6.1 Birichinate: Un’intervista

Mario Mancini
21 min readApr 19, 2020

--

Timothy Leary. Caos e Cibercultura — 6. Arte guerrigliera

Vai agli altri capitoli di Caos e Cibercultura di Timothy Leary

ANDREA JUNO: V. Vale e io stiamo facendo un libro sulle birichinate, ma non su quelle banali, goliardiche. Ci interessano nella misura in cui rivelino intuiti linguistici e comportamentali…

TIMOTHY LEARY: Performance art, in un certo senso…

AJ: Sì. Abbiamo intervistato Paul Krassner e Abbie Hoffman perché le loro attività spiccano in un intero sfondo sociale e storico di commenti birichini e spontanei sulla politica e sulla società. Allo stesso modo, in un certo senso, l’intera storia dell’LSD fu una birichinata. Tu hai aiutato a plasmare un periodo chiave della storia.

TL: Mi piace l’idea di birichinata nel senso di un gioco. Che cosa fa una birichinata? È una cosa spontanea, un po’ scioccante, un po’ malvagia, come una piccola gomitata nelle costole o una spinta versa qualcosa di diverso. In senso più generale, penso che l’intero movimento della coscienza sia stato dedicato all’approccio giocoso più che a quello serioso, e certamente alla levità più che alla gravità. Seguendo i grandi insegnanti di psicologia, come per esempio Alan Watts, che ha descritto tutto come un gioco di energie, o come la Dea che gioca a nascondino con sé stessa, cose del genere.
Per me l’essenza del cambiamento di coscienza sta nell’umorismo e nella satira leggera. Diventa quasi una cosa teologica, infatti. Una delle mie dieci satire preferite è II senso della vita di Monty Python. Qual è il significato della vita? È tutta uno scherzo? Tante teorie su Dio lo vedono come persona molto preoccupata, compulsiva, orientata al potere che cerca di tenere tutto in ordine. Per me una teologia non meno credibile sta nel concetto della natura caotica del gioco e della gioia… nell’innovazione. Nelle birichinate c’è qualcosa di esplorativo dare una scossa alle cose — che è naturalmente la tecnica fondamentale dell’evoluzione; l’ingegneria del caos.

AJ: Ti ricordi i primi tempi della ricerca sull’LSD a Harvard e a Millbrook?

TL: Quando eravamo a Harvard avevamo la fortuna di avere mentori meravigliosi, persone come Aldous Huxley e Alan Watts. C’era un meraviglioso inglese, Michael Hollingshead, che aveva un senso d’umorismo molto birichino. Le esperienze mistiche gli avevano confuso il cervello a tal punto che vedeva tutto come una birichinata. In un certo periodo era un mio assistente; cercavamo di determinare la capacità delle droghe psichedeliche di cambiare il comportamento della gente. Così andammo a una prigione, perché rappresenta un luogo in cui è misurabile il cambiamento; se tornano a commettere altri reati oppure se restano fuori.
Così prendevamo LSD e droghe simili insieme a prigionieri di massima sicurezza, tutti volontari. Spiegavamo loro ciò che facevamo: non facevamo niente su di loro, ma piuttosto lo facevamo insieme a loro. Prendevamo LSD insieme a loro in prigione. La prima volta che l’abbiamo fatto sembrava la cosa più irresponsabile, più paurosa, più pazza che potessimo fare: andare fuori di testa in una prigione di massima sicurezza con le persone più pericolose, più malvagie, più omicide del mondo!

