5. Il rapporto di Freud verso le donne; e l’amore

di Erich Fromm

Mario Mancini
20 min readJul 3, 2020

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Lucien Freud, Donna in casacca bianca, 1956–1957.

Non desta sorpresa che la dipendenza di Freud dalla figura della madre si manifesti anche nel suo rapporto verso la moglie. La caratteristica più sorprendente di questo rapporto è il contrasto fra il suo atteggiamento prima e dopo il matrimonio. Durante gli anni del suo fidanzamento Freud fu un amante ardente, appassionato ed estremamente geloso.

La seguente citazione da una lettera a Martha (2 giugno 1884) è una caratteristica espressione dell’ardore del suo amore:

«Guai a te quando arriverò, mia Principessa. Ti bacerò fino a farti diventare rossa, e ti farò mangiare finché non sarai grassottella. E se farai la ritrosa vedrai chi è più forte, se una bella bambinetta che non mangia abbastanza o un omaccio con la cocaina in corpo.»[1]

Lo scherzoso riferimento a «chi è più forte» ha un’implicazione molto seria. In quegli anni di fidanzamento, Freud era impossessato dall’ardente desiderio di avere il pieno controllo su Martha e, naturalmente, questo desiderio implicava anche un’intensa gelosia per qualsiasi persona per la quale lei potesse provare interesse o affetto. Un cugino, Max Mayer, per esempio, era stato il suo primo prediletto; «e così venne il giorno in cui fu proibito a Martha di rivolgersi a Max

se non chiamandolo Herr Mayer»[2]. Oppure, in riferimento a un altro giovane che era stato innamorato di Martha, Freud scriveva: «Quando mi è tornato il ricordo della tua lettera a Fritz e del nostro giorno sul Kahlenberg, ho perso ogni controllo, e se avessi potuto distruggere il mondo tutto intero, noi compresi, per farlo cominciare di nuovo — anche a rischio che Martha e io non fossimo creati di nuovo — l’avrei fatto senza esitare.»[3]

Ma la gelosia di Freud non era in alcun modo limitata agli altri giovanotti; essa valeva anche per gli affettuosi sentimenti di Martha per la sua famiglia. Egli le richiese «che non dovesse semplicemente criticare in modo oggettivo sua madre e suo fratello e abbandonare le loro “pazze superstizioni”, cosa che fece, ma che dovesse altresì ritirare il suo affetto da loro — e questo perché essi osteggiavano Freud. Insomma essa doveva condividere l’odio di lui verso di loro.»[4]

Lo stesso spirito si ritrova nella reazione di Freud nei confronti del fratello di Martha, Eli. Martha gli aveva affidato una somma di denaro, parte della sua dote, con la quale lei e il suo fidanzato volevano comperare l’arredo per il loro appartamento. Sembra che Eli avesse investito il denaro e fosse esitante a restituire l’intera somma e che avesse loro proposto di comperare i mobili a rate. Per reazione Freud indirizzò a Martha un ultimatum, il cui primo punto era che doveva scrivere al fratello una energica lettera dandogli del «delinquente». Anche dopo che Eli ebbe restituito il denaro, Freud pretese che Martha «non doveva scrivergli finché non gli avesse promesso di rompere i rapporti con Eli.»[5]

Questa assunzione del naturale diritto dell’uomo a controllare la vita della moglie faceva parte delle idee di Freud sulla superiorità del maschio. Un tipico esempio di questo atteggiamento è la sua critica a John Stuart Mill. Freud loda Mill di essere stato nel suo secolo «forse l’uomo che meglio è riuscito a liberarsi dal dominio dei pregiudizi correnti. D’altra parte … in molte questioni gli mancò il senso dell’assurdo»[6]. E cos’era tanto «assurdo» nelle idee di Mill? Secondo Freud, era la sua concezione relativa «all’emancipazione della donna e … al problema della donna in genere». Il fatto che Mill pensi che una donna sposata può guadagnare quanto il marito fa dire a Freud:

«Questo è un punto nel quale Mill non si dimostra umano… Quello di spingere le donne nella lotta per l’esistenza esattamente come gli uomini, è proprio un’idea abortiva. Se per esempio dovessi immaginare la mia dolce e cara fanciulla come un competitore, finirebbe che dicendole di amarla, come ho fatto diciassette mesi fa, la supplicherei di ritirarsi dalla lotta nella calma attività priva di competizioni della mia casa… Io credo che qualsiasi azione riformatrice della legge e dell’educazione fallirebbe di fronte al fatto che, assai prima dell’età in cui un uomo riesce a conquistarsi una posizione nella società, la natura determina il destino della donna mediante la bellezza, il fascino e la dolcezza. La legge e il costume devono concedere alle donne molte cose che sono state loro negate, ma la posizione della donna rimarrà sicuramente quella che è: un oggetto d’adorazione in gioventù e una moglie amata negli anni della maturità.»[7]

Le idee di Freud sull’argomento dell’emancipazione delle donne non sono certamente diverse da quelle sostenute dall’uomo medio in Europa negli anni ottanta. Ma Freud non era un uomo medio, si ribellava contro alcuni dei pregiudizi più profondamente radicati del suo tempo, e tuttavia, sotto questo aspetto, ripete la linea più convenzionale sul problema delle donne, e chiama «assurdo» e «inumano» Mill per idee che, non più di cinquant’anni più tardi, erano generalmente accettate. Questo atteggiamento mostra certamente quanto forte e impellente fosse il bisogno di Freud di porre le donne in una posizione inferiore. Che le sue concezioni teoretiche rispecchiassero questo atteggiamento è evidente.

Considerare le donne come uomini castrati, prive di una loro autentica sessualità, sempre gelose degli uomini, con un Super-io debolmente sviluppato, vano e che non dà affidamento, tutto questo non è altro che una versione leggermente razionalizzata dei pregiudizi patriarcali del suo tempo. Un uomo come Freud, dotato della capacità di esaminare attentamente e criticare i pregiudizi convenzionali, deve essere stato spinto da potenti forze dentro lui stesso per non vedere il carattere razionalizzante di questi pretesi enunciati scientifici.[8]

Freud conservava ancora le stesse opinioni cinquant’anni più tardi. Quando criticò la cultura americana per il suo carattere «matriarcale», il suo ospite e studente, dr. Worthis, gli chiese: «Ma non pensa che la cosa migliore sarebbe che i due partner fossero eguali?». Al che Freud rispose: «Questo è praticamente impossibile. Ci deve essere ineguaglianza e la superiorità dell’uomo è il minore dei due mali».[9]

Mentre i suoi anni di fidanzamento furono pieni di focoso corteggiamento e di gelose schermaglie, sembra che la sua vita coniugale sia stata notevolmente priva di amore attivo e di passione. Come in tanti matrimoni convenzionali, la conquista è eccitante, ma una volta che la donna è stata conquistata vien meno la fonte di un appassionato sentimento d’amore. Il corteggiamento impegna l’orgoglio maschile; dopo il matrimonio l’orgoglio non trova nessun’altra soddisfazione. In questo tipo di matrimonio, la moglie ha una sola funzione: quella di madre.

Essa deve essere incondizionatamente devota al marito, prendersi cura del suo benessere materiale, essere sempre subordinata alle sue esigenze e ai suoi desideri, essere sempre la donna che non desidera nulla per sé, la donna che attende: cioè la Madre. Prima del suo matrimonio, Freud era ardentemente innamorato, poiché doveva provare la sua maschilità conquistando la ragazza che aveva scelto.

Una volta che la conquista fu suggellata dal matrimonio, l’«adorato tesoro» fu trasformata nella madre amorevole sulla cui premura e sul cui amore si può contare senza un attivo, appassionato amore per lei.

