9. Freud, il riformatore del mondo
di Erich Fromm
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Da bambino, Freud aveva una marcata ammirazione per i grandi capi militari; i suoi primi eroi furono Annibale, il grande cartaginese, e Masséna, il generale di Napoleone, comunemente ritenuto ebreo[1]. Aveva un appassionato interesse per le guerre napoleoniche, e aveva incollato sul dorso dei suoi soldatini di legno i nomi dei marescialli di Napoleone.
A quattordici anni cominciò a interessarsi alla guerra franco-prussiana; nel suo studio teneva una grande carta geografica con piccole bandierine e discuteva dei problemi di strategia con le sorelle[2]. Questi entusiasmi e interessi avevano un duplice aspetto: uno è l’interesse per la storia e per la politica; l’altro è l’entusiasmo per i grandi condottieri che influiscono sulla storia e trasformano il destino dell’umanità.
Il fatto che l’entusiasmo di Freud per Annibale e Masséna e il suo interesse per la guerra franco-prussiana fossero motivati dal suo interesse per la storia e per il progresso politico — e non fossero semplicemente una passione per le uniformi e le battaglie — è dimostrato dal successivo sviluppo dei suoi interessi politici. Quando aveva circa diciassette anni, pensava seriamente di studiare legge; era il periodo del «ministero borghese»[3].
«Poco tempo prima, mio padre [così racconta Freud] aveva portato a casa i ritratti di questi professionisti borghesi: Herbst, Giskra, Unger, Berger e gli altri, ed avevamo illuminato la casa in loro onore. Ci dovevano essere anche degli ebrei tra di essi. Infatti da allora ogni studente ebreo in gamba portava un portafoglio da ministro nella sua cartella. Gli avvenimenti di quel periodo mi influenzarono al punto che fino a poco prima di iscrivermi all’università, avevo intenzione di studiare legge; solo all’ultimo momento cambiai idea»[4].
Quest’idea del diciassettenne Freud di diventare un leader politico è confermata dalla sua amicizia con Heinrich Braun, che era un suo compagno di classe, e che doveva successivamente diventare uno dei maggiori esponenti del socialismo tedesco. Freud stesso, molti anni più tardi, descrive questa amicizia in una lettera alla vedova di Heinrich Braun:
«Al ginnasio eravamo amici inseparabili… Passavo con lui tutte le ore lasciate libere dalla scuola … Non avevamo molto chiari né i fini né i mezzi per le nostre ambizioni. Fin da allora ero giunto all’ipotesi che i suoi fini fossero essenzialmente negativi. Ma una cosa era certa: che volevo lavorare con lui e che non avrei mai disertato il suo partito. Sotto la sua influenza mi ero anche deciso, a quel tempo, a studiare legge all’università»[5].
In considerazione di questo probabile interesse per il socialismo nella tarda adolescenza, non sorprende trovare un inconscio atto di identificazione con Victor Adler, l’ammirato leader del partito social-democratico austriaco. La signora S. Bernfeld ha attirato l’attenzione su questo fatto in una discussione sulle circostanze nelle quali Freud affittò il suo appartamento nella Berggasse. Fino al 1891, Freud aveva vissuto, con la famiglia, nello Schottenring; la moglie di Freud aspettava un bambino, e la famiglia decise di traslocare.
«Il trasloco fu accuratamente pianificato dal professore e dalla signora Freud; facevano elenchi delle loro esigenze più importanti; passavano una notevole quantità di tempo a progettare la loro nuova casa… Un pomeriggio, dopo che Freud aveva terminato le sue visite, andò a fare una passeggiata.
Dopo aver ammirato i numerosi giardini accanto ai quali passava, si trovò di fronte a una casa che recava un cartello “Affittasi”. Provò subito una forte attrazione per quella casa. Entrò, osservò l’appartamento libero, trovò che soddisfaceva tutte le sue esigenze e firmò subito il contratto.
Questa casa era il n. 19 della Berggasse. Andò a casa, disse alla moglie che aveva trovato il posto ideale per loro e quella stessa sera la portò a vederlo.
La signora Freud vide subito tutti i suoi difetti, tuttavia, con la sua caratteristica intuizione, capì che il marito doveva avere questa casa e nessun’altra. Così disse che le piaceva e che pensava che se la sarebbero cavata. Se la cavarono e vissero in quella casa buia e scomoda per quarantacinque anni»[6].