Siamo arrivati, in una delle prime sessioni, a un momento in cui tutti ci guardavamo l’uno l’altro. Noi psicologi avevamo paura dei prigionieri perché ovviamente erano pericolosi maniaci; loro temevano noi perché eravamo scienziati pazzi. Ci guardavamo, e improvvisamente dissero, «Cosa sta accadendo?» e io ho risposto, «Be’, ho paura di voi», e hanno riso tutti. «Be’, e noi abbiamo paura di voi!» e allora siamo semplicemente scoppiati a ridere.
Per i due anni successivi è andato avanti tutto l’esperimento. Era molto scientifico: avevamo i test di personalità, i soggetti di controllo e tutte le procedure convenzionali. Ma fondamentalmente chiunque ne facesse parte sapeva che era un grande piano di evasione. Stavamo cercando di aiutare loro a uscire di prigione: li avremmo aiutati a ottenere la libertà su parola e in genere a rimettersi in cammino nella vita. L’intera cosa era un grosso scherzo nel senso che sembrava così semplice riabilitare i prigionieri e fare di tutto una birichinata anziché una specie di melodramma del delitto e del castigo. E in realtà l’esperimento ha ridotto la recidività dei prigionieri a Concord, Massachusetts del 75 per cento circa.
Un’altra nostra birichinata a Harvard fu per l’istituto di teologia. Abbiamo lavorato con una trentina di studenti ed erano coinvolti anche vari professori della Harvard Divinity School, celebri sacerdoti e il diacono della Boston University Chapel. Un Venerdì Santo abbiamo dato a metà di questi studenti dei funghi alla psilocibina (l’altra metà non ha preso niente) per vedere se avrebbero avuto davvero delle esperienze mistiche. È diventata un’esperienza mistica incredibilmente calda, meravigliosa, divertente, in cui, nel modo più allegro, aiutavamo la gente ad andare al di là dei confini della chiesa e del rituale.
Quando tornavamo a casa dopo il lavoro nel carcere, esultavamo: Ma che birichinataEcco che prendevamo queste droghe pazzesche dentro una prigione, e con l’incoraggiamento degli addetti alla giustizia criminaleE intanto vedevamo quant’era comica la vita e quant’erano stupidi i comportamenti ripetitivi, e ci facevamo una bella risata.
Fu così anche dopo il progetto nell’istituto di teologia. È tutto cominciato in modo così solenne e così serio con tutti che cantavano inni in coro e il diacono che faceva omelie; ed è terminato con una sensazione di gioiosa risata che altro non era che un’enorme affermazione della vita. Dopo, siamo tornati a casa mia e bevevamo birra, con la sensazione di aver messo alla prova non solo noi stessi ma anche la natura umana, e che avevamo collaudato i limiti estremi del sistema nervoso in una maniera che potrebbe sembrare quasi incredibile. Prendevamo droghe «pericolose» in un penitenziario, oppure davamo droghe «pericolose» a studenti di teologia insieme ai massimi professori di Harvard, del Seminario Newton e dell’Università di Boston — e il tutto si era rivelato come un avvicinamento tra esseri umani!

AJ: E come hanno reagito, dopo?

TL: Hanno riso da matti per la gioia e per il sollievo.

AJ: E più tardi ancora. Pensi che queste persone abbiano effettuato dei profondi cambiamenti nelle loro vite?

TL: Be’, questa è un’altra cosa. Una cosa è il vivere un’esperienza rivelatrice oppure una profonda, mistica; l’uso che nei fai è invece un’altra cosa che dipende da un numero enorme di fattori. In un modo o in un altro le vite di tutti sono state cambiate da queste cose — be’ per esempio qualcuno lasciava la moglie, qualcun altro si sposava. Ci sono stati tre sacerdoti che hanno lasciato la Chiesa per andare a guadagnarsi da vivere!
Penso che la birichinata filosofica, intelligente, quella che è un’affermazione della vita, sia quella che conferisce alla gente una prospettiva più ampia o un nuovo livello di intuito, in modo che non continuino a prendere sé stessi tanto sul serio e si rendano conto invece che la vita vuole essere gioiosa e allegra.
Uno dei problemi nel movimento della consapevolezza degli anni Sessanta era questo: le birichinate di qualcuno possono ferire i sentimenti di qualcun altro. Così, le birichinate devono seguire un principio di cortesia estetica. Se costringi qualcuno a subire il tuo senso di umorismo o se turbi le persone in un modo che le faccia arrabbiare, questa non è una birichinata produttiva, che è invece quella nella quale non fai qualcosa a qualcuno, ma trovi una specie di invito oppure una certa apertura nei confronti della cosa.

AJ: Il tuo lavoro di apertura della coscienza tramite Lsd ha davvero suscitato timori in qualcuno e ha avuto come risultato il tuo licenziamento da Harvard. Molte persone cessano di aprirsi perché fa paura cominciare a sviluppare la propria consapevolezza.