Quanto ricettivo e privo di passione erotica fosse l’amore di Freud per la moglie è ampiamente dimostrato da una quantità di particolari significativi, ad esempio dalle sue lettere a Fliess; in esse non si fa quasi menzione della moglie, tranne in un contesto puramente convenzionale.

Tenendo presente che Freud scrive diffondendosi in particolari sulle sue idee, sui suoi pazienti, sui suoi successi e sulle sue delusioni professionali, questo fatto è di per sé significativo; ma più importante ancora è il fatto che spesso Freud descrive con umore depresso la vuotezza della sua vita, che è colmata e soddisfacente solo quando il suo lavoro procede con successo.

Egli non fa mai menzione al suo rapporto con la moglie come un’importante fonte di felicità. Lo stesso quadro si ottiene se si prende in considerazione il suo modo di passare il tempo a casa o durante le vacanze. Nei giorni feriali Freud riceveva i pazienti dalle otto all’una, poi faceva colazione, faceva una passeggiata da solo, lavorava nella sala di consultazione dalle tre alle nove o alle dieci, poi faceva una passeggiata assieme alla moglie, alla cognata o alla sorella, poi lavorava alla corrispondenza o ai suoi scritti fino all’una di notte, a meno che quella sera non ci fosse una riunione.

Non sembra che durante i pasti fosse molto socievole. Un buon esempio è dato dall’abitudine di Freud di portare «a tavola il suo ultimo acquisto in fatto di antichità, di solito una piccola statuetta, e la sistemava di fronte a sé come un commensale. Poi la rimetteva al proprio posto, ma per un giorno o due continuava a portarla a tavola.»[10]

La domenica, Freud andava a far visita a sua madre alla mattina, il pomeriggio si intratteneva con gli amici e i colleghi analisti, cenava con la madre e le sorelle, e poi lavorava ai suoi manoscritti.[11] Nel pomeriggio la moglie riceveva i suoi conoscenti, e un commento abbastanza eloquente sull’attivo interesse di Freud per la vita di sua moglie è il fatto, riportato da Jones, che se tra le persone ricevute dalla moglie «c’era qualcuno che lo interessava, Freud entrava per pochi minuti in salotto.»[12]

Durante l’estate, Freud passava gran parte del suo tempo viaggiando. Questo periodo di vacanze era la grande occasione per compensare il periodo di duro e continuo lavoro durante il resto dell’anno. Freud amava viaggiare, e detestava viaggiare da solo; ma il tempo di vacanza era usato solo parzialmente per compensare il poco tempo che passava con la moglie a casa. Egli viaggiava all’estero con i suoi amici psicoanalisti, o anche con la sorella della moglie, ma non con sua moglie. A questo fatto sono state date varie spiegazioni, una da Freud stesso e una da Jones.

Quest’ultimo scrive che «sua moglie, presa dalle proprie occupazioni, poteva difficilmente allontanarsi, e del resto non sarebbe riuscita a reggere al ritmo del marito nella inesauribile fame di vedere il mondo… Ma in quei viaggi Freud spediva quasi giornalmente alla moglie una cartolina o un telegramma, oltre a una lunga lettera ogni tre o quattro giorni.»[13]

Ancora una volta, è notevole quanto convenzionale e non-analitico diventi il pensiero di Jones quando si tratta del suo eroe. Qualsiasi uomo che ha piacere di passare il proprio tempo libero assieme alla moglie modererebbe la sua «fame di vedere» in modo da permetterle di accompagnarlo.

