Agosto 1957, a Hiroshima

di Marguerite Duras

Mario Mancini
11 min readFeb 14, 2024

Marguerite Duras ha scritto la sceneggiatura di Hiroshima mon amour di Alain Resnay

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Siamo nell’estate del 1957, in agosto, a Hiroshima.

Una francese di una trentina d’anni si trova in questa città. È venuta qui per recitare in un film sulla Pace.

La vicenda comincia il giorno prima del ritorno in Francia di questa francese. Il film nel quale lavora è, praticamente, finito. Rimane solo una sequenza da girare.

E proprio alla vigilia del suo ritorno in Francia, questa donna, senza nome nel film — questa donna anonima — incontrerà un giapponese (ingegnere o architetto) e insieme vivranno una brevissima storia d’amore.

Le circostanze in cui si sono incontrati non verranno chiarite nel film. Non è questo l’essenziale. Ci si incontra ovunque nel mondo. Ciò che conta è quello che segue a questi incontri di ogni giorno.

È una coppia casuale; non la si vede all’inizio del film. Né lei, né lui. Si vedono, in vece loro, dei corpi mutilati — all’altezza della testa e dei fianchi — che si muovono, in preda forse all’amore, forse all’agonia, ricoperti successivamente dalle ceneri, dalle rugiade della morte atomica, e dal sudore per aver fatto all’amore.

Solo a poco a poco da questi corpi informi, anonimi, verranno fuori i loro corpi.

Sono in una camera d’albergo. A letto, nudi. Corpi lisci. Intatti.

Di che parlano? Proprio di Hiroshima.

Lei gli sta dicendo che ha visto tutto a Hiroshima. E intanto si vede quello che lei ha visto. È orribile. Nel contempo la voce di lui nega, tacciando queste immagini di menzognere, e ripete, impersonale, insopportabile, che lei non ha visto niente a Hiroshima.

Il loro primo dialogo sarà dunque allegorico. Sarà insomma una specie di dialogo d’opera. Impossibile parlare di Hiroshima. L’unica cosa che si può fare è parlare dell’impossibilità di parlare di Hiroshima. Avere la conoscenza di Hiroshima è, a priori, una tipica illusione dello spirito.

Quest’inizio, questa sfilata ufficiale degli orrori già celebrati di Hiroshima e adesso evocati in un letto d’albergo, quest’evocazione sacrilega, tutto ciò è voluto. Si può parlare ovunque di Hiroshima, anche in una camera d’albergo, durante amori casuali, amori adulteri. I corpi dei due protagonisti, veramente innamorati, ce lo ricorderanno. Ciò che veramente è sacrilegio, se sacrilegio c’è, è Hiroshima stessa. Inutile essere ipocriti e spostare il problema.

Per quanto poco gli abbiano mostrato del Monumento Hiroshima, miserabili resti di un Monumento di Vuoto, lo spettatore dovrebbe, dopo questa evocazione, trovarsi sgombro da molti pregiudizi e pronto ad accettare quanto gli verrà detto dei due protagonisti.

Eccoli infatti, tornati alla loro storia.

Storia banale, storia che capita ogni giorno, migliaia di volte. Il giapponese è sposato, ha dei figli. Anche la francese è sposata, ha due figli. Stanno vivendo un’avventura di una notte.

Ma dove? A Hiroshima.

Questo amplesso, così banale, così quotidiano, ha luogo nella città del mondo in cui è più difficile immaginarlo: a Hiroshima. Niente che sia ‘dato’ a Hiroshima. Un alone particolare circonda ogni gesto, ogni parola, con un significato che si aggiunge al significato letterale. Ed è qui uno degli scopi principali del film, smetterla con la descrizione dell’orrore con l’orrore (questo l’hanno già fatto i giapponesi), ma far rinascere invece quest’orrore dalle proprie ceneri, inserendolo in un amore che sarà necessariamente singolare e stupefacente’. E al quale si crederà molto di più che se si fosse verificato in qualsiasi altro posto del mondo, in un posto che la morte non ha conservato.

Fra due esseri, geograficamente, filosoficamente, storicamente, economicamente, razzialmente, ecc., lontani quanto più è possibile, Hiroshima sarà il terreno comune (forse l’unico al mondo) sul quale i dati universali dell’erotismo, dell’amore e della sciagura appariranno sotto una luce implacabile. Ovunque, fuorché a Hiroshima, l’artificio è ammesso. A Hiroshima non può esistere senza che venga, di nuovo, negato.

Addormentandosi, parleranno ancora di Hiroshima. In un altro modo. Nel desiderio, e forse, a loro insaputa, nell’amore nascente.

