2. La passione di Freud per la verità e il suo coraggio
di Erich Fromm
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Come lo stesso Freud amava sottolineare, la psicoanalisi fu una sua creazione. I suoi grandi successi, come i suoi difetti, mostrano l’impronta della personalità del suo fondatore, ed è indubbiamente in questa che va cercata l’origine della psicoanalisi.
Che tipo d’uomo era Freud? Quali erano le forze che lo spinsero ad agire, pensare e sentire in quel particolare modo che fu il suo? Era un decadente viennese, radicato nell’atmosfera sensuale e indisciplinata che viene popolarmente considerata come tipicamente viennese — come affermavano i suoi nemici — o era il grande maestro in cui non si poteva trovare alcun difetto personale, senza paura e inflessibile nella sua ricerca della verità, gentile con i suoi allievi e giusto con i suoi nemici, senza vanità né egoismo, come sostengono i suoi seguaci più fedeli?
Ovviamente né la diffamazione né il culto dell’eroe sono di grande utilità per afferrare la complessa personalità di Freud, né per comprendere l’incidenza di questa personalità sulla struttura della psicoanalisi. La stessa oggettività, che Freud scoprì essere la necessaria premessa per l’analisi dei suoi pazienti, è indispensabile quando cerchiamo di ottenere un quadro di chi egli fosse e di che cosa lo motivasse.
La più impressionante e, probabilmente, la più potente forza emotiva di Freud era la sua passione per la verità e la sua assoluta fede nella ragione, per lui la ragione era l’unica facoltà umana che poteva aiutare a risolvere il problema dell’esistenza o, almeno, ad alleviare la sofferenza che è inerente alla vita umana.
Freud avvertiva che la ragione è l’unico strumento — o l’unica arma — che noi abbiamo per dare un senso alla vita, per liberarci dalle illusioni (delle quali, nel pensiero di Freud, i dogmi religiosi sono solo una parte), per diventare indipendenti dalle autorità che ci impacciano, e quindi per affermare la nostra propria autorità. Questa fede nella ragione era il fondamento della sua inesorabile ricerca della verità, una volta che egli aveva visto una verità teoretica nella complessità e nella molteplicità dei fenomeni osservabili.
Anche se i risultati sembravano assurdi, dal punto di vista del senso comune, questo non lo disturbava. Al contrario, la folla irridente, il cui pensiero era determinato dall’opportunismo e dal desiderio di dormire un sonno indi- sturbato, non faceva altro che accentuare la differenza fra convinzione e opinione, ragione e senso comune, verità e razionalizzazione.
Nella sua fede nel potere della ragione, Freud era un figlio dell’età dell’Illuminismo, il cui motto: «Sapere aude» — «Osa sapere» — è impresso in tutta la personalità di Freud e in tutta la sua opera.
Era una fede originariamente sorta dall’emancipazione della borghesia occidentale dai vincoli e dalle superstizioni della società feudale: Spinoza e Kant, Rousseau e Voltaire, per quanto diverse fossero le loro filosofie, condividevano tutti questa fede appassionata nella ragione; avvertivano tutti il comune impegno nella lotta per un mondo nuovo, veramente illuminato, libero e umano.
Questo spirito continuava a vivere nella borghesia ottocentesca dell’Europa occidentale e centrale, e specialmente fra gli studiosi dediti al progresso delle scienze naturali. Il background ebraico di Freud se non altro, contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’Illuminismo.
La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e di disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada della sua emancipazione e del suo progresso.[1]
In aggiunta a questa tendenza generale dell’intelligencija europea del tardo Ottocento, c’erano specifiche circostanze della vita di Freud, che probabilmente rafforzarono la sua tendenza a fondarsi sulla ragione, e non sull’opinione pubblica.
In netto contrasto con tutte le grandi potenze occidentali, la monarchia austro-ungarica era, al tempo in cui visse Freud, un corpo in putrefazione.
Essa non aveva un futuro, e la forza d’inerzia, più d’ogni altra cosa, teneva assieme le varie parti della monarchia, nonostante che le sue minoranze nazionali lottassero freneticamente per l’indipendenza. Questo stato di decadenza e di dissoluzione politica era atto a svegliare la diffidenza di un ragazzo intelligente e a destare la sua mente dubbiosa.
La discrepanza fra l’ideologia ufficiale e i fatti della realtà politica era atta a indebolire la fiducia nella realtà delle parole, degli slogan, delle enunciazioni autorevoli, e tendeva a favorire lo sviluppo di una mente critica. Nel caso particolare di Freud, un altro elemento d’insicurezza deve aver accelerato questo sviluppo: suo padre, un facoltoso piccolo industriale di Freiberg (Boemia), fu costretto ad abbandonare la sua azienda in seguito alle trasformazioni dell’intera economia austriaca, che colpirono e impoverirono anche il suo paese.
