6.8 Conversazione con David Byrne

Timothy Leary. Caos e Cibercultura — 6. Arte guerrigliera

Mario Mancini
9 min readApr 27, 2020

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TIMOTHY LEARY: Faccio il tuo nome in tutte le mie conferenze, perché rappresenti il concetto dell’internazionale e del mondiale che si avvicinano tramite l’elettronica. Come ci sei arrivato?

DAVID BYRNE: Con la Tv, i film e i dischi che si distribuiscono in tutto il mondo, hai accesso istantaneo a quasi tutto, quasi dappertutto. Ma è tutto fuori contesto, galleggia liberamente. La gente in altre parti del mondo — in India, Sudamerica, Russia — può accedere a qualsiasi cosa facciamo noi. Possono giocarci, possono interpretarlo bene o male, reinterpretarlo… e noi siamo liberi di fare la stessa cosa. Fa parte dell’epoca in cui viviamo, esiste quel tipo di comunicazione anche se non è sempre diretta.

TL: I giovani Giapponesi in particolare; basta leggere quelle riviste giovanili giapponesi! Si attaccano a tutto. Rolling Stone è un giornalino parrocchiale al confronto.

DB: Sono molto cattolici da quel punto di vista.

TL: E la tua immagine nella nuova cultura mondiale? Come ti vedono per esempio in Brasile?

DB: Mi vedono come un musicista di cui qualcuno — non molti — ha sentito parlare e che apprezza quel che stanno facendo i Brasiliani. Qualche volta si confondono perché alcune fra le cose che piacciono a me, non sempre piacciono ai loro critici.
Per esempio qualcuno dei dischi su Luaka Bop — come la musica del Nordest e anche una parte del Samba — è considerata dai ceti medio-alti e dall’intellighenzia come musica delle classi inferiori. Come il country and western o il rap qui da noi. Si sorprendono del fatto che il tizio «sofisticato» di New York ami la musica delle classi inferiori invece della loro musica da Belle Arti.
Ma qualche volta li costringi a guardare più da vicino la propria cultura e ad apprezzare quel che avevano ignorato. In modo simile a quello in cui i Beatles, i Rolling Stones, ed Eric Clapton hanno costretto i giovani Americani a guardare Muddy Waters e Howling Wolf. Non è una cosa intenzionale, da parte mia, ma è questo l’effetto che suscita.

TL: Che musica ascolti? Chi sono i tuoi musicisti preferiti oggi?

DB: L’ultimi disco di Public Enemy è stato proprio sbalorditivo — un denso collage con molta filosofia reale. Ho ascoltato l’ultimoi disco di Neil Young. Ho dischi di gruppi giapponesi e roba brasiliana e cubana — tutte le cose che abbiamo messo sulla nostra etichetta.

TL: Parlaci di Luaka Bop.

DB: Un paio di anni fa ho messo insieme una compilation di canzoni di importanti artisti brasiliani, e dopo, ho pensato che poteva diventare una cosa regolare. Ho pensato che tanto valeva avere una specie di meccanismo-ombrello in modo che la gente, vedendo l’etichetta, avrebbe guardato per vedere cosa usciva. In questo senso era una cosa pratica. Ora entriamo lentamente in una panoramica più ampia. In futuro usciranno colonne sonore di film indiani, un gruppo pop di Okinawa, un duo inglese. Sarà una delle poche uscite in lingua inglese.

TL: Marshall McLuhan sarebbe stato molto contento di questa globalizzazione. E la tua sinfonia, The Forest?

DB: L’ho creata in primo luogo per un pezzo di Robert Wilson. L’idea era che avremmo preso entrambi la stessa storia — la leggenda di Gilgamesh: lui l’avrebbe interpretata per il teatro e io per il cinema. Avremmo usato la mia musica. La speranza era quella di presentare le due cose contemporaneamente nella stessa città. Così si sarebbero viste due interpretazioni enormemente diverse di un’antica leggenda, reinterpretata. Ho scoperto che è la storia più antica che si conosca. Noi l’abbiamo aggiornata al livello della rivoluzione industriale in Europa.

TL: Cosmologia e immortalità.

DB: È la storia scritta nelle prime città mai costruite. È strano, ma affronta gli stessi problemi che si presentavano durante la rivoluzione industriale, e che persistono ancora oggi — quando città e industrie si espandono a ritmi fenomenali. Affronta il confronto tra quel che si considerava civiltà e il naturale, e quindi ha delle risonanze attualissime anche se è la cosa più antica che si possa immaginare,

TL: Più vado avanti negli anni e più vedo tutto come una serie di fasi. Comincio con la tribù e mi sposto attraverso il feudale, Gilgamesh, l’industriale…

DB: Ormai fa parte della nostra cultura; è che ne siamo stati inondati. Gli Africani costretti a venire qui da noi ci hanno colonizzato con la loro musica, con la loro sensibilità, con i loro ritmi. Hanno colonizzato i propri oppressori.