E ciò di cui parleranno riguarderà nel contempo loro stessi e Hiroshima. I loro discorsi saranno mescolati, mischiati in modo tale, da ora in poi, dopo l’opera di Hiroshima, che non si potranno distinguere più gli uni dagli altri.

La loro storia personale, per breve che sia, avrà sempre il sopravvento su Hiroshima.

Se questa condizione non fosse raggiunta, questo film sarebbe, ancora una volta, soltanto un film in più di circostanza, senza alcun interesse salvo quello di un documentario romanzato. Se invece questa condizione è rispettata, riusciremo ad avere una specie di finto documentario molto più probante riguardo la lezione di Hiroshima di quanto possa esserlo un documentario di circostanza.

Essi si sveglieranno. E mentre lei si veste parleranno ancora. Di una cosa e dell’altra e anche di Hiroshima. Perché no? È naturale. Siamo a Hiroshima.

All’improvviso lei appare vestita da infermiera della Croce Rossa.

In questo vestito, che in fondo è la divisa della virtù ufficiale, lui la desidera di nuovo. Lui vuole rivederla. Lui è come tutti, come tutti gli altri uomini, esattamente, e c’è nel travestimento di lei un fattore erotico comune a tutti gli uomini. (L’eterna infermiera di una guerra eterna…)

Perché, dato che anche lei lo desidera, non vuole più rivederlo? I motivi che adduce non sono chiari.

Al risveglio parleranno anche del passato di lei.

Che cosa è successo a Nevers, città natale di lei, in quella Nièvre in cui lei è cresciuta? Che cosa è successo nella sua vita perché lei sia così, così libera e nel contempo perseguitata, così onesta e disonesta insieme, così equivoca e così chiara? Così desiderosa di avventure? Così vile davanti all’amore?

Un giorno, è lei che racconta, un giorno a Nevers è stata pazza. Pazza di cattiveria. E questo lo dice come direbbe che, a Nevers, una volta, ha raggiunto un’intelligenza decisiva. Nello stesso modo.

Non dice se questo ‘incidente’ di Nevers possa spiegare il suo comportamento attuale a Hiroshima. Lei racconta l’incidente di Nevers come racconterebbe qualsiasi altra cosa. Senza dirne il motivo.

Poi se ne va. Ha deciso di non vederlo più.

Ma si rivedranno.

Le quattro del pomeriggio. Piazza della Pace a Hiroshima (o davanti 17 all’ospedale).

Dei cameramen si allontanano (nel film non li vediamo altrimenti che mentre si allontanano con il loro materiale). Si vanno smontando le tribune. Si staccano i festoni di bandierine.

La francese dorme all’ombra (forse) di una di queste tribune.

È stato girato un film edificante sulla Pace. Un film per nulla ridicolo, ma un film di più, nient’altro.

Un giapponese attraversa la folla che, ancora una volta, passa lì dove c’è lo scenario del film ormai quasi terminato. Quest’uomo è lo stesso che la mattina abbiamo visto nella camera della francese. Quando infine la scorge, si ferma, le si avvicina, la guarda dormire. Il suo sguardo la sveglia. Si guardano. Si desiderano molto. Lui non è lì per caso. È venuto per vederla ancora.

Una sfilata avrà luogo subito dopo il loro incontro. E l’ultima sequenza del film che si sta girando. Sfilate di bambini, sfilate di studenti. Cani. Gatti. Curiosi. Tutta Hiroshima è lì come sempre quando si tratta di servire la Pace nel mondo. Sfilata già barocca.

C’è molto caldo. Il cielo è minaccioso. Loro aspettano che passi la sfilata; in questo mentre, lui le dirà che crede di amarla.

La porterà a casa sua. Parleranno brevemente delle loro vite.

Sono due persone felici nel matrimonio, quindi né l’uno né l’altro cercano di compensare un’infelicità coniugale.

A casa di lui, e durante l’amore, lei comincerà a parlargli di Nevers.

E fuggirà di nuovo; si recheranno in un caffè, in riva al fiume, per ‘uccidere il tempo che manca alla partenza’. È già notte.

Nel caffè rimarranno ancora qualche ora. Il loro amore aumenterà inversamente al tempo che rimane alla partenza dell’aereo l’indomani mattina.

E in questo caffè lei gli dirà perché è stata pazza a Nevers.

Le hanno rasato la testa a Nevers, nel 1944, quando aveva vent’anni. Il suo primo amore era un tedesco. Ucciso alla Liberazione.

Lei è rimasta in una cantina, la testa rasata, a Nevers. E solo allorché fu di Hiroshima, lei era ormai abbastanza decente da poter uscire da questa cantina e mescolarsi alla folla allegra delle strade.