«Cosa indusse — si chiede la signora Bernfeld — un uomo così attento e riflessivo come Freud a un atto tanto impulsivo e avventato, e cosa lo tenne per tanti anni in quella casa?»[7].
La risposta data dalla signora Bernfeld a questa domanda molto giustificata pone in evidenza il fatto che Victor Adler, l’ardente socialista e in seguito indiscusso leader del socialismo austriaco, era vissuto nello stesso appartamento e che Freud, che era stato invitato a casa di Adler alcuni anni prima, era stato fortemente impressionato dalla casa di quest’uomo.
Alcune sviste relative alle date riguardanti la casa sono state interpretate dall’autrice come indicative dell’importanza della connessione con Adler. Mentre sono completamente d’accordo con l’ipotesi della signora Bernfeld, credo che le sia sfuggito un punto che è importante nel presente contesto: gli ideali umanitari di Freud e la sua ambizione di diventare un grande leader politico.
C’è un altro leader socialista con il quale Freud deve essersi identificato. Questo sembra essere indicato dal fatto che il motto usato da Freud ne L’interpretazione dei sogni (“Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo”, da Virgilio, Eneide, VII, 312) [“Se non potrò muovere le potenze del cielo, solleverò quelle dell’Inferno”], fu usato anche dal grande leader socialista tedesco Lassalle nel suo libro Der italienische e Krieg und die Aufgabe Preussens, 1859.
Freud usò lo stesso motto sotto l’influenza di Lassalle. Sembra che se ne abbia la prova nella lettera di Freud a Fliess (17 luglio 1899) in cui scrive:
«Oltre al mio manoscritto ho preso con me a Berchtesgaden il Lassalle e alcuni lavori sull’inconscio… Nessun altro motto è venuto alla luce da quando tu condannasti quello sentimentale di Goethe. Resterà quello che allude alla rimozione: Flectere si nequeo superos Acheronta movebo» [8].
Tenendo presente che Lassalle usò proprio questo motto in uno dei suoi libri, sarebbe veramente curioso se il libro citato in questa lettera non fosse stato proprio quello. Il fatto che Freud non scriva esplicitamente che sta usando il motto di Lassalle starebbe a indicare il carattere inconscio della sua identificazione con il leader socialista.
Prima di parlare più dettagliatamente di altre identificazioni, vorrei citare alcuni altri fatti che mostrano quanto profondamente Freud si interessasse non della medicina ma della filosofia, della politica e dell’etica.
Jones racconta che nel 1910 Freud
«esprimeva sospirando il desiderio di ritirarsi dalla pratica medica e di dedicarsi alla risoluzione dei problemi storici e culturali, specie al grande problema di sapere come l’uomo è arrivato ad essere quello che è»[9].
O, come dice lo stesso Freud:
«Nella mia gioventù ho sentito un bisogno prepotente di capire qualcosa degli enigmi del mondo in cui viviamo e forse anche di contribuire un poco alla loro soluzione»[10].
È in linea con questo interesse politico umanitario che, nel 1910, Freud cominciò a interessarsi e ad unirsi a una «Fratellanza Internazionale per l’Etica e la Cultura», che era stata fondata da un farmacista, un certo Knapp, e di cui era presidente Forel. Freud consigliò Knapp di discutere la cosa con Jung e chiese l’opinione di Jung sull’opportunità di una tale fusione. Freud scrisse:
«Ciò che mi attrae è il carattere pratico e allo stesso tempo aggressivo e protettivo del programma: l’impegno a combattere direttamente contro l’autorità dello Stato e della Chiesa nel caso che essi commettano ingiustizie manifeste»[11].