Il carattere razionalizzante di queste spiegazioni è reso ancor più evidente dal fatto che Freud fornisce una differente ragione del perché non viaggiava con la moglie. In una lettera da Palermo, dove era con Ferenczi, egli scriveva alla moglie:

«Sono disperato di non poter fare in modo che tutti voi possiate vedere queste belle cose. Per riuscire a godere con altre sette o nove persone, o magari tre sole, non avrei dovuto fare lo psichiatra né essere riconosciuto come il fondatore di una nuova branca della psicologia, bensì il fabbricante di qualche prodotto di utilità generale, come per esempio la carta igienica, i fiammiferi o i bottoni da scarpe. Ma è troppo tardi per imparare la lezione, quindi devo continuare a godere egoisticamente da solo, ma con un profondo senso di rimorso.»[14]

Inutile dire che Freud effettua qui una tipica razionalizzazione, praticamente la stessa usata da tutti gli altri mariti che si godono le vacanze più in compagnia di amici che non delle loro mogli. La cosa più notevole, ancora una volta, è vedere quanto Freud, nonostante la sua auto-analisi, fosse cieco di fronte al problema del suo matrimonio, e come egli razionalizzi senza essere minimamente consapevole di farlo.

Egli parla di nove o sette o magari tre persone che avrebbe dovuto portare con sé, mentre si trattava semplicemente di portare con sé la moglie; egli poi sente di dover posare al povero ma importante scienziato, ben lontano dal ricco fabbricante di carta igienica, e tutto al fine di spiegare il perché non volesse portarsi dietro la moglie nei suoi viaggi all’estero.

Forse l’espressione più perspicua del carattere problematico dell’amore di Freud per la moglie è contenuta in un sogno, pubblicato ne L’interpretazione dei sogni [15]. Il sogno è questo:

«Avevo scritto una monografia su una certa pianta. Il libro era davanti a me e in quel momento lo stavo sfogliando dove era una tavola ripiegata. In ogni copia c’era anche un esemplare seccato della pianta, come se fosse stato preso da un erbario.»

Tra le associazioni di Freud cito la seguente:

«Quella mattina avevo visto un nuovo libro nella vetrina di una libreria, dal titolo Il Genere dei Ciclamini, evidentemente una monografia su quella pianta. I ciclamini, riflettei, sono i fiori preferiti di mia moglie e mi rimproverai di ricordarmi così raramente di portarle dei fiori, cosa che le fa piacere.»

Un’altra catena di associazioni al sogno porta Freud dal fiore a un argomento del tutto diverso, quello della sua ambizione.

«Una volta avevo effettivamente scritto qualcosa come una monografia su una pianta, cioè una dissertazione sulla coca, che aveva richiamato l’attenzione di Karl Koller sulle qualità anestetiche della cocaina.»

Freud pensa poi a un Festschrift in onore di Koller, di cui aveva incontrato un curatore la notte precedente. Questa associazione intorno alla cocaina è in relazione con l’ambizione di Freud. In altre connessioni egli esprime quanto rimpiangesse di aver abbandonato lo studio del problema della cocaina, e di aver così perduto l’occasione di fare una grande scoperta. Questo è anche messo in connessione con il fatto che egli aveva dovuto abbandonare la ricerca pura per potersi sposare.

Il significato del sogno è del tutto chiaro (sebbene Freud non lo veda nella sua interpretazione). L’esemplare secco della pianta è il punto centrale, ed esprime il conflitto interno di Freud. Un fiore è un simbolo d’amore e di gioia, specialmente dal momento che questo fiore è il fiore preferito della moglie, che egli di rado si ricorda di portarle. Ma la pianta di coca sta per il suo interesse scientifico e la sua ambizione.

Cosa fa con i fiori, con l’amore? Li schiaccia e li mette in un erbario. Cioè, lascia appassire l’amore e lo fa diventare l’oggetto d’una indagine scientifica. Questo è esattamente quello che fece Freud. Egli rese l’amore un oggetto di ricerca scientifica, ma in sua moglie esso rimase appassito e sterile. I suoi interessi scientifico-intellettuali erano più forti del suo eros; lo soffocarono e allo stesso tempo divennero un surrogato della sua esperienza dell’amore.

L’impoverimento dell’amore, così come è espresso in questo sogno, si riferisce anche affatto chiaramente alle sue capacità e ai suoi desideri erotici e sessuali. Per quanto possa apparire paradossale, Freud era un uomo con interessi relativamente deboli per le donne e con uno scarso impulso sessuale.