Freud da ragazzo imparò per amara esperienza che si poteva confidare sulla stabilità economica altrettanto poco che sulla stabilità politica; che nessuna tradizione o sistemazione convenzionale offriva alcuna sicurezza o meritava fiducia. Per un ragazzo straordinariamente dotato, dove potevano condurlo queste esperienze se non a riportare tutta la propria fiducia in se stesso e nella ragione, come la sola arma in cui potesse osare di fidarsi?
C’erano tuttavia molti altri ragazzi che crescevano nelle medesime circostanze, e non diventarono dei Freud, né svilupparono una straordinaria passione per la verità. Ci devono perciò essere stati nella personalità di Freud degli elementi, peculiari a lui stesso, che furono responsabili della straordinaria intensità di questa qualità. Quali erano?
Dobbiamo indubbiamente pensare, in primo luogo, a doti intellettuali e a una vitalità ben al di sopra della media, che facevano parte della costituzione di Freud. Questo dono intellettuale al di fuori dell’ordinario, combinato con il clima della filosofia illuministica, l’infrangersi dell’usuale fiducia nelle parole e nelle ideologie: tutto questo soltanto sarebbe sufficiente a spiegare la fede di Freud nella ragione.
Vi possono essere altri fattori, puramente personali, come, per esempio, il suo desiderio di emergere, che potrebbero averlo portato ad affidarsi alla ragione, dal momento che non poteva disporre di nessun altro potere: denaro, prestigio sociale o forza fisica. Se cerchiamo nel carattere di Freud altri elementi personali che possono spiegare la sua passione per la verità, dobbiamo indicare un elemento negativo del suo carattere: la sua mancanza di calore emotivo, di intimità, d’amore e inoltre di godimento della vita.
Questa può suonare come un’affermazione abbastanza sorprendente, riferita allo scopritore del «principio del piacere» e preteso protagonista del piacere sessuale; tuttavia i fatti parlano con una voce sufficientemente alta da non lasciare alcun dubbio.
Mentre tornerò più avanti a produrre alcune prove che giustificano questa affermazione, è qui sufficiente dire che, date le sue doti, dato il clima culturale, dati i particolari elementi europei, austriaci ed ebraici del suo ambiente, un ragazzo con il suo desiderio di fama e di notorietà e la sua mancanza di gioia di vivere doveva volgersi all’avventura del sapere se voleva appagare il desiderio della sua vita.
Vi possono essere ancora altri elementi che spiegano questo aspetto di Freud. Egli era un individuo molto insicuro, che facilmente si sentiva minacciato, perseguitato, tradito, e quindi, come è facile aspettarsi, con un grande desiderio di certezza. Considerando la sua intera personalità non c’era per lui nessuna certezza nell’amore: c’era soltanto la certezza nel sapere, ed egli doveva conquistare il mondo intellettualmente, se voleva liberarsi del dubbio e della sensazione di fallimento.
Jones, parlando della passione di Freud per la verità come della «forza motrice più profonda e più potente della sua natura, quella che gli permise di giungere alle sue rivoluzionarie conquiste», tenta una spiegazione in accordo con la teoria psicoanalitica ortodossa.
Conformandosi a questa teoria, Jones fa notare che tutto il desiderio di sapere «è sostenuto da potenti motivi che risalgono alla curiosità infantile per i fatti primari della vita»[2] (il significato della nascita e ciò che la determina). Credo che in questa assunzione si sia fatta un’infelice confusione: quella fra curiosità e fiducia nella ragione.
In persone con una marcata curiosità personale si può trovare una curiosità sessuale precoce e particolarmente forte, ma sembra che vi sia ben poca connessione tra questo fattore e un’appassionata sete di verità. Un altro fattore citato da Jones non è molto più convincente.
Il fratellastro di Freud, Phillip, era un uomo dedito agli scherzi, «che Freud sospettava se l’intendesse con sua madre, al punto di scongiurarlo, con le lacrime agli occhi, di non renderla di nuovo incinta. Ci si poteva fidare che un tipo simile, che evidentemente conosceva tutti i segreti, si decidesse a svelarli?
Sarebbe davvero stato un bizzarro scherzo del destino che questo piccolo, insignificante individuo — si dice che sia finito come commesso viaggiatore — avesse casualmente determinato, per il semplice fatto di esistere, la scintilla capace di accendere la futura decisione di Freud di fidarsi solo di se stesso e di resistere all’impulso di credere agli altri, cioè quella qualità che avrebbe reso immortale il suo nome»[3].
Sarebbe davvero un «curioso scherzo del destino», se Jones avesse ragione. Ma non è una straordinaria ipersemplificazione «spiegare» la scintilla di Freud con l’esistenza d’un fratellastro piuttosto sospetto e con le sue facezie sessuali?
Parlando della passione di Freud per la verità e la ragione si deve far cenno qui d’un punto che verrà ulteriormente sviluppato quando saremo giunti a un quadro più completo del carattere di Freud: per lui la ragione era limitata al pensiero.