Questo progetto non diede alcun esito e, come scrive Jones, «venne ben presto sostituito dalla formazione di un’associazione puramente psicoanalitica». Mentre l’idea di fondersi con la Fratellanza internazionale dimostra quanto fossero ancora vivi nel 1910 i vecchi ideali del miglioramento progressivo del mondo, una volta organizzato il movimento psicoanalitico i suoi interessi scoperti per la cultura, l’etica, ecc. scomparvero e furono trasformati, come cercherò di dimostrare, negli scopi del Movimento. Freud si vedeva come il suo leader e in questo ruolo si identificò inconsciamente con il suo antico eroe, Annibale, e con Mosè, il grande leader dei suoi antenati
«Annibale — egli racconta –era stato il mio eroe preferito degli ultimi anni di scuola. Come molti ragazzi di quell’età, nelle guerre puniche avevo parteggiato per i cartaginesi e non per i romani. E quando nelle classi superiori cominciai a comprendere per la prima volta che cosa significasse appartenere ad una razza diversa, e i sentimenti antisemitici degli altri ragazzi mi avvertirono che dovevo assumere una posizione decisa, la figura del generale semita crebbe ancora di più nella mia stima… Quindi il desiderio di andare a Roma era diventato nella mia vita onirica la maschera ed il simbolo di numerosi altri ardenti desideri, che si dovevano realizzare mediante la perseveranza e la sincerità del cartaginese, anche se al momento questa loro realizzazione sembrava tanto poco probabile quanto il desiderio di Annibale, durato tutta la vita, di entrare in Roma»[12].
L’identificazione di Freud con Annibale durò ben oltre la sua adolescenza. Da adulto egli ebbe un intenso desiderio di andare a Roma, sulla natura irrazionale del quale scrisse in una lettera a Fliess (3 dicembre 1897).
«Tra parentesi, il mio desiderio di Roma ha un carattere profondamente nevrotico. È connesso con la venerazione che avevo da scolaro per l’eroe semitico Annibale; e in realtà anche quest’anno, come accadde a lui, non ho potuto, avvicinandomi a Roma, andare oltre il lago Trasimeno»[13].
In realtà Freud evitò per anni di andare a Roma quando era in Italia. Durante uno dei suoi viaggi in Italia, arrivò sul lago Trasimeno e alla fine, dopo aver visto il Tevere, tornò tristemente indietro quando era a soli ottanta chilometri da Roma.[14]
Fece quindi un progetto di una visita in Italia l’anno successivo, ma ancora una volta passò soltanto nelle vicinanze di Roma; fu soltanto nel 1901 che si permise di recarvisi.
Qual era la ragione di questa strana esitazione a raggiungere Roma, che per anni aveva desiderato di vedere? Egli pensava che la ragione fosse che
«… per ragioni di salute devo evitare Roma nella stagione in cui mi è possibile viaggiare»[15].
Tuttavia Freud scrive nel 1909 che «bastò un po’ di coraggio» per appagare il suo desiderio e che in seguito divenne un «appassionato pellegrino di Roma»[16]. È del tutto evidente che la «ragione» del pericolo per la salute era una razionalizzazione. Cos’era allora che spingeva Freud a evitare Roma? L’unica ragione plausibile della sua inibizione a visitare Roma si può trovare nel suo inconscio.
Per l’inconscio di Freud visitare Roma significava evidentemente la conquista della città nemica, la conquista del mondo. Roma era l’obiettivo di Annibale, era l’obiettivo di Napoleone, ed era la capitale della Chiesa Cattolica, che Freud detestava profondamente.
Nella sua identificazione con Annibale, non poteva andare più avanti del suo eroe fino a quando, anni dopo, egli fece il passo decisivo ed entrò a Roma; evidentemente una vittoria simbolica ed una affermazione di se stesso, dopo la pubblicazione del suo capolavoro, L’interpretazione dei sogni.
C’era un’altra identificazione che contribuì al fatto che Freud non raggiungesse Roma per tanti anni: l’identificazione con Mosè. Egli sognò:
«… qualcuno mi condusse sulla cima di un colle e mi mostrò Roma mezza avvolta nella nebbia; era così lontana che mi sorpresi della chiarezza della vista… Comunque il tema della “terra promessa vista da lontano” era evidente» [17].
Freud stesso avvertì questa identificazione, in parte coscientemente, in parte inconsciamente. La sua idea cosciente fu espressa in due lettere a Jung (28 febbraio 1908 e 17 gennaio 1909). Dichiarando che Jung e Otto Gross erano fra tutti i suoi seguaci le sole menti veramente originali, scrisse che Jung sarebbe stato il Giosuè destinato a esplorare la terra promessa della psichiatria che a Freud, come a Mosè, era stato concesso solo di intravvedere da lontano[18]. Jones aggiunge:
«questa osservazione è interessante anche perché conferma quella identificazione di Freud con Mosè, che negli anni successivi divenne assai chiara».
L’identificazione inconscia di Freud con Mosè è espressa in due suoi lavori, ne II Mosè di Michelangelo (1914) e nel suo ultimo libro, Mosè e il monoteismo. Il Mosè di Michelangelo rappresenta un caso unico in tutti gli scritti di Freud, in quanto è l’unico saggio pubblicato anonimamente in «Imago» (Vol. III, 1914). Questo saggio era prefato da questa nota editoriale:
«Sebbene questo saggio non sia conforme, strettamente parlando, alle condizioni sotto le quali si accetta di pubblicare i contributi in questa rivista, i redattori hanno deciso di stamparlo perché l’autore, che essi conoscono personalmente, appartiene ai circoli psicoanalitici, e perché il suo modo di pensare ha di fatto una certa somiglianza con la metodologia della psicoanalisi».
Perché Freud scrisse questo saggio, nel quale non usa il metodo psicoanalitico, e perché volle nascondersi dietro l’anonimato, quando sarebbe stato possibilissimo pubblicare il saggio avvertendo che, dal momento che era di Freud, veniva pubblicato anche se non era strettamente psicoanalitico?
La risposta a entrambe queste domande deve stare nel fatto che la figura di Mosè aveva per Freud una grande importanza emozionale, però un’importanza che non era riconosciuta consciamente con chiarezza, e contro il riconoscimento della quale deve esserci stata una notevole resistenza.
Qual è il principale risultato dell’attento esame di Freud della statua di Michelangelo? Egli avanza l’ipotesi che questa statua, contrariamente a quanto hanno assunto molti osservatori, non descriva Mosè prima che questi spezzi le tavole della legge in un impeto di rabbia; al contrario, Freud cerca di dimostrare in modo ingegnoso e coscienzioso, che in questa scultura Michelangelo apportò una modifica al carattere di Mosè.
«Il Mosè della leggenda e della tradizione aveva un temperamento impetuoso ed era soggetto ad attacchi di collera… Ma Michelangelo ha collocato sulla tomba del papa un Mosè diverso, superiore al Mosè storico e tradizionale».
Così, secondo Freud, Michelangelo ha modificato il tema delle tavole infrante; egli non rappresenta Mosè che le spezza, ma un Mosè che calma la sua ira, distante dall’interesse e dalla compassione per il suo popolo. In tal modo egli ha aggiunto qualcosa di nuovo e di sovrumano alla figura di Mosè, di modo che «il corpo gigantesco, con la sua tremenda forza fisica diventa solo una espressione concreta del più alto conseguimento mentale possibile per un uomo, quello di combattere con successo contro una passione interiore per una causa alla quale si è votato»[19].
Se si tiene presente che questo fu scritto all’epoca della diserzione di Jung, e se si ricorda inoltre che Freud riteneva di far parte di quell’élite caratterizzata dalla capacità di controllare le proprie passioni, rimangono pochi dubbi che Freud fosse tanto appassionatamente interessato a questa interpretazione della statua di Mosè perché vedeva se stesso come Mosè, incompreso dalla gente e pur tuttavia capace di controllare la sua ira e di continuare il proprio lavoro.
Quest’ipotesi è ulteriormente suffragata dalla reazione di Freud ai tentativi di Jones e Ferenczi di fargli pubblicare lo scritto sotto il suo nome.
«I motivi della sua decisione, scrive Jones, sembrano tuttora alquanto inconsistenti. “Perché screditare Mosè apponendo il mio nome al saggio? È uno scherzo, anche se forse non di cattivo genere”» [20].
A giudicare dalle apparenze, l’idea che Mosè potesse essere screditato apponendo il nome di Freud all’articolo su di lui non ha molto senso. Quest’osservazione acquista però un grande significato se la si considera come un’imbarazzata reazione all’identificazione inconscia con Mosè, che era la forza motrice che stava dietro all’articolo.
Quanto importante fosse per Freud il tema di Mosè è ulteriormente dimostrato dal fatto che egli dedicò molto tempo degli ultimi anni della sua vita alla persona di Mosè.
Durante il tempo della dittatura hitleriana (la prima e la seconda parte del libro su Mosè furono pubblicate nel 1937, la terza nel 1939), Freud cercò di dimostrare che Mosè non era stato un ebreo ma un egiziano.
Cosa poteva aver spinto Freud a privare gli ebrei del loro più grande eroe proprio nel momento in cui un barbaro potente stava cercando di sterminarli? Cosa poteva indurre Freud a scrivere un libro molto lontano dal suo campo e a cercare di dimostrare qualcosa sulla base di analogie e di ragionamenti piuttosto deboli?
Una risposta sembra certa: il motivo che lo spinse a scrivere questo libro era la stessa identificazione con Mosè la quale era stata alla base del suo saggio su Michelangelo di vent’anni prima. Questa volta, sembra, non si trattava d’«uno scherzo» e Freud non ebbe paura di screditare Mosè apponendo il proprio nome a quello dell’eroe.
Ma egli fece qualcosa non contro Mosè, ma contro gli Ebrei, privandoli non solo del loro eroe, ma anche della pretesa dell’originalità dell’idea monoteistica[21].
Se questo fosse stato il campo di Freud, o se la sua dimostrazione fosse stata irrefutabile, non ci sarebbe alcun bisogno di sollevare dei problemi psicologici per quanto riguarda il motivo della pubblicazione del Mosè e il monoteismo.
Ma poiché non è così, si deve assumere che la preoccupazione di Freud per Mosè fosse radicata nella profonda identificazione inconscia con lui. Freud, come il grande leader degli Ebrei, aveva guidato il popolo verso la terra promessa senza raggiungerla egli stesso; aveva sperimentato la loro ingratitudine e il loro disprezzo, senza abbandonare la propria missione.
Oltre a quelle con Annibale e con Mosè, un’altra identificazione che si può citare, sebbene sia molto meno importante, è quella con Colombo. Quando Jung lasciò il movimento, Freud osservò: «Chi conosce oggi con chi navigò Colombo quando scoperse l’America?» [22].
Verso la fine della sua vita, un sogno di Freud dimostra quanto profondamente fosse radicata questa identificazione con un eroe vittorioso. Quando Freud era sul treno che lo portava da Parigi a Londra durante la sua fuga da Vienna, sognò che stava sbarcando a Pevensey, dov’era sbarcato Guglielmo il Conquistatore nel 1066.[23]
Quale meravigliosa espressione di orgoglio e di fiducia in se stesso, da parte d’un uomo che nulla poteva spezzare. Alla fine della sua vita, arrivando in Inghilterra come un vecchio e ammalato rifugiato politico, il suo inconscio sentiva che egli arrivava in questa terra di rifugio come un eroe e un conquistatore.
In considerazione dell’evidente continuità dell’identificazione con grandi condottieri, dai marescialli di Napoleone ad Annibale e Mosè, è davvero sorprendente scoprire che Jones ritiene che essa sia scomparsa dopo l’adolescenza di Freud. «Quello che colpisce di più, tuttavia», dice Jones, «è il cambiamento straordinario che si verificò in lui intorno ai sedici o diciassette anni.
Il bambino aggressivo che si accapigliava violentemente con i suoi compagni, il ragazzo pieno di ardore guerriero, il giovane che sognava di diventare ministro e di governare la nazione, erano scomparsi. Poteva esser stato così fatale, dopo tutto, un incontro di due giorni con una ragazza di campagna?» [24].
No, davvero, questo incontro non fu così fatale (il riferimento è un breve innamoramento del giovane Freud per una ragazza). Né nient’altro fu fatale a questo riguardo, poiché Jones semplicemente sbaglia nel ritenere che tutte queste fantasie e desideri giovanili fossero scomparsi. Essi avevano semplicemente assunto nuove forme, e in parte erano meno coscienti.
Il giovane che sognava di diventare ministro era diventato quello che aspirava a essere come Mosè, portando una nuova conoscenza alla razza umana, una conoscenza che fosse l’ultima parola nella comprensione da parte dell’uomo di se stesso e del mondo.
Non il nazionalismo, non il socialismo, non la religione potevano dare affidamento come guide verso una vita migliore; la piena comprensione della mente dell’uomo poteva dimostrare l’irrazionalità di tutte queste risposte e poteva guidare l’uomo là dove era destinato ad arrivare: a una pacata, scettica, razionale valutazione del suo passato e del suo presente, e ad accettare la natura fondamentalmente tragica della propria esistenza.