È perfettamente vero, come afferma Jones, che «sua moglie fu sicuramente l’unica donna della sua vita sentimentale», e che «fu sempre da lui anteposta a qualsiasi altro mortale.»[16] Ma Jones fa anche notare che «è probabile che l’aspetto più appassionato della vita coniugale abbia ceduto in lui prima di quanto può accadere ad altri.»[17]

La verità di questa affermazione è suffragata da diversi fatti. A quarantun anni Freud scriveva a Fliess lamentandosi del proprio umore e aggiungendo:

«Anche l’eccitazione sessuale ormai non serve più a una persona come me.»[18] Evidentemente a quell’età per lui la vita sessuale era più o meno terminata. Un altro avvenimento porta alla stessa conclusione: ne L’interpretazione dei sogni riferisce che, una volta quando era sulla quarantina, si sentì fisicamente attratto da una giovane donna e l’aveva leggermente toccata semi-volontariamente; egli commenta che fu sorpreso di scoprire «ancora» in sé la possibilità di una simile attrazione.

A cin- quantasei anni scrisse a L. Binswanger: «Oggi, naturalmente, la libido del vecchio si esaurisce distribuendo denaro.»

Anche a questa età, solo un uomo la cui vita sessuale sia poco intensa darebbe per scontato che la sua libido ha abbandonato ogni scopo sessuale.

Se è lecito avanzare qualche ipotesi, sarei incline ad assumere che anche alcune teorie di Freud sono la prova della sua sessualità inibita. Egli ha ripetutamente sottolineato che il rapporto sessuale può dare solo una soddisfazione limitata all’uomo civilizzato, «che la vita sessuale dell’uomo civile è in effetti seriamente danneggiata», che «si è probabilmente nel giusto supponendo che l’importanza della sessualità come fonte di sensazioni di felicità, dunque nell’adempimento dello scopo della nostra vita, sia diminuita sensibilmente.»[19]

Egli spiega questo fatto con l’ipotesi che la piena soddisfazione sia possibile solo se non sono repressi i desideri pregenitali, olfattivi e gli altri desideri «perversi», e giunge persino a pensare alla possibilità che «non solo la pressione della civiltà, ma qualcosa nell’essenza della funzione [sessuale] stessa, ci impedisca il pieno soddisfacimento e ci spinga su altre strade.»[20]

Freud inoltre riteneva che dopo «tre, quattro o cinque anni il matrimonio può considerarsi un fallimento per quel che riguarda la soddisfazione dei bisogni sessuali. Poiché tutti gli espedienti fin qui inventati per impedire la concezione diminuiscono il godimento sessuale, feriscono la suscettibilità di ambedue i partners e possono perfino causare delle malattie.»[21]

Tenendo conto delle osservazioni di Freud intorno alla sua vita sessuale si può sospettare che queste concezioni relative al sesso fossero l’espressione razionalizzante della sua sessualità inibita. Indubbiamente c’erano molti uomini della sua stessa classe sociale, età e cultura generale che non pensavano, arrivati alla quarantina, che il periodo di felicità dovuta ai rapporti sessuali fosse terminato, e che non se la sarebbero sentita di condividere il suo parere per cui dopo pochi anni di matrimonio la felicità sessuale cessi di esistere, anche tenendo presente la necessità di usare dei contraccettivi.

Andando un passo più in là, possiamo anche supporre che un’altra teoria di Freud avesse una funzione razionalizzante: la sua tesi che la civiltà e la cultura fossero il risultato della repressione degli istinti. Ciò che egli con un ampio giro di parole andava dicendo in questa teoria è questo: poiché io mi occupo del pensiero e della verità, necessariamente ho poco interesse per il sesso.