I sentimenti e le emozioni erano irrazionali di per sé, e quindi inferiori al pensiero. I filosofi illuministi condividevano in generale questo disprezzo per il sentimento e l’affetto. Per essi il pensiero era l’unico veicolo del progresso e la ragione doveva essere cercata solo nel pensiero.
Essi non vedevano, come aveva visto Spinoza, che gli affetti, come il pensiero, possono essere sia razionali che irrazionali e che il pieno sviluppo dell’uomo richiede l’evoluzione razionale sia del pensiero che dell’affetto. Non vedevano che, se il pensiero dell’uomo è separato dal suo sentimento, tanto il suo pensiero quanto il suo sentimento diventano distorti, e che l’immagine dell’uomo basata sull’assunzione di questa separazione è anch’essa distorta.
Questi pensatori razionalisti credevano che, se l’uomo comprendesse intellettualmente le cause della sua miseria, questa conoscenza intellettuale gli darebbe il potere di cambiare le circostanze che causano la sua sofferenza.
Freud fu molto influenzato da questo atteggiamento e gli occorsero anni per superare la prospettiva che la mera conoscenza intellettuale delle cause dei sintomi nevrotici produrrebbe la loro guarigione.
Parlare della passione di Freud per la verità darebbe un quadro incompleto se non si menzionasse allo stesso tempo una delle sue qualità più straordinarie: il suo coraggio.
Molte persone hanno, potenzialmente, una passione per la ragione e per la verità. Ciò che rende tanto difficile la realizzazione di questa potenzialità è che essa richiede coraggio, e questo coraggio è raro. Il coraggio di cui stiamo parlando è di tipo particolare. Non è essenzialmente il coraggio di rischiare la propria vita, la propria libertà o i propri averi, sebbene anche questo coraggio sia raro.
Il coraggio di confidare nella ragione implica il rischio dell’isolamento o della solitudine, e per molti questo pericolo è persino più difficile da sopportare che non il pericolo della vita. La ricerca della verità espone tuttavia necessariamente il ricercatore proprio a questo pericolo dell’isolamento.
Verità e ragione sono l’opposto del senso comune e dell’opinione pubblica. La maggioranza si aggrappa alle convenienti razionalizzazioni e alle visioni che si possono intravvedere dalla superficie delle cose. La funzione della ragione è di penetrare oltre questa superficie e di arrivare all’essenza nascosta dietro di essa; di immaginare oggettivamente, cioè senza lasciarsi influenzare dai propri desideri e dalle proprie paure, quali siano le forze che muovono la materia e l’uomo.
In questo tentativo bisogna avere il coraggio di affrontare l’isolamento da coloro che sono disturbati dalla verità e odiano il disturbatore, e di sopportarne lo scherno e il ridicolo. Freud ebbe questa capacità in una misura notevole.
Egli si irritava di questo isolamento, ne soffriva, ma non fu mai disposto, o anche solo incline, a scendere al minimo compromesso che avrebbe potuto alleviarlo. Questo coraggio era anche il suo più grande orgoglio; non pensava di essere un genio, ma valutava il proprio coraggio come la qualità più rilevante della sua personalità.
Questo orgoglio può persino aver avuto talvolta un influsso negativo sulle sue formulazioni scientifiche. Egli era sospettoso di qualsiasi formulazione teorica che potesse suonare conciliante e, come Marx, provava una certa soddisfazione nel dire cose pour épater le bourgeois.
Non è facile identificare le fonti del coraggio. In che misura esso è un dono con il quale Freud era nato? In che misura è il risultato di un senso della sua missione storica, in che misura una forza interiore connessa alla sua posizione di figlio prediletto della madre? Con ogni probabilità tutte e tre queste fonti contribuirono allo sviluppo dello straordinario coraggio di Freud; ma per un’ulteriore valutazione di questo come di altri tratti della sua personalità bisognerà attendere finché non saremo arrivati a formulare un quadro più profondo del suo carattere.
Note
[1] La stessa osservazione è stata fatta da Helen Walker Puner nella sua eccellente biografia Freud, His Life and His Mind, Grosset and Dunlap, New York, 1943 (ripubblicata come Dell-book nel 1959). Il suo libro è una delle più penetranti biografie di Freud; in numerosi punti importanti, specialmente quelli relativi all’atteggiamento di Freud nei confronti del proprio background ebraico e al carattere quasi-religioso del movimento psicoanalitico, le mie conclusioni sono molto simili a quelle alle quali è giunta la Puner.
Una profonda analisi del rapporto di Freud con il proprio background ebraico si può trovare in Ernst Simon, Sigmund Freud, the Jew (in Yearbook II delle pubblicazioni del Leo Baeck Institute, London, 1957, p. 270 sgg.). Sono anche in debito verso il professor Simon per aver letto il manoscritto di questo libro e per numerosi suggerimenti critici
[2] Ernest Jones, Vita e opere di Freud, trad. it.( Il Saggiatore, Milano, 1966, Voi. II, p. 514.
[3] Ibid., p. 516.