Freud vide se stesso come il condottiero di questa rivoluzione intellettuale, che compiva l’ultimo passo che il razionalismo poteva fare. Solo se si comprende questa aspirazione di Freud a portare all’umanità un nuovo messaggio, non lieto ma realistico, si può comprendere la sua creazione: il movimento psicoanalitico.
Che strano fenomeno, questo movimento! La psicoanalisi è una terapia, quella della nevrosi, e allo stesso tempo una teoria psicologica, una teoria generale della natura umana e specificatamente dell’esistenza dell’inconscio e delle sue manifestazioni nei sogni, nei sintomi, nel carattere e in tutte le produzioni simboliche.
C’è nessun altro caso d’una terapia o d’una teoria scientifica che si trasforma in un movimento, diretto centralmente da un comitato segreto, che epura i membri deviazionisti, con organizzazioni locali e una super-organizzazione internazionale? Nessuna terapia nel campo della medicina si è mai trasformata in un movimento del genere.
Per quanto riguarda la psicoanalisi come teoria, il paragone più prossimo sarebbe il darwinismo; ecco una teoria rivoluzionaria, che fa luce sulla storia dell’uomo e tende a cambiare la sua rappresentazione del mondo più radicalmente di qualsiasi altra teoria dell’Ottocento: tuttavia non c’è nessun «movimento» darwiniano, nessun direttorio che guidi questo movimento, nessuna epurazione che decida chi ha il diritto di chiamarsi darwiniano e chi ha perduto tale privilegio.
Perché questo ruolo unico del movimento psicoanalitico? La risposta sta in parte nella precedente analisi della personalità di Freud. Egli fu davvero un grande scienziato ma, come Marx, che fu un grande sociologo ed economista, Freud aveva ancora un altro obiettivo, che uomini come Darwin non hanno: desiderava trasformare il mondo.
Sotto il travestimento di un terapeuta e d’uno scienziato, egli fu uno dei grandi riformatori del mondo agli inizi del ventesimo secolo.
Note
[1] Jones, op. cit., Vol. I, p. 31.
[2] Ibid., pp. 49–50.
[3] Governo entrato in carica il 1° gennaio 1868, dopo la promulgazione della nuova costituzione austriaca (N.d.T.).
[4] L’interpretazione dei sogni, cit., p. 187.
[5] Lettera a Julie Braun-Vogelstern, pubblicata e discussa da M. Grotjahn nel “Journal of the American Psychoanalytic Association“»”, Vol. IV, ottobre 1956, p. 644 (il corsivo è mio. E. F.).
[6] Ibid., p. 650
[7] Ibid.
[8] Le origini della psicoanalisi, cit., p. 215. Devo questa ipotesi sulla connessione del motto con Lassalle e la prova contenuta in questa lettera a una comunicazione personale del prof. Ernst Simon.
[9] Jones, op. cit., p. 56.
[10] Ibid., p. 57.
[11] Lettera di Freud a Jung, 13 gennaio 1910, citata da Jones, op. cit., Vol. II, pp.94–95.
[12] L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 189–90.
[13] Le origini della psicoanalisi, cit., p. 172.
[14] Cfr. L’interpretazione dei sogni, cit., p. 189.
[15] Ibid., pp. 187–8.
[16] Vedi nota 1, ibid.
[17] Ibid., pp. 188.
[18] Jones, op. cit., Vol. II, p. 54.
[19] S. FREUD, Il Mosè di Michelangelo, trad. it. in Psicoanalisi del genio, Newton Compton ed., Roma, 1971, pp. 260–1.
[20] Jones, op. cit.. Vol. II, p. 440.
[21] E. Simon, nel suo saggio S. Freud, the Jew (p. 289), ha fatto notare l’importanza del fatto che Freud (nel terzo saggio) parli della possibilità che il monoteismo possa forse essere originariamente giunto in Egitto dal Vicino o dall’Estremo Oriente, o persino dalla Palestina.
[22] Cfr. Jones, op. cit., Vol. II, p. 191.
[23] Cfr. Jones, op. cit., Vol. III, pp. 273–4.
[24] H. W. Puner ha esposto questa situazione molto succintamente nella sua biografia di Freud, op. cit., p. 104.