Qui Freud, come molto spesso, generalizzava un’esperienza individuale. Egli soffriva d’una inibizione sessuale per altre ragioni, ma non perché era impegnato così profondamente nel pensiero creativo. L’inibizione sessuale di Freud può suonare come una contraddizione rispetto al fatto che nelle sue teorie egli attribuì un posto centrale all’impulso sessuale; ma questa contraddizione è più apparente che reale. Molti pensatori scrivono di ciò di cui mancano, e che cercano di ottenere per se stessi o per gli altri.

Inoltre Freud, che era un uomo dall’atteggiamento puritano, difficilmente sarebbe stato capace di scrivere così francamente intorno al sesso se non fosse stato sicuro lui stesso della propria «bontà» a tale proposito.

La sua mancanza di intimità emotiva con le donne è espressa anche nel fatto che egli comprendeva ben poco di loro. Le sue teorie su di esse sono ingenue razionalizzazioni dei pregiudizi maschili, specialmente quelli del maschio che ha bisogno di dominare per nascondere la propria paura delle donne.

Ma il fatto che Freud non riuscisse a capire le donne non deve essere desunto soltanto dalle sue teorie. Egli stesso lo affermò una volta con ammirevole franchezza, quando disse in una conversazione:

«Il grande problema che non è mai stato risolto e non sono ancora riuscito a risolvere, malgrado i miei trent’anni di ricerche nell’animo femminile è: cosa vuole la donna? [Was will das Weib].»[22]

Ma parlando della sua capacità d’amare non dobbiamo limitarci al problema dell’amore erotico. Freud nutriva poco amore per la gente in generale, quando non era implicata nessuna componente erotica. Il suo rapporto con la moglie, dopo che l’ardore della prima conquista s’era spento, era apparentemente quello d’un marito fedele ma alquanto distante.

Il suo rapporto con gli amici, Breuer, Fliess, Jung e con i suoi fedeli studenti, era sempre distante. Nonostante le descrizioni idoleggiatiti di Jones e Sachs, ci si deve convincere dalle sue lettere a Fliess, dalle sue reazioni nei confronti di Jung e infine di Ferenczi, che non fu dato a Freud di avere una forte esperienza d’amore.

Le sue concezioni teoretiche non fanno che confermare questo fatto. Relativamente alla possibilità dell’amore fraterno, egli dice:

«Ce ne può indicare la traccia una di quelle che ho chiamato le pretensioni ideali della società incivilita, che dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. È una pretesa nota in tutto il mondo, certamente più antica del Cristianesimo che la ostenta come la sua più grandiosa dichiarazione, eppure altrettanto certamente non è molto antica; in tempi storici era ancora estranea al genere umano. Proponiamoci di adottare verso di essa un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e disappunto. Perché dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne deriva? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci? Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo esser pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (Trascuro i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi due tipi non hanno a che vedere col precetto di amare il prossimo). Egli lo merita se mi assomiglia in certi aspetti importanti, tanto che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, mi sarà difficile amarlo. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei un segno di preferenza; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo alla pari con loro. Ma se debbo amarlo, con quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, come un insetto, un verme, una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tanto, quanto, secondo il giudizio della ragione, sono autorizzato a serbare per me stesso. A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale?»[23]

Freud, il grande portavoce del sesso, nell’insieme era un tipico puritano. Per lui lo scopo della vita per una persona civile era di reprimere i suoi impulsi emotivi e sessuali e di condurre una vita civile alle spese di questa repressione. È la massa incivile che non è capace di questo sacrificio. L’élite intellettuale è costituita da coloro che, a differenza della massa, sono capaci di non soddisfare i loro impulsi e quindi di sublimarli per scopi più alti. Nel suo insieme la civiltà è il risultato di questa non-soddisfazione degli impulsi istintuali.