TL: Michael Ventura, che spiega come il Voudoun è arrivato dall’Africa, dice la stessa cosa. Io ho scritto un articolo sui prodotti vegetali del Sud — su noi colonialisti che invadiamo le culture del Sud e che afferriamo il loro zucchero, il caffè e le banane. Arrivano gli industriali, costruiscono fabbriche, e poi finiscono per essere «contro-colonizzati» dalla musica, dal cibo e dai vegetali psicoattivi. È accaduto anche agli Inglesi in India.

DB: In un modo abbastanza sottile cambia i modi di pensare della gente — aumenta la gamma di possibili pensieri e sentimenti. E non sono sempre consapevoli di quanto sta accadendo.

TL: Io vedo l’era industriale come una fase molto improvvisata, disordinata, scomoda, dell’evoluzione umana. Dovevamo avere le fumose fabbriche e dobbiamo superarle maturandoci. Mi hanno toccato molto i tuoi commenti su The Forest. Stavi cercando di riconoscere il romanticismo e la grandiosità della civiltà delle fabbriche anche se questa stava mandando tutto a farsi fottere.

DB: Istintivamente la mia reazione è che questa roba tira. Ha creato i nostri pasticci attuali, ma non troverai mai la strada per uscire dai pasticci se non riesci in qualche modo a fare come i Samurai e identificarti con il nemico. Diventare tutt’uno con il nemico, comprenderlo, altrimenti non troverai mai la strada per uscire dal labirinto.

TL: L’Unione sovietica insegna molto sugli orrori della potenza delle armi e della tecnologia delle macchine. Vedi lo smog e quei vecchi minatori che escono dalle profonde e fuligginose miniere con la faccia annerita. Ma d’altra parte la cosa aveva anche un lato grandioso, e non si può tagliare fuori il lato industriale della nostra natura, perché ci ha condotto in questa stanza dove possiamo usare le macchine per registrare la nostra conversazione.
Ecco un aspetto del Giappone che trovo interessante; è la società delle macchine per eccellenza. Non ci trovi tanto inquinamento, non c’è mai sporcizia per strada.

DB: No, ripuliscono in fretta. Ti sgridano se getti una lattina dal finestrino della macchina. Li ho visti sgridare la gente per non aver lavato la macchina! E una questione di faccia.

TL: E non ci trovi mai niente di vecchio, non ho visto una sola macchina più vecchia di quattro anni o che avesse un’ammaccatura.

DB: È Los Angeles portata un passo più in là.

TL: Oggi ho passato un po’ di tempo a guardare il tuo video Ile Ayié.

DB: Riguarda una religione afrobrasiliana che si chiama Candomblé. “Ile Ayié” in Yoruba, una lingua africana, si traduce più o meno come casa della vita o come reame in cui viviamo.

TL: La biosfera che io…

DB: Sì, la dimensione in cui viviamo piuttosto che altre dimensioni esistenti. È stato fatto nel Bahia, alla città di Salvador sulla costa del nordovest del Brasile e riguarda una religione africana che è lì fin dai tempi della schiavitù. Ha subito mutazioni e si è evoluta attraverso gli anni a tal punto che ora si potrebbe definire una religione afrobrasiliana — ci sono molti elementi africani. Nelle cerimonie, nei riti, si tambureggia molto, ogni tanto la gente va in trance, si fanno offerte, si erigono altari… si fanno sacrifici occasionali… è una religione estatica, dà una sensazione buona.

TL: Io non avevo mai visto tanti esseri umani dignitosi e felici in uno stesso posto e in uno stesso tempo. Per oltre novanta minuti lo schermo è pieno di maestose donne nere di una certa età…

DB: È tutto molto gioioso e regale quando cominciano i tamburi e la danza è come uno spettacolo rock o di rhythm-and-blues veramente riscaldato. Quando la musica raggiunge quel livello in cui tutti ci si sintonizza, dà lo stesso tipo di sensazione.

TL: Ecco come dovrebbe essere la religione. Ma non è tutta gioiosa. Qualche volta c’è una certa severità, una specie di trance da sfinge.

DB: Si tratta di riconoscere e di rendere omaggio alle forze naturali. Alcuni di questi sono mortali, altri gioiosi; qualcuno è pericoloso, qualcun altro dà vita. Ecco il flusso della natura, e Candomblé ne riconosce l’intera dinamica.