TL: Ma io ho sempre considerato i progressi evolutivi, oppure le droghe psichedeliche, o in genere gli eventi che cambiano enormemente la vita come intrinsecamente gioiosi, nel senso che sei tu stesso che ti stai liberando o che conferisci a te stesso il potere di cambiare. Riconosci il divertimento intrinseco dell’avventura della vita.
In retrospettiva potresti dire che tutto quello che facemmo nell’arco di dieci anni fu in fondo una birichinata. Naturalmente Ken Kesey dava al suo gruppo il nome Merry Pranksters, ‘allegri birichini’.

AJ: Parlaci di Millbrook.

TL: Millbrook ha rappresentato, penso, un momento molto speciale della storia moderna. Avevamo 1500 ettari in una tenuta incredibile dove un pazzo milionario bavarese aveva costruito castelli, ponti levatoi, guardiole, straordinarie foreste, sacrari, laghi nascosti, boschi segreti. Era molto molto difficile che ci raggiungesse il lungo braccio della legge, o chiunque altro, se è per questo.
Eravamo sulla nostra proprietà e facevamo i fatti nostri, eppure l’intera avventura era così difficile da capire e così paurosa… almeno per chi volesse vederla sotto questa luce. Per circa cinque anni abbiamo usato questo meraviglioso campo base geografico come luogo in cui esplorare la coscienza umana e i lontani antipodi del cervello.
Essenzialmente, continuavamo a cambiare il copione. Ho parlato con molta gente che trascorreva lì una settimana, o un mese, e lutti dicevano che il posto era così e cosà; ma in realtà era diverso di mese in mese. Veniva per esempio un insegnante di Gurdjieff, e passavamo settimane e settimane a tentare di creare l’imprinting delle cerimonie e i concetti di quello specifico approccio. Una settimana dopo magari arrivavano dei matti vegetariani e per un po’ di tempo facevamo tutti una dieta aproteica. C’era un’apertura verso il cambiamento e la sperimentazione, l’innovazione. Di solito, una volta alla settimana, si faceva un’esperienza psichedelica con una persona che la guidava. Questa persona era libera di progettare l’esperienza; di scegliere la musica, i riti, l’estetica, l’orario… di condurre la gente nella gita o trip.
C’era il senso dell’avventura e dell’escursione. C’era anche la sensazione della birichinata perché avevamo la sensazione che quel che facevamo fosse la cosa più innocente e più romantica ultra romantica in un certo senso in base a libri come Viaggio in oriente di Hesse e Mount Analogue di René Daumal: storie classiche delle avventure epiche della mente.
Così, visto da fuori, quel che facevamo poteva apparire, agli occhi della polizia, molto pericoloso e minaccioso per la società ma in realtà era un tipo di avventura molto innocente.

AJ: Ti ricordi di qualche momento di picco?

TL: C’era un numero infinito di momenti di picco; è difficile sceglierne uno semplicemente perché c’era una tale ricchezza di flussi di eventi che fluivano l’uno dentro l’altro.
OK, ti racconterò una birichinata. C’era un professore di Princeton che aveva dedicato una vita allo studio della poesia mistica persiana, Aveva fatto innumerevoli lavori di traduzione. Ci scrisse, poi venne a trovarci. Disse: «Ovviamente, gran parte delle traduzioni in inglese sono errate, come per esempio il famoso verso del Rubaiyàt, ‘Una pagnotta, una brocca di vino, e te’. I popoli islamici non bevono vino; la parola originale in persiano significava hashish.» Ma questa parola non apparteneva al vocabolario di gente come Edward Fitzgerald [Traduttore inglese del Rubaiyàt di Omar Khayyàm — N.d.T.] e altri professori di Oxford che traducevano la poesia persiana in una specie di prosa da boy scout affiliati alla chiesa anglicana. Avendo dedicato la vita allo studio di questo stato mistico senza però averne mai vissuto l’esperienza, questo professore di Princeton desiderava avidamente che inscenassimo per lui una «iniziazione».