È notevole come le idee espresse nelle successive teorie di Freud fossero già presenti in lui quando era un giovane, e non si occupava ancora dei problemi della storia e della sublimazione. In una lettera alla sua fidanzata egli descrive una successione di pensieri che gli erano venuti in mente durante l’esecuzione della Carmen. Egli scrive

«Il popolino dà sfogo ai suoi impulsi [sich ausleben], noi invece li reprimiamo pur di conservare la nostra compostezza. Economizziamo la nostra salute, la nostra capacità di godere; risparmiamo per qualche cosa, senza sapere noi stessi per che cosa, e questa abitudine di reprimere costantemente i nostri istinti naturali costituisce la nostra raffinatezza. Anche noi stessi sentiamo profondamente, eppure non osiamo chiedere molto a noi stessi. Perché non ci ubriachiamo? Perché il malessere e la vergogna del risveglio dalla sbornia [Katzenjammer] ci danno più “fastidi” di quanto piacere ci dia l’ubriacarci. Perché non ci innamoriamo una volta al mese? Perché ogni separazione ci strappa un po’ il cuore. Perché non ci facciamo un amico di ognuno che conosciamo? Perché la sua perdita o un qualunque guaio che gli succedesse ci affliggerebbe amaramente. Insomma i nostri sforzi tendono più ad evitare il dolore che a ricercare il piacere. Se lo sforzo è coronato da successo, quelli che privano se stessi somigliano a noi due, che ci siamo legati per la vita e per la morte, che sopportiamo la privazione e ci desideriamo a vicenda per mantenere la parola data; e che non potremmo certo sopravvivere al duro colpo del destino che ci separasse dall’essere amato: esseri umani che possono amare una sola volta come Asra. Tutto il nostro modo di vivere presuppone che saremo circondati dalla più nera miseria e che ci sarà sempre possibile di liberarci gradualmente dai mali della nostra struttura sociale. I poveri, la gente comune, non potrebbero esistere senza la loro pelle spessa e la loro grossolanità. Perché mai dovrebbero sentire intensamente i loro desideri, se tutte le loro afflizioni che la natura e la società hanno in serbo sono riservati a coloro che essi amano: perché dovrebbero trascurare un piacere momentaneo, se non se ne aspettano nessun altro? I poveri sono troppo impotenti, troppo esposti, per comportarsi come noi. Quando vedo la gente che arraffa quanto può, dimentica di ogni serietà, mi viene da pensare che questo sia per loro il compenso al fatto di essere così indifesi contro le imposte, le epidemie, le malattie e le cattive condizioni della nostra organizzazione sociale. Non voglio andare oltre, ma si potrebbe dimostrare che das Volk ragiona, crede, spera e lavora in un modo del tutto diverso da noi. C’è una psicologia dell’uomo comune che è in un certo senso differente dalla nostra. Quella gente ha anche un senso della comunità superiore al nostro, ed essi soli sentono che ogni vita è la continuazione di un’altra, mentre per ciascuno di noi il mondo scompare con la propria morte.[24]

Questa lettera del giovane Freud, all’età di ventisei anni, è interessante in vari aspetti. Anticipando le sue successive teorie, Freud esprime in questa lettera il suo orientamento puritano-aristocratico che abbiamo appena discusso: privare se stessi, economizzare la propria capacità di godere è la condizione della sublimazione, la base sulla quale è formata una élite.

Ma oltre a questo Freud manifesta qui una concezione che doveva divenire la base di una delle sue più importanti teorie che avrebbe elaborato molti anni più tardi. Egli descrive la propria paura di essere ferito emotivamente. Non amiamo qualsiasi persona perché la separazione sarebbe dolorosa; non ci facciamo un amico di ognuno, perché la perdita d’un amico ci rattristerebbe.

La vita è orientata nella direzione di evitare la tristezza e il dolore, piuttosto che di provare la gioia. Come Freud stesso dice chiaramente: «Insomma i nostri sforzi tendono più ad evitare il dolore che a ricercare il piacere».

Troviamo qui la formulazione di quello che più tardi Freud chiamò il «principio del piacere»; questa idea che il piacere sia in realtà il sollievo dal dispiacere, dalla penosa tensione, piuttosto che un positivo godimento, apparve negli ultimi anni di Freud come un principio universalmente valido della motivazione umana, in realtà come quello più generale e fondamentale.

Tuttavia possiamo vedere qui che Freud aveva questa stessa idea molti anni prima di formularla teoricamente, e che l’aveva come risultato della propria personalità vittoriana, spaventata dalla perdita del possesso (in questo caso, d’un oggetto d’amore e del sentimento d’amore), e in un certo senso della vita.

Questo atteggiamento era caratteristico della borghesia ottocentesca, molto più preoccupata di «avere» che di «essere». La psicologia di Freud fu profondamente imbevuta di questo orientamento dell’«avere», e quindi la sua maggiore paura era sempre quella di perdere qualcosa che si «ha», sia esso un oggetto d’amore, un sentimento o l’organo genitale (a questo riguardo egli non condivideva la protesta contro la possessività della borghesia che troviamo per esempio nella filosofia di Goethe).

Un altro punto di questa lettera deve essere sottolineato. Freud dice che la gente comune ha un senso della comunità superiore al «nostro». «Sono solo essi che sentono che ogni vita è la continuazione di un’altra, mentre per ciascuno di noi il mondo scompare con la propria morte».

L’osservazione di Freud che la borghesia ha un senso della solidarietà inferiore alla classe operaia è del tutto giusta, ma non bisogna dimenticare che vi sono molti individui del ceto medio o superiore che hanno un profondo senso della solidarietà umana, siano essi socialisti, anarchici o persone genuinamente religiose.

Freud non ne aveva affatto, o molto poca. Egli si occupava della sua persona, della sua famiglia, delle sue idee, nel modo caratteristico della borghesia. È con questo stesso modo di sentire che, diciassette anni più tardi, in occasione del Nuovo Anno, 1900, scrive al suo amico Fliess:

«Il nuovo secolo — che ci interessa soprattutto perché contiene le date della nostra morte — non mi ha portato che una stupida recensione.»[25]

Qui troviamo ancora la stessa preoccupazione egocentrica per la propria morte e nessuno di quei sentimenti di universalità e di solidarietà che egli attribuisce soltanto alle classi inferiori.

Note

[1] Citato da Jones, op. cit., Vol. I, p. 120.

[2] Ibid., p. 149.

[3] Ibid., p. 154.

[4] Ibid., pp. 162–3.

[5] Ibid., p. 173.

[6] Ibid., p. 223.

[7] Lettera a Martha (5 novembre 1883), citata da Jones, op. cit., Vol. I, pp. 222–3.

[8] Cfr. Jones, op. cit., Voi. II, pp. 502–3.

[9] J. Worthis, Fragment of an Analysis with Freud, Simon & Schuster, New York, 1954, p. 98 (il corsivo è mio. E. F.).

[10] Jones, op. cit., Voi. II, p. 472.

[11] Ibid., pp. 462–3.

[12] Ibid., p. 463 (il corsivo è mio. E. F.).

[13] Ibid., pp. 32–3.

[14] Lettera del 15 settembre 1910, citata da Jones, op. cit., Vol. II, pp. 4734.

[15] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 169–70.

[16] Jones, op. cit., Vol. II, p. 465.

[17] Ibid.

[18] Le origini della psicoanalisi, cit., lettera a Fliess del 31 10. 1897.

[19] S. Freud, Il disagio della civiltà, trad. it. in Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1971, p. 241.

[20] Ibid.

[21] s. freud,moralità sessuale «civilizzata» e malattie nervose moderne, trad. it. in Psicoanalisi e sessualità, Newton Compton ed.. Roma, 1971, p. 264

[22] A. M. Bonaparte, come citato da Jones, op. cit., Vol. II, p. 503.

[23] S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., pp. 244–5.

[24] Lettera alla fidanzata del 29 agosto 1883, citata da Jones, op. cit., Vol. I, pp. 237–8 (il corsivo è mio. E. F.).

[25] Le origini della psicoanalisi, cit., p. 232 (il corsivo è mio).

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.