Aftersun

Altro che doposole!

Mario Mancini
8 min readFeb 26, 2023

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Contiene spoiler necessari.
Aftersun è candidato all’Oscar nella categoria Miglior attore con Paul Mescal (Calum, il padre).

Il film su Mubi, Apple TV e Prime Video, è in inglese/scozzese difficilmente comprensibile per chi non abbia un’esperienza approfondita con l’inglese e le sue inflessioni. Ci sono i sottotitoli italiani. I dialoghi sono semplici e anche diradati, ma non è facile seguire. Nei cinema italiani, se arriverà, probabilmente arriverà doppiato. Gioverebbe. Le canzoni sono importanti.

Il film è criptico non solo nella lingua ma anche nello svolgimento. Se volete esercitarvi con il “metodo Hercule Poirot” non leggete niente, se invece volete capirci qualcosa una qualche lettura giova, almeno per calaris nella situazione fondamentale.

Forse le righe che seguono dicono anche troppo. Sono senz’altro destinate a coloro che amano conoscere un film prima di guardarlo.

Un ricordo

Il film è il ricordo di Sophie, ormai trentacinquenne, di una vacanza con il padre, Calum, in Turchia. La vacanza è avvenuta alla fine degli anni novanta quando lei aveva 11 anni e il padre 31. Questa situazione di ricordo non è mai dichiarata allo spettatore.

Nel film ci sono pochi indizi che potrebbero metterci su questa strada: le riprese in VHS, i televisori a tubo catodico, l’assenza di cellulari, ma soprattutto la scena, che appare improvvisamente, nella quale una Sophie adulta si alza dal letto dove giace con la compagna per accudire la figlia che piange. Questa scena non è un flash-forward ma è il presente narrativo.

Si può intuire che la vacanza in Turchia, avvenuta 25 anni prima, sia stata l’ultima volta che ha visto il padre. Ma questo lo si capisce solo con l’ultimo fotogramma.

Sono tutte deduzione perché la 35enne regista scozzese esordiente, Charlotte Wells, è avarissima su tutto con lo spettatore. Probabilmente racconta la sua storia personale e anche il filmato VHS potrebbe essere un documento di quella sua personale storia. Difficile costruire qualcosa di simile senza averlo vissuto.

Sophie e il padre sono di Edimburgo. Il padre, Calum, ha lasciato la città scozzese per aprire un’attività a Londra, ma tutto è molto vago; sta di fatto che è al verde. Lo si intuisce dall’albergo dove alloggiano.

Si sa che non è sposato e che vive separato dalla compagna, la madre di Sophie. Però i vari segni di affetto verso la madre che Calum manifesta a Sophie mostrano che è rimasto un sentimento forse non ricambiato. In ogni caso sembra esserci stato un evento traumatico.

I due giovani hanno avuto Sophie appena ventenni.

I tre indizi centrali

Ci sono tre indizi fondamentali per raccapezzarsi nel film e capire quello che succede dietro le ordinarie vicende di una vacanza balneare in un resort a Oludeniz, nel sud ovest della Turchia, di fronte all’isola di Rodi.

Le scene dove non c’è Sophie non sono un suo ricordo diretto, ma un inserto narrativo che arriva alla donna probabilmente attraverso un racconto. I tre momenti sono: 1) la scena dell’acquisto del tappeto, 2) quella della disperazione e 3) la scena della spiaggia notturna.

1) La scena dell’acquisto del tappeto persiano. Lui, Calum, si è addormentato seduto su una pila di tappeti. Arriva il commerciante con la ricevuta dell’acquisto (il tappeto costa 800 sterline, proibitive per le finanze del giovane). Lui si alza, prende la ricevuta e quindi, quasi ritualmente, si stende sul tappeto. Il negoziante gli ha detto che è molto antico e che ogni forma è un simbolo. Già Calum pratica il Tai-Chi e pertanto sembra trovarsi protetto da quell’oggetto un po’ mistico che poi ritroveremo nella camera da letto della figlia adulta.

2) La scena della disperazione. Lui, Calum, viene ripreso di spalle seduto sul letto a dorso nudo (un fisico statuario che ha fatto del dublinese Paul Mescal un sex symbol anche dopo la serie Hulu Normal People – su Infinity — che ha interpretato in precedenza). Bene, Calum singhiozza rumorosamente. Che è successo che non sappiamo ancora? Probabilmente nulla.

3) La scena notturna nella spiaggia. Improvvisamente appare questa scena dove lui vestito con abiti differenti si dirige alla spiaggia ed entra direttamente in acqua. Scompare mentre il rumore della risacca aumenta in un campo lungo e prolungato. Che ha fatto lì? Non ci sono particolari se non un’immagine fissa e un rumore crescente. Alle volte si pensa che il film sia in “pausa” tanto si attarda sull’immobilità di certe situazioni.

Le prime due scene mostrano che l’uomo soffre di una depressione, che sta cercando di controllare è che è acuita dal ruolo di padre che gli è richiesto e che svolge bene. Ma anche lui è un ragazzo, tra Calum e la figlia ci sono appena 10 anni di differenza e una signora li ha scambiati per fratelli.

I flash-back sulle scene in discoteca (probabilmente ad Edimburgo) in cui appare un Calum allucinato sembrano collegate alla crisi dell’uomo e sono apparizioni nella mente della figlia adulta. Ma su questo ci sarebbe da studiare. L’elemento depressivo può ricollegarsi anche al dolore dato dalla fine della storia con la madre di Sophie. Ma non lo sappiamo. Forse neppure Sophie nel suo ricordo lo sa. Ma non ha importanza.

Qualcuno afferma che Calum sia queer e che questa sia la ragione dell’allontanamento dalla madre e da Edimburgo. È vero che parla con imbarazzo della sessualità con la figlia anche se avviene in un dialogo marginale. Non è poi che presta molta attenzione alle donne che sono nel resort. È vero che promette alla figlia di farla venire con lui a Londra aderendo a tutte le sue richieste, ma non senza aggiungere “vediamo”. In quel caso dovrà fare il coming out. La figlia è veramente “queer” e il suo indugiare sulla storia del padre potrebbe essere il maggior indizio per ricollegarsi a questa situazione che forse accresce la sua sofferenza.

La terza scena è invece quella decisiva; è la scena del suicidio, dell’annegamento, che potrebbe essere avvenuta a breve distanza dalla partenza della figlia con l’acuirsi della depressione e anche delle riflessioni legate a quella vacanza, cioè l’impossibilità di essere padre. Che avvenga poco dopo il ritorno della figlia in Scozia lo si deduce dagli abiti tardo-estivi che l’uomo indossa al momento di entrare in acqua e dalla spiaggia ancora attrezzata.

Film che sfida lo spettatore e mette in moto le celluline grigie dopo un momentaneo spaesamento. Un mio amico ha commentato con una frase di Moretti, che mostra la sua modestia: “Non ci sono più film belli in giro”. Beh questo è un film bello e forse non lo reputiamo tale perché non ci siamo più abituati ai film belli.

Un padre e un tempo

Recensione di AO Scott sul “New York Times”

La relazione tra un genitore e un figlio è predisposta al dramma: un legame primordiale destinato a un inevitabile doppio dolore. I figli crescono e lasciano il nido. I genitori muoiono. È l’ordine naturale delle cose, disastroso anche quando non intervengono tragedie premature ad amplificare il dolore.

Una tragedia del genere fa da sfondo a Aftersun, il tenero e devastante primo lungometraggio della trentacinquenne regista scozzese Charlotte Wells, ma la forza del film deriva dal suo abbracciare con leggerezza il fatto elementare e universale della perdita. Si tratta di un’esperienza per lo più felice — una vacanza padre-figlia in una località turistica sulla costa turca, con escursioni di snorkeling, buffet dell’hotel e ore di ozio in piscina — che finisce in lacrime. Le vostre lacrime.

L’undicenne Sophie (Frankie Corio) e suo padre, Calum (Paul Mescal), sono troppo presi dalle delizie e dalle frustrazioni del presente per esprimere dolore o ansia, ma sembrano anche consapevoli che il tempo scorre velocemente.

Sophie, al limite dell’adolescenza, è allo stesso tempo aggrappata all’infanzia e in corsa verso la maturità. I suoi occhi sono sempre in movimento, scrutano l’ambiente circostante alla ricerca di indizi e presagi.

Giovane anche lui — sta per compiere 31 anni e viene scambiato da un turista per il fratello maggiore di Sophie — Calum porta con sé un po’ di stanchezza nella sua struttura snella. I suoi lineamenti fanciulleschi sono increspati dalla preoccupazione. Non apprendiamo molto della sua storia — Wells non è il tipo di regista che rovina scene delicate con dialoghi espositivi — ma sappiamo che lui e la madre di Sophie non stanno insieme. Possiamo anche dedurre alcuni eventi doloroso e decisioni sbagliate nel passato di Calum.

Forse anche nel futuro. Una cosa che sappiamo di Calum — anche se è difficile dire esattamente come ne siamo venuti a conoscenza — è che muore qualche tempo dopo la vacanza. Fin dalle prime scene, la presenza di videocamere e l’assenza di smartphone collocano il viaggio nel passato. Una Sophie adulta (Celia Rowlson-Hall), che a 31 anni ha una compagna e un bambino, ricorda quelle mattine assolate e le serate al karaoke (cantava “Losing My Religion”) di 20 anni prima.

Non è corretto dire che “Aftersun” si svolge prevalentemente in flashback. È sbagliato anche descrivere come sogni le strazianti visioni di Sophie adulta che vede il padre ballare in un locale notturno illuminato dalle luci stroboscopiche, scene che di tanto in tanto interrompono l’idillio turco. Wells lavora su un registro psicologico più intuitivo e obliquo, il flusso delle sue immagini è in sintonia con la fluidità della coscienza di Sophie, i suoi istinti narrativi seguono la logica delle emozioni piuttosto che la meccanica della trama. I confini tra memoria ed esperienza non sono tanto sfumati quanto resi irrilevanti. E alla fine del film si capisce perché: perché è così che funziona il lutto.

Aftersun è letterale: segue Sophie e Calum in attività turistiche ordinarie senza troppi abbellimenti drammatici. Ci sono momenti che portano con sé un pizzico di pericolo o di malumore non elaborato: un malinteso su una maschera da sub perduta, per esempio. A volte Sophie si aggrega a un gruppo di adolescenti inglesi, origliando le loro battute sconce e osservando i loro giochi con una partecipazione che potrebbe mettere in ansia un genitore attento. (Flirta anche con un ragazzo della sua età, appassionato di videogiochi di corse in moto). Potreste alzare un sopracciglio quando Calum ordina una terza birra a cena e chiedervi se è davvero abbastanza maturo per prendersi cura di sua figlia da solo.

Alla fine del film, l’incoscienza di Calum e la curiosità di Sophie aprono la porta a possibilità spaventose. Ma Aftersun non è un melodramma sul bambino in pericolo o una favola punitiva sull’irresponsabilità dei genitori. La sua struttura emerge attraverso uno schema di percezioni e stati d’animo. A volte Sophie e Calum litigano, si innervosiscono a vicenda o non riescono a legare. A volte sono annoiati, a volte sciocchi, e a volte si rilassano in un’intimità facile, quasi senza parole.

Catturare la realtà densa e complessa del loro legame — registrandone le rapide e microscopiche fluttuazioni e seguendone i lenti spostamenti — è il grande risultato di Wells. E anche quello di Mescal e Corio. Sono così naturali, così leggeri e gravi e particolari, che non sembrano affatto recitare.

È difficile trovare un linguaggio critico che renda conto della delicatezza e dell’intimità di questo film. In parte, perché la Wells, con la precisione inappuntabile di un poeta lirico, sta quasi reinventando il linguaggio cinematografico, liberando il potenziale spesso sopito del mezzo per rivelare mondi interiori di coscienza e sentimento.

Lei e il direttore della fotografia, Gregory Oke, privilegiano composizioni che evocano l’antisimmetria a scatti dei video amatoriali. (Wells incorpora anche filmati girati dalla prospettiva di Sophie e Calum). Questo non vuol dire che le immagini siano disordinate, ma che tessono un tessuto fine e coerente come il tappeto che Calum acquista impulsivamente, anche se molto probabilmente non può permetterselo.

Il tappeto viene acquistato in uno dei rari momenti in cui Sophie e Calum non sono insieme, ovvero un momento che esula dalla sua memoria pur facendo parte della sua storia. O meglio, un pezzo della storia che lei e suo padre hanno scritto insieme e che lei ha vissuto per raccontarla.

Da AO Scott, Aftersun’ Review: A Father and Time, “The New York Times” 20 ottobre 2022.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.