Così mettemmo in scena per lui un’esperienza di LSD, nell’aristocratico salone del castello in cui vivevamo, con alti soffitti sostenuti da archi e con un caminetto tanto grande che c’entravano venti persone. Trasformammo questo locale in un paradiso persiano, con materassi che coprimmo con arazzi di seta. Sulle pareti appendemmo pitture Sufi e drappeggi ricamati. Sparpagliammo oggetti persiani da tutte le parti. Tutta la stanza era illuminata da lampade d’Aladino. La musica era naturalmente persiana e c’erano canti sufi, alcuni dei quali forniti da lui.
Il professore visse un’esperienza unica aveva gli occhi chiusi, cantava e così via poi arrivarono tre ragazze del gruppo con costumi da danzatrici del ventre. Portavano vassoi colmi di frutta, di vino pregiato e con bellissime posate. Fu una presentazione del tipo più elegante e per niente scandalosa proprio come se fossero uscite dalla tela di quel dipinto raffigurante Haroun al Rashid. So che quando alzavo gli occhi neppure io riuscivo a crederci, ma lo sbalordito professore di Princeton credeva senz’altro di essere entrato nel regno di Allah!
A proposito esistono nel Corano alcune sezioni che descrivono il Paradiso in cui vive Allah proprio come una situazione di questo tipo. Così creavamo letteralmente il Paradiso in terraInizialmente il professore era abbastanza intontito ma fece la transizione, entrò nel programma, e ne fu felice.
Be’, trovi che questa era una birichinata?

AJ: Certamente!

TL: Poi… questo pazzo inglese, Michael Hollingshead, aveva una sua birichinata tipica. Durante la fase di alta sensibilità dell’esperienza di LSD, diceva solennemente a tutti che esisteva sotto il castello una misteriosa caverna, o galleria, dove si poteva incontrare «la persona più saggia del mondo».
Dava a tutti una candela accesa. Con gli occhi dilatati e la testa che girava, lo dovevano seguire nel seminterrato, che era vecchio e buio. E poi, con le torce accese, li conduceva giù dentro una galleria e dovevano strisciare sotto le fondamenta della casa, sempre tenendo la candela. Strisciavano lungo varie gallerie fino ad arrivare improvvisamente all’angolo in cui il birichino Hollingshead aveva collocato uno specchioEra questo il confronto definitivo con la persona più saggia del mondoC’era gente che andava fuori di testa per questo, ma…
Buona parte del tempo, a Millbrook, dopo aver passato al setaccio tutte le filosofie buddiste e induiste (alcune delle quali possono anche diventare abbastanza noiose, solenni, moraliste) tendevamo a finire con un approccio Sufi, che portava con sé quel tocco leggero e la sensazione che se prendi l’illuminazione troppo sul serio, finisci per tirarla giù: deve rimbalzare, avere un movimento gioioso e un sorriso.

AJ: Continua a raccontare, ti prego!

TL: Be’, posso offrirti un altro esempio di birichinata. Richard Alpert era mio socio nel lavoro di Harvard. Apparteneva a una ricca famiglia del New England, suo padre era il padrone della ferrovia New York/New Haven/Hartford. Richard aveva un suo aereo privato.
Volavamo in giro per il paese nel suo Cessna, soprattutto per dare dosi alla gente. Un mattino siamo partiti da New York e siamo andati alla Duke University nel Nord Carolina, dove da anni il dottor Joseph B. Rhine, teneva in piedi il suo laboratorio di percezione extrasensoriale.
Rhine era un laureato di Harvard. Suo principale problema era che era tanto teso a dimostrare a tutti come fosse una cosa scientifica che era del tutto impossibile che accadesse qualunque fenomeno telepatico! Usava carte da gioco, e smistamenti e tutti i riti della psicologia artificiosa e altamente sperimentale. Ma almeno era ancora entusiasta. Erano venti anni che studiava parapsicologia e gli serviva tutto l’aiuto che gli si potesse offrire.
Il mio primo incontro con Rhine risaliva a qualche tempo prima, quando era venuto a Harvard per dare una conferenza. Si trattava della prima volta in vent’anni che ci tornava, perché lo avevano sbattuto fuori dal corso di parapsicologia. Nessuno della facoltà voleva presentarlo, ma io l’ho fatto, così c’era tra noi un certo legame d’affetto, oltre al collegamento Harvard.
Richard e io atterrammo a Durham e arrivammo in taxi al laboratorio della Duke University. Rhine aveva adunato otto o dieci suoi collaboratori per prendere psilocibina o mescalina o qualcosa del genere. Eravamo seduti nel laboratorio in cui aveva montalo tutti questi congegni sperimentali. Si lavorava con le carte o a prevedere movimenti su grafici — erano esperimenti altamente strutturati, questi.
La gente prese la droga psichedelica che distribuì, e dopo circa mezz’ora egli disse «Mettetevi tutti in fila per i compiti». Era difficile mantenere la disciplina fra queste persone; mi ricordo che un signore indiano, un eminentissimo professore induista di Benares, studioso molto serio e per niente superficiale di parapsicologia, se ne andò semplicemente vagando a zonzo. Qualcuno lo accompagnò perché non volevamo che la gente andasse a zonzo per il campus universitario.
Ma andò fuori, colse una rosa e tornò dentro. La consegnò al professor Rhine, e poi disse: «Questa rappresenta l’ultima parola in fatto di parapsicologia». È un vecchio trucco induista, che in qualche modo parve molto profondo e impressionante.
Presto Rhine «vide la luce» e ci adunò tutti nel suo ufficio. Si sedette per terra senza le scarpe. Si trattava della prima volta che qualcuno lo vedesse senza scarpe — era un «dignitoso signor professore».

