicolano significati. Tutto viene precipitato, si addensa. Si è assaliti dalla cattiveria, dalla violenza e anche dall’erotismo, ma l’opacità tenebrosa degli esseri rimane, e soprattutto la visione «sacrale» dell’autore, sottolineata dall’andante di Schubert.
Se la discontinuità dello spazio impedisce comunque una visione sintetica dei luoghi, il film respira al ritmo delle stagioni, mentre, come in Mouchette e nel Diario di un curato di campagna, il sole, la neve e la pioggia rivelano il clima. Ma mentre in quest’ultimo film gli esterni tristi e grigi sottolineavano la chiusura del luogo, in Au hasard Balthazar la natura appare più chiara e generosa. Invece del paesaggio dello stato d’animo, questa volta è l’ambiente che fa da contrappunto sottolineando la durezza del genere umano.
Il film mette sostanzialmente in contrapposizione due vittime e due carnefici. Da una parte Marie è ben presto delusa, immiserita e indurita da una esistenza da cui non ci si può aspettare niente. Finisce per murarsi nel proprio rifiuto.
Pure Arnold è patetico, aggrappato all’alcol mentre anche lui a sua volta fa del male, preso in un ingranaggio ben noto: infelici, si diventa cattivi. Gli slanci di queste due creature sono comunque sempre descritti con emozione. Di fronte a loro, Gérard e il mercante di grano rappresentano due volti del male. Il più inquietante è il teppista perché la sua violenza incarna il male morale (assoluto, senza causa).
L’ingiustizia del mercante rappresenta piuttosto il male sociale (che si spiega con l’avarizia). Quelli che coltivano il male raggiungono sempre il loro scopo. Al contrario quelli che aspirano alla felicità falliscono, consciamente (Marie) o meno (Arnold). Tradito dopo aver dato tanto per la propria terra, anche il padre di Marie chiuderà le porte alla speranza.
Bresson non propone naturalmente nessuna soluzione: insistendo, nelle interviste dell’epoca, sul fatto che preferisce ormai dipingere le conseguenze piuttosto che le cause, non suggerisce alcuna spiegazione, dal momento che lo sguardo dell’asino gli offre la possibilità di non dare interpretazioni psicologiche o sviluppi soprannaturali che Immagine dell’animale sarebbe incapace di assumere.
Eppure di fronte a tanta cupezza, quest’asino — appunto nero — risulta di fatto problematico. In primo luogo, il parallelismo aneddotico della sua esistenza con quella di Marie (entrambi abbandonano la casa «paterna» e vi fanno ritorno nello stesso momento) sottolinea soprattutto l’identità di quello che essi provano: gioia, speranza, fallimento, sfortuna, tutti sentimenti causati dalle stesse persone.
Tanto che, quando Marie accarezza l’asino, Bresson riesce a trasmettere veramente una sensazione abbastanza ambigua che confina con l’erotismo. Certamente l’identità non è sistematica e l’asino ha una vita propria. Ma Balthazar e Marie subiscono prove identiche: dopo un’infanzia felice, lei cerca di scappare quando è adolescente (come Balthazar per le strade della città), poi viene dominata cinicamente da un teppista (che martirizza senza motivo l’asino legandogli della carta appiccata col fuoco alla coda) prima di patire la fame (come Balthazar la sete) in casa del vecchio avaro dove è costretta a rubare un vaso di marmellata.
Spogliata dal gruppo di teppisti (responsabili della morte dell’asino utilizzato per il contrabbando), passerà d’ora in poi di mano in mano, cambiando amanti come Balthazar padroni.
Michel Delahaye sottolinea il colpo di genio, all’inizio, del raglio dell’animale che interrompe bruscamente la musica. Si sovrappongono allora «due limiti estremi del linguaggio (e che d’altronde non sono più dei linguaggi): da una parte ciò che supera il linguaggio, la musica, dall’altra una specie di infra-linguaggio», e la sonata riprende esattamente dal punto in cui era stata interrotta.
Da quel momento, Balthazar incontra alcuni gruppi umani che rappresentano i vizi dell’uomo, mai in modo astratto, ma al contrario sempre con una sconvolgente umanità. Ma questi gruppi si incastrano gli uni negli altri e, parallelamente alla vita estremamente simile dell’animale, il personaggio della ragazza che si perde dà al film il movimento drammatico necessario. I diversi personaggi fanno incrociare incessantemente il destino dell’asino e della ragazza.
Solo Arnold è un caso a parte: di volta in volta buono e cattivo (a secondo che sia ubriaco o no), il suo ruolo è forse quello di un Giuda (vende l’asino, ricava una somma favolosa, ma ne muore). Vittima dei teppisti come Marie e Balthazar, la sua morte prefigura quella dell’asino e la rovina della ragazza, «ma per me rappresenta nello stesso tempo la grandezza, cioè la libertà nei confronti degli uomini».
Attraverso questo intreccio di linee parallele e di perpendicolari, Bresson tiene in piedi l’architettura rigorosa della propria opera.
L’asino attraversa nella sua vita le stesse tappe di un uomo: «L’infanzia: le carezze; l’età matura: il lavoro; il talento e il genio a metà della sua vita; e il periodo mistico che precede la morte». Non è dunque per niente messo in posizione di giudice o dipinto come un ammonimento, ma porta effettivamente sulla schiena il peso di una esistenza reale particolarmente densa.