TL: Hai detto anche che lo scopo di queste cerimonie è quello di richiamare gli Orixàs — le divinità intermediarie tra i mortali e la forza suprema della natura. Parlacene.

DB: Quando le vibrazioni sono quelle giuste qualcuno finisce per essere posseduto da uno degli dèi. C’è un pantheon di dèi come nell’antica Grecia o Roma. Si dice che il dio è la, nella stanza, in carne e ossa, in modo che puoi conversare con lui, o danzare. Dio non è lassù, intoccabile irraggiungibile, ma è una cosa che è in grado di scendere giù nella stanza dove ti trovi tu. Puoi ballare con Dio o fargli delle domande.

TL: La cosa importante negli dèi greci era che avevano qualità umane.

DB: Anche questi dèi. Possono essere sexy, gelosi, vanitosi, amorevoli, qualunque cosa… hanno tutti gli attributi di persone.

TL: William Gibson ha scritto sul Voudoun. Molti dei suoi personaggi Voudoun parlano dell’essere umano come di un cavallo, e di come il dio discende e cavalca l’essere umano.

DB: È la metafora haitiana, il cavallo. È la stessa idea.

TL: Guaritore, guerriero, dea madre, l’uno dopo l’altro, questi archetipi di personaggi o di forze naturali. Situazioni umane fondamentali, ruoli…

DB: La madre nutrice, l’uomo o donna guerriero, la coquette…

TL: La guerriera seducente — è Yarzan. Mi sono confuso a vedere quell’uomo vestito da prete cattolico che inveiva contro i falsi profeti.

DB: La religione africana viene periodicamente perseguitata dalla Chiesa cattolica, da quella protestante, dal governo. Subiscono cicli in cui vengono riconosciuti, poi vengono perseguitati e vanno nella clandestinità; poi tornano a galla, vengono riconosciuti e poi perseguitati di nuovo…

TL: È un ciclo che conosco benissimo.

DB: Così quella era una scena di un film fittizio che drammatizzava la persecuzione da parte della religione ortodossa.

TL: L’hai inserito…

DB: Era una cosa che ho trovato in un film brasiliano, un esempio di persecuzioni recenti, così l’ho messo dentro.

TL: È una scena molto potente perché non orchestrata. È autentica, come direbbe questo tuo amico. [Indica ma copia di Reproduced Authentic.] Faresti qualche commento su questo libro?

DB: L’ha organizzato un artista di nome Joseph Kusuth. È più noto per forme d’arte che somigliano alla tua camicia.

TL: [Mostra la camicia] È un modello della Anarchie Adjustments. Sul davanti c’è la scritta «Ecstasy» e su un braccio c’è “Egos In, Egos Out.”

DB: Joseph Kusuth avrebbe una definizione di una parola, e si limiterebbe a incorniciare questa. Mi ha chiesto di far parte della sua mostra in Giappone, dove l’idea era quella di creare arte con la macchina del fax. Io ho fatto qualcosa di analogo ai sette Peccati capitali. Non esisteva; ne ho fatto un collage, l’ho infilato nel fax ed è uscito dall’altra parte. Hanno preso il fax e l’hanno ingrandito fino alle dimensioni di un dipinto. Quando l’ho trasmesso, invece di riceverlo su carta l’hanno captato su un lucido, che hanno usato poi come una pellicola. Hanno macchine per fax in grado di usare altri supporti, poi possono ingrandire fino a una dimensione qualsiasi.

TL: Dici che non volevi essere uno scienziato perché ti piacevano di più i graffiti nell’aula di pittura. Ma se fossi diventato scienziato, in che campo avresti lavorato?

DB: In un certo periodo ero attratto verso la scienza pura — la fisica, in cui era possibile speculare ed essere creativi. È l’equivalente di essere artisti. Se tutto viene fuori al modo giusto, non c’è differenza.
Il gioco intellettuale e lo spirito sono uguali.

TL: La natura è così, alle radici è giocosa. Murray Gell-Mann, uno dei maggiori fisici quantistici americani, ha usato la parola «quark» per descrivere una frase strana di James Joyce, «three quarks from Muster Mark».

DB: Al liceo avevo un professore di matematica che aveva inserito Lewis Carroll e Alice nel paese delle meraviglie nel suo corso avanzato di matematica. Ho pensato che questo tipo sapeva il fatto suo.

TL: Dodgson, l’autore di Alice, sapeva senz’altro il fatto suo. Quella metafora di attraverso lo specchio, dall’altra parte dello schermo. Altro che dèi e dee Yoruba. Altro che Yarzan e Shango. Alice è la Dea dell’era elettronica

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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