Seduto lì, appoggiato al muro, disse, «Bene, cerchiamo di capire da che parte stiamo andando. Sto cominciando a capire perché non otteniamo molti risultati. Siamo stati troppo…» E da quel momento condusse una discussione informale, che andò avanti per due o tre ore, del modo di cambiare il programma di ricerca. Poi qualcuno ha portato succhi di frutta, formaggio e biscotti. Richard e io vedemmo che tutti avevano atterrato di nuovo sul pianeta Terra, così abbiamo guardato l’orologio e abbiamo detto «Ci vediamo!» Poi abbiamo preso un taxi per l’aeroporto.
Saltammo in aereo e tornammo a New York. Atterrammo a La Guardia, presso la Butler Aviation e prendemmo un taxi per scendere in città. La ferrovia New York/New Haven/Hartford aveva una suite al Waldorf-Astoria che Richard aveva il permesso di usare; così entrammo in albergo, ordinammo dello champagne e ci mettemmo a ridere da matti all’idea di volare fino in Nord Carolina per far andare fuori di testa dieci o dodici eminentissimi e serissimi accademici, lasciandoli poi in una specie di meraviglioso caos creativo, e poi di saltare di nuovo in aereo e di tornare indietro.
Ecco un esempio di come Richard e io ci vedevamo l’un l’altro. C’era un senso fondamentale di salute genuina e di apertura in ciò che facevamo. Era semplicemente impossibile che facessimo degli errori, perché avevamo il cuore nel posto giusto. E stavamo attenti, non lasciavamo che nessuno se ne andasse in giro da solo. C’era tutta una atmosfera di giovane innocenza (anche se entrambi avevamo superato i quarant’anni) e avevamo una fiducia nella bontà della natura umana tale che a quei tempi un brutto trip era una cosa quasi impossibile.
Richard in particolare aveva sempre quell’aria birichina. Per un po’ di tempo diventò un santone Balta Ram Dass e divenne un po’ predicatore, un po’ troppo santo per me. Diceva, «Dio santo, ero un ragazzo ebreo di Newton, Massachusetts e ora sono un santone!» Ma Richard aveva sempre quello scintillio nell’occhio e quella grazia salvifica dell’umorismo ebraico che serviva sempre a rimetterti i piedi per terra.
Ho spesso paragonato Richard Alpert e me stesso a Huckleberry Finn e Tom Sawyer. Andavamo lungo il fiume vivendo queste avventure con motivazioni che, debbo dire, erano abbastanza pure. Non eravamo in lizza né per vincere il premio Nobel né per fare soldi.
Mark Twain è uno dei miei autori preferiti dell’Ottocento. Nella sua saggezza c’è una qualità così birichina. Fu un filosofo estremamente potente. A Connedicut Yankee in King Arthur’s Court e Puddin’ Head Wilson con tutti quei piccoli risvolti. C’è un senso di birichineria che scorre in tutti i suoi scritti e che ci influenzava e che ci guidava.

AJ: Puoi descriverci quell’evento in cui la gente cercò di far levitare il Pentagono?