Insomma, sebbene la vita animale sia breve — una decina d’anni –, essa prende su di sé il sedimento di quelle degli umani che gravitano attorno a lui, offrendo l’immagine condensata di quei destini e di quei caratteri che non cambieranno affatto dopo la morte di Balthazar.
Di volta in volta accarezzato o picchiato da Arnold, l’animale raggiunge il culmine dell’incomprensione (ricevere la bontà o la cattiveria da parte dello stesso uomo), ma è per farci prendere coscienza che nemmeno noi capiamo il mondo in cui viviamo.
La situazione ricorda d’altra parte le variazioni umorali di Il signor Puntila e il suo servo Matti di Bertolt Brecht, dal momento che l’uso della tecnica dello straniamento del drammaturgo tedesco non è sempre così lontano, quanto si potrebbe pensare, dall’arte bressoniana del racconto.
Da qui la faccia inespressiva dell’animale, che rappresenta un po’ l’ideale di quello che Bresson cerca nei visi umani: un elemento neutro che acquisterà vita e senso solo in fase di montaggio. Eppure in molte scene l’asino reagisce: quando riconosce Arnold al circo, o quando raglia perché Marie e Gérard sono nel fienile.
Ma è difficile interpretare con precisione le sue reazioni, tanto che queste scene presentano un significato aperto come piace a Bresson. Insomma, questo «punto di vista dell’asino» rappresenta esattamente l’atteggiamento che l’autore vuole farci assumere nei confronti del racconto, quello di Au hasard Balthazar ma anche di tutti gli altri suoi film.
Alla fine, la morte dell’animale raggiunge un’emozione intensa: la sua assenza di rivolta, il ritorno alla natura e al regno animale in una specie di quiete — dovremmo dire di perdono? — può tradurre, se vogliamo vedere Balthazar come una figura umana piuttosto che animale, una certa saggezza innocente, quindi mostrare la via di una redenzione possibile.
È l’ipotesi formulata da José Pena nella sua scheda su “Télé-Ciné”, partendo dall’imposizione del sale nella sua infanzia («Ricevi il sale della saggezza») e descrivendo in seguito una vera e propria passione perché soffre e muore carico dei peccati di un’umanità alla quale è altrettanto estraneo — in quanto animale — di quanto era Gesù — in quanto figlio di Dio.
Conosce anche la sua Domenica delle Palme (festeggiato quando porta le reliquie) poco prima del suo calvario (diventato strumento per il contrabbando, viene picchiato). L’idea è affascinante sebbene questo itinerario cristologico di un asino non manchi di una certa faccia tosta… ma Bresson è un cristiano decisamente iconoclasta!
«Au hasard Balthazar» è il motto dei conti di Baux-de-Provence che si proclamavano discendenti del Re Magio Baldassarre. Bresson dichiara di aver avuto voglia di utilizzare un asino come creatura principale di un film perché durante la sua infanzia ne aveva visti parecchi, non soltanto dal vivo ma anche sui capitelli delle chiese romaniche.
Infatti l’asino è un animale molto presente nella religione cristiana, spesso rappresentato nelle Natività e nelle Domeniche delle Palme; inoltre il Medio Evo conosce il miracolo dell’asina di Balaam (l’indovino chiamato dal re di Moab a scacciare gli ebrei) e dell’asino sul quale si metteva alla rovescia l’effigie del vescovo di Parigi durante la festa dei folli a Notre-Dame.
La scelta di Bresson, seppur sorprendente, non è allora del tutto incongrua, e Balthazar prende il suo posto nella galleria degli asini che già appaiono nella letteratura e nelle arti plastiche. D’altra parte, vi è nel film un vero e proprio bestiario: cani, pecore, cavalli, galline e animali da circo in una bella sequenza in cui, dopo aver servito gli uomini, Balthazar si ritrova a trasportare il cibo per le bestie.
Vi saranno altri animali anche in Mouchette, questa volta associati all’idea della caccia. Il processo di Giovanna d’Arco, Au hasard Balthazar e Mouchette rappresentano d’altra parte un trittico dove si ritrova «lo spirito dell’infanzia»: perduto — ma evocato — nel Processo di Giovanna d’Arco, qui si incarna con felicità tanto più che Bresson ci fa sapere nelle interviste che in Balthazar evoca precisamente la propria infanzia e in modo particolare le vacanze nel Sud della Francia.
Uscito nel 1966, Au hasard Balthazar è dunque girato nel cuore del miracolo economico europeo degli anni Sessanta (Francia, Germania), mentre le nuove cinematografie di quei Paesi contestano giustamente quella pretesa felicità tecnologica. Negli anni felici del «gaullismo», mentre il conflitto algerino si risolve e non si profila ancora la destabilizzazione del Sessantotto, Bresson — a fianco della Nouvelle Vague — esplora il mal di vivere della gioventù, una malattia dell’anima che i rimedi socio-politico-economici non sono in grado di guarire.
In breve, il mondo preso in considerazione ignora Dio, ma non per questo è il mondo del vitello d’oro perché la miseria morale degli uomini sta crescendo. La morte ingiusta colpisce ovunque e sempre: fin dall’inizio, nel giardino dell’Eden della felicità infantile, la piccola inferma, sorella innocente di Jacques, è condannata. Muore nell’ellissi temporale situata fra questa prima sequenza e la disperazione di quelle che seguiranno parecchi anni dopo.
Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 186–194