Perché la scelta di questa disgrazia individuale? Forse perché anche questa è, in se stessa, un assoluto. Radere la testa a una ragazza perché ha amato d’amore un nemico ufficiale del suo paese, è un assoluto di orrore e di stupidità. Si vedrà ancora Nevers come già prima nella camera d’albergo. E riparleranno ancora di sé. Nuova intersecazione di Nevers e dell’amore, di Hiroshima e dell’amore. Tutto si mescolerà senza ordine prestabilito, esattamente come avviene ogni giorno, ovunque, dove ci sono coppie loquaci all’inizio di un amore.

Poi nuovamente lei se ne andrà. Fuggirà ancora una volta lontano da lui. Cercherà di tornare in albergo, di calmarsi, non ne sarà capace, uscirà dall’albergo e tornerà verso il caffè che intanto ha chiuso. E rimarrà li. Si ricorderà di Nevers (monologo interiore), quindi dell’amore stesso.

L’uomo l’ha seguita. Lei se ne accorge. Lo guarda. Si guardano, con l’amore più grande. Amore inutilizzato, sgozzato come quello di Nevers. Quindi già relegato nell’oblio. Quindi perpetuo. (Protetto dall’oblio stesso).

Lei non lo raggiungerà.

Andrà in giro per la città. E lui la seguirà come se seguisse una sconosciuta. A un certo punto, l’accosterà e, come se parlasse a se stesso, le chiederà di rimanere a Hiroshima. Lei dirà di no. Rifiuto di tutti. Viltà comune.

Per essi il dado è tratto ormai, veramente[1].

Lui non insisterà.

Lei girerà per la stazione. Lui la raggiungerà. Si guarderanno come se fossero delle ombre.

Da questo momento non hanno più una parola da dirsi. L’imminenza della partenza li inchioda in un silenzio funebre.

Si tratta proprio di amore. Non possono far altro che tacere. Una scena estrema avrà luogo in un caffè. Lei è in compagnia di un altro giapponese.

E a un altro tavolo ritroveremo colui che lei ama, immobile, senza reazione in lui oltre quella di una disperazione liberamente accettata ma che lo supera fisicamente. È già come se lei appartenesse ad altri’. E lui non può che capire.

All’alba, lei tornerà in albergo, in camera sua. Lui busserà alla porta qualche minuto dopo. Non ha potuto fare diversamente. “Impossibile non venire”, dirà per scusarsi.

E nella camera non succederà niente. Saranno entrambi ridotti a un’impotenza reciproca terrificante. La camera, cioè l’ordine del mondo, resterà, e loro non lo disturberanno mai più. Nessuna confessione. Nemmeno un gesto.

Si chiameranno soltanto. Come? Nevers, Hiroshima. Infatti ai loro oc-

chi non sono nessuno, sia l’uno che l’altra. Non hanno che nomi di luoghi, 19 nomi che non sono nomi. E come se il disastro di una donna a cui hanno rasato la testa a Nevers e il disastro di Hiroshima corrispondessero esattamente.

Lei gli dirà: “Hiroshima, è il tuo nome”.

Ritratto del giapponese

È un uomo di una quarantina d’anni. È alto. Il suo volto è abbastanza ‘occidentalizzato’.

La scelta di un attore giapponese dal tipo occidentale deve essere interpretata nella maniera seguente:

Un attore giapponese dal tipo giapponese molto accentuato rischierebbe di far credere che la francese è attratta da lui soprattutto perché è giapponese. Si ricadrebbe quindi, che lo si voglia o no, nel tranello dell’esotismo e nel razzismo involontario insito necessariamente in ogni esotismo.

Lo spettatore non dovrà dirsi: “Quanto sono attraenti questi giapponesi!”, ma piuttosto: “Quanto è attraente quest’uomo”.

Ragion per cui è meglio attenuare la differenza di tipo fra i due protagonisti. Se lo spettatore non dimenticasse mai che si tratta di un giapponese e di una francese, la portata profonda del film svanirebbe. Se lo spettatore riesce a dimenticarlo, questa portata profonda è raggiunta.

Un signor Butterfly non sarebbe per nulla attuale. Lo stesso vale per la Demoiselle de Paris. Bisogna puntare sulla funzione ugualitaria del mondo moderno. E anche barare per dimostrarlo. Altrimenti a che cosa servirebbe un film franco-giapponese? Bisogna che questo film franco-giapponese non risulti mai franco-giapponese, ma anti-franco-giapponese. Sarà questa la vittoria.