TL: Non sono mai stato molto attivo nei raduni di massa di quel tipo, anche se, penso, erano utili nel senso di fare una mostra di forza demografica. Negli anni Sessanta uno dei motivi per cui i giovani riuscivano a fare le cose era perché, demograficamente parlando, ce n’era il doppio. Era il baby boom. Invece di 36 milioni, ce n’erano ben 76 milioni. Così potevano semplicemente fare una mobilitazione, o proclamare una celebrazione, o un be-In, e arrivava gente in abbondanza. Ebbene, cinquemila persone che fumassero marijuana in un be-In, o 14.000 mobilitati contro la guerra, o 300.000 davanti al Pentagono, era una mostra di presenza simile agli stormi di uccelli al tramonto.
C’è una certa tendenza verso la sopravvivenza da parte del pool genetico e qui mi riferisco alla genetica generazionale tale che i gruppi si controllano a ; vicenda per vedere chi siamo, cosa stiamo facendo, quanto siamo sani e quanto siamo grandi.
Io rispetto e onoro questo aspetto delle grandi mobilitazioni, ma essenzialmente mi sembrava assurdo cercare di far levitare il Pentagono. Mi ricordo che noi non ci siamo andati; penso che ci fosse qualcosa di grosso in ballo a Millbrook. Pensavo che queste cose erano positive, ma non ne fui mai protagonista. A quei tempi erano molti i gruppi che giravano per il Paese: gli Psychedelic Rangers, i Diggers di San Francisco, ed Emmett Grogan, che era grande, monello e talvolta duro creatore di birichinate. C’erano molti birichini in azione. Ken Kesey è ovviamente il birichino numero uno.

AJ: Hai altri aneddoti di quel periodo da raccontare prima di andare avanti?

TL: Ti farò ancora un esempio. Alen Ginsberg è venuto a Harvard quando noi eravamo ancora professori molto inquadrati, e ha detto: «Questa è una cosa che accade già da secoli.» Sapeva molto su Buddismo, Induismo, i beat, dharma Kerouac e tutto ciò e quindi diventò il nostro «allenatore». C’era tra Allen e me un patto secondo il quale avremmo attivato le persone più influenti di New York. Allen aveva questa voluminosa rubrica piena di indirizzi e era solito scrutarla attraverso le spesse lenti e dire, «Vieni giù questo fine settimana. Chiamerò Robert Lowell o Charles Mingus.»
Un pomeriggio ho preso l’aereo e sono arrivato all’appartamento di Allen enorme, gustosamente povero, lurido. C’era qualcosa di tanto emblematico nel suo disprezzo per la classe media che trovavo molto interessante. Prendemmo psilocibina o qualcos’altro con Jack Kerouac e altri. Il mattino successivo, senza aver dormito, insieme a Peter Orlovsky prendemmo la metropolitana verso il centro ed entrammo nell’appartamento sul fiume Hudson con vista del West Side di Robert Lowell, il grande poeta vincitore del premio Pulilzer e gli facemmo fare un trip — con molta cautela perché aveva alle spalle una lunga storia e episodi psicotici e di fughe maniaco-depressive. Ma in ogni caso Allen restò con lui mentre Peter e io restammo insieme alla moglie. E tutto finì bene e lo riportammo sul pianeta Terra.
Poi saltammo su un taxi e andammo a casa di Barney Rossett, che a quei tempi era proprietario della Grove Press e della rivista Evergreen Review. Caso classico di un intellettuale newyorkese, nevrotico con cinque psichiatri e tante tante preoccupazioni. Dimora in un meraviglioso estremamente elegante ed esteticissimo appartamento a Greenwich village. E prendemmo della mescalina estremamente potente… fu un’esperienza estetica memorabilissima. Barney trascorse buona parte del tempo nel suo studio a preoccuparsi e a lamentarsi con Allen Ginsberg che pagava gli psichiatri $70 l’ora per tenere lontane le visioni del genere! Ma tutto andò a finire più che bene.
Poi fu l’alba del giorno dopo e c’era la neve dappertutto a New York. Uscimmo dall’appartamento di Barney Rossett. La neve era caduta sui bidoni della spazzatura, tutto luccicava, sorgeva il sole ed era quasi impossibile distaccare gli occhi da questa coltre di magia che ricopriva lo squallore di New York.
Alla fine tornammo all’appartamento di Allen e ci facemmo un’altra di quello risate filosofiche al solo pensiero di quel che avevamo fatto in ventiquattr’ore. Avevamo fatto decollare Jack Kerouac, poi Robert Lowell, e poi l’editore numero uno di New York. Per farlo ci voleva coraggio e ci voleva fiducia in noi stessi e anche una conoscenza del processo yogico. E quand’era tutto finito ripassammo in rassegna quel che avevamo fatto e trovammo difficile credere agli atti improbabili che avevamo compiuto.

AJ: Immagino che tu sia contrario all’idea di ingannare la gente somministrando LSD a loro insaputa?

TL: Oh, sì! È una cosa altamente immorale, usare una cosa tanto potente su un soggetto non consenziente. È questo che faceva la CIA. È uscito un nuovo libro, intitolato Acid Dreams, di Marty Lee, ed è un resoconto storico, commentato, degli esperimenti condotti dalla ClA. Hanno compiuto centinaia di esperimenti in cui davano una dose all’insaputa dei soggetti.
A Millbrook abbiamo registrato un caso di dose involontaria. Qualcuno aveva conservato dell’LSD in una bottiglia di sherry… ma non mi ricordo… no, era una bottiglia e noi ci abbiamo messo lo sherry, ecco; e pensavamo di averla sciacquata prima.
Sembra che sia successo più o meno quanto segue: un celeberrimo giornalista della TV canadese era arrivato con un’équipe a riprenderci. Questo signore era piuttosto grande, sui cento chili e alto magari un metro e novanta. Mia moglie e io eravamo seduti in salotto con dell’altra gente a guardare il fuoco nel caminetto. Io avevo bevuto dello sherry e anche mia moglie, e dopo una decina di minuti ci guardammo l’un l’altra e ce ne rendemmo conto: questo sherry era corretto!
E proprio in questo momento arriva come un barile questo produttore canadese, e fa: «Dio, che buono questo sherry!» E noi ci guardammo l’un l’altra e dicemmo, «Be’… si sieda un momento perché… Be’, ci dispiace, ma abbiamo appena scoperto la cosa anche noi.» E il tipo ha fatto un’esperienza proprio notevole.

AJ: È riuscito a rilassarsi e ad accettare la cosa. Che reazione ha avuto quando glielo avete detto?

TL: Fu alquanto spaventato perché prendeva per scontato che gli avevamo dato la dose intenzionalmente. Voleva telefonare a Pierre Trudeau [all’epoca primo ministro canadese — N.d.T.] perché mandasse la Reale Polizia a cavallo canadese a proteggerlo. Per diverse ore siamo rimasti vicini a lui e lo abbiamo aiutato a superarlo. E il giorno dopo ha dormito bene; quando si è alzato, ha fatto una doccia, e andato a fare una passeggiata e si sentiva benissimo. E fu un’esperienza che non avrebbe mai dimenticato.
Per lui è stata un’esperienza molto potente perché c’era Allen Ginsberg che cantava e suonava i tamburi e anche un manipolo di Induisti che gironzolava per la casa e quindi tutta la cosa era come il peggiore degli incubi per un Canadese timorato di Dio che si trovava improvvisamente in questa situazione così strana.
Ma il giorno dopo sono andato a fare una passeggiata insieme a lui, e stava benissimo. Siamo tornati nel nostro salotto e ci siamo seduti. Mia moglie gli ha detto, «Gradisce qualcosa da bere?» e lui è diventato bianco come un lenzuolo e ha detto «No, grazie!»
Questa non fu una birichinata, la considererei se mai una disgrazia, ma è andata a finire nel migliore dei modi. Questo era per rispondere alla tua domanda sull’idea di somministrare una dose a qualcuno a sua insaputa.

AJ: E in seguito che reazione ha avuto? Ha trovato benefica l’esperienza? Pensi che ne sia stato contento?

TL: Be’, sì. Sentiva di aver superato un’ordalia e provava orgoglio per averla superata. In genere i Canadesi sono bene zavorrati e stabili!

AJ: Mettevi in scena degli enormi spettacoli multimediali: eri pioniere nel campo con stravaganti fantasie che arrivavano a simulare, o quasi, l’esperienza in LSD.