Di profilo, lui potrebbe quasi essere un francese. Fronte alta. Bocca larga. Labbra pronunciate ma dure.Nessuna leziosità nel volto. Comunque lo si guardi, non si potrà rilevare imprecisione (indecisione) nei lineamenti.

Insomma, appartiene a un tipo ‘internazionale’. Bisognerebbe che il suo fascino fosse immediatamente riconosciuto da tutti come quello di un uomo giunto alla maturità senza stanchezza prematura, senza sotterfugi.

È ingegnere. Si occupa di politica. Non per caso. La tecnica è internazionale. E anche il gioco delle coordinate politiche. È un uomo moderno, molto accorto riguardo all’essenziale. Non si sentirebbe veramente spaesato in nessuna parte del mondo.

Egli coincide con la sua età, sia fisicamente che moralmente.

Non ha ‘barato’ con la vita. Non ha avuto bisogno di farlo: è un uomo che della sua esistenza si è sempre interessato, e sempre interessato abbastanza da non ‘trascinarsi’ dietro i malesseri dell’adolescenza che così spesso fanno sembrare gli uomini di quarant’anni dei finti giovanotti ancora in cerca di ciò che potrebbero inventare, per sembrare sicuri di se stessi. Lui, se non è sicuro di se stesso, ha le sue buone ragioni.

Non è quel che si dice ricercato, ma non è nemmeno trascurato. Non è un dongiovanni. Ha una moglie che ama, due bambini. Malgrado ciò, gli piacciono le donne. Ma nella vita non ha fatto il cacciatore di donne. Crede che questo genere di vita rappresenti qualcosa come una ‘compensazione’, disprezzabile e, per giunta, sospetta. Crede che colui che non ha mai conosciuto l’amore di una sola donna non è mai giunto veramente all’amore e alla virilità.

Ed è per questo che sta vivendo con questa francese una storia vera, anche se casuale. E solo perché non crede agli amori casuali vive con questa francese un amore casuale con tanta sincerità e tanta violenza.

Ritratto della francese

Ha trentadue anni. È più attraente che bella. Si potrebbe chiamare anche lei in un certo senso ‘the look’. In lei, tutto, dalla parola alle movenze, passa dallo sguardo.

Questo sguardo è dimentico di sé. Questa donna guarda per conto suo. Il suo sguardo non conferma il suo atteggiamento, l’oltrepassa sempre.

Nell’amore tutte le donne, senza dubbio, hanno begli occhi. Ma questa donna, un po’ più delle altre, è buttata dall’amore nel disordine dell’anima

(la scelta del termine è volutamente stendhaliana). Perché lei più delle altre 21 è ‘innamorata dell’amore’.

Lei sa che non si muore d’amore. Durante la sua vita, ha avuto una splendida occasione per morire d’amore. Lei non è morta a Nevers. Da allora, e fino a oggi, a Hiroshima, dove incontra questo giapponese, trascina in sé, con sé, la malinconia di una donna la cui unica possibilità di decidere del suo destino è sempre rinviata.

Non è il fatto che l’abbiano rasata e disonorata che segna la sua vita, bensì il fallimento in questione: lei non è morta di amore il 2 agosto 1944 su quel lungofiume.

E questo non contraddice il suo comportamento a Hiroshima con il giapponese. Questo anzi è direttamente in relazione con il suo comportamento nei confronti del giapponese, è questa possibilità che, mentre la perdeva, l’ha definita.

Il racconto che fa di questa possibilità perduta la trasporta letteralmente al di fuori di sé e la spinge verso un nuovo uomo.

Abbandonarsi anima e corpo, significa questo.

L’equivalente non solo di un possesso amoroso, ma di un matrimonio.

Lei dà a questo giapponese — a Hiroshima — ciò che ha di più caro al mondo, l’espressione attuale di se stessa, l’essere sopravvissuta alla morte del suo amore, a Nevers.

Il primo dei testi che precedono appare (sotto il titolo Sinossi) in apertura della sceneggiatura del film, pubblicata da Gallimard nel 1959. I due ‘ritratti’ chiudono la stessa edizione. La traduzione, di Pierre Deneville-Serra, è quella che compare nel volume Marguerite Duras, Hiroshima mon amour, Einaudi, Torino 1965.

Nota

[1] Alcuni spettatori del film hanno pensato che lei ‘avrebbe finito’ con il restare a Hiroshima. Può darsi. Non so che dire a questo proposito. Avendola portata al limite estremo del suo rifiuto di restare a Hiroshima, non ci siamo preoccupati di sapere se — una volta finito il film — lei sarebbe giunta a trasgredire al suo rifiuto.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.