TL: Sì, era da vari anni che lavoravamo a Millbrook e a Harvard per sviluppare un linguaggio che fosse in grado di esprimere la cosiddetta esperienza «visionaria». Così sperimentavamo diapositive, disegni anatomici, programmi cellulari che poi si sono sviluppati fino a diventare quello che si chiamava «arte psichedelica», come le proiezioni ai concerti rock.
Stavamo mettendo insieme interi repertori di suoni, di icone mitiche e così via, per sviluppare un linguaggio dell’ineffabile. Un’estate, a Millbrook, decidemmo di tenere una scuola estiva. Non ci era consentito fare uso di droghe (anche se qualcuno l’avrà fatto per conto proprio, ne sono sicuro). La scuola estiva è terminala con uno spettacolo allegorico in cui abbiamo usato II lupo della steppa di Hermann Hesse. Nell’ultimo capitolo c’è il Teatro magico della mente e il prezzo d’ingresso è la tua mente. Harry Haller, l’abbottonato intellettuale europeo, è guidato da Pablo e vive una qualche specie di esperienza psichedelica. Attraversa tutt’una serie di incredibili allucinazioni e di trip interiori.
Così abbiamo inscenato queste cose e c’erano circa duecento persone a una festa in maschera. Giravi da una parte all’altra del castello e trovavi le «scene» lungo il tuo cammino; gente che recitava sezioni dello Steppenwolf. E tutto andava a finire in fondo a un grosso seminterrato dove mettevamo in scena l’ultimo atto in cui il protagonista cerca di impiccarsi — deve passare per tutto il trip dei sensi di colpa giudeo cristiani e alla fine la giovane donne gli dice «Togliti il cappio.» Era tutto eseguito in silhouette come gioco di ombre e mimato, e il 90 per cento di presenti, probabilmente, era in trip.
Alcuni produttori che erano presenti ne erano tanto impressionati che hanno detto «Portiamolo a Broadway!» Lo abbiamo portato all’East Village [a Manhattan — N.d.T.] e poi abbiamo cominciato a fare celebrazioni psichedeliche. Erano eventi multimediali con enormi canovacci, suoni, luci, Era una forma d’arte estremamente innovativa che in essenza conduceva a un sacco di effetti speciali. Molta gente è venuta da Hollywood per vedere. Andava per la maggiore a quei tempi.

AJ: Ancora una domanda sulle tue dispute con G. Gordon Liddy. Sembra quasi una birichinata che tu sia apparso sullo stesso palcoscenico con lui. Come hanno potuto verificarsi questi spettacoli?

TL: Avevamo lo stesso agente. Vedi, Gordon era arrivato alla Casa Bianca perché era vice pubblico ministero di Duchess County, vicino a dove abitavamo, a Millbrook, e faceva continue incursioni di polizia contro di noi. È riuscito a cacciarci fuori della sua contea.
Anche se non ci ha mai beccati per storie di droga, ha avuto il credito per la nostra partenza. Grazie alle sue incursioni di mezzanotte contro di noi è stato chiamato a Washington ed è così che ha potuto fare le sue incursioni di mezzanotte nella storia di Watergate.
Direi, per concludere questa nostra buffa conversazione, che una delle più grandiose birichinate che mi sia mai goduto è stata la mia fuga dalla prigione.
Dovevo fare un sacco di test psicologici durante il periodo di classificazione, ed ero stato proprio io a sviluppare molte di queste prove. Era facile quindi per me uscire dai test con il profilo di una persona molto conformista e convenzionale che mai e poi mai si sarebbe sognata di evadere, e che aveva un forte interesse per il giardinaggio.
Così mi hanno fatto fare il giardiniere in una prigione dalla quale era più facile evadere. È stata un’evasione molto acrobatica e pericolosa perché c’erano i cecchini eccetera. Sono saltato giù a terra e c’era pronta l’auto per la fuga. Volevo arrivare almeno alla strada statale; se poi mi avessero beccato potevo almeno dire di essere arrivato fin lì.
Sapere di avere effettuato una fuga senza violenze mi diede una sensazione esaltante, tremenda, di divertimento e di gioia. Risi molto a lungo e pensavo a cosa stessero facendo le guardie. Avrebbero scoperto la mia assenza poi avrebbero telefonato a Sacramento. Sarebbero cadute delle teste. La burocrazia sarebbe andata in tilt. Il tutto bastò a farmi ridere per due-tre settimane. Per me era stato un esempio molto riuscito di performance art. Offriva un esempio, un modello, del modo di affrontare il sistema penale e le burocrazie poliziesche. Teatro non violento. È stata una buona birichinata, che però non fu mai apprezzata più di tanto dagli addetti all’applicazione della